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Due scenari
per il decentramento dei musei

di Luigi Bobbio

 


Per l'attuazione del decentramento dei musei previsto dal d.lg. 112/1998 è possibile immaginare due scenari: uno scenario rivendicativo e uno scenario cooperativo. Nel primo caso i musei saranno ripartiti tra Stato e enti territoriali secondo l'interesse nazionale e locale che essi presentano in un clima di contrapposizione e di faticosa contrattazione. Nel secondo caso la ripartizione avverrà sulla base di progetti innovativi di gestione, elaborati sul piano locale, che prevedano soluzioni istituzionali ad hoc per i singoli musei. Il primo scenario è più probabile. Il secondo è più desiderabile.


 

Un modo per valutare un'innovazione legislativa è considerare gli scenari che essa apre. È quello che cercherò di fare in relazione alla disposizione sul trasferimento dei musei alle regioni e agli enti locali (art. 150 d.lg. 112/1998), che è senza dubbio il punto più importante del "pacchetto Bassanini" sui beni culturali. Che cosa succederà quando si comincerà ad attuare questa norma? quali intoppi emergeranno? quali potenzialità?

 

Un compito difficile

Tra non molto, stante la disposizione dell'art. 150, si riuniranno gli 11 componenti della commissione paritetica nazionale. Cinque saranno designati dal ministro per i Beni culturali e cinque dalla Conferenza unificata in rappresentanza degli enti territoriali. L'undicesimo componente sarà il ministro stesso che presiederà la commissione o un sottosegretario da lui delegato. Essi dovranno individuare i musei e gli altri beni culturali statali la cui gestione rimarrà allo Stato e quelli per i quali essa sarà trasferita, secondo il principio di sussidiarietà, alle regioni, alle province o ai comuni. Avranno due anni di tempo per concludere il loro lavoro, ma già alla fine del primo anno dovranno formulare una proposta da sottoporre al parere delle commissioni regionali.

Il loro compito è decisamente arduo. Lo Stato italiano ha accumulato un enorme patrimonio museale e monumentale che non ha confronti con gli altri stati europei. Secondo l'ultima - non recentissima - indagine Istat [1] i musei statali sono 462; qualche anno prima Daniela Primicerio [2] ne aveva contati 483. Bisogna poi aggiungere le aree archeologiche e gli altri monumenti di proprietà statale attualmente non adibiti a museo. Nel giro di un anno la commissione paritetica dovrà quindi vagliare la posizione di parecchie centinaia di musei, monumenti e aree archeologiche sparsi per la penisola per decidere la loro sorte. È evidente che 11 persone, per quanto profonde conoscitrici del nostro patrimonio culturale (e sicuramente lo saranno), non potranno possedere le informazioni necessarie per operare una tale scelta. Dovranno quindi limitarsi a fissare i criteri e affidare a qualcun altro il compito di applicarli concretamente caso per caso. Quali criteri? Chi potrà essere quel "qualcun altro"?

Per quanto riguarda i criteri, il decreto legislativo lascia fondamentalmente (e giustamente) mano libera alla commissione. Dice soltanto che dovrà essere rispettato il principio di sussidiarietà. In apparenza si tratta di un criterio forte. Esso implica che tutti i musei statali vanno assegnati alla gestione dei comuni (o delle province) e che per lasciare un museo allo Stato bisognerà dimostrare che il comune (o la provincia) non è in grado di occuparsene adeguatamente. Il principio di sussidiarietà pone l'onere della prova a carico di chi vuole conservare le cose come stanno. Ma dubito che sarà veramente applicato: la logica vuole che l'onere della prova spetti a chi vuole cambiare e probabilmente succederà così anche in questo caso.. E così si ritorna al punto di partenza, ossia quali criteri?

 

Lo scenario rivendicativo (ovvero la trappola dell'interesse)

In assenza di un dibattito pubblico approfondito (di cui peraltro non vedo segni particolarmente evidenti) è facile che la commissione paritetica finisca per scegliere la strada più comoda ossia quella di assegnare i musei statali sulla base all'interesse nazionale o locale che essi presentano. La distinzione tra beni culturali di interesse nazionale e beni culturali di interesse locale è infatti una distinzione consolidata nella nostra legislazione e corroborata dalla giurisprudenza costituzionale. Ma è anche terribilmente impervia. Andrea Emiliani ci ha insegnato, molto tempo fa, che il patrimonio culturale italiano "è tutto di eminente interesse locale" [3]. Ma altri potrebbero, con ottimi argomenti, sostenere esattamente il contrario. In pratica si tratterà di distinguere tra i musei più importanti (di serie A) da lasciare nelle mani dello Stato e quelli meno importanti (di serie B) per cui ci si può permettere il passaggio (altrimenti troppo rischioso) alla gestione degli enti periferici. Il problema sarà di volta in volta quello di decidere dove passa il confine tra le due serie.

Se si impostano così i termini della questione, non è difficile prevedere una situazione altamente conflittuale, un vero e proprio braccio di ferro. Ed infatti il gioco sarà tipicamente a somma zero. I musei che verranno trasferiti agli enti locali saranno persi per lo Stato e viceversa. La commissione paritetica si dividerebbe in due. Ognuna delle sue componenti avanzerebbe la propria piattaforma rivendicativa, facendosi assistere separatamente dalle proprie strutture periferiche (le soprintendenze da un lato e gli assessorati alla cultura dall'altro). Seguirebbe un faticoso processo di contrattazione. Alcune associazioni protezionistiche lancerebbero grida di allarme contro lo smembramento del patrimonio statale e acquisterebbero spazi pubblicitari sui giornali per sventare le operazioni (a loro parere) più dissennate.

In un quadro di questo genere, i difensori dello status quo finirebbero per avere una maggiore forza contrattuale: nel dubbio è sempre meglio mantenere le cose come stanno. Alla fine il decentramento risulterà di portata modesta e per di più casuale. Gli enti periferici riceveranno una serie più o meno estesa di musei minori disseminati qua e là sul territorio. La politica museale del nostro paese non avrà fatto un grande passo avanti.

 

Lo scenario cooperativo (ovvero l'innovazione istituzionale)

Lo scenario rivendicativo è il più probabile e il meno esaltante. È possibile immaginare uno scenario diverso? Sono convinto di sì, anche se la via è più scomoda, meno nota e richiede uno sforzo particolare di inventiva.

I musei statali si troveranno nei prossimi mesi in una situazione analoga a quella dei figli nelle cause di divorzio: il loro affidamento non dovrà essere deciso sulla base degli interessi degli enti che li gestiranno, ma sulla base degli interessi dei musei stessi. Ma come individuare gli interessi dei musei che, come i bambini, non sono in grado di far sentire la loro voce?

Per sciogliere questo nodo, bisogna evitare di interpretare troppo alla lettera la norma del decreto delegato, là dove afferma che la gestione va trasferita in capo alle regioni e agli enti locali. Tale disposizione è giustificabile nel contesto del decreto che si occupa di trasferire uno svariato numero di funzioni dallo Stato agli enti territoriali. Ma non è particolarmente sensata nel caso dei musei. Non si capisce infatti quale beneficio possa trarre un museo dall'essere inserito nell'organizzazione di un comune o di una regione piuttosto che in quella dello Stato. Data la diversa efficienza dei comuni e delle regioni italiane, il trasferimento può essere di volta in volta una fortuna o una disgrazia. In realtà i musei non meritano di essere sballottati come pacchi postali da un ente all'altro, hanno bisogno di ottenere una specifica fisionomia istituzionale. Il decreto delegato li considera - secondo un'antica tradizione italiana - come cose; andrebbero invece considerati - anche sulla scorta delle numerose carte internazionali dei musei - come istituzioni, o per lo meno andrebbero aiutati a diventare tali.

Da questo punto di vista l'applicazione del decreto 112 potrebbe costituire un'occasione eccezionale per dare una nuova veste istituzionale ai musei italiani. Se la commissione paritetica nazionale vorrà seguire questo indirizzo, dovrà stabilire che il trasferimento dei musei sarà concesso sulla base di progetti credibili di gestione fondati sull'autonomia scientifica, progettuale e contabile dei singoli musei.

Le soluzioni per dare una veste istituzionale ai musei italiani sono numerose e in parte già sperimentate: i musei maggiori possono essere configurati come istituzioni (ai sensi della legge 142/1990), come fondazioni; come fondazioni in partecipazione. Più musei minori possono essere affidati a un'unica istituzione.

Le nuove istituzioni museali possono essere poste sotto il controllo esclusivo di un comune, ma - nei casi più importanti e complessi - può essere prevista la partecipazione di diversi enti locali, della regione, di altri soggetti (istituzioni culturali, fondazioni, privati) e naturalmente - perché no? - anche dello Stato. Le soluzioni possibili sono praticamente infinite: si tratta di inventarle e adattarle ai singoli problemi.

È questo l'aspetto che dovrebbe rendere possibile la cooperazione. Non si tratterebbe più di perdere o acquistare un museo, ma di configurare nuovi assetti che potrebbero essere vantaggiosi per tutti. Lo Stato potrebbe ottenere vari tipi di garanzie. Le regioni, alleggerite da compiti diretti di gestione, potrebbero dedicarsi a compiti di governo del settore (come recita del resto il comma 7 dell'art. 150) che sono quelli veramente importanti.

È evidente che questo lavoro di progettazione istituzionale non deve riguardare solo i musei statali; anche quegli degli enti locali hanno bisogno dello stesso trattamento. Il punto di arrivo dovrebbe essere una situazione in cui sparisce la separazione (attualmente esiziale) tra musei statali e musei comunali (o provinciali): ciascun museo (o raggruppamento di musei) avrebbe la sua veste istituzionale (sarebbe un soggetto e non più un oggetto), ad assetto non uniforme e sarebbe sottoposto al duplice indirizzo dello Stato (gli standard previsti dall'art. 150, comma 6) e delle regioni (le norme previste dall'art. 150, comma 7).

Questa prospettiva è compatibile con la legge che effettivamente dice cose diverse? Io direi di sì: Basta che la parola "gestione" non venga intesa esclusivamente come "gestione diretta". Il punto più problematico è che questa operazione non può essere conclusa nel giro dei due anni previsti dalla legge. In tale periodo può essere soltanto avviata in alcuni ambiti geografici e per alcuni gruppi di musei. Come spesso succede, il legislatore delegato ha avuto troppa fretta e ha cercato di usare volontaristicamente le scadenze per vincolare i futuri attuatori. Sarebbe stato meglio se avesse immaginato in processo aperto, da guidare e controllare. Ma purtroppo in Italia chi scrive le leggi di solito non ragiona sugli scenari, sulla complessità dei processi attuativi e sugli incentivi da offrire perché gli obiettivi desiderati si realizzino. Si limita a fissare degli obblighi, salvo rendersi immancabilmente conto a posteriori che buona parte di quegli obblighi sono stati inevasi (e magari lamentarsi che le leggi sono buone ma purtroppo non sono state attuate). L'ostacolo del tempo non è però insuperabile. Nei due anni si farà quel che si può. L'importante è avviare un processo. Poi ci sarà il modo di rinegoziare l'intera partita.

Il lavoro di progettazione istituzionale non può ovviamente essere fatto dalla commissione nazionale. Deve essere realizzato e negoziato in loco. Perciò l'ordine dei lavori, previsto dal legislatore delegato, dovrebbe essere invertito. Toccherebbe alle commissioni regionali formulare progetti innovativi per la gestione dei musei, toccherebbe alla commissione nazionale vagliare tali progetti e, se li giudicasse credibili e vantaggiosi, disporre il trasferimento dei musei che vi fossero compresi. In altre parole, per fare il decentramento, bisogna partire dalla periferia. Che cosa succederà nelle singole regioni?

 

Qualche dubbio sulle commissioni regionali

In ognuna delle 15 regioni a statuto ordinario si insedierà una commissione di 13 membri, di cui 3 designati dal ministro per i Beni culturali, 2 dal ministro per l'Università, 5 dalle regioni e dagli enti locali, 1 dalla conferenza episcopale regionale e 2 dal Cnel tra le forze imprenditoriali locali. Il presidente sarà scelto, tra i componenti della commissione, dal presidente della regione, d'intesa con il ministro per i Beni culturali.

Non si può dire che il legislatore delegato abbia avuto la mano felice nel disegnare le commissioni regionali. La lodevole intenzione di rappresentare e garantire diversi poteri e interessi ha creato - come al solito - una struttura troppo rigida. In un testo di legge dedicato al decentramento non si sarebbe potuto dare un po' più di flessibilità e di autonomia ai contesti regionali?

Personalmente ho molti dubbi che le commissioni così configurate saranno in grado di formulare progetti innovativi per la gestione dei musei presenti nella regione. Innanzi tutto temo che passerà molto tempo prima che tutti gli enti siano riusciti a fare le loro designazioni. Come farà, per esempio, il Murst, a individuare i 2 professori che in ogni regione dovranno rappresentare le sette o otto università esistenti? Potrei scommettere che allo scadere del primo anno, quando le commissioni regionali dovrebbero dare il loro primo parere, non più di due o tre di esse saranno già costituite.

Ma ammesso che le commissioni entrino in funzione, bisogna vedere chi ne farà parte. Il problema principale della politica dei beni culturali a livello regionale consiste nel fatto che i vari protagonisti (statali, regionali, comunali, privati ecc.) hanno fra di loro, per lo più, relazioni erratiche e formali. Il conflitto è più frequente della cooperazione. Le presunzione di autosufficienza e più frequente della ricerca della collaborazione. Ed è per questo che le commissioni paritetiche regionali previste nel lontano 1975 non hanno quasi mai funzionato. Si può far meglio questa volta? Sì, a patto che i veri protagonisti di quella che gli studiosi di politiche pubbliche chiamano la policy community siano effettivamente rappresentati nelle commissioni. Altrimenti esse rischiano di ridursi a sedi formali incapaci di capire che cosa è in gioco e continuamente a rischio di non raggiungere il numero legale. Il metodo di designazione non dà alcuna garanzia in questo senso: alcune regioni saranno fortunate ed avranno commissioni autorevoli e funzionanti, altre (la maggioranza?) no.

Ma al di là della configurazione delle commissioni, è indubbio che in alcune regioni italiane esistono le forze (tradizioni, cultura, esperienze) per aprire un processo di progettazione si nuovi assetti istituzionali. In alcuni casi si apriranno conflitti e impasses insormontabili. In altri sarà possibile raggiungere un accordo - soprattutto tra i soprintendenti e gli enti territoriali - sulle soluzioni istituzionali da dare ai musei in alcuni ambiti territoriali (un'area metropolitana, un città, un insieme di comuni). Comunque la riforma si giocherà tutta qui.

 

Gestione senza proprietà: un vincolo o una risorsa?

I decreto legislativo prevede di trasferire la gestione dei musei, ma non la loro proprietà che resterebbe quindi in mano allo Stato. Paradossalmente questa soluzione potrebbe giocare a favore del decentramento. Il fatto che i musei trasferiti rimangano ancorati al demanio statale, può addolcire le resistenze di coloro che temono il salto nel buio. È più facile prendere una decisione controversa se essa non appare irreversibile.

Bisognerebbe nello stesso tempo assicurarsi che il mantenimento della proprietà statale non determini vincoli troppo gravosi sulle nuove istituzioni museali. Le interferenze del ministero delle finanze dovrebbero essere state del tutto eliminate dalla legge Ronchey. Il nuovo decreto legislativo afferma che il trasferimento riguarda "l'autonomo esercizio delle attività" di gestione. E la parola "autonomo" è stata aggiunta solo nella versione finale. Forse questo dovrebbe bastare.

 

Una cattiva legge?

L'analisi degli scenari mostra che le probabilità di innovazioni rilevanti nella politica museale italiana sono piuttosto scarse. Lo scenario rivendicativo è più probabile di quello cooperativo. Il trasferimento in gestione diretta di pochi musei minori è più probabile di uno nuovo disegno istituzionale. Dobbiamo concludere che il d.lg. 112 è una cattiva legge? Essa contiene - come abbiamo visto - più d'un errore e più d'un appesantimento. Ma non mi sentirei di dare troppe colpe al legislatore. I veri ostacoli sono altri e nessuna legge, per quanto meglio congegnata, avrebbe potuto farli sparire d'incanto. Il mondo della cultura italiano è fondamentalmente ancorato a una concezione statalista, per antiche ragioni di prudenza e per una diffusa diffidenza verso il ceto politico periferico. I poteri regionali e locali, dal canto loro, sono spesso fermi ad atteggiamenti rivendicativi. Per questo, quando tra due anni saremo chiamati a valutare gli effetti raggiunti dal d.lg. 112, dovremo essere indulgenti. Se in due o tre regioni italiane si sarà riusciti a cogliere l'occasione per ridisegnare l'assetto istituzionale dei musei in alcune aree, potremo sicuramente dire che la legge ha ottenuto un eccezionale successo. Il loro esempio farà infatti scuola e potrà essere ripreso da altri.


Note

[1] Istat, Indagine statistica sui musei e le istituzioni similari, Roma 1995.

[2] D. Primicerio, L'Italia dei musei. Indagine su un patrimonio sommerso, Milano 1991.

[3] A. Emiliani, Una politica dei beni culturali, Torino 1974, 122.

 


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