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I beni culturali di interesse religioso:
alcune considerazioni di sintesi [*]

di Paola Piras



Le riflessioni di seguito espresse trovano occasione in un convegno sui beni culturali e, in particolare, sulla musica tra interpretazione e diritto.

Il tema è stato oggetto di un'analisi ad ampio spettro nelle sue molteplici sfaccettature nell'ambito di un percorso argomentativo che presuppone la consapevole connotazione terminologica della "cultura" quale espressione ampia, non intesa in senso restrittivo come concidente con quella "beni culturali-cose" ma, al contrario, comprensiva anche di tutto il più ampio contesto al quale si può riportare la nozione di patrimonio culturale al quale, afferiscono oltre ai "beni culturali-cose" tutte le "attività culturali" [1] e, tra esse, la musica [2] che, dopo tutto, altro non è che "una branca della cultura" [3].

In questo contesto, appunto, ha trovato spazio anche il tema dei beni culturali di interesse religioso [4] che, per la particolarità della sua natura, si presta a differenti approcci argomentativi.

La mia analisi devia, in qualche modo, rispetto all'impianto che tradizionalmente viene seguito nell'ambito dei percorsi volti a ricostruire problemi e prospettive sul tema.

Intendo, infatti, proporre alcune suggestioni, poco al di là delle riflessioni interiori, che, oltre ad un intento meramente definitorio, volgano principalmente a sottolineare il differente approccio che emerge, oggi, nei confronti di questi beni rispetto al passato, e che risente, a mio avviso, delle attuali articolazioni di quella che, mutuando la definizione di Benhamon [5], potremmo definire economia della cultura.

Suggestioni che mirano a disegnare le ripercussioni indotte verso i beni di interesse religioso dal nuovo rapporto tra Stato e mercato nel settore culturale [6].

Ora, premesso che, come è stato già evidenziato in dottrina [7], i "beni culturali di interesse religioso" nel nostro ordinamento non concretano una categoria a sé, disciplinata da una normativa che abbia una propria autonomia, tale da consentirne una reductio ad unitatem, è necessario innanzitutto disegnarne la portata ai sensi dell'art. 9 del Codice dei beni culturali e del paesaggio [8] grazie ad una lettura combinata con l'art. 10, comma 3, lett. d), dello stesso Codice; nonché degli articoli 8 [9] e 9 della Costituzione [10].

La sedes materiae e la valutazione della norma in un contesto più ampio consentono, infatti, di cogliere la volontà di bilanciare diversi principi garantendo la multiculturalità e l'autonomia complessiva della cultura da un lato, la bilateralità della disciplina dei rapporti tra Stato e Chiesa cattolica, nonché tra Stato e altre confessioni religiose nelle materie che coinvolgono rapporti reciproci, dall'altro [11].

L'espressione utilizzata dal Codice dei beni culturali, infatti, è riferita in modo generalizzato a tutte le confessioni religiose, con una formula già contenuta nell'art. 19 del Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali approvato con il decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 che, a sua volta, riprendeva quella coniata dall'art. 12, comma 2, n. 1, dell'Accordo, con protocollo addizionale, di modificazione del Concordato lateranense firmato il 18 febbraio 1984, ratificato e reso esecutivo con la legge 25 marzo 1985, n. 121 [12].

Il legislatore, al primo comma dell'art. 9, si limita ad affermare che per i beni culturali di interesse religioso "il ministero e, per quanto di competenza, le regioni provvedono, relativamente alle esigenze del culto, d'accordo con le rispettive autorità".

Al secondo comma [13], poi, prevede, per la confessione cattolica, l'osservanza delle disposizioni contenute nelle intese concluse ai sensi dell'art. 12, n. 1, dell'Accordo del 1984, e, per le confessioni religiose da questa diverse, l'osservanza delle leggi emanate sulla base delle intese sottoscritte a norma dell'art. 8, comma 3, della Costituzione.

Intese dove si prevedono generici obblighi di collaborazione tra la repubblica italiana e le singole confessioni religiose in ordine alla tutela e alla valorizzazione degli stessi beni [14].

Il percorso a fini definitori nell'ambito del quale ci stiamo muovendo richiede una riflessione congiunta sulla portata terminologica "beni di interesse religioso" ed "esigenze di culto" [15].

Lo snodo importante all'interno dell'articolo 9 è, dunque, costituito dall'interpretazione della locuzione "esigenze di culto", in particolare se comparata con le "esigenze di carattere religioso", a suo tempo menzionate dall'art. 12, comma 2, n. 1, dell'Accordo del 1984; nonché dalla valutazione delle ripercussioni che la tutela di tali esigenze potrà avere ai fini della valorizzazione e della tutela dei beni dei quali ci stiamo occupando.

Per ciò che riguarda il primo profilo d'indagine, sia la lettura degli artt. 2 e 5 del decreto del Presidente della Repubblica 26 settembre 1996, n. 571, che ha dato attuazione all'art. 12, comma 2, n. 1, dell'Accordo del 1984, che degli artt. 1, 2, 6, del decreto del Presidente della Repubblica 4 febbraio 2005, n. 78, di esecuzione dell'intesa tra il ministro per i Beni e le Attività culturali ed il presidente della Conferenza episcopale italiana, firmata il 26 gennaio 2005, che abroga e sostituisce quella sottoscritta il 13 settembre 1996, poc'anzi richiamata, sembrano supportare l'idea di un insieme composito di beni culturali di interesse religioso, più ampio rispetto a quelli destinati all'esercizio del culto, conformemente, peraltro, alla stessa formulazione letterale dell'espressione "interesse religioso" figurante nell'Accordo e utilizzata dall'art. 9 del Codice.

Ciò confermerebbe la validità della prospettazione dell'"interesse religioso" come nozione più ampia rispetto all'"attività di religione o di culto", e, dunque, la non necessaria interdipendenza tra il primo e la seconda.

Ma, al contempo, evidenzia che, essendo i beni destinati al culto una species rispetto al genus "beni culturali di interesse religioso" [16], è indispensabile una "leale collaborazione" tra amministrazione e confessioni religiose in funzione, da un lato, del contemperamento delle esigenze di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, quale espressione della comunità [17], dall'altro, delle esigenze di rispetto dell'identità delle confessioni religiose espressamente tutelata dalla nostra Costituzione [18].

Per questa ragione l'Accordo del 1984, le sue intese attuative, nonché le intese con le confessioni diverse da quella cattolica, hanno disciplinato sia la tutela che la valorizzazione e il godimento dei beni culturali di interesse religioso e concordato con le rispettive autorità le modalità di soddisfacimento delle esigenze di culto [19].

Poste queste essenziali premesse interpretative sull'articolo 9 e verificata l'esigenza di conciliare tutela, valorizzazione e culto, possiamo transitare sul secondo profilo di riflessione: l'economia della cultura applicata ai beni di interesse religioso [20].

Non possiamo, in via preliminare, non considerare la crescente attenzione nei confronti della tematica dei beni culturali emersa a partire dagli anni '80 e, parallelamente a ciò, l'altrettanto crescente ruolo dell'intervento pubblico inteso nella sua valenza di azione di politica culturale [21].

In secondo luogo, come conseguenza naturale della premessa, dobbiamo aver presente l'emergere dell'esigenza di individuare nuove vie per la valorizzazione e la tutela che consentissero di contenere il peso finanziario dell'intervento pubblico [22].

Ciò ha portato al superamento dell'idea del bene culturale mero costo sociale, patrimonio pubblico improduttivo, a favore di un'idea economica produttiva [23].

Idea applicata anche ai beni di interesse religioso e agli itinerari religiosi-turistico culturali [24], da Peacock definiti uno degli strumenti più interessanti dell'economia della cultura [25].

Si pensi, ad esempio, all'esperienza dei percorsi giubilari [26] o dei pellegrinaggi nei santuari [27] e ai problemi di sostenibilità delle presenze nei luoghi di culto ad essi connessi.

Ora, è noto che l'attenzione alle logiche della sostenibilità nella gestione di una risorsa trova il suo presupposto nella riflessione che essa sarà tale solo se, una volta conosciuta la sua capacità di riproduzione, non si eccede nel suo sfruttamento oltre una determinata soglia [28].

Questo principio, applicato agli itinerari religiosi consente di riscontrare come, spesso, la pressione esercitata sui luoghi visitati sia tale da comprometterne la sopravvivenza o la conservazione con ripercussioni significative anche per la conservazione del bene.

Ecco, dunque, le ragioni dell'esigenza di applicare il principio della sostenibilità anche a questo tipo di itinerari, dove il nesso inscindibile tra l'interesse religioso, la tutela del patrimonio culturale e l'attività turistica è evidente: la mancanza di uno fa venir meno gli altri.

Il patrimonio culturale, infatti, rappresenta una delle principali risorse a garanzia dell'attività turistica con la conseguente necessità di salvaguardare l'interesse pubblico alla conservazione e valorizzazione di quel patrimonio e conciliare l'aspetto economico con quello più prettamente culturale [29] e religioso.

Il che equivale ad orientare il bene culturale [30], anche di interesse religioso, verso il mercato, ma nel rispetto di logiche compatibili con la conservazione programmata di quel patrimonio e, dunque, per ciò stesso, sostenibili.

In applicazione del principio secondo cui la salvaguardia del patrimonio costituisce una premessa irrinunciabile per la sua valorizzazione, grazie all'applicazione dell'attuale normativa che volge a favorire l'interscambio tra cultura ed economia senza che una visione dinamica dei beni culturali possa, in alcun modo, compromettere il loro valore culturale, la loro funzione sociale [31] e l'interesse religioso.



Note

[*] Relazione al Convegno La musica tra cultura e diritto organizzato dall'Università di Cagliari a San Pietro di Sorres il 3 giugno 2005.

[1] In questo senso A. Catelani - S. Cattaneo, I beni e le attività culturali, Padova, 2003, 3 ss.

[2] Nonostante tale profilo funga da mero corollario rispetto alle nostre riflessioni, al fine di cogliere la complessità della materia, paiono particolarmente interessanti, sul punto, le osservazioni di A. Gualdani, I beni musicali: una definizione, in Il Saggiatore, n. 1, 2005, dove si mette in luce il fatto che nel nostro ordinamento non esiste un'autonoma nozione di bene musicale dal momento che "... il nuovo Codice dei beni culturali e del paesaggio non ha ritenuto di dover sintetizzare in una categoria autonoma le cose appartenenti al patrimonio della musica... confermando l'impostazione del Testo Unico dei beni culturali... che considera gli spartiti musicali come species del genus "beni librari"... e riconduce i primi tra le cose d'interesse bibliografico" coerentemente all'orientamento che conferma " l'equazione spartiti = beni musicali".

[3] Così T. Puu, Progresso e perfezione nelle arti e nelle scienze, in Stato e mercato nel settore culturale, Problemi di amministrazione pubblica, Quaderno n. 19, 1993, 80. Ancora attuale J.M. Keynes, Art and the State, in The listeners, 26 agosto 1936, ripubblicato in Moggridge (a cura di), The collected writings of J.M. Keynes. Social, political and Literary writings, vol. XXVIII, McMillan Ltd., 341 ss. "L'architettura è la più pubblica tra le arti, la meno privata nelle sue manifestazioni e la più adatta a dare forma e corpo all'orgoglio civico e al senso di unità sociale. La musica viene subito dopo...".

[4] Sull'interesse religioso si rinvia, a C. Magni, Teoria del diritto ecclesiastico civile. La funzione normativa, Padova, 1948, 33, che lo connota come presupposto del "fatto possibile" che diverrà oggetto di studio del diritto ecclesiastico; S. Lariccia, voce Interesse religioso, in Enc. giur., Roma, 1989 evidenzia l'importanza del fatto che "lo studio della rilevanza dell'interesse religioso nell'ordinamento consente di impostare in maniera unitaria l'indagine relativa alla nozione di "interesse religioso", tenendo presenti, ma non sottovalutando, le differenze di regime tra Chiesa cattolica e culti diversi da quello cattolico".

[5] Si legga F. Benhamon, L'economia della cultura, Bologna, 2000, passim.

[6] Su alcuni profili attinenti il cosiddetto "mercato della cultura", si veda N. Rocco di Torrepadula, Le società per la valorizzazione dei beni culturali, Relazione svolta al Convegno su Pubblico e privato per la gestione e valorizzazione dei beni culturali, Lecce, 30 novembre 2001, in Aedon, 3/2001.

[7] Si legga M. Renna, I beni culturali di interesse religioso nel nuovo ordinamento autonomista. Introduzione, in Codice dei beni culturali e di interesse religioso, a cura di M. Renna, V.M. Sessa, M. Vismara Missiroli, che, a pag. 7, par. 2, definisce i beni culturali di interesse religioso "non materia" (così anche M. Renna, I beni culturali di interesse religioso nel nuovo ordinamento autonomista, in Aedon, 2/2003).

[8] Si rinvia a M. Cammelli (a cura di), Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, Bologna, 2004.

[9] F. Finocchiaro, Commento all'art. 8, in Commentario della Costituzione, Artt. 1-12, Principii fondamentali, a cura di G. Branca, Bologna-Roma, 1975.

[10] Si legga F. Merusi, Commento all'art. 9, in Commentario della Costituzione, Artt.1-12, Principii fondamentali, cit., 434 ss.

[11] P.A. D'Avack, voce Beni culturali: II) Diritto ecclesiastico, in Enc. giur., Roma, 1989; F. Petroncelli Hubler, I beni culturali religiosi. Quali prospettive di tutela, Napoli, 2000, 113 ss.

[12] L'Accordo di modificazione del Concordato lateranense con il relativo Protocollo addizionale è stato stipulato il 18 febbraio 1984 e ad esso è stata data esecuzione con la l. 121/1985. Il 15 novembre dello stesso anno è stato stipulato un Protocollo ulteriore, relativo alla disciplina degli enti e dei beni ecclesiastici e del sistema di retribuzione del clero al quale è stata data esecuzione con le leggi 20 maggio 1985, n. 206 e 20 maggio 1985, n. 222. Si veda C. Cardia, La riforma del Concordato, Torino, 1980, passim; Id., Stato e confessioni religiose: il regime pattizio, Bologna, 1992, passim.

[13] Il testo ripropone l'art. 8 della legge 1° giugno 1939, n. 1089: "Quando si tratti di cose appartenenti ad enti ecclesiastici, il ministro per l'Educazione nazionale, nell'esercizio dei suoi poteri, procede, per quanto riguarda le esigenze del culto, d'accordo con l'autorità ecclesiastica".

[14] Su tutela e valorizzazione si leggano: N. Aicardi, Recenti sviluppi sulla distinzione tra "tutela" e "valorizzazione" dei beni culturali e sul ruolo del ministero per i Beni e le Attività culturali in materia di valorizzazione del patrimonio culturale di appartenenza statale, in Aedon, 1/2003; L. Casini, La valorizzazione dei beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 2001, 651 ss.; S. Cassese, I beni culturali: dalla tutela alla valorizzazione, in Giorn. dir. amm., 1998, 673 ss.; G. Pastori, Tutela e valorizzazione dei beni culturali in Italia: situazione in atto e tendenze, in Aedon, 3/2004; L. Zanetti, La valorizzazione dei beni culturali di appartenenza pubblica (art. 112), in Aedon, 1/2004.

[15] Si rinvia a A. Vitale, voce Beni culturali nel diritto ecclesiastico, in Dig. disc. pubbl., 1987, 228; P.A. D'Avack, loc. ult. cit.

[16] M. Renna, I beni culturali di interesse religioso nel nuovo ordinamento autonomista, cit.

[17] In particolare, si richiama quanto previsto all'art. 1, commi 3, 4, 5 e 6; all'art. 5, comma 1, nonché all'art. 7 del d.p.r. 78/2005.

[18] F. Finocchiaro, Commento all'art. 8, cit.

[19] Per ciò che, in particolare, riguarda gli accordi tra Santa Sede e Italia, si veda l'art. 2, comma 7, del

d.p.r. 78/2005.

[20] Per un approfondimento di alcuni profili specifici si rinvia a Fra Giacomo Grasso, Chiesa cattolica in Italia e beni culturali degli enti ecclesiastici: alcuni problemi, in Aedon, 3/2004.

[21] C. Barbati, Pubblico e privato per i beni culturali, ovvero delle "difficili sussidiarietà", in Aedon, 3/2001; V. Cerulli Irelli, Beni culturali, diritti collettivi e proprietà pubblica, in Scritti in onore di M.S. Giannini, vol. I, Milano, 1988, 135 ss.; G. Palma - G. Clemente di San Luca, L'intervento dello Stato nel settore artistico, Torino, 1986.

[22] G. Fanti, Le sponsorizzazioni culturali: un male necessario, in L'Ippogrifo, 1989, n. 2, 227 ss.; P. Leon, Pubblico - privato nelle attività culturali, in Economia della cultura, 2002, n. 1, 81 ss.; S. Foà, La gestione dei beni culturali, Torino, 2001, passim.

[23] P. Piras, La "borsa dei beni culturali e del turismo sostenibile": il bene culturale quale risorsa, in Aedon, 3/2002.

[24] S. Amorosino, Gli itinerari turistico - culturali nell'esperienza amministrativa italiana, in Aedon, 3/2000.

[25] A. Peacock, Economia e politiche della cultura, in Economia della cultura, 1997, n. 1.

[26] In proposito, L. Sciaraffia, Il giubileo, Bologna, 1999.

[27] G. Feliciani, La disciplina canonica dei santuari, in Aedon, 2/2003 e De Fiores, L'emergere dei santuari nella coscienza della chiesa: significato e responsabilità, in La Madonna, 1984, n. 32, 26.

[28] A. Lanza, Lo sviluppo sostenibile, Bologna, 11. Particolarmente interessanti, a mio avviso, per i profili specifici che a noi interessano, le riflessioni di M. Hutter, L'arte come risorsa esauribile: aspetti teorici ed implicazioni politiche, in Quad. amm. pubbl., 1993, n. 19.

[29] Sul rapporto tra economia e cultura, M. Trimarchi, Sul futuro dell'economia della cultura, in Economia della cultura, 1997, n. 1.

[30] La definizione di bene culturale nella sua accezione più recente è stata oggetto di un attento studio da parte della dottrina e ha stentato ad essere recepita dalla normativa nazionale. Sul punto si leggano: T. Alibrandi, Beni culturali: I) Beni culturali ed ambientali, in Enc. giur., Roma, 1988; T. Alibrandi - P. Ferri, I beni culturali ed ambientali, Milano, 1978, passim; Alpa - Speciale, voce Beni culturali e ambientali, in Dig. disc. priv., Torino, 1988, 95; N. Greco, Stato di cultura e gestione dei beni culturali, Bologna, 1981, passim. Non posso fare a meno di richiamare un'autorevole voce dissenziente sull'idea di bene culturale: G.C. Argan, Beni culturali: ma di chi?, in Insegnare, 1986, n. 7-8, 7 ss., sosteneva, infatti, l'inesistenza del concetto di bene culturale sulla base del fatto che "la cultura non è proprietà di persone, di classi, di singoli paesi; è di tutti. Bene culturale significa dunque bene pubblico. Il termine "bene" ha un senso patrimoniale: i beni culturali sono tali perché parte di un patrimonio. Il patrimonio culturale è mondiale, dunque ciascun paese risponde del proprio a tutto il mondo civile".

[31] Sul punto, si legga G. Rolla, Beni culturali e funzione sociale, in Scritti in onore di M.S. Giannini, vol. II, cit., 568 ss., nonché, per un approccio diverso, mirato alle implicazioni più strettamente economiche, A. Peacock, Economia del benessere e sussidi pubblici all'arte, in Quad. amm. pubbl., 1993, n. 19, 261 ss., in part. 271, dove, a conferma della funzione sociale dei beni culturali, sottolinea con efficacia l'importanza del fatto che dall'arte e, dunque, dai beni culturali, derivano importanti economie esterne che si diffondono a vantaggio di sezioni ampie della comunità.



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