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Il regolamento del ministero al controllo della Corte dei Conti.
Ovvero: se il buon giorno si vede dal mattino...

di Marco Cammelli



Nessuno ha mai pensato che le riforme amministrative, in generale e nel settore dei beni e delle attività culturali, si fermassero alla adozione di un testo legislativo.

In primo luogo, perché l’attuazione è determinante; poi, perché la stessa disciplina normativa, soprattutto in epoca di accentuata delegificazione, non si risolve nella legge ma privilegia le fonti regolamentari, governative e ministeriali; infine perché, trattandosi di processi di innovazione nel corpo vivo della amministrazione e dei suoi apparati, è inevitabile che le riserve o la vera e propria resistenza dei corpi burocratici si manifesti proprio a questo livello. Con un vantaggio tattico non indifferente: scarsa visibilità esterna, perfetta conoscenza del terreno di scontro (il proprio), possibilità di stringere alleanze con chi condivide, dentro e fuori l’amministrazione, le medesime posizioni.

Da questo punto di vista, la vicenda del regolamento di organizzazione del ministero per i Beni e le Attività culturali, di cui Aedon si è già ampiamente occupato e al quale anche in questo numero fanno esplicito riferimento gli interventi di Giovanna Endrici e Angela Serra, è assai significativa.

Ricordiamo brevemente i fatti. Malgrado le dure critiche mosse allo schema di regolamento di organizzazione del ministero, adottato in attuazione del d.lg. 20 ottobre 1998, n. 368 e del d.lg. 30 luglio 1999, n. 300, il testo è stato approvato dal Consiglio dei ministri (senza modifiche significative) il 4 agosto 2000, consacrando definitivamente un’organizzazione da molti ritenuta pesante, centralizzata e ferrignamente chiusa su se stessa sia sul versante centro/autonomie territoriali sia su quello pubblico/privato e pubblico/altre amministrazioni pubbliche (dagli altri ministeri alle università).

Naturalmente queste critiche muovevano dal merito, vorremmo dire dallo "spirito" del provvedimento, ma erano evidenti (e sono state accuratamente sottolineate) anche le implicazioni istituzionali o strettamente formali di queste scelte: come poterle considerare compatibili con un sistema che non si riduce più solo alla "tutela", che naviga verso il federalismo amministrativo, che affida al governo locale "tutte" le altre più rilevanti scelte e funzioni che incidono sulla materia, che deve aderire a situazioni fortemente diversificate da regione a regione?

L’organizzazione dei ministeri, infatti, prima ancora di essere puntualmente disciplinata dai decreti legislativi e dai conseguenti regolamenti che li riguardano, nasce dalla delega conferita con la l. 15 marzo 1997, n. 59 e dall’impianto che anche nella sua sequenza (sussidiarietà, riordino dell’amministrazione statale, semplificazione) esprime scelte strategiche inequivocabili. Scelte, questo è il punto che si tende a rimuovere, che investono in pieno anche la materia dei beni culturali, esclusa dai "conferimenti" a regioni e enti locali del Capo I, ma interamente compresa (come del resto non poteva che essere) per tutto il resto nel "sistema" e nella sua logica. Sicché, per limitarsi ad un solo esempio, la riserva "statale" della tutela non significa affatto riserva "centrale" ma, appunto, permette ed anzi sollecita una dislocazione decentrata (agli organi periferici) dei relativi compiti.

Il regolamento, in ogni caso, è stato inviato per il controllo preventivo di legittimità alla Corte dei Conti incontrando, verso la fine del mese di ottobre, numerosi e severi rilievi che hanno portato alla restituzione al mittente del regolamento.

Sensibilità alle critiche pubblicamente mosse da più parti? fedeltà, anche contro la volontà dell’Esecutivo, alla filosofia delle riforme amministrative e alle loro disposizioni di principio? tentativo, saggio e prudente, di offrire la possibilità al ministero interessato di rivedere, almeno in parte, la propria scelta?

Nulla di tutto questo. A quanto è dato sapere (il procedimento è, appunto, ancora in corso) la Corte dei Conti, per il tramite dell’ufficio controllo atti del Governo, aggredisce il regolamento dalla parte esattamente opposta. In particolare:

a) si legge il rapporto tra i due decreti (d.lg. 300/1999 e d.lg. 368/1998) nel senso che da un lato le norme del d.lg. 300/1999 sostituiscono per intero il precedente decreto (d.lg. 368/1998), e dall’altro però non sono ancora in vigore (o efficaci) perché non è scattata la condizione del primo governo dopo le elezioni politiche. Risultato: quello che era nel d.lg. 368/1998 ma non è richiamato nel d.lg. 300/1999, è ormai tramontato; quello che è previsto nel d.lg. 300/1999, agli artt. 52 e ss., non è ancora nato. Il che, non solo porta alla "scomparsa" di elementi chiave del ministero rimasti privi di apposita previsione (il Consiglio per i beni culturali e ambientali, ad esempio) ma conduce l’organo di controllo a riconoscere (contraddittoriamente) come parametro esclusivo della legittimità dell’atto regolamentare non il d.lg. 300/1999, ma quello precedente.

A parte i risultati paradossali a cui in tal modo si perviene, la critica è viziata sin dalle sue premesse perché gli artt. 52-54 del d.lg. 300/1999 non dettano affatto una normativa potenzialmente esaustiva della organizzazione del ministero (il che, certo, porterebbe alla abrogazione del d.lg. 368/1998), in quanto si occupano solo delle attribuzioni e dell’aspetto funzionale, non della organizzazione, mentre per quest’ultima l’art. 54 è solo "integrativo" (si veda esplicitamente il comma 3) della disciplina dettata con il d.lg. 368/1998.

Per quanto poi riguarda il parametro cui riferire il regolamento, è vero che l’efficacia delle norme del d.lg. 300/1999 è spostata alla data del decreto di nomina del primo governo costituito a seguito delle prime elezioni politiche (art.55 comma 1), ma questo riguarda appunto l’attuazione della normativa e non la sua entrata in vigore e comunque della questione si occupa direttamente il l’art. 55, comma 3, richiedendo che il riassetto dei ministeri operato nel frattempo sia effettuato "in conformità con la riorganizzazione del governo e secondo i criteri e i principi previsti del presente decreto";

b) i rilievi della Corte dei Conti muovono da una evidente e generale contrarietà alla delegificazione "in quanto tale" e dunque tutto ciò che il regolamento dispone senza precedente previsione legislativa è illegittimo o frutto di norma legislativa anch’essa (costituzionalmente) illegittima. Si va dalle piccole cose, come la previsione di due vice-capi gabinetto o del comando dei carabinieri specializzati per la tutela del patrimonio culturale, alle grandi: nessuna possibilità di delegificazione del "regime dei controlli interni" (perché la delega della l. 59/1997 non lo prevedeva), con la conseguente illegittimità degli artt. 6 e 10 del d.lg. 30 luglio 1999, n. 286 e quella dell’art. 7 (servizio di controllo interno) del regolamento; mancanza di fondamento normativo per le funzioni del "segretario generale" (art. 12); mancanza di fondamento normativo per l’autonomia riconosciuta a soprintendenze regionali, musei, biblioteche, archivi di stato, soprintendenze archivistiche (art. 23 comma 3) e dunque, anche qui, eccesso di delega.

Si potrebbe proseguire a lungo. Ma degne di nota sono in particolare le osservazioni sugli unici due punti sui quali, allontanandosi dalle scelte rigidamente accentrate di cui si è detto, il regolamento, anche a causa delle critiche che si erano avanzate, operava scelte significative: l’autonomia alle soprintendenze regionali e il trasferimento delle biblioteche statali alle università (consentito dal d.lg. 112/1998)

Per la Corte, il regolamento non può dare autonomia a soprintendenze regionali, musei, biblioteche, archivi di stato, soprintendenze archivistiche per due ragioni perfettamente opposte: perché la cosa non è prevista da legge e perché, in ogni caso, la materia è riservata a decreto ministeriale di natura non regolamentare. Quanto al trasferimento di biblioteche all’università, ex. art. 151 del d.lg. 112/1998, si profila l’illegittimità costituzionale di quest’ultimo perché da un lato il passaggio alle università inciderebbe anche sulla tutela, e questa non può che rimanere allo Stato, in base alla l. 59/1997 e dall’altro il trasferimento può riguardare solo enti locali, e le università non lo sono.

Da notare, infine, che la Corte dei Conti si riserva di sollevare dinanzi alla Corte Costituzionale la questione di legittimità delle norme dei decreti delegati che si ritiene abbiano violato l’art. 76 Cost.

Questi i fatti. Tre sintetiche considerazioni finali.

La prima, è che la contestazione all’attuazione delle norme di riforma non passa solo per la loro ostruzionistica (non) messa in opera, ma anche per l’aperta messa in discussione della loro legittimità e, più in generale, di intere dorsali del processo di riforma, come (nel caso di specie) quella della delegificazione.

La seconda, è che il riscontro di legittimità della Corte, sensibilissimo a questioni anche assai minute (come quelle relative al personale) e per altro verso problematicamente esteso a profili di costituzionalità del tutto estranei all’ambito (art. 81 Cost.) per il quale la Corte è abilitata a sollevarli, è invece assai meno attento alla conformità tra regolamento e disciplina legislativa sia su aspetti specifici che su elementi generali.

Un esempio del primo aspetto: nella logica del d.lg. 300/1999, come si giustifica la collocazione del segretario generale all’interno del Titolo II (organizzazione degli uffici "con compiti di gestione") quando il segretario generale, a differenza del capo dipartimento, dovrebbe esserne di massima sprovvisto? Quanto al riscontro più ampio, è sintomatico il mancato apprezzamento del quadro istituzionale in cui si inserisce l’organizzazione ministeriale e che trova negli organi consultivi (al centro) e negli organi decentrati, alla periferia, i suoi punti cruciali.

La terza consiste nella necessità di riconoscere onestamente che, accanto all’evidente miopia dell’organo di controllo, emergono anche problemi obbiettivi di coordinamento nella sequenza dei vari interventi legislativi (a ulteriore riprova di quanto fosse sconsigliabile l’azione separata e anticipata del ministero per i Beni e le Attività culturali rispetto al riordino generale operato con il d.lg. 300/1999) e vere e proprie contraddizioni nella complessa strumentazione di fonti che intervengono sul terreno della organizzazione statale.

Non è una ragione per cancellare tutto, come serenamente suggerisce la Corte dei Conti, ma chiarire (anche con veste legislativa) alcuni di questi nodi certo potrebbe giovare, alla attuazione delle riforme e a tutti.



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