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Forme di gestione (art. 115)

di Sergio Foà



La gestione viene intesa come attività servente alla valorizzazione, chiarendo alcuni dubbi interpretativi sollevati dalle definizioni del d.lg. 31 marzo 1998, n. 112 in relazione all'assetto delle competenze amministrative [1]. In particolare la gestione dei beni è intesa come gestione delle attività di valorizzazione ad iniziativa pubblica.

Al riguardo occorre coordinare le disposizioni in esame con quelle dedicate alla gestione dei servizi pubblici, che sono più puntuali con riferimento ai servizi di titolarità degli enti locali e proprio con riferimento ad essi richiedono uno sforzo di armonizzazione.

In primo luogo devono essere esaminati i principi dettati dalla disposizione in esame, tra i quali l'alternativa tra forma diretta e forma indiretta di gestione. La gestione diretta avviene mediante strutture organizzative interne alle amministrazioni; la gestione indiretta può avvenire o mediante affidamento a soggetti costituiti o partecipati in misura prevalente dall'amministrazione cui i beni pertengono (conferimento c.d. in house) o mediante concessione a terzi con procedure ad evidenza pubblica. La scelta tra tali modelli richiede la previa valutazione comparativa degli obiettivi di valorizzazione che si intendono conseguire e dei relativi mezzi, metodi e tempi, in base ai principi di economicità, efficienza ed efficacia (sistema inglese del Best Value).

In merito a tali principi, deve essere rilevata una prima differenza applicativa: mentre infatti stato e regioni dispongono di maggiore libertà nella scelta della forma di gestione (quarto comma), per gli altri enti pubblici territoriali è prevista come ipotesi "ordinaria" la gestione mediante affidamento diretto a terzi, salvo che le modeste dimensioni o le caratteristiche dell'attività di valorizzazione rendano conveniente e opportuna la gestione in forma diretta, secondo l'attuale modello della gestione "in economia" (sesto comma).

Per gli enti locali occorre allora coordinare la previsione in esame con le disposizioni del d.lg. 18 agosto 2000, n. 267, Testo unico sull'ordinamento degli enti locali, dedicate ai servizi pubblici: artt. 113 e 113-bis, come modificati dalla legge 24 novembre 2003, n. 326. Nell'epigrafe dell'art. 113 d.lg. 267/2000 le parole "di rilevanza industriale" sono state sostituite con la locuzione "di rilevanza economica", sicché attività prima escluse dal più ristretto ambito di applicazione della disposizione potrebbero oggi essere interessate dalle forme di gestione da essa previste, quando assumano rilevanza "economica". In via complementare, il nuovo art. 113-bis d.lg. 267/2000 è ora rivolto ai servizi "privi di rilevanza economica" (e non più privi di "rilevanza industriale").

In particolare i servizi culturali sono ricondotti alla categoria dei servizi "privi di rilevanza economica" (art. 113-bis, terzo comma, d.lg. 267/2000). Occorre tuttavia rilevare che se la mancanza del carattere industriale è evidente, non può essere escluso a priori che il servizio culturale possa assumere anche connotazioni di "rilevanza economica", così soggiacendo alle forme di gestione di cui all'art. 113 d.lg. 267/2000.

Il primo problema attiene dunque alla valutazione del carattere "economico" dell'attività di riferimento: la differenziazione tra servizi economici e servizi sociali attiene alle modalità ed alle condizioni della relativa organizzazione da parte dell'amministrazione, sulla scorta delle previsioni, anche alternative, della legge [2]. Se dunque a livello generale si deve rimettere alla scelta discrezionale dell'amministrazione, sulla base delle indicazioni legislative ed in base al potere di auto-organizzazione, l'individuazione del carattere sociale o economico del servizio da erogare, bisogna chiarire che la medesima scelta incontra i limiti tipici dell'esercizio del potere discrezionale. Così per gestire un servizio caratterizzato da prestazioni anti-economiche (c.d. servizio di "mera erogazione") non si può ricorrere allo strumento societario di diritto comune; in via speculare occorre limitare l'utilizzazione delle forme previste per la gestione dei servizi sociali alle sole attività effettivamente rivolte a "promuovere lo sviluppo economico e civile della società" (art. 112 d.lg. 267/2000).

Con specifico riferimento ai servizi culturali, l'art. 113-bis, terzo comma, d.lg. 267/2000, prevede che "Gli enti locali possono procedere all'affidamento diretto dei servizi culturali e del tempo libero anche ad associazioni e fondazioni da loro costituite o partecipate". La disposizione enuclea tale forma di gestione esclusivamente per i servizi culturali, aggiungendola al catalogo delle altre forme tipiche. Ne deriva un quadro nel quale la scelta tra le forme di gestione è prevalentemente orientata in base ai criteri di affidamento: nel caso dell'istituzione si tratta di una articolazione interna dell'ente locale; nel caso delle società, delle aziende speciali e delle associazioni e fondazioni partecipate, si tratta di un affidamento senza gara; nel caso di concessione a terzi (oggi non più ammessa) era prevista la procedura ad evidenza pubblica.

Quindi in base alle previsioni del d.lg. 267/2000 il principio di tipicità risulta temperato e l'elenco delle forme di gestione conserva significato prevalentemente ai fini del criterio dell'affidamento, per individuare i casi in cui esso può essere "diretto" e i casi in cui deve invece avvenire in base a procedure "ad evidenza pubblica" [3].

Posto che la gestione "interna" nel settore dei beni culturali, anche mediante istituzione, ha dato risultati poco confortanti, comportando aggravamento in termini di organizzazione e di gestione delle risorse [4], occorre anche in questo caso stabilire quale criterio governa la distinzione tra affidamento in house e concessione a "soggetti terzi". Sul punto i criteri sono gli stessi sia in base alla disposizione del Codice dei beni culturali in esame, sia in base al d.lg. 267/2000, ma hanno un ambito di applicazione diverso: in base ad entrambi i testi normativi l'affidatario deve essere soggetto ad un controllo analogo a quello esercitato dall'amministrazione sui propri servizi e deve realizzare la parte più importante della propria attività con o per la stessa amministrazione controllante.

Il d.lg. 267/2000 utilizza tale formulazione e menziona i due requisiti sia per i servizi "privi di rilevanza economica" di cui all'art. 113-bis, sia con riferimento ai servizi dotati di "rilevanza economica" di cui all'art. 113, ed in entrambe le occasioni si riferisce a società di capitali interamente in mano pubblica. Con riferimento ai servizi privi di rilevanza economica, il doppio requisito previsto per l'affidamento in house (controllo analogo e prevalenza dell'attività a favore dell'amministrazione controllante) non è menzionato con riferimento alle istituzioni ed alle aziende speciali, forse perché con riferimento a tali forme di gestione esso è presupposto.

Questa dunque la principale differenza tra il Codice e il d.lg. 267/2000: il Codice prevede una formulazione più ampia per il conferimento in house, perché lo ammette anche nei confronti della "prevalente" e non solo della "intera" partecipazione pubblica al capitale del soggetto affidatario.

Per risolvere l'antinomia, occorre ricordare che l'art. 113 d.lg. 267/2000, con riferimento ai servizi di rilevanza economica, stabilisce che "Le disposizioni del presente articolo che disciplinano le modalità di gestione ed affidamento (...) concernono la tutela della concorrenza e sono inderogabili ed integrative delle discipline di settore. Restano ferme le altre disposizioni di settore e quelle di attuazione di specifiche normative comunitarie", mentre l'art. 113-bis, per i servizi privi di rilevanza economica, detta la disciplina sopra riportata "ferme restando le disposizioni previste per i singoli settori".

Dunque la risoluzione dell'antinomia è differente in ragione della natura economica o meno dell'attività gestita. Nel primo caso, la previsione del Codice in esame, laddove consente l'affidamento diretto anche in caso di semplice partecipazione maggioritaria dell'amministrazione al capitale dell'affidatario, pare limitare la concorrenza, in tal modo risultando recessiva rispetto alla disciplina di principio dell'art. 113 d.lg. 267/2000. Deve tuttavia rilevarsi che la previsione è in linea con la giurisprudenza comunitaria in materia di individuazione del requisito dell'influenza pubblica dominante di cui alla definizione di organismo di diritto pubblico e di ente in house [5], sicché la disposizione si pone in contrasto con altra disposizione statale, ma rispetta la disciplina comunitaria.

Nel secondo caso (servizi privi di rilevanza economica) non sussistendo comunque il limite inderogabile della tutela della concorrenza, la disposizione del Codice prevarrebbe in quanto disposizione speciale relativa ad uno specifico settore.

L'affidamento diretto dei servizi culturali ad associazioni e fondazioni costituite o partecipate dagli enti locali, in particolare, assume carattere di "principio" vincolante per il legislatore regionale e per le scelte amministrative degli enti locali [6].

Meno complicata è la disciplina per lo stato e le regioni, posto che la gestione indiretta può avvenire o in house o mediante esternalizzazione (contracting out). In entrambi i casi il rapporto tra amministrazione e gestore deve essere regolato con contratto di servizio, nel quale sono specificati i livelli qualitativi di erogazione e di professionalità degli addetti nonché i poteri di indirizzo e controllo spettanti al titolare.

Il requisito del controllo analogo comporta ingerenza dell'amministrazione nell'organizzazione dell'attività dell'affidatario, a differenza di quanto accade nei confronti del concessionario, che vanta autonomia imprenditoriale. L'attività deve essere svolta "per conto e in luogo dell'amministrazione": le prestazioni erogate devono rientrare nell'ambito di competenza dell'amministrazione controllante e debbono essere desumibili dall'oggetto sociale dell'affidatario.

A livello statale rappresentano così ipotesi di affidamento in house le fondazioni costituite o partecipate dal ministero ai sensi del d.m. 27 novembre 2001, n. 491, soggette a vigilanza da parte del ministero fondatore [7].

 



Note

[1] N. Aicardi, Recenti sviluppi sulla distinzione tra "tutela" e "valorizzazione" dei beni culturali e sul ruolo del ministero per i Beni e le Attività culturali in materia di valorizzazione del patrimonio culturale di appartenenza statale, in Aedon, 2003, n. 1.

[2] G. Caia, La disciplina dei servizi pubblici, in Mazzarolli et al. (a cura di), Diritto amministrativo, Bologna, 1998, 947 ss.

[3] G. Sciullo, I servizi culturali degli enti locali nella finanziaria per il 2002, in Aedon, 2002, n. 1.

[4] S. Foà, La gestione dei beni culturali, Torino, 2001.

[5] D. Casalini, L'organismo di diritto pubblico e l'organizzazione in house, Napoli, 2003.

[6] In tal senso sent. Corte cost., 19 dicembre-20 gennaio 2004, n. 26.

[7] S. Foà, Il regolamento sulle fondazioni culturali a partecipazione statale, in Giorn. dir. amm., agosto 2002, 829 ss.

 



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