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Codice dei beni culturali e del paesaggio

Verifica dell'interesse culturale: spunti di riflessione su aspetti problematici delle limitazioni soggettive

di Alessandro Ferretti

Sommario: 1. Premessa. - 2. Il tema principale. - 3. Il problema. - 4. Gli enti pubblici territoriali. - 5. Gli altri enti ed istituti pubblici e le persone giuridiche private senza fine di lucro. Enti ed istituti religiosi. - 6. Osservazioni. - 7. Casi particolari.

1. Premessa

Le ultime modifiche al Codice dei beni culturali e del paesaggio (decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42) sono state appena introdotte con i due decreti legislativi 24 marzo 2006 nn. 156 e 157 e già se ne chiede un'ulteriore revisione, in primis da parte dei "nuovi" vertici politici del dicastero dei beni culturali [1]. E' interessante notare quanto fermento vi sia stato intorno al mondo dei beni culturali negli ultimi due anni, dopo un abbondante e sonnacchioso mezzo secolo vissuto all'ombra delle leggi volute da Bottai in pieno regime fascista (legge 1 giugno 1939, n. 1089 e legge 29 giugno 1939, n. 1497). In poco più di ventiquattro mesi, il legislatore ha stravolto il sistema "Bottai" - si passi l'espressione - innovando profondamente in diversi settori strategici la stessa filosofia dei beni culturali. Uno degli aspetti, maggiormente problematici sul piano operativo, è rappresentato da una delle novità rilevanti, introdotte nell'ordinamento giuridico dal d.lg. 42/2004. Si tratta del procedimento di verifica di interesse culturale di cui all'articolo 12 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, la cui attuazione ha comportato difficoltà interpretative ed applicative di non poco conto, generando incertezza e confusione non soltanto tra i fruitori della norma, ma persino tra gli stessi soggetti chiamati ad applicare concretamente la disposizione. Il nodo più problematico è rappresentato dalle limitazioni soggettive applicande al procedimento de quo e su questo tema si concentrerà l'attenzione nelle pagine che seguono. La speranza collegata all'elaborazione del presente contributo è che l'individuazione puntuale di tali aspetti problematici, ed in particolare sul piano delle limitazioni soggettive, possa fornire un minimo contributo per lo studio di eventuali integrazioni legislative dirette a migliorare l'applicabilità della norma.

2. Il tema principale

Il procedimento di verifica di interesse culturale previsto nell'art. 12 del d.lg. 42/2004 (da adesso Codice) è erede diretto della previsione contenuta nel decreto legge 30 settembre 2003, n. 269 che ha fissato all'art. 27 un "nuovo" procedimento volto a verificare/individuare l'interesse culturale del patrimonio immobiliare pubblico. In particolare, le cose mobili e immobili appartenenti allo Stato, alle regioni, province, città metropolitane, comuni e ad ogni altro ente ed istituto pubblico, risalenti ad oltre cinquant'anni e di autore non vivente, sono sottoposte dalla norma de quo ad uno specifico procedimento di verifica, di cui non si tratterà approfonditamente in questa sede, rinviando a tale proposito ai numerosi studi in merito [2]. L'ambito che in questa sede interessa è esclusivamente quello soggettivo, dovendosi tentare di chiarire quali siano i soggetti destinatari del provvedimento finale di verifica dell'interesse culturale. In dottrina, si osserva che per quanto attiene ai soggetti interessati alla verifica, il Codice non si discosta significativamente da quanto previsto nel decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 (Testo Unico delle disposizioni in materia di beni culturali e ambientali) in tema di redazione degli elenchi di cui all'art. 5 [3]. In particolare, le differenze si sostanziano nella esplicita previsione dello Stato, fra i soggetti pubblici; nella specificazione della categoria degli "altri enti pubblici territoriali", accanto a province e comuni; infine, nella indicazione riferita agli istituti pubblici, così da ricomprendere ogni soggetto pubblico, indipendentemente dalla denominazione o qualificazione [4]. Diciamo subito che l'assunto appena riportato non risulta del tutto soddisfacente, in quanto pretende di offrire una visione omogenea ed unitaria dei soggetti pubblici, che non trova riscontro nella realtà quotidiana e soprattutto nel dettato legislativo. Si vedrà tra breve il senso di quest'ultima affermazione.

3. Il problema

Prima di procedere alla spiegazione di quanto affermato, è necessario chiedersi quale utilità possa essere tratta da una dimostrata maggiore o minore estensione dell'ambito soggettivo della disposizione contenuta nell'art. 12 d.lg. 42/2004. La risposta è da rinvenire nella diversa formula procedimentale adottata in riferimento a soggetti pubblici o privati, proprietari e/o possessori di beni che potrebbero rappresentare una valenza culturale. In linea generale, il complesso di norme applicabili ai soggetti pubblici, si risolvono in un appesantimento procedimentale, che limita di fatto la libera circolazione dei beni degli enti ed impone un obbligo di censimento-catalogazione che non trova riscontro nei beni di proprietà privata. Inoltre, il mancato assolvimento della verifica dell'interesse del bene di proprietà pubblica, produce come conseguenza immediata la pressoché assoluta inalienabilità degli stessi, con ovvi problemi di bilancio della comunità pubblica. Il privato, dal canto suo, è libero di far circolare il bene nel circuito del mercato, avendo il solo obbligo di comunicazione dell'avvenuta compravendita per un improbabile ed inaspettato esercizio della prelazione da parte dello Stato. D'altra parte, l'obbligatorietà della verifica dell'interesse del bene appartenente a soggetti pubblici, pena l'inalienabilità dello stesso [5] si è rivelata strumento efficace ai fini dell'applicazione del procedimento di verifica, "costringendo" questa categoria di soggetti a sottoporre il proprio patrimonio immobiliare al procedimento de quo, volendo addivenire alla dismissione dei propri beni per motivi legati alla volontà di risanamento dei bilanci pubblici. Il primo approccio al procedimento da parte degli organi ministeriali preposti alla sua attivazione (in primis, direzioni regionali e soprintendenze territoriali competenti per materia) è stato in un certo senso teleguidato a livello centrale, bloccato come era sulla verifica del patrimonio immobiliare dello Stato. Il primo passaggio normativo in tal senso è rappresentato dall'art. 27 del d.l. 269/2003, che ha previsto la struttura procedimentale della verifica di interesse dei beni appartenenti allo Stato (rectius amministrazioni dello Stato). Un accordo tra ministero per i Beni e le Attività culturali (da adesso Mbac) ed Agenzia del demanio, accompagnato da un decreto interministeriale [6], ha tracciato il primo confine certo dell'ambito soggettivo di applicazione del procedimento, delimitato dalla presenza dello Stato, attraverso l'Agenzia del demanio. In realtà, lo stesso art. 27 del d.l. 269/2003 prevedeva anche il coinvolgimento dell'amministrazione della Difesa (attraverso la direzione generale dei lavori e del demanio del ministero della Difesa) nella procedura di verifica, ma ancora oggi non si registra l'effettivo intervento da parte di questa amministrazione nella redazione degli elenchi informatizzati di beni immobili sottoposti a verifica ex art. 12 del Codice. Fissato, per così dire, il primo lato di confine dell'ambito soggettivo della verifica di interesse culturale del patrimonio immobiliare pubblico, è necessario procedere all'individuazione dei restanti lati.

4. Gli enti pubblici territoriali

Il secondo lato di confine dell'ambito soggettivo del procedimento sottoposto ad analisi è costituito dagli enti pubblici territoriali: regioni, province, città metropolitane e comuni. La determinazione in tal senso avviene ad opera dello stesso d.l. 269/2003 e ad opera dell'art. 12 del Codice, in combinato disposto con l'art. 10, comma 1. Infatti il dettato normativo prevede espressamente che "...le cose immobili e mobili appartenenti (...) alle regioni, alle province, alle città metropolitane, ai comuni (...) sono sottoposte alle disposizioni in materia di tutela del patrimonio culturale fino a quando non sia stata effettuata la verifica di cui al comma 2..." (comma 1, art. 27 d.l. 269/2003). Inoltre, si prevede che "...per gli immobili appartenenti alle regioni ed agli altri enti pubblici territoriali, (...), la verifica è avviata a richiesta degli enti interessati, che provvedono a corredare l'istanza con le schede descrittive dei singoli immobili. Al procedimento così avviato si applicano le disposizioni dei commi 10 ed 11...". La stessa previsione espressa è contenuta nel Codice [7]. Il d.m. 6 febbraio 2004 e, successivamente, il d.m. 28 febbraio 2005 [8] hanno individuato i criteri per la redazione e la trasmissione degli elenchi dei beni immobili, appartenenti allo Stato ed agli enti pubblici territoriali, da sottoporre a verifica di interesse culturale.

5. Gli altri enti ed istituti pubblici e le persone giuridiche private senza fine di lucro. Enti ed istituti religiosi

Un ulteriore lato dell'ambito soggettivo di riferimento è rappresentato dagli enti ed istituti pubblici, non territoriali, e dalle persone giuridiche private senza fine di lucro. Anche in questo caso si deve far riferimento in primo luogo al d.l. 269/2003 che prevede la sottoposizione alle disposizioni di tutela del patrimonio culturale per quelle cose appartenenti, tra l'altro, "...ad ogni altro ente ed istituto pubblico...". In secondo luogo, con il d.m. 28 febbraio 2005 si è provveduto ad individuare i criteri per la redazione e la trasmissione degli elenchi di beni immobili anche di ogni altro ente ed istituto pubblico. Per quanto riguarda le persone giuridiche private senza fine di lucro, il richiamo è operato dal d.m. 25 gennaio 2005 [9] che disciplina espressamente il procedimento riferito a questi soggetti. In quest'ultima categoria vanno compresi anche gli enti ed istituti religiosi che, tuttavia, trovano una disciplina di carattere generale in base all'Accordo stipulato l'8 marzo 2005 tra Mbac e Cei [10].

6. Osservazioni

Ad una prima lettura, l'indicazione fornita dalle diverse disposizioni esaminate sembrerebbe confermare quanto già previsto nel previdente sistema. Si tratta, in buona sostanza, di soggetti pubblici o ad essi equiparati, così come accadeva nella vigenza del d.lg. 490/1999, dove all'art. 5 - riproduzione delle disposizioni contenute nella legge 1089/1939 [11] - erano individuati i soggetti obbligati alla presentazione degli elenchi descrittivi delle cose di interesse "culturale" di loro pertinenza, quali le regioni, le province, i comuni, gli altri enti pubblici e le persone giuridiche private senza fine di lucro. Il riferimento espresso allo Stato è di poco successivo e si avrà con il d.p.r. 7 settembre 2000, n. 283, regolamento per la disciplina delle alienazioni di beni immobili del demanio storico e artistico.

L'appartenenza del bene culturale a questi soggetti "pubblici" ha prodotto nel passato l'applicazione di un regime diverso rispetto a quello previsto per i beni culturali appartenenti a privati. Infatti, sin dal vigore della legge 1089/1939 il legislatore ha previsto un regime differenziato di tutela per le cose di interesse storico artistico in relazione alla natura giuridica dei soggetti cui le cose appartengono - privati o "pubblici" -.

Aprendo una breve parentesi su questa problematica, è opportuno evidenziare che il maggior elemento discriminante tra i due regimi differenziati è rappresentato dal modo di individuazione dei beni oggetto di tutela. Infatti, per i privati occorre un provvedimento ad hoc dell'amministrazione - debitamente notificato [12] - che assoggetti il bene al regime di vincolo, mentre per quei soggetti, che si è scelto di definire "pubblici" l'assoggettamento alla tutela avviene ex lege, attraverso disposizioni ad hoc (art. 4 legge 1089/1939, art. 5 d.lg. 490/1999). Inoltre, l'esigenza di "conoscenza" dei beni di interesse ad appartenenza "pubblica" è soddisfatta attraverso l'obbligo per i soggetti di comunicare il possesso di beni rientranti nelle categorie individuate dalla legge attraverso la redazione, la presentazione e l'aggiornamento di un elenco  [13].

Il sistema si è mantenuto senza cambiamenti fino all'entrata in vigore del richiamato d.p.r. 283/2000, che ha presentato diverse novità di rilievo per i beni di interesse culturale appartenenti allo Stato, alle regioni, alle province ed ai comuni. Infatti, - esclusivamente [14] per questi soggetti "pubblici" si è prevista l'adozione di un provvedimento formale di riconoscimento dell'interesse culturale  [15] oltre all'individuazione degli stessi attraverso gli elenchi presentati dai soggetti "pubblici".

Sia nell'immediatamente precedente che nello stesso periodo, la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha affermato la necessità "...anche in relazione a beni pubblici, di un atto costitutivo di riconoscimento statale del carattere culturalmente pregiato ai sensi dell'art. 1 della legge 1089/1939..." [16]. Pertanto, con un nuovo orientamento, la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha affermato la necessità che l'interesse culturale del bene venisse esplicitato formalmente anche per quelli appartenenti a soggetti pubblici, anche se con un provvedimento formale meno rigoroso del decreto di vincolo [17]. L'orientamento della giurisprudenza è stato accolto formalmente dal legislatore nel Codice, prevedendo anche per le ipotesi del riconoscimento dell'interesse culturale di beni appartenenti al patrimonio immobiliare pubblico, la c.d. declaratoria di interesse a seguito del procedimento di verifica descritto nell'art. 12.

Tornando all'argomento principale del paragrafo, si tratta a questo punto di individuare con sufficiente certezza quali soggetti appartengano alla categoria di quanti sono obbligati al procedimento di verifica dell'interesse culturale.

Come si è detto, in tale novero rientrano necessariamente lo Stato (le sue amministrazioni), le regioni, le province, le città metropolitane, i comuni, gli altri enti pubblici e le persone giuridiche private senza fini di lucro. Tra questi ultimi, secondo la dottrina dominante [18], si devono far rientrare tutti quei soggetti che dotati di personalità giuridica non perseguano un fine di lucro, come ad esempio gli enti ecclesiastici legalmente riconosciuti  [19], le associazioni, le fondazioni e le altre istituzioni private che abbiano acquistato la personalità giuridica mediante un formale riconoscimento [20]. Nella precedente dizione, utilizzata dalla legge 1089/1939, e sostituita con quella di "gli altri enti pubblici e le persone giuridiche private senza fine di lucro" (art. 5 d.lg. 490/1999), si faceva riferimento agli enti ed istituti legalmente riconosciuti. La giurisprudenza prevalente riteneva che questa espressione dovesse essere riferita a tutti gli enti pubblici - anche se svolgenti attività economica - e agli enti o istituti di natura privatistica che avessero ricevuto dallo Stato un formale riconoscimento giuridico, come nel caso delle associazioni e delle fondazioni [21]. Il legislatore del 1999 con la sua opera di adeguamento e coordinamento della normativa vigente, nel T.U. ha trasformato la dizione, facendo riferimento agli enti pubblici e persone giuridiche private senza fine di lucro. In quest'opera di trasformazione non sembra che vi sia stata una mera opera di adeguamento, ma un vero e proprio cambiamento dei soggetti sottoposti all'obbligo della compilazione dell'elenco descrittivo, escludendo dal loro novero tutti quei soggetti caratterizzati nella loro attività dal perseguimento del fine di lucro. Ed, invero, sembra questa essere la miglior interpretazione da adottare in merito all'applicazione del regime pubblicistico o privatistico di tutela dei beni di interesse culturale. Una interpretazione che sembra essere in linea con quanto disposto anche dal Codice, che nella sua formulazione, contenuta nell'art. 10, comma 1 (da coordinare con l'art. 12, comma 1) riproduce lo stesso elenco di soggetti, contenuto nell'art. 5 del d.lg. 490/1999, collegando gli altri enti ed istituti pubblici (diversi da quelli territoriali) alle persone giuridiche private senza fine di lucro, ponendo questo ultimo elemento come scriminante da adottare nell'individuazione dei soggetti sottoposti alla verifica di interesse culturale ex art. 12.

A conferma di quanto si è appena sostenuto si richiama l'attenzione su alcuni punti che assumono rilievo in tal senso.

Il primo è offerto da quella giurisprudenza che prevede la non sottoposizione al regime pubblicistico di tutela per quei beni che appartengono a soggetti che svolgano attività lucro (in buona sostanza, imprenditoriale) come le società commerciali, le imprese private, gli enti e le istituzioni che perseguono scopo di lucro [22].

Il secondo è relativo alla scelta effettuata dal legislatore che, nella formulazione dei soggetti sottoposti al regime "pubblico" di tutela ha preferito un'elencazione dettagliata ad una mera dizione onnicomprensiva che facesse riferimento agli enti pubblici (e non) tout court [23]. In realtà, appare chiaro l'intento di non sottoporre al regime pubblicistico tutti quegli enti che perseguono un fine di lucro. Ciò appare tanto più vero, sottoponendo ad analisi uno dei disegni di legge che sono stati presentati nel corso della XIII legislatura e che hanno riguardato quella particolare circostanza in cui un ente pubblico sia stato privatizzato. In particolare, il disegno di legge (AC 2203) presentato dall'allora ministro per i Beni culturali e ambientali, On. Veltroni, il 7 marzo 1996, avente ad oggetto le norme per la tutela dei beni culturali appartenenti ad enti trasformati in società, prevedeva il passaggio immediato al regime privatistico per i beni culturali di quei soggetti pubblici privatizzati  [24]. Seppur non promulgato, il provvedimento ha rilevanza perché evidenzia il necessario collegamento esistente tra la sottoposizione al regime privatistico e la natura giuridica di un ente pubblico privatizzato o che dall'origine persegua un fine di lucro [25].

Un'ulteriore considerazione si ritiene di poter fare in relazione al comma 9 dell'art. 12 del Codice, il quale prescrive che le disposizioni relative alla verifica dell'interesse culturale si applicano "anche qualora i soggetti cui esse appartengono mutino in qualunque modo la natura giuridica".

E' evidente che se il legislatore ha inteso prevedere una norma di salvaguardia per situazioni di mutamento della natura giuridica dei soggetti sottoposti alla disciplina di cui all'art. 12, ciò potrà avvenire di norma nel caso in cui un soggetto muti la propria natura da pubblica a privata [26], attraverso ad esempio lo strumento della privatizzazione. A fortiori, se il mutamento del fine perseguito dall'ente pubblico lo trasforma nella sua natura giuridica in modo tale da prevedere espressamente una norma che in ogni caso lo mantenga sottoposto al regime pubblicistico di tutela, la situazione ordinaria per quei soggetti pubblici che perseguono un fine di lucro dalla loro costituzione sarà necessariamente propria del regime privatistico di tutela dei beni culturali.

Tanto si ritiene necessario dover osservare in merito alla sottoposizione al regime privatistico di tutela dei beni culturali per tutti quei soggetti che, istituzionalmente, perseguono scopi di lucro o esercitano un'attività imprenditoriale, qualunque sia la natura giuridica del soggetto, pubblica o privata.

7. Casi particolari

Il discorso può reputarsi esaurito, salvo considerare qualche caso di specie che chiarisce e precisa l'estensione dell'ambito soggettivo del procedimento di verifica ex art. 12 del Codice. Da questo ambito è certamente escluso il patrimonio immobiliare di proprietà della Santa Sede. Il recente parere dell'ufficio legislativo del Mbac (6 novembre 2006) conferma questo orientamento sulla base di una serie di considerazioni che fanno concludere per la sottoposizione al regime privatistico di tutela dei beni culturali per questo soggetto [27]. In particolare, la Santa Sede risulta essere soggetto di diritto internazionale sulla base delle disposizioni contenute nel Concordato Lateranense e dell'annesso Trattato [28]. La conferma della personalità giuridica della Santa Sede, operata dall'art. 29, secondo comma, lett. a) del Concordato, non fa altro che ribadire quella dimensione internazionale del soggetto, tale da rendere applicabile ai suoi beni, come a quelli di ogni altro Stato estero, il regime di tutela proprio per i beni di proprietà privata presenti sul territorio nazionale [29]. In realtà, la peculiare soggettività della Santa Sede non permette il suo inquadramento e/o accostamento né come soggetto pubblico latu sensu (simile a regioni, province, città metropolitane, comuni o ogni altro ente o istituto pubblico) né come persona giuridica privata senza scopo di lucro né tanto meno agli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti di cui alla legge 20 maggio 1985, n. 222.

Al contrario, sono stati considerati dal Mbac come soggetti sottoposti al procedimento di verifica dell'interesse culturale alcuni enti ed istituti che sono stati individuati come assimilabili ai soggetti pubblici di cui all'art. 10, comma 1 del Codice. In rapida successione, si ricordano le Aziende sanitarie locali, i Fondi pensione per il personale delle banche, le Opere pie, la Confessioni religiose diverse dalla cattolica, come ad esempio, la Tavola valdese, le Università degli Studi, le Fondazioni Onlus, i Benefici, le Congregazioni, le Società di mutuo soccorso. A ben vedere si tratta di tutti soggetti che non hanno tra i loro fini istituzionali quelli di "perseguire il lucro", in ciò trovando ancora una volta conferma il quadro interpretativo che si è tentato di offrire nelle righe che precedono.

 

 

Note

[1] In questo quadro si deve inserire la già intervenuta modifica della struttura del ministero per i Beni e le Attività Culturali (Mbac) per mezzo del decreto legge 3 ottobre 2006, n. 262, conv. in legge 24 novembre 2006, n. 286. Infatti, il comma 96 dell'art 2 della legge di conversione disegna nuovamente l'organizzazione del ministero tornando al sistema del segretariato, abbandonato con la riforma del 2004 a vantaggio della struttura dipartimentale.

[2] Si permetta di rinviare a A. Ferretti, La verifica dell'interesse culturale prevista nel Codice dei beni culturali e paesaggistici, in Diritto e Formazione, 4, 6, 2004, 897 ss. Inoltre, cfr., ex multis, G. Sciullo, La verifica dell'interesse culturale (art. 12), in Aedon, 1/2004; M.S. Palieri, in Patrimonio SOS - La grande svendita del tesoro degli italiani, Roma, 2004; M. Torsello, Silenzio-assenso? No problem, in Il Sole 24 ore, 8 febbraio 2004, 37.

[3]"Le regioni, le province, i comuni, gli altri enti pubblici e le persone giuridiche private senza fine di lucro presentano al ministero l'elenco descrittivo delle cose indicate all'articolo 2, comma 1, lettera a) di loro spettanza." (art. 5, comma 1).

[4] Sul punto si confronti A. Alterio, La verifica dell'interesse culturale, in M.A. Cabiddu, N. Grasso, Diritto dei beni culturali e del paesaggio, Torino, 2004, 76 ss.

[5] L'art. 54, comma 2, lett. a) stabilisce che sono inalienabili le cose immobili e mobili appartenenti ai soggetti indicati all'art. 10, comma 1, che siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre cinquanta anni, fino alla conclusione del procedimento di verifica previsto dall'art. 12.

[6] Decreto ministeriale 6 febbraio 2004 ministero per i Beni e le Attività culturali. Verifica dell'interesse culturale dei beni immobiliari di utilità pubblica (GU n. 52 del 3 marzo 2004).

[7] Art. 12, comma 1: "Le cose immobili e mobili indicate all'art. 10, comma 1, che siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre cinquanta anni, sono sottoposte alle disposizioni della presente Parte fino a quando non sia stata effettuata la verifica di cui al comma 2".

Art. 10, comma 1: "Sono beni culturali le cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico".

[8] Ministero per i Beni e le Attività culturali. Modifiche ed integrazioni al d.m. 6 febbraio 2004, concernente la verifica dell'interesse culturale dei beni immobili di utilità pubblica (GU n. 61 del 15 marzo 2005).

[9] Ministero per i Beni e le Attività culturali. Criteri e modalità per la verifica dell'interesse culturale dei beni immobili di proprietà delle persone giuridiche private senza fine di lucro, ai sensi dell'articolo 12 del d.lg. 42/ 2004 (GU n. 28 del febbraio 2005).

[10] L'accordo aveva una durata "sperimentale" di un anno. Fino ad oggi non è intervenuto nessun espresso prolungamento temporale; dal che si deduce che l'Accordo 8 marzo 2005 - e tutti i singoli accordi regionali tra autorità statali e religiose - sia stato tacitamente rinnovato, conservando la sua efficacia, pur in assenza di un esplicito atto di volontà delle parti in questa direzione.

[11] Particolarmente, si vedano gli artt. 4 e 58.

[12] Il provvedimento diverrà efficace una volta portato a conoscenza del proprietario/possessore/detentore attraverso una notifica.

[13] In realtà, il sistema degli elenchi non ha mai avuto un'applicazione efficace tanto da essere abbandonato come sistema dal Codice.

[14] Infatti, il decreto del presidente della repubblica 7 settembre 2000, n. 283 trova il proprio ambito di applicazione nei confronti di Stato, regioni, province e comuni e non già degli altri soggetti "pubblici", quali ad esempio le persone giuridiche private senza fini di lucro.

[15] Cfr. art. 4 e art. 23 del d.p.r. 283/2000.

[16] Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 2 novembre 1998, n. 1479. v. anche, per conferma, Cons. Stato, Sez. VI, 8 febbraio 2000, n. 678.

[17] Ancora Cons. Stato, Sez. VI, 8 febbraio, 2000, n. 678.

[18] Cfr. fra gli altri, T. Alibrandi e P. Ferri, I beni culturali e ambientali, Milano, 2001, 253 e ss.

[19] Un implicito riconoscimento della natura di persona giuridica senza fine di lucro degli enti religiosi si ha nelle premesse dell'Accordo 8 marzo 2005 tra Mbac e Cei, dove si fa espresso richiamo per la disciplina da applicare al decreto ministeriale 25 gennaio 2005, che regola Criteri e modalità per la verifica dell'interesse culturale dei beni immobili appartenenti a persone giuridiche private senza fine di lucro.

[20] Cfr. T. Alibrandi e P. Ferri, Op. ult. cit., ivi.

[21] Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 28 giugno 1995, n. 640.

[22] Cfr. Cons. Stato, sentenza n. 176 del 1998.

[23] Come è stato osservato, il legislatore del 1999 nella prima stesura del decreto delegato (il futuro d.lg. 490/1999) aveva individuato l'obbligo di compilazione degli elenchi su enti pubblici e privati senza alcuna ulteriore specificazione, lasciando in tal modo intendere che potessero"...esservi assoggettate tutte le persone giuridiche private e quindi anche le società commerciali." Cfr. sul punto G.Ciaglia, Nuovi (ma forse già superati) orientamenti giurisprudenziali in materia di vincolo sui beni culturali di proprietà pubblica, in Beni e Attività culturali, anno II, n. 1-2001, 30.

[24] E' interessante a tale proposito il passaggio adottato nella relazione al ddl esaminato "...Con il presente disegno di legge si é operato in due direzioni: da un lato, prevedere una normativa che disciplini in forma stabile i casi di trasformazione degli enti indicati nell'articolo 4 in società, dall'altro lato, varare una serie di disposizioni di natura transitoria per regolare i casi di privatizzazione già verificatisi.

Per quel che riguarda il primo aspetto, tra le due scelte possibili - estensione alle società nascenti da privatizzazione del regime previsto per gli "enti ed istituti" di cui all'articolo 4 della legge ovvero passaggio immediato al regime dei privati associato a misure che consentissero un'effettiva possibilità di tutela dei beni - si é senz'altro optato per la seconda, apparsa piĻ coerente con la scelta stessa di "privatizzare" l'ente pubblico...".

[25] Esercitando un'attività imprenditoriale. Le conclusioni a cui si giunge in questa parte di lavoro è fortemente contrastata, specialmente sulla base di alcune sentenze della giurisprudenza che hanno "fatto storia", tra cui non si può non menzionare Cons. Stato, Sez. VI, 5 ottobre 1995, n. 1061, dove il giudice amministrativo comprende nell'ambito dei soggetti pubblici assoggettati al regime pubblicistico anche i cc.dd. enti pubblici economici. Sul punto, conformemente, v. R. Tamiozzo, La legislazione dei beni culturali e ambientali, ult. ed., 27 e ss. Vi è da dire che l'orientamento della giurisprudenza si è realizzato sulla base della indicazione di cui all'art. 4 della legge 1089/1939, dove non era ancora menzionato il requisito dello scopo di lucro e quindi non era un elemento valutato ai fini della decisione. Vero è che anche recentemente la giurisprudenza sembra riconfermare gli orientamenti tradizionali, affermando la sottoposizione di tutti gli enti pubblici alla disciplina pubblicistica di tutela. Cfr., ad esempio, Tar Campania, Sez. II, 20 ottobre 1005, n. 197507.

[26] Come nelle ipotesi di privatizzazione di enti pubblici o, come è stato giustamente osservato, anche le ipotesi di trasformazione di enti privati non profit in soggetti con finalità di lucro. Cfr. G. Sciullo, Art. 12, in M. Cammelli, Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, Bologna, 2004, 118.

[27] La nota dell'Ufficio legislativo è scaturita da un quesito posto in tal senso dalla direzione regionale per i Beni culturali e Paesaggistici del Lazio nell'estate del 2006, sulla base di un lucido parere pro veritate elaborato dal prof. Daniele Mantucci.

[28] La ratifica è avvenuta nell'ordinamento interno con legge 27 maggio 1929, n. 810. Si legge, tra l'altro, nel documento che alla Santa Sede è riconosciuta la sovranità (...) nel campo internazionale, come attributo inerente alla sua natura, in conformità alla sua tradizione ed alle esigenze della sua missione nel mondo.

[29] In tal senso ancora il parere dell'Ufficio legislativo Mbac.



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