1. L'accordo del 18 febbraio 1984 di revisione e del Concordato lateranense del 1929 ha suscitato un ricco dibattito sulla tutela dei beni culturali ecclesiastici [1].
I beni ecclesiastici rappresentano una parte assai cospicua, dal punto di vista sia quantitativo sia qualitativo, del patrimonio storico-artistico del Paese e negli ultimi decenni la sensibilità per la tutela di questo patrimonio è molto aumentata, sia in generale nella società sia presso le istituzioni civili ed ecclesiastiche.
D'altra parte i beni culturali ecclesiastici hanno una duplice valenza. Da un lato essi sono testimonianze della storia, della civiltà e della cultura del Paese, dall'altro conservano una funzione religiosa, in quanto destinati a scopi liturgici o devozionali.
Queste considerazioni, per vero tanto elementari da poter apparire addirittura banali, spiegano bene il significato della prima parte dell'art. 12 dell'Accordo di revisione del Concordato:
1. La Santa Sede e la Repubblica italiana, nel rispettivo ordine, collaborano per la tutela del patrimonio storico ed artistico.
Al fine di armonizzare l'applicazione della legge italiana con le esigenze di carattere religioso, gli organi competenti delle due Parti concorderanno opportune disposizioni per la salvaguardia, la valorizzazione e il godimento dei beni culturali d'interesse religioso appartenenti ad enti e istituzioni ecclesiastiche.
L'esigenza di contemperare la protezione dei valori storico-artistici con le esigenze religiose proprie dei beni culturali ecclesiastici peraltro non costituisce un'assoluta novità dell'Accordo di revisione del Concordato. Questa esigenza, infatti, era stata considerata già dall'art. 8 della l. 1 giugno 1939, n.1089, secondo cui "Quando si tratti di cose appartenenti ad enti ecclesiastici, il ministro per l'Educazione nazionale (poi il ministero per i Beni culturali), nell'esercizio dei suoi poteri, procederà per quanto riguarda le esigenze del culto, d'accordo con l'autorità ecclesiastica".
Tuttavia l'accordo con l'autorità ecclesiastica previsto dall'art. 8 della l. 1089/1939 si riferiva esclusivamente ai poteri autoritativi dell'amministrazione statale, volti a limitare, appunto per esigenze di protezione storico-artistica, le facoltà di utilizzazione dei beni appartenenti ad enti ecclesiastici.
L'art. 12 dell'Accordo del 1984 di revisione del Concordato ha invece una portata più ampia. Esso esprime infatti un programma generale di collaborazione tra la Santa Sede e la Repubblica italiana, in tutte le sue articolazioni, per la tutela del patrimonio storico e artistico.
L'art. 12 si pone quindi chiaramente come sviluppo dell'art. 1 dello stesso Accordo, con il quale le parti hanno riaffermato il principio costituzionale secondo cui lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani, e si sono impegnate non solo al pieno rispetto di tale principio nei loro rapporti ma altresì alla reciproca collaborazione per la promozione dell'uomo ed il bene del Paese. La collaborazione per la tutela del patrimonio storico e artistico costituisce invero un aspetto specifico della collaborazione per la promozione dell'uomo e il bene del Paese.
La collaborazione tra Stato e Chiesa, in particolare attraverso opportune disposizioni concordate tra le parti, riguarda inoltre non solo la salvaguardia dei beni culturali di interesse religioso, ma altresì la loro valorizzazione ed il loro godimento, mentre queste ultime due finalità non erano prese in considerazione dall'art. 8 della l. 1089/1939.
2. Nel 1992 la XXXVI Assemblea generale dei Vescovi italiani ha approvato un importante documento di orientamenti (pubblicato con decreto del Presidente della Conferenza episcopale italiana) sui beni culturali della Chiesa cattolica in Italia [2].
Il documento sottolinea lo specifico valore dei beni culturali attinenti alla sfera religiosa, in quanto questi beni "rappresentano ed esprimono, mediante l'opera dell'ingegno umano, il legame stesso che unisce a Dio creatore gli uomini continuatori della Sua opera nel mondo.
Tra questi beni culturali religiosi (...) la Chiesa (...) annovera come propri quelli che, per vari aspetti, sono ispirati al messaggio della salvezza portato in questo mondo dal Verbo fatto uomo, all'opera con il Padre sin dall'inizio, e alla perfezione a cui conduce lo Spirito di Dio, artefice d'ogni bellezza.
La Chiesa, per la celebrazione della liturgia e per l'esercizio della sua missione, ha sempre favorito la creazione di beni culturali, che stimolano una più diretta comunicazione tra i fedeli nella Chiesa e tra la Chiesa e il mondo circostante, promuovendo un arricchimento sia della stessa Chiesa sia delle varie culture".
Secondo il documento dei vescovi "è andata emergendo una precisa riflessione teologica sui beni culturali; si è sviluppato il senso della loro funzione, sia per la migliore fruizione in generale sia per la funzione precipua secondo la natura dei prodotti d'arte e cultura; si è affermata la percezione della efficacia di cui i beni culturali sono pregnanti e per il culto e per la evangelizzazione" (par. 2).
Le direttive della Cei peraltro, fin dall'introduzione del documento (par. 1), "si collocano nella prospettiva della collaborazione con le istituzioni civili e con le molteplici realtà associative, gli enti e i privati che operano nella società italiana".
Un'intera sezione del documento, la sezione III, è dedicata poi ai rapporti Chiesa, Stato, associazioni, privati. Questa sezione si apre con il riconoscimento che "I problemi connessi alla tutela e valorizzazione dei beni culturali ecclesiastici nel nostro Paese sono di tale entità e complessità da richiedere, da parte degli enti responsabili, non solo spirito di iniziativa, ma anche uno spiccato senso di collaborazione e programmazione".
Si afferma poi che "i responsabili dei beni delle comunità cristiane, nel promuovere iniziative che valorizzano il loro patrimonio di beni culturali, non possono fare a meno della collaborazione di enti pubblici e privati; d'altra parte esse, per quanto possibile, offrono la loro cordiale collaborazione ad ogni iniziativa promossa da enti pubblici, da privati, da associazioni e da movimenti" (par. 9).
Il documento riconosce che lo Stato e le regioni sono da tempo, di fatto, i principali interlocutori della Chiesa nel compito delicato della tutela e valorizzazione dei beni culturali ecclesiastici e ribadisce l'impegno alla collaborazione con le autorità civili: "Le comunità cristiane in genere e, in particolare, gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, considerati dallo Stato persone giuridiche con caratteristiche proprie, mantengono nei riguardi delle istituzioni (Ministero per i beni culturali e ambientali, altri Ministeri, Regioni, Province, Comuni) un atteggiamento di fattiva collaborazione, in osservanza della legislazione civile e a garanzia della peculiarità dei propri beni culturali" (par. 10).
Ma l'impegno alla collaborazione viene esteso: "Le comunità cristiane sono caldamente invitate a collaborare attivamente, sia con le associazioni, sia con i singoli; essi sono da considerare come preziosi alleati con i quali condividere una responsabilità gravosa ma appassionante e altamente formativa" (par. 12).
Gli orientamenti sui beni culturali della Conferenza episcopale costituiscono un documento di notevolissimo spessore, del quale meritano di essere messi in rilievo, in particolare, due aspetti.
Il principio della collaborazione viene esteso ben al di là dell'ambito al quale si riferisce l'accordo di revisione del Concordato, poiché investe non solo i rapporti con le istituzioni dello Stato, ma anche quelli con le associazioni e in genere i privati.
Per altro verso il documento adatta le modalità della collaborazione alla costituzione gerarchica della Chiesa, che conosce una pluralità di enti con propria amministrazione. Il rappresentante legale di ciascun ente è l'immediato responsabile dei rispettivi beni culturali: a lui quindi compete la cura e la valorizzazione del patrimonio, ma in stretta relazione con gli organismi diocesani e rispettando le norme canoniche e civili.
In particolare "nella diocesi il compito di coordinare, disciplinare e promuovere quanto attiene ai beni culturali ecclesiastici spetta al Vescovo che, a tale scopo, si avvale della collaborazione della Commissione diocesana per l'arte sacra e i beni culturali e di un apposito Ufficio presso la Curia diocesana".
Pertanto "all'Ufficio diocesano è demandato il compito di verificare le richieste (di autorizzazione, di contributo, ecc.) dei singoli enti ecclesiastici, di trasmetterle agli enti pubblici e di seguirle in tali sedi; esso, inoltre, mantiene costanti rapporti e collabora con gli enti pubblici e privati, con altri enti e associazioni in vista della tutela, della valorizzazione e della fruizione dei medesimi".
Secondo gli orientamenti della Conferenza episcopale, dunque, la collaborazione in tema di beni culturali è essenziale ed è incoraggiata, ma nel rispetto della struttura della Chiesa, e dunque attraverso il filtro necessario dell'apposito ufficio della Curia diocesana.
3. Il principio del coordinamento a livello diocesano della collaborazione per i beni culturali ecclesiastici ha ricevuto un importante sviluppo con l'intesa, intervenuta il 13 settembre 1996, tra il ministero per i Beni culturali e il Presidente della Conferenza episcopale italiana, alla quale è stata data esecuzione con il dpr 26 settembre 1996, n. 571.
Questa intesa costituisce un prima disciplina della collaborazione per la tutela del patrimonio storico ed artistico ai sensi dell'art. 12 dell'Accordo di revisione del Concordato ed ha il suo fulcro proprio nell'individuazione dei soggetti competenti per l'attuazione delle forme di collaborazione da essa previste. Tali soggetti sono a livello centrale il ministro per i Beni culturali e il presidente della Conferenza episcopale italiana o i loro delegati, mentre a livello locale sono i soprintendenti e i vescovi diocesani o i delegati di questi ultimi.
Gli organi ministeriali invitano ad apposite riunioni i corrispondenti organi ecclesiastici per definire i programmi o le proposte di programmi pluriennali e annuali di intervento per i beni culturali e i relativi piani di spesa e per ricevere informazioni dagli organi ecclesiastici circa gli interventi che questi ultimi a loro volta intendono intraprendere (art. 2). Inoltre il vescovo diocesano presenta ai soprintendenti, valutandone congruità e priorità, le richieste di intervento di restauro, di conservazione o quelle di autorizzazione, concernenti beni culturali di proprietà di enti soggetti alla sua giurisdizione, in particolare appunto ai fini della definizione dei programmi predetti. Anche le richieste presentate dagli istituti di vita consacrata e dalle società di vita apostolica sono inoltrate ai soprintendenti per il tramite del vescovo diocesano territorialmente competente. Infine le richieste di intervento riguardanti i beni librari vengono presentate, per il tramite del vescovo diocesano, all'ufficio centrale competente del ministero per i Beni culturali e ambientali (art. 5).
Il senso di queste disposizioni, che appaiono le più significative dell'intesa, risulta chiaramente e senza equivoci. Lo Stato ha preso atto della struttura della Chiesa e ha accettato di dare seguito all'art. 12 dell'Accordo del 1984 di revisione del Concordato in armonia con le direttive sui beni culturali della Conferenza episcopale del 1992. L'intesa del 1996 ha quindi sancito formalmente il principio che la collaborazione con la Chiesa per la tutela e la valorizzazione dei beni culturali ecclesiastici avviene non in forma isolata tra l'amministrazione statale e ogni singolo ente ecclesiastico, ma in forma organizzata e coordinata per il tramite dei vescovi diocesani.
4. Le intese, gli accordi, le convenzioni sono strumenti fondamentali di raccordo e di collaborazione tra soggetti autonomi e investiti della cura di interessi diversi, i quali intendano armonizzare le loro attività.
Il problema del raccordo e della collaborazione tra soggetti diversi (amministrazioni pubbliche e privati) si presenta in linea generale nel nostro ordinamento, tanto che la legge sul procedimento amministrativo, la l. 241/1990, ha toccato il tema con la disciplina della conferenza di servizi e degli accordi sul contenuto dei provvedimenti amministrativi.
Il problema si presenta tuttavia in modo particolare nel settore dei beni culturali, ove si intersecano profili proprietari e interessi culturali tutelati dall'ordinamento, nel duplice aspetto di interessi relativi alla conservazione dei beni ma anche al loro godimento pubblico.
Non è quindi casuale che la legge 8 ottobre 1997, n. 352, recante "Disposizioni sui beni culturali", abbia previsto un largo ricorso alle convenzioni. La legge prevede infatti convenzioni tra il ministero per i Beni culturali e i proprietari di beni restaurati a carico dello Stato o con il concorso dello Stato, per regolare l'accessibilità al pubblico dei beni stessi. La legge prevede inoltre convenzioni tra le scuole e le soprintendenze al fine di favorire la fruizione del patrimonio artistico, scientifico e culturale da parte degli studenti. La stessa finalità generale, di favorire la fruizione del patrimonio artistico, scientifico e culturale, può essere perseguita anche attraverso convenzioni con le associazioni di volontariato che svolgono attività per la salvaguardia e la diffusione della conoscenza dei beni culturali.
La l. 352/1997 ha inoltre introdotto nuovi sgravi fiscali per la partecipazione alle attività culturali dello Stato, le quali comprendono la manutenzione, la protezione, il restauro e l'acquisto di cose d'arte, nonché l'organizzazione di mostre, esposizioni, convegni, studi e ricerche. Gli sgravi fiscali sono però subordinati a convenzioni per regolare i rapporti tra i soggetti che intendono partecipare alle attività culturali, quelli che organizzano o realizzano le attività culturali medesime e lo Stato, le regioni e gli enti locali territoriali.
Dalla l. 352/1997 emerge dunque una tipologia variegata di convenzioni, le quali si distinguono sia per i soggetti tra i quali possono intervenire, sia per le finalità alle quali sono preordinate.
5. Nell'ordinamento italiano le convenzioni pongono problemi meritevoli di particolare considerazione quando, per loro tramite, le amministrazioni pubbliche intendano disporre di poteri pubblici. Quando invece vengano in discussione non già funzioni autoritative, ma soltanto attività di prestazione, le convenzioni delle pubbliche amministrazioni pongono problemi molto più semplici.
Per i musei ecclesiastici, poi, la problematica delle convenzioni si pone in termini che richiedono alcune precisazioni.
I musei ecclesiastici, infatti, non sono pubbliche amministrazioni, ma dipendono normalmente da enti ecclesiastici, che oggi sono indubbiamente una particolare categoria di enti privati [3]. Per i musei ecclesiastici non occorre quindi una particolare autorizzazione di legge per la stipula di convenzioni, la quale rientra invece nella generale capacità di disporre dei propri interessi che spetta a tutti i soggetti privati, con il solo limite negativo di non incorrere in divieti di legge.
E, in effetti, negli anni passati alcuni musei ecclesiastici hanno già stipulato convenzioni, sviluppando un'esperienza che può essere utilmente sfruttata in situazioni analoghe.
Dal punto di vista canonico, però, gli orientamenti della Cei sui beni culturali del dicembre 1992 costituiscono un fortissimo richiamo alla imprescindibile necessità che la gestione del patrimonio culturale ecclesiastico avvenga sotto il coordinamento, la disciplina e la promozione del vescovo e dell'apposito ufficio della Curia diocesana.
Dal punto di vista dell'ordinamento italiano i musei ecclesiastici dovrebbero trovare i loro interlocutori istituzionali nelle regioni e nelle soprintendenze ai beni artistici e storici.
Le regioni, infatti, già dal 1972 hanno competenza in materia di musei di enti locali e più in generale di musei di interesse locale (dpr 14 gennaio 1972, n. 3). I musei ecclesiastici, in quanto istituzioni locali deputate alla raccolta, alla conservazione e all'esposizione al pubblico di beni culturali, sono considerati dalla legislazione regionale e possono aver accesso ai finanziamenti disposti dalle regioni.
L'amministrazione statale tuttavia mantiene i compiti, disciplinati dalla l. 1089/1939, di protezione dei beni di interesse storico e artistico custoditi nei musei, compresi quelli degli enti locali e di interesse locale. La Corte costituzionale ha chiarito già alcuni anni fa questo punto [4], che non è stato toccato dalle recenti riforme in tema di ordinamento regionale. La legge 15 marzo 1977, n. 59 ha infatti escluso la tutela dei beni culturali e del patrimonio storico artistico (art. 1, comma 2, lett. d) dalla delega legislativa per il nuovo conferimento di funzioni e compiti alle regioni e agli enti locali. Pertanto il d. lg. 31 marzo 1998, n. 112 ha confermato espressamente la riserva allo Stato delle funzioni di tutela dei beni culturali (art. 149) e ha individuato un ruolo per le regioni e gli enti locali solo per quanto concerne la gestione di taluni beni (art. 150) e, in generale, per la valorizzazione dei beni culturali, la quale è curata dallo Stato, dalle regioni e dagli enti locali, ciascuno nel proprio ambito (art. 152).
D'altra parte i musei ecclesiastici dovrebbero presentare una gamma abbastanza definita di problematiche, che rileva per l'individuazione delle controparti con le quali stipulare convenzioni ma anche per l'oggetto delle convenzioni.
Un primo problema può essere costituito dai locali per l'esposizione museale. La disponibilità dei locali necessari può essere acquisita mediante convenzione con i proprietari, siano essi soggetti privati o istituzioni pubbliche. Naturalmente bisognerà assicurare che i locali siano resi disponibili per un periodo di tempo abbastanza lungo da assicurare stabilità al museo e da giustificare le spese di allestimento museale.
Ma i problemi più significativi sono quelli del personale e del deposito di materiali.
Gli orientamenti della Cei, già più volte richiamati, riconoscono che "Uno dei più gravi problemi per la salvaguardia dei beni culturali ecclesiastici è quello di avere una sufficiente dotazione di personale a tutti i livelli, da quello direttivo a quello scientifico, a quello addetto alla custodia, alla tutela e alla manutenzione". Per fare fronte a questo bisogno, secondo gli orientamenti, "sembra possibile e opportuno ricorrere all'intervento del volontariato. Il volontariato potrebbe svolgere servizi come la custodia dei monumenti, l'animazione didattica, il lavoro di inventariazione. Al volontariato dovranno essere assicurati una sufficiente formazione, la consulenza di esperti professionalmente qualificati, la possibilità di operare sulla base di una precisa normativa e il sostegno di una adeguata copertura assicurativa". Peraltro gli orientamenti riconoscono che "Il ricorso a persone e a istituzioni di provata competenza, oltre che come supporto al volontariato, costituisce una necessità imprescindibile per ogni iniziativa che superi il livello dell'attività ordinaria e come supporto scientifico permanente" (par. 13).
Le controparti per lo svolgimento del servizio possono essere costituite non solo nella forma di associazioni di volontariato, ai sensi della specifica legislazione in materia, ma anche, più genericamente, nella forma di associazioni o di cooperative. Le convenzioni, in tal caso, dovranno definire quanto meno gli impegni delle parti e la loro durata, la ripartizione degli oneri di gestione del monumento, le condizioni di ammissione del pubblico alla visita e la devoluzione dei relativi proventi.
Rimane da considerare l'ipotesi più delicata, quella di convenzioni per il deposito di beni ecclesiastici presso musei civici o statali o per la creazione di istituzioni museali congiunte ecclesiastiche e civili.
La premessa di questa ipotesi è fornita sempre dagli orientamenti della Cei: "Le opere d'arte devono restare, possibilmente, nei luoghi di culto per conservare alle chiese, agli oratori, ai monasteri e conventi l'aspetto della fisionomia originaria di luoghi destinati alla pietà. Se la conservazione nei luoghi originari non sia possibile, perché le opere e la suppellettile non hanno più funzione di culto, o sia gravemente rischiosa, si istituiscano musei diocesani o interdiocesani o almeno raccolte ordinate e sale di esposizione" (par. 20).
La musealizzazione di beni culturali ecclesiastici presuppone dunque che si sia attenuata la loro funzione primaria religiosa e liturgica o che sussistano gravi problemi di custodia.
Ma per la Chiesa è importante che la musealizzazione non comporti la perdita di quei valori di carattere religioso che i beni ecclesiastici continuano a conservare.
Quando dunque non sussistano le condizioni per il conferimento dei beni a un museo diocesano, ma si prospetti il deposito di beni culturali ecclesiastici presso musei civici o statali, le relative convenzioni dovranno garantire che il deposito avvenga in vista di una immediata esposizione al pubblico, e non semplicemente per una custodia in magazzini.
È opportuno inoltre che sia salvaguardata l'identità dei beni, dei quali nella esposizione andrà precisata l'origine e la proprietà. In relazione alle singole circostanze, potrà inoltre essere opportuno stabilire che il deposito non pregiudichi definitivamente la sorte dei beni, ma sia stabilito per un tempo definito, per quanto lungo. Occorre infine che siano salvaguardati i valori religiosi connessi ai beni e che quindi la convenzione per il deposito garantisca ancora la possibilità di utilizzazione dei beni a fini religiosi, secondo le tradizioni locali.
Rimane infine l'ipotesi più importante, quella di creazione di strutture museali congiunte ecclesiastiche e civili, in particolare comunali. La collaborazione in questo caso si rende così intensa e significativa da suggerire la formale partecipazione alla convenzione anche della regione e dell'amministrazione statale, in modo che tutti i convergenti interessi siano adeguatamente valutati, rappresentati e contemperati.
La legge sull'ordinamento delle autonomie locali non pone alcun ostacolo a un tal tipo di strutture, ma anzi ne favorisce la realizzazione.
In base alla l. 8 giugno 1990, n. 142, infatti, i comuni e le province provvedono alla gestione dei servizi pubblici che abbiano per oggetto (oltre alla produzione di beni) attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali (art. 22, comma 1). La valorizzazione dei beni culturali costituisce inoltre un settore in cui, secondo la stessa legge, le province e le città metropolitane esercitano le funzioni amministrative di interesse provinciale che riguardino vaste zone intercomunali o l'intero territorio provinciale (art. 14, comma 1, lett. c; art. 19, comma 1, lett. c).
La l. 142/1990 ha dunque legittimato l'estensione dell'attività delle province a un campo, quello della valorizzazione dei beni culturali, che in precedenza era loro estraneo. Le province potranno così affiancare, integrare e sostenere il ruolo culturale storicamente svolto dai comuni con i musei da essi gestiti.
Strutture museali congiunte, in collaborazione tra autorità ecclesiastiche ed enti locali, potrebbero essere realizzate nelle forme organizzative previste dalla legge sull'ordinamento delle autonomie locali e in particolare nella forma dell'istituzione.
L'istituzione è stata infatti prevista dalla l. 142/1990 per l'esercizio di servizi sociali senza rilevanza imprenditoriale (art. 22, lett. d), quali appunto si presentano le strutture museali. L'istituzione inoltre costituisce organismo strumentale dell'ente locale, dotato di autonomia gestionale (art. 23, comma 2), in quanto provvista di un proprio consiglio di amministrazione, di un presidente e di un direttore, al quale compete la responsabilità gestionale (art. 23, comma 3).
La disciplina normativa delle istituzioni consente dunque di modellare il consiglio di amministrazione in modo da farne il luogo di incontro e di raccordo tra i diversi soggetti che partecipano alla realizzazione della struttura museale congiunta e, nel contempo, di assicurare la distinzione della gestione museale dalla gestione generale del comune o della provincia.
Note
[1] Su questo dibattito v., da ultimo, G. Feliciani (a cura di), Beni culturali di interesse religioso, Bologna 1995. Il presente saggio trae spunto da un intervento svolto al primo convegno nazionale dell'Associazione dei musei ecclesiastici italiani, svoltosi a Genova il 14-15 novembre 1997.
[2] Il documento è pubblicato in Cesen, Codice dei beni cultuali di interesse religioso, I, Normativa canonica, a cura di M. Vismara Missiroli, Milano, 1993, 244 ss.
[3] Sul punto v. A. Roccella, Enti e beni della Chiesa cattolica. Problemi di interpretazione della normativa pattizia, in Jus, 1997, 427 ss.
[4] Corte cost., 10 giugno 1993, n. 277, in Le Regioni, 1994, 534, con nota di G. Clemente di San Luca, Il restauro di beni culturali fra competenza tecnica e autonomia locale.
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