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Sulla digitalizzazione del patrimonio culturale

La riproduzione del bene culturale pubblico tra norme di tutela, diritto d’autore e diritto al patrimonio [*]

di Mirco Modolo

Sommario: 1. Premessa. - 2. Dalla prassi dell’Open Access alla costruzione di una cultura globale del riuso. - 3. Il libero riuso nei principi della Convenzione di Faro (2005). - 4. Il digitale e gli usi non rivali. - 5. Sfatare il mito: danno erariale e decoro. - 6. Prospettive: l’art. 14 della direttiva (UE) 2019/790 sul diritto d'autore. - 7. Conclusioni.

The reproduction of cultural heritage between protection rules, copright and right to cultural heritage
In the context of the digital era we live in, the current pandemic emergency strongly relaunched the question of the reuse of digital cultural resources. If the digitization of public cultural heritage will be accompanied by an expansion of the conditions for the reusability of its digital reproductions, there will be room to unfolding the potential of the digitalization in support of research, creativity, publishing, cultural entrepreneurship and tourism. The ongoing debate, partly originated from the Directive (UE) 2019/719, recently entered the Italian Parliament, representing not only a urgent matter to be promptly addressed but also a political issue as it directly affects the relationship among society, cultural heritage and cultural institutes. Following a preliminary framework on the aftermath of the reuse of digital cultural resources this paper aims at investigating perspectives and tools to proper identify the terms of reference for the reuse and to implement the EU legislation.

Keywords: Cultural Heritage; Digitization; Copyright; Faro Convention; Directive (EU) 2019/790.

1. Premessa

La creazione in seno al ministero della Cultura di un istituto specificatamente dedicato alla digitalizzazione del patrimonio culturale, l’approvazione della Convenzione di Faro, l’imminente implementazione della direttiva (UE) 2019/790 sul diritto d’autore sono circostanze che, negli ultimi mesi, hanno posto sempre di più all’attenzione pubblica il problema dell’accesso al patrimonio culturale digitale ma anche quello, assai più complesso e spinoso, della riutilizzabilità delle risorse digitali in rete. Il dibattito non nasce certo dal nulla, ha avuto avvio nel 2014 con la liberalizzazione delle riproduzioni nei musei (legge 29 luglio 2014, n. 106) ed è proseguito nel 2017 con l’estensione del regime di libera riproducibilità ai beni archivistici e bibliografici (legge 4 agosto 2017, n. 124) che ha avuto l’effetto di liberalizzare lo scatto e, solo in parte, la divulgazione della riproduzione che ne rappresenta l’esito [1]. L’uso della riproduzione del bene culturale pubblico, ai sensi dell’art. 108 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, d.lgs. n. 42 del 2004, è stato infatti reso libero solo per fini diversi dal lucro. Proprio il “tabù” del lucro costituisce l’ultimo ostacolo alla liberalizzazione delle riproduzioni del patrimonio culturale e il primo nodo di una questione che, prima ancora che giuridica, economica o tecnica è culturale, anzi, squisitamente politica, perché tocca nel profondo il modo di intendere la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale e investe direttamente il rapporto tra società, istituzioni di tutela e beni culturali.

2. Dalla prassi dell’Open Access alla costruzione di una cultura globale del riuso

La distinzione lucro/non lucro, oltre a rivelarsi sempre più ambigua e sfuggente, ha un impatto negativo anzitutto sulla ricerca e sull’editoria scientifica se si pensa che, in base al d.m. 8/4/1994, la riproduzione di un bene associata a una pubblicazione scientifica di oltre 2.000 copie o di oltre 77,47 euro di prezzo di copertina [2] va autorizzata ed è soggetta al pagamento di un canone all’istituto pubblico proprietario del bene. Il limite del lucro può inoltre essere di impedimento per l’editoria scientifica in Open Access ma anche per l’acquisizione di fondi di finanziamento destinati a progetti di ricerca nel campo delle digital humanities che richiedono, sempre più spesso, la pubblicazione di dati (comprese le immagini di beni culturali) in formato aperto, riutilizzabili cioè anche a scopo commerciale.

La liberalizzazione piena del riuso delle immagini non risponde solo alle esigenze degli studiosi o dei professionisti dei beni culturali ma anche a quelle espresse da altri soggetti, parimenti titolari del patrimonio e che egualmente ne potrebbero beneficiare, come gli editori, i creativi, i designer e gli imprenditori culturali. Coerentemente con questo principio un numero crescente di istituti culturali in tutto il mondo, nel corso degli ultimi anni, ha abbandonato le policy tradizionali - fondate sulla riscossione di diritti - scegliendo di pubblicare in rete immagini ad altissima risoluzione allo scopo di permetterne il riutilizzo per qualsiasi fine, anche commerciale [3]. La condivisione delle immagini mediante licenze aperte è stata riconosciuta come una componente essenziale della mission del museo, in grado di potenziarne la funzione di servizio pubblico, che ne risulta aggiornata senza peraltro causare ripercussioni negative sui bilanci degli istituti: scelte così radicali, nient’affatto improvvisate, giungono infatti all’esito di studi, oggetto di pubblicazioni e ponderate analisi costi-benefici, dalle quali puntualmente emerge che i costi di gestione e rendicontazione degli introiti sono inferiori alle spese di gestione, a fronte di indubbi benefit per gli istituti in termini di marketing indiretto e di traffico nei relativi istituti e siti web [4].

Al di là delle prassi, il dato significativo è che, in parallelo con la diffusione globale delle licenze aperte, si assiste alla progressiva costruzione di una consapevole “cultura del riuso”, soprattutto in Europa e in Nord America, grazie al fervente attivismo di enti e associazioni attive nel promuovere il pubblico dominio che, sul versante del patrimonio culturale [5], è ancora prigioniero di diritti esclusivi sia di natura autoriale (sui quali inciderà direttamente la direttiva europea) che pubblicistica, come dimostra il caso italiano. Nel 2010 Europeana, l’aggregatore europeo del patrimonio culturale digitale, ha pubblicato lo “statuto per il pubblico dominio” [6], iniziativa cui ha fatto immediatamente eco, nel corso dello stesso anno, il lancio del “manifesto del pubblico dominio” da parte del progetto europeo Communia [7]. Va infine ricordata l’attività condotta dal movimento Art for all UK, che invita le istituzioni culturali britanniche ad abbracciare il libero riuso [8], ma soprattutto l’opera di sensibilizzazione sviluppata da Creative Commons e Wikimedia Foundation, i quali hanno dato vita nel 2013 alla rete Open GLAM che, attraverso un blog, censisce e mette in contatto gli istituti di tutto il mondo che condividono le pratiche dell’Open Access [9].

3. Il libero riuso nei principi della Convenzione di Faro (2005)

I casi sopra citati, ancora poco noti nella letteratura nazionale, lungi dall’essere l’abbaglio di una moda effimera, sono espressione di un fenomeno culturale vero e proprio che si basa sulla consapevolezza che internet e il digitale hanno plasmato un tipo di società radicalmente diversa rispetto a quella di qualche decennio fa, nella quale gli individui da semplici fruitori di contenuti culturali sono divenuti creatori essi stessi di nuovi contenuti. Enti e associazioni si fanno interpreti di istanze non solo di fruizione del patrimonio, ma anche e soprattutto di partecipazione attiva alla sua gestione e valorizzazione in una prospettiva di sussidiarietà orizzontale prevista dall’art. 118 della Costituzione. Nello stesso tempo una comunità, non più locale né nazionale ma universale, chiede non solo di accedere, ma anche di riusare liberamente le risorse digitali in pubblico dominio facendo emergere nuovi tipi di esigenze che sarebbe inopportuno ignorare.

La convenzione di Faro del 2005, oggi in attesa di essere tradotta in norme e prassi concrete, incarna perfettamente questi principi sino a giungere a riconoscere il diritto, individuale e collettivo, a “trarre beneficio dal patrimonio culturale e a contribuire al suo arricchimento” (art. 4) sottolineando la funzione dell’eredità culturale nell’arricchimento dei processi di sviluppo economico, politico, sociale e culturale (art. 8). In altri termini la convezione di Faro riconosce espressamente alla collettività un “diritto al patrimonio culturale” che spinge a ridisegnare la politica di musei, archivi e biblioteche in materia di digitalizzazione del patrimonio e di licenze d’uso: gli istituti culturali che, rinunciando all’illusione di ricavare “utili” sulle immagini, puntano ad essere “utili” allo sviluppo complessivo della società, riscoprono in questo modo le ragioni profonde del loro operare al servizio dell’intera comunità nel variegato insieme dei suoi bisogni.

Nel mettere al centro le esigenze delle persone, la convenzione invita a passare dalla “cultura del libero accesso” (su cui c’è ormai quasi unanime consenso) alla “cultura del libero riuso” (che è la vera sfida di oggi), e a rivisitare la natura stessa di istituti culturali che, da “attrattori culturali” quali sono oggi considerati, si candidano a diventare “attivatori culturali” [10], enti cioè votati non solo alla conservazione e alla fruizione pubblica dei beni, ma anche alla promozione attiva di processi di creatività e innovazione, anche attraverso il libero riuso dei dati e delle immagini delle proprie collezioni.

4. Il digitale e gli usi non rivali

La copia digitale rappresenta una preziosa materia prima il cui valore non si misura in assoluto, ma in rapporto alla sua possibilità di essere trasformata e riprendere vita, in forma arricchita, in nuovi prodotti dell’ingegno. La copia digitale gode inoltre di uno straordinario vantaggio sul suo equivalente analogico, in quanto crea nuove modalità di fruizione del bene, capaci di scardinare i paradigmi tradizionali fondati sul concetto di “rivalità del consumo” che ancora innervano l’attuale normativa di tutela [11]. L’uso infatti del bene fisico, materialmente inteso, si qualifica infatti come “rivale”, nel senso che esclude possibili usi contemporanei da parte di terzi. Questa forma di fruizione comporta una richiesta di autorizzazione all’ente proprietario del bene che si rende necessaria per garantire la tutela fisica del bene, mentre la corresponsione di un canone si legittima come risarcimento alla collettività per un uso di per sé esclusivo ed escludente (si pensi all’occupazione di un palazzo storico per una ripresa televisiva o di un museo per un set fotografico). L’uso del bene culturale digitalizzato è, al contrario, un uso tipicamente “non rivale”, in quanto garantisce l’uso contemporaneo della stessa immagine digitale a un numero potenzialmente infinito di utenti interessati: in questo caso procedure autorizzatorie e diritti d’uso avranno al contrario effetti escludenti, in quanto mortificheranno inevitabilmente le possibilità di riutilizzo insite nel digitale, impedendogli di manifestare pienamente tutte le sue potenzialità [12].

5. Sfatare il mito: danno erariale e decoro

Sinora le principali esperienze di libero riuso in Italia si contano a stento sulle dita di una mano e sono tutte, non è un caso, iniziativa di fondazioni private (Museo Egizio di Torino, Torino Musei e la Beic di Milano). Nel settore pubblico il riuso non è percepito come un’attività da promuovere, ma al contrario come possibile fattore di rischio connesso a usi commerciali non autorizzati, che si cerca di prevenire mediante la pubblicazione in rete di immagini a bassa risoluzione, rese non scaricabili o comunque bollate da filigrane volte da un lato a rimarcarne indelebilmente la provenienza, dall’altro a impedire possibili riusi lucrativi [13]. Tale atteggiamento è motivato a volte dal timore, da parte dei direttori degli istituti, di causare un danno erariale, a volte dalla speranza - o l’illusione - di poter ricavare ingenti utili dalla vendita delle immagini e dei relativi diritti, nonostante i bilanci degli istituti e il monito del recente fallimento del modello di business di Alinari dimostrino, semmai, l’esatto contrario [14].

Altre resistenze alla liberalizzazione dell’uso delle immagini sono invece di ordine culturale, retaggio di una concezione proprietaria e pedagogica del patrimonio culturale, che si riscontra nella volontà di prevenire utilizzi poco decorosi delle riproduzioni [15]. Il primo strumento di controllo “morale” è rappresentato dalla richiesta di autorizzazione per l’uso commerciale, la quale tuttavia configura una forma di censura preventiva della libertà di espressione che appare sproporzionata rispetto alla possibilità di giudicare a posteriori - e nelle sedi più opportune - presunte violazioni sulla base del diritto morale dell’autore o della sensibilità di ciascuno nel quadro delle più comuni regole del dibattere civile.

Se può avere un senso parlare di decoro nell’ambito di concessioni d’uso dei beni culturali, lo stesso concetto applicato ai dati (e quindi alle immagini) rischia di essere una limitazione del principio della libertà di espressione. Chi può decidere di volta in volta cosa è realmente degno del patrimonio e in base a quali criteri? Se si pensa che l’obiettivo sia davvero quello di assicurare un’efficace tutela del decoro si renderebbe necessario, per assurdo, porre in discussione la conquista più importante della legge 106/2014 (c.d. Art Bonus), che ha sancito la libera divulgazione delle riproduzioni di beni culturali per fini di “libera espressione del pensiero”, per il semplice fatto che il limite del lucro è assolutamente sufficiente a prevenire usi che potranno essere giudicati impropri: si pensi alla possibile diffusione in canali non commerciali (come blog o social network), e quindi attualmente non soggetta ad autorizzazione, di caricature kitsch o “volgari” di opere d’arte, come quelle che hanno fatto indignare il Codacons o che hanno addirittura permesso ad artisti in passato di fare delle proprie personali rielaborazioni di opere veri e propri capolavori. O ancora, si pensi alla diffusione di riproduzioni associate a manifesti inneggianti alla violenza o a forme di intolleranza di qualsiasi genere.

Se quindi riconosciamo che il problema del decoro non si identifica in un prezzo di vendita, è lecito ritenere che, dietro le ragioni del decoro, si celino in realtà tracce di una diffidenza preconcetta nei confronti del binomio economia e cultura, percepito da molti ancora in termini oppositivi. Basterebbe la visita a un qualunque bookshop museale per capire quanto le immagini dei beni culturali siano ormai associate ai prodotti della nostra quotidianità al punto da divenire, oltre che oggetto comune di merchandising, vero e proprio strumento di marketing culturale - consentito o promosso talvolta dagli stessi istituti - che il libero riuso potrebbe solo potenziare [16].

A ben guardare, anche l’uso più smaccatamente commerciale delle immagini, quello pubblicitario, ha dato vita a un filone artistico autonomo, divenuto oggetto di studio della rivista Engramma e persino di una mostra dal titolo Classico Manifesto. Pubblicità e Tradizione Classica, tenutasi nel 2008 alla Triennale di Milano [17]: il creativo pubblicitario, al pari dell’artista antico che lavorava su committenza, non fa altro che rielaborare modelli precedenti contribuendo, a suo modo, a fare rivivere un passato che non teme dissacrazione. L’attività di mediazione culturale (tra il patrimonio e il pubblico) svolta da musei, archivi e biblioteche, costituisce di per sé il miglior antidoto rispetto ai paventati rischi di “svilimento”, come sottolinea Kenneth Hamma, responsabile della policy digitale del J. Paul Getty Trust, il quale si chiede, citando il caso emblematico della Gioconda: quando al Louvre ci troviamo di fronte all’originale di Leonardo, la troviamo forse ridicola per colpa dell’infinita serie di carte da parati, biscottiere o fasce di sigaro su cui la vediamo continuamente ritratta? [18].

Senza il rischio di esagerare si può dire che l’argomento del decoro è figlio di una tradizionale visione “sacrale” e “sacralizzante” del patrimonio culturale che assegna al bene culturale un valore assoluto più che relazionale [19]. Occorre invece evitare derive identitarie costruendo un approccio più “laico” al patrimonio culturale. L’ansia di controllo sul corretto uso delle immagini del patrimonio è fondata sull’assunto che l’istituzione museale debba necessariamente essere l’unico garante di una visione corretta del passato, e quindi l’unico soggetto abilitato a sindacare sugli usi corretti o scorretti delle immagini del nostro patrimonio (e talvolta anche dell’informazione che ne deriva).

Un’altra preoccupazione è motivata dal pericolo di diffusione incontrollata in rete di immagini decontestualizzate, prive cioè di indicazioni di identificazione, attribuzione o provenienza. Si tratta però di un falso problema, perché gli istituti dovrebbero limitarsi a svolgere al meglio il proprio ruolo di mediazione nel mettere a disposizione dati e immagini garantendo - a monte - l’autorevolezza, l’attendibilità e l’autenticità delle riproduzioni, affinché chiunque ne possa fare - a valle - gli usi che ritiene più utili e vantaggiosi per sé. La preoccupazione del museo non può quindi essere quella di vigilare sull’uso che il pubblico poi farà di dati e immagini in pubblico dominio fino a pensare di doverlo per forza regolare [20]. Ecco allora che la citazione imprecisa di un documento o la pubblicazione di un’immagine priva di indicazione di provenienza finirà per screditare al più la credibilità e l’autorevolezza dello storico agli occhi della comunità degli studiosi, e non certo quella del bene o dell’istituto che lo detiene.

La valenza politico-antropologica del dibattito in corso è quindi più che mai evidente. Quanto prima allora si farà strada la consapevolezza che lo Stato è “custode” prima ancora che “proprietario” di beni che appartengono a tutti, e “mediatore culturale” prima ancora che “pedagogo”, tanto prima sarà possibile superare anacronistici timori, che, estremizzando il concetto di decoro, ancora frenano il processo di liberalizzazione delle immagini.

6. Prospettive: l’art. 14 della direttiva (UE) 2019/790 sul diritto d’autore

Segnali incoraggianti di apertura provengono dall’imminente implementazione dell’art. 14 della dir. (UE) 2019/790 sul diritto d’autore nel mercato unico digitale che interviene per rimuovere i “diritti connessi” sulle riproduzioni fedeli di opere dell’arte visiva in pubblico dominio proprio per garantirne le più ampie condizioni di riutilizzo in tutti i Paesi dell’Unione.

In base all’art. 14: “gli Stati membri provvedono a che, alla scadenza della durata di protezione di un’opera delle arte visive, il materiale derivante da un atto di riproduzione di tale opera non sia soggetto al diritto d’autore o a diritti connessi, a meno che il materiale risultante da tale atto di riproduzione sia originale nel senso che costituisce una creazione intellettuale propria dell’autore”.

In base a questo principio le riproduzioni fedeli di un’opera dell’arte visiva in pubblico dominio non potranno più essere protette dal diritto d’autore o da diritti connessi. La ricezione dell’art. 14, quindi, dovrebbe anzitutto poter intervenire sull’art. 87 della legge sul diritto d’autore, legge 22 aprile 1941, n. 633, per escludere l’imposizione di diritti connessi sulle mere riproduzioni di opere dell’arte figurativa assimilabili alle “opere delle arti visive” citate dalla direttiva, ma potrebbe anche incidere sull’art. 108 del codice di beni culturali. Se pensiamo alle “opere delle arti visive in pubblico dominio” citate nell’art. 14, una parte importante e consistente di esse è costituita proprio da beni culturali di proprietà pubblica.

Per capirne tuttavia a fondo le ragioni è opportuno allargare lo sguardo al panorama europeo, nel quale la ricezione dell’art. 14 della direttiva è stata di fatto salutata come la fine delle fee sulle immagini rilasciate in rete da musei, archivi e biblioteche [21], che ricorrono in genere a una protezione autoriale per le digitalizzazioni in rete anche in presenza di riproduzioni di opere in pubblico dominio [22].

In Italia gli istituti culturali pubblici godono invece di uno strumento di protezione molto più incisivo dei diritti connessi sulle immagini - la cui durata è limitata a vent’anni dall’esecuzione della riproduzione -, qual è appunto il Codice dei beni culturali, che assicura alle riproduzioni del patrimonio culturale pubblico forme di protezione illimitate nel tempo [23].

È vero che l’art. 108 del Codice dei beni culturali opera esclusivamente su base pubblicistica, quindi in un orizzonte in prima istanza estraneo agli ambiti propri della direttiva europea, il cui intervento è invece circoscritto all’ambito del diritto d’autore, ma è altrettanto vero che il fine perseguito dall’art. 14 [24], come suggerisce il considerando 53 della direttiva, è quello di superare le differenze tra le legislazioni nazionali in materia di diritto d’autore per favorire la diffusione transfrontaliera delle immagini di opere delle arti visive in pubblico dominio, che in Italia è ostacolata proprio dal Codice dei beni culturali. Pertanto, adottando una interpretazione teleologica del principio comunitario è facile comprendere come un intervento sull’art. 108 del codice si renda desiderabile, anche se non direttamente cogente per le ragioni appena esposte. Nel riconoscere all’ente pubblico proprietario del bene culturale diritti dominicali, l’art. 108 non fa altro che istituire diritti esclusivi di natura extra autoriale - peraltro perpetui - sulle immagini di beni in pubblico dominio, mentre la direttiva, chiamando esplicitamente in causa gli istituti di tutela, si propone di rimuovere diritti connessi sulle stesse immagini proprio al fine di assicurare a chiunque in Europa la possibilità di “copiare, utilizzare e condividere online le fotografie di dipinti, sculture e opere d’arte di pubblico dominio disponibili sul web e riutilizzarle, anche a fini commerciali o per caricarle su Wikipedia” [25]. Se quindi rimarrà inalterata la disciplina della riproduzione che si rinviene nel codice dei beni culturali, gli effetti dell’art. 14 sul contesto italiano risulteranno fortemente ridimensionati rispetto agli obiettivi più generali che la direttiva si prefigge sul versante della circolazione delle immagini di opere delle arti visive di pubblico dominio [26].

La definizione stessa di “opera delle arti visive”, che la direttiva lascia volutamente aperta, andrebbe in tal caso dilatata al punto da farla coincidere con la definizione di bene culturale di cui all’art. 10 del codice, facendo così rientrare in tale categoria non solo le opere di interesse propriamente storico artistico e architettonico, ma anche la totalità dei beni archeologici, bibliografici e archivistici.

Nell’ipotesi di voler espungere dal testo dell’art. 108 qualsiasi riferimento al limite del lucro, la riproduzione del bene culturale risulterebbe pertanto libera nel rispetto del diritto d’autore, del diritto alla riservatezza e dell’integrità fisica del bene (che sottopongono ad autorizzazione l’uso di calchi, scanner, cavalletti, treppiedi e flash). Entro un perimetro così definito chiunque potrebbe riutilizzare liberamente i propri scatti, anche a fini commerciali; viceversa musei, archivi e biblioteche potrebbero finalmente adottare, senza più timori o ambiguità, licenze di libero riuso per pubblicare le immagini delle proprie collezioni, come già avviene in molti casi all’estero. Alla luce del considerando 53 gli istituti potranno comunque riservarsi la possibilità di commercializzare immagini digitali in rete, sulle quali tuttavia non si potranno imporre diritti di esclusiva per limitarne l’uso da parte di terzi [27]. I medesimi istituti continueranno inoltre a detenere il monopolio dell’alta risoluzione nelle riprese professionali eseguite all’interno dei luoghi della cultura, dal momento che per l’uso di treppiedi, flash e strumenti di scansione a contatto sarà sempre necessaria un’autorizzazione, eventualmente da affiancare a una richiesta di concessione d’uso degli spazi.

Una revisione del Codice dei beni culturali è stata peraltro richiesta, condividendo l’interpretazione sopra esposta, dalle associazioni rappresentative di musei, archivi e biblioteche (Aib, Anai e Icom) [28] e da Creative Commons Italia, promotore di un appello con il quale si chiede ai ministri della cultura dei Paesi europei di assicurare la più ampia ricezione dell’art. 14 liberalizzando l’uso delle immagini del patrimonio culturale in pubblico dominio [29].

La discussione è entrata infine anche in parlamento: una proposta di risoluzione, che muove dalla necessità di implementare l’art. 14 della direttiva, è stata presentata il 26 febbraio 2020 alla Commissione cultura della Camera dei deputati [30], con due obiettivi ‘minimi’ rispetto alle modifiche, di più ampio respiro, cui si faceva cenno sopra. Il primo è quello di riconoscere espressamente ai singoli direttori di musei, archivi e biblioteche statali la facoltà di rilasciare immagini delle proprie collezioni con licenze aperte. Risultato raggiungibile per via amministrativa, senza quindi modifiche normative, giacché il rilascio di una licenza aperta è assimilabile a una autorizzazione preventiva per usi commerciali a canone azzerato, nel rispetto delle prescrizioni dettate dall’art. 108. Uno specifico intervento normativo difficilmente sarà evitabile per attuare l’altro obiettivo della risoluzione, che mira a liberalizzare l’uso delle fotografie - da chiunque scattate - degli esterni di beni culturali pubblici posti stabilmente sulla pubblica via [31], ripristinando una libertà in realtà già prevista nel nostro ordinamento fino all’approvazione del Testo Unico dei beni culturali e ambientali del ’99, ma di cui oggi non v’è più memoria per la banale ragione che sino a quel momento internet, il digitale e gli smartphone non erano ancora divenuti strumenti abituali del nostro vivere quotidiano [32].

7. Conclusioni

La discussione sul libero riuso non è scevra da luoghi comuni o pregiudizi di stampo ideologico. Il rischio di “socializzazione delle perdite e di privatizzazione dei profitti”, talvolta sollevato, è più apparente che reale, stante la reciprocità di benefici che ricadrebbero non solo sui privati ma anche sugli stessi istituti pubblici che oggi si trovano spesso a spendere più di quanto incassano per la gestione dei diritti sulle immagini e che domani invece potrebbero trarre beneficio dalla loro libera circolazione, rendendosi più capaci di estendere il bacino di utenti oltreché di attirare finanziamenti pubblici e privati. Senza contare che la libera circolazione delle immagini potrà stimolare l’economia garantendo di riflesso, sul lungo periodo, ritorni economici per le casse pubbliche in termini di fiscalità generale.

L’allarme per una possibile “mercificazione” o “svendita” del patrimonio ai monopolisti del web appare largamente ingiustificato, laddove “mercificare” è sinonimo di usi esclusivi e rivali che, come s’è detto, non si conciliano in realtà con un patrimonio digitalizzato aperto al libero riuso; in questo caso nessuno avrà più interesse a rivendere le immagini, perché tutti potranno avvantaggiarsene allo stesso modo. Anzi, il libero riuso potrebbe non trovare il favore delle aziende leader nel campo del licensig che già operano nel campo della vendita diretta di immagini di beni culturali in base a precisi accordi con il ministero della Cultura [33].

La scelta di aprire a forme di riuso commerciale le riproduzioni in rete interviene invece per evitare che si determinino, anche in ragione delle dimensioni degli operatori, potenziali situazioni di privilegio o monopolio di fatto, giacché offrirebbe indistintamente a tutti, singoli cittadini, enti pubblici e privati, le stesse possibilità di riusare virtualmente il proprio patrimonio. Ne uscirà così esaltata la dimensione pubblica di quest’ultimo e, al tempo stesso, la funzione civile degli istituti di tutela orientata a innescare, a tutti i livelli, processi di innovazione fondati sul riuso. I giganti del web potranno positivamente inserirsi in questo meccanismo agevolando operazioni di disseminazione del patrimonio culturale su scala globale: basti d’esempio la gigantesca opera di digitalizzazione del patrimonio librario mondiale pubblicato tra XVI e XIX secolo resa possibile da Google Libri o al ruolo svolto oggi da Facebook e dai maggiori social network nelle attività di marketing culturale degli istituti. Ciò non toglie naturalmente che qualsiasi operazione di digitalizzazione ex novo ad alta definizione di intere collezioni promossa da privati dovrebbe comunque poter continuare ad essere oggetto di contrattazione con gli istituti di tutela per evitare situazioni di squilibrio che possano compromettere la possibilità di una libera fruizione pubblica del bene culturale pubblico digitalizzato.

Il libero riuso, insomma, può e deve essere espressione compiuta di democrazia della cultura. La prospettiva del “danno erariale” invocata da chi difende l’esclusiva pubblica sulle riproduzioni, ignora il fatto che il vero danno erariale è oggi l’esito paradossale della gestione corrente dei diritti di riproduzione [34], ma soprattutto ignora il punto di vista dell’utente e quindi, con esso, il “danno economico e sociale” potenzialmente sotteso alle regole vigenti [35]. Il che si traduce in un susseguirsi di occasioni perse, e quindi in un danno per tutte quelle piccole imprese culturali che costituiscono il più ampio bacino della potenziale domanda. Il libero riuso è anzitutto una fondamentale leva di sviluppo che potrà contribuire, nel post Covid, a ridare slancio alla creatività, all’editoria, al design, alla moda, all’imprenditoria culturale e al turismo, contribuendo, di riflesso, alla valorizzazione più ampia e diffusa del nostro patrimonio culturale, come sottolineano da tempo numerose associazioni di operatori dei beni culturali che si sono rese promotrici di un gran numero di iniziative a favore del libero riuso che difficilmente potranno essere ignorate dalla politica e dall’amministrazione [36].

L’unico modo per promuovere attivamente il riuso delle immagini del nostro patrimonio, e quindi per dare senso profondo all’imponente opera di digitalizzazione che ci si appresta ad avviare, non può che essere quello di restituire al pubblico dominio digitale lo statuto genuino di bene comune, liberandolo da diritti proprietari che non sono più in grado di riflettere natura ed esigenze della società contemporanea, come hanno sottolineato di recente i direttori di alcuni dei maggiori musei statali [37].

Proprio al riuso va del resto riconosciuto il merito storico di aver garantito, spesso inconsapevolmente, la sopravvivenza del nostro patrimonio culturale nell’arco di millenni, e di aver favorito qualsiasi processo di innovazione che, per definizione, altro non è che riuso creativo di idee precedenti. Il digitale non fa eccezione. Anzi, permetterà di salvare dall’oblio il nostro patrimonio agendo al tempo stesso da moltiplicatore di ricchezza culturale, sociale ed economica. Se le riproduzioni di beni culturali potranno circolare liberamente, oltre a far rivivere di volta in volta la memoria del passato contribuendo a preservarla attivamente, potranno infatti offrire un sostegno importante alla ripresa culturale, sociale ed economica del nostro Paese.

 

Note

[*] Le opinioni espresse nel presente articolo sono di carattere del tutto personale e non impegnano in ogni caso e in alcun modo l’ente di appartenenza.

[1] Sull’argomento cfr. da ultimo: L. Casini, Riprodurre il patrimonio culturale? I “pieni” e i “vuoti” normativi, in Aedon, 2018, 3; M. Modolo, Promozione del pubblico dominio e riuso dell’immagine del bene culturale, in Archeologia e Calcolatori, 2018, pag. 73 ss.; P. Forte, Il bene culturale pubblico digitalizzato: prime note per uno studio giuridico, in P.A. Persona e Amministrazione, 2019, pag. 245 ss.; M. Modolo, Reinventare il patrimonio: il libero riuso dell’immagine digitale del bene culturale pubblico come leva di sviluppo nel post Covid, in Territori della Cultura, 2020, pag. 210 ss.; G. Di Vietri, Fotografare cultura. Una diversa prospettiva per le politiche e le pratiche pubbliche, in Territori della Cultura, 2020, pag. 184 ss.; D. Manacorda, Patrimonio culturale, libertà, democrazia. Pensieri sparsi di un archeologo incompetente a proposito di “Diritto e gestione del patrimonio culturale”, in Il capitale culturale. Studies on the Value of Cultural Heritage, 2020, pag. 15 ss.; P. Carpentieri, Digitalizzazione, banche dati digitali e valorizzazione dei beni culturali, in Aedon, 2020, 3.

[2] Limitatamente ai beni archivistici la soglia si abbassa a 70 euro per effetto della circolare n. 33/2017 della Direzione Generale Archivi.

[3] Una prassi inaugurata nel 2012 dal Rijksmuseum di Amsterdam e gradualmente fatta propria da alcuni dei più grandi musei e biblioteche del mondo, come il Metropolitan Museum di New York, la National Gallery di Washington, la Library of Congress, il Museo Nazionale di Stoccolma, la Galleria Nazionale di Danimarca, i musei comunali di Parigi, l’Archivio Nazionale di Francia e, dal mese di novembre 2020, la Biblioteca Nazionale di Spagna (per l’elenco completo cfr. n. 10). Alcuni dei benefici derivanti dal libero riuso sono illustrati in M. Denoyelle, K. Durand, J. Daniel, E. Doulkaridou-Ramantani, Droits des images, histoire de l’art et société Rapport sur les régimes de diffusion des images patrimoniales et leur impact sur la recherche, l’enseignement et la mise en valeur des collections publiques, 2018.

[4] S. Tanner, Reproduction charging models & rights policy for digital images in American art museums. A Mellon Foundation study, London, 2004; E. Bertacchini, F. Morando, The Future of Museums in the Digital Age: New Models of Access and Use of Digital Collections, in International Journal of Arts Management, 2001, pagg. 2-14; N.L. Maron, M. Loy, Revenue, Recession, Reliance Revisiting the SCA/Ithaka S+R Case Studies in Sustainability, New York, 2011; Sharing is caring. Openness and sharing in the cultural heritage sector, (a cura di) M. Sanderhoff, Copenhagen, 2014; E. Kapsalis, The Impact of Open Access on Galleries, Libraries, Museums, & Archives, Smithsonian Emerging Leaders Development Program, 2016. Cfr. anche n. 15.

[5] Non è così per il “patrimonio” musicale o letterario. Cfr. D. Manacorda, Liberate le immagini delle opere d’arte!, in Il Giornale dell’Arte, aprile 2020.

[6] J. Fallon, The Europeana Public Domain Charter, in Europeana Pro, 28 aprile 2010.

[7] Communia, Public Domain Manifesto.

[8]Art for All. Supporting UK cultural heritage institutions to open digital collections for unrestricted public reuse.

[9] Open GLAM. A global network on sharing cultural heritage. Il censimento di Open GLAM, in costante aggiornamento, che elenca gli istituti di tutto il mondo che adottano licenze aperte è disponibile al seguente link: https://docs.google.com/spreadsheets/d/1WPS-KJptUJ-o8SXtg00llcxq0IKJu8eO6Ege_GrLaNc/edit#gid=1216556120.

[10] F. Viola, Da attrattori ad attivatori culturali, in Territori della Cultura 2020, pag. 230.

[11] L. Casini, Riprodurre il patrimonio culturale? I “pieni” e i “vuoti” normativi, cit.

[12] Cfr. D. Manacorda, Patrimonio culturale, libertà, democrazia. Pensieri sparsi di un archeologo incompetente a proposito di “Diritto e gestione del patrimonio culturale, cit., pagg. 47-49.

[13] Contro l’uso della filigrana nelle immagini si è espressa la Commissione Europea nelle Raccomandazioni sulla digitalizzazione e l’accessibilità in rete dei materiali culturali e sulla conservazione digitale (27 ottobre 2011): “Si dovrebbe evitare l’uso di filigrane intrusive o di altre misure di protezione visiva su copie di materiale di pubblico dominio come segno di proprietà o provenienza”.

[14] Cosa si può imparare oggi dal fallimento del modello di business dell’azienda Alinari?, in Creative Commons Italia, 24/01/2021. Per quanto concerne il ministero della cultura, limitatamente ai musei e ai parchi archeologici dotati di autonomia speciale (contabile, finanziaria e statutaria), nell’anno 2016 i ricavi da concessioni d’uso non hanno superato il 2,4%, mentre la percentuale scende ulteriormente nel caso dei canoni concessori destinati ai Poli museali regionali per i quali si registra solo l’1,1% del totale degli introiti di tali istituti ministeriali (A. L. Tarasco, Il patrimonio culturale. Modelli di gestione e finanza pubblica, Napoli, 2017, pag. 247). In tale quota rientrano, indistintamente, i canoni di concessione per l’uso di spazi museali e per l’utilizzo lucrativo delle riproduzioni di beni culturali, che peraltro rappresentano in proporzione una quota minoritaria delle entrate. Cfr. anche R. Falcinelli, Cari musei italiani, quando capirete che Leonardo è di tutti?, in L’Espresso, 8 aprile 2021 e M. Cotugno, Aprirsi al mondo - come la Pinacoteca di Brera ha cambiato la propria gestione delle immagini, in Open GLAM - Medium, 6 novembre 2019. Anche in Francia i ricavi della società RMN derivanti dalla gestione dei diritti sulle immagini delle collezioni museali statali sono minimi, come ha messo in evidenza la stessa Corte dei Conti in una recente pronuncia (P. Beaudouin, Rapport de la Cour des comptes sur les musées nationaux, in Wikimedia France, 21 gennaio 2020.

[15] Sul concetto di dignità del patrimonio cfr. D. Manacorda, Patrimonio culturale, libertà, democrazia. Pensieri sparsi di un archeologo incompetente a proposito di “Diritto e gestione del patrimonio culturale, cit., pagg. 49-51.

[16] Come dimostra, per citare solo un esempio, il caso della collaborazione tra una nota pasticceria milanese e la Pinacoteca di Brera che ha dato vita, lo scorso anno, a una linea di panettoni natalizi ispirati alle opere di Raffaello che riportano sull’involucro dei prodotti l’immagine de “Lo sposalizio della Vergine” di Raffaello conservato nella Pinacoteca e, all’interno, una pubblicazione con la descrizione delle opere e coupon di sconto per l’ingresso al museo (cfr. Pasticceria milanese crea panettoni con in regalo libro su Raffaello e ingressi al museo, in Finestre sull’Arte, 6 ottobre 2020). Siamo di fronte a una originale e felice iniziativa pubblico-privato. Viene allora da chiedersi: l’immagine di un’opera d’arte stampata su un prodotto commerciale diventa forse motivo di scandalo solo se a distribuirla è un privato?

[17] http://www.engramma.org/index.php?article=499.

[18] K. Hamma, Public Domain Art in an age of easier mechanical reproducibility, in D-Lib Magazine 2005.

[19] Sul concetto di “valore” applicato al patrimonio culturale, oggetto sovente di un culto “animistico” e aprioristico cfr. A. Carandini, Archeologia classica: vedere il tempo antico con gli occhi del 2000, Torino, 2008, pagg. 152-158; P. Petraroia, La valorizzazione come dimensione relazionale della tutela, in Il diritto dell’arte. La protezione del patrimonio artistico, (a cura di) G. Negri-Clementi, S. Stabile, Milano, 2014, pagg. 41-49; M. Montella, La Convenzione di Faro e la tradizione culturale italiana, in Il capitale culturale, suppl. 5 (2016), pagg. 13-36.

[20] Il concetto è ben sintetizzato dal direttore del Museo Nazionale di Svezia, Berndt Arell: “We (...) want to make the point that these artworks belong to and are there for all of us, regardless of how the images are used. We hope our collection will inspire creative new uses and interpretations of the artworks”.

[21] B. Grosvenor, The end of museum image fees?, in Art History News, 28 marzo 2019; Th. Margoni, The digitisation of cultural heritage: originality, derivative works and (non) original Photographs, in Institute for Information Law 2014; A. Wallace, E. Euler, Revisiting Access to Cultural Heritage in the Public Domain: EU and International Developments, in IIC-International Review of Intellectual Property and Competition Law 2020, pagg. 823-855.

[22] Il Louvre, ad esempio, attraverso la società RMN, fa leva sul diritto d’autore dei fotografi, mentre i Musei statali di Berlino, nell’applicare licenze CC BY-SA-NC, ricorrono ai diritti connessi sulle digitalizzazioni. Pratiche entrambe che dovranno essere quantomeno riviste nel momento in cui Francia e Germania si troveranno a implementare l’art. 14 della direttiva europea nell’ambito dei rispettivi ordinamenti giuridici.

[23] Proprio la presenza degli artt. 107-108 del Codice dei beni culturali rende poco sensato il ricorso in Italia a licenze Creative Commons non commerciali sulle immagini di beni culturali pubblici in pubblico dominio che regolerebbero diritti connessi al più per una durata di vent’anni. Il ricorso in generale alle Creative Commons perderebbe di senso a seguito dell’implementazione dell’art. 14 della direttiva europea.

[24] Dir. (UE) 2019/790, considerando 53: “La scadenza della durata di protezione di un’opera comporta l’entrata di tale opera nel dominio pubblico e la scadenza dei diritti che il diritto d’autore dell’Unione conferisce a tale opera. Nel settore delle arti visive, la circolazione di riproduzioni fedeli di opere di dominio pubblico favorisce l’accesso alla cultura e la sua promozione e l’accesso al patrimonio culturale). Nell’ambiente digitale, la protezione di tali riproduzioni attraverso il diritto d’autore o diritti connessi è incompatibile con la scadenza della protezione del diritto d’autore delle opere. Inoltre, le differenze tra le legislazioni nazionali in materia di diritto d’autore che disciplinano la protezione di tali riproduzioni causano incertezza giuridica e incidono sulla diffusione transfrontaliera delle opere delle arti visive di dominio pubblico. Alcune riproduzioni di opere delle arti visive di dominio pubblico non dovrebbero pertanto essere protette dal diritto d’autore o da diritti connessi. Tutto ciò non dovrebbe impedire agli istituti di tutela del patrimonio culturale di vendere riproduzioni, come ad esempio le cartoline”.

[25] “Quali sono le nuove disposizioni sulle opere d’arte di pubblico dominio? Quando un’opera d’arte non è più protetta dal diritto d’autore, ad esempio un dipinto antico, essa diventa di pubblico dominio. In tal caso dovrebbe essere consentito a chiunque realizzare copie di tale opera, utilizzarle e condividerle. Oggi ciò non avviene sempre, in quanto alcuni Stati membri tutelano le copie di tali opere d’arte. La nuova direttiva garantirà che nessuno possa invocare la tutela prevista dal diritto d’autore per le opere che sono già divenute di pubblico dominio nell’ambito delle arti visive. Grazie a questa disposizione qualsiasi utente potrà diffondere online con piena certezza giuridica copie delle opere d’arte di pubblico dominio. Ad esempio, chiunque avrà diritto di copiare, utilizzare e condividere online le fotografie di dipinti, sculture e opere d’arte di pubblico dominio trovate su Internet, e di riutilizzarle, anche a fini commerciali o per caricarle su Wikipedia” (Commissione Europea, Domande & risposte: un passo avanti nei negoziati UE per l’aggiornamento delle norme sul diritto d’autore, 2019).

[26] M. Arisi, Digital Single Market Copyright Directive: Making (Digital) Room for Works of Visual Art in the Public Domain, in Opinio Juris in comparatione, 1, 2020, pag. 134 ss.

[27] L’immagine digitale sarebbe in questo caso assimilabile a un qualunque oggetto fisico commercializzabile su cui però non si potranno fare valere diritti d’uso esclusivi.

[28] Dapprima nel corso delle audizioni tenutesi nel mese di giugno 2020 presso la Commissione Politiche dell’Unione Europea del Senato relativamente al disegno di legge europea di recepimento della direttiva di cui al d.d.l. n. 1721 e, più recentemente, in occasione della pubblicazione delle raccomandazioni della rete MAB (che unisce Aib, Anai, Icom) per il recepimento della direttiva (UE) 2019/719 secondo un intendimento peraltro condiviso da Wikimedia Italia, dalle associazioni degli archeologi italiani.

[29] Creative Commons Italia, Appello comune agli Stati dell’Unione europea e agli istituti culturali per la liberalizzazione dell’uso delle immagini del patrimonio culturale in pubblico dominio, 2021.

[30] L’art. 14 non è stato inserito nel testo del disegno di legge di delegazione europea licenziato dal Senato e ora in esame alla Camera, nonostante le richieste di numerose associazioni in questo senso nel corso delle audizioni in Senato. A compensazione di tale lacuna è intervenuta la proposta di risoluzione 7/00423 presentata alla Commissione Cultura della Camera dei Deputati in data 26/02/2020 dall’on.le Gianluca Vacca. Nell’ambito della discussione si è svolto in Commissione un ciclo di audizioni tenutosi in data 10/11/2020.

[31] La via interpretativa, alternativa alla modifica del codice, è proposta in: G. Resta, Chi è proprietario delle Piramidi? L’immagine dei beni tra property e commons, in Politica del Diritto, 2009, pagg. 600-602; M. Modolo, Verso una democrazia della cultura: libero accesso e libera condivisione dei dati, in Archeologia e Calcolatori, suppl. 9 (2017), pagg. 124-126.

[32] A ribadire una forma di libertà di panorama “temperata” era intervenuta anche la circolare ministeriale n. 50 del 7 giugno 1995 la quale stabiliva che “eventuali riprese di esterno eseguite fuori dai confini del monumento interessato, non sono soggette a concessione e tantomeno ad alcun pagamento”.

[33] Come nel caso del documento siglato il 4 aprile 2018 tra Bridgeman Images S.r.l. e la Direzione generale Musei per l’acquisizione - in forma temporanea e non esclusiva - di immagini del patrimonio culturale di ben 439 musei e luoghi della cultura italiani in vista della loro successiva distribuzione e commercializzazione internazionale a fronte di una condivisione degli introiti tra le parti. Cfr. anche il recente accordo tra Direzione generale musei e la Fondazione Alinari: Fondazione Alinari per la fotografia: l’accordo con il MIBAC non sceglie l’open access, in Creative Commons Italia, 30/03/2021.

[34] G. Volpe, Vietare l’uso delle foto dei beni culturali è un danno economico, in Huffington Post, 15 marzo 2021.

[35] Il “prezzo” da pagare in presenza di licenze chiuse è decisamente più alto rispetto ai vantaggi generalizzati procurati dalle licenze aperte: “Close licenses do always not prevent bad people from doing bad (ndr. come s’è visto, ad esempio, nel caso della pubblicità americana con l’immagine del David che imbraccia un fucile mitragliatore), but do prevent good people from doing good” (K. Glasemann, Come In, We’re OPEN - Why we need open licenses and where they took us, in De nouvelles démocraties du savoir? Pourquoi et comment ouvrir à la réutilisation les images des collections publiques, (a cura di) M. Denoyelle, convegno (Paris, Inha, 22-23 ottobre 2018).

[36] Cfr. l’appello di Creative Commons Italia (cfr. n. 30) e il Nuovo Manifesto per le biblioteche digitali promosso dall’AIB che al principio n. 8 afferma: “Le biblioteche digitali non si piegano a un’unica finalità, sia essa culturale o economica, ma allestiscono l’ambiente in cui qualunque finalità potrà liberamente venire perseguita (...) in modo da consentirne usi molteplici da parte di molteplici agenti per finalità diverse, di natura culturale, commerciale o di qualsivoglia altra natura, nei limiti previsti dalla legge”. A loro volta le FAQ - Diritto d’autore, copyright e licenze aperte per la cultura nel web elaborate da Icom Italia costituiscono un’utile bussola per orientare gli operatori dei beni culturali nella selva dei diritti di riproduzione, ma al tempo stesso illustrano i benefici che l’Open Access già procura agli istituti in tutto il mondo che hanno scelto di intraprendere questo percorso. Cfr. da ultimo V. Trione, I musei evolvano e cedano gratis le immagini delle loro opere, in Il Corriere della Sera, 18 aprile 2021.

[37] R. Falcinelli, Cari musei italiani, quando capirete che Leonardo è di tutti?, cit.

 

 



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