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La Biennale di Venezia resta "nazionale"

di Girolamo Sciullo



Senza storia da un punto di vista strettamente giuridico-normativo può considerarsi la pronuncia 9-15 febbraio 2000, n. 59, con la quale la Corte costituzionale ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale del d.lg. 29 gennaio 1998, n. 19 ("Trasformazione dell'ente pubblico 'La Biennale di Venezia' in persona giuridica privata denominata 'Società di cultura La Biennale di Venezia'") e conseguentemente ha dichiarato spettare allo Stato, e per esso al ministro per i Beni culturali e ambientali, il potere di nomina del presidente dell'ente.

La regione Veneto, con ricorso 19 marzo 1998, aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale degli artt. 4, 8 e 9 del decreto legislativo sotto il profilo che il potere attribuito al ministro di approvare lo statuto della Biennale (art. 4) e di nominarne il presidente (art. 8), come pure la composizione del consiglio di amministrazione (art. 9), violassero il principio costituzionale dell'autonomia regionale garantito dagli artt. 115 e 123 Cost. e dagli artt. 1 e 2 dello statuto della regione.

Con successivo ricorso, del 6 luglio 1998, la stessa regione, sulla base della asserita illegittimità dell'art. 8 del decreto, aveva sollevato conflitto di attribuzione con lo Stato, chiedendo l'annullamento dell'atto di nomina del presidente nel frattempo intervenuto.

"Senza storia" si è detto all'inizio perché, per respingere i ricorsi, giocati fondamentalmente su un dato sfuggente sul piano giuridico, il legame della Biennale con Venezia, ovvero la sua "venezianità", e il nesso fra questa e "la tradizione e quindi l'identità del 'popolo veneto'", la Corte impiega poche battute di una partitura rigorosamente tecnica.

Premesso che il d.lg. 19 non ha innovato la precedente collocazione istituzionale dell'organismo, né lo ha privato in particolare del preesistente collegamento con gli enti territoriali, il giudice si limita a rilevare che la presenza dei rappresentanti di tali enti nel consiglio di amministrazione - un componente per ciascuno, come per lo Stato - risulta complessivamente maggioritaria (almeno in fase di prima applicazione) e che al consiglio così composto spetta l'adozione dello statuto.

Con altrettanta sobrietà ricorda, poi, che il potere assegnato allo Stato di approvare lo statuto e di nominare il presidente si connette al "preminente interesse nazionale" riconosciuto dal decreto (art. 2) alla Biennale, le cui finalità e attività travalicano la dimensione degli interessi regionali o locali.

Sulla scorta di tale premesse la Corte perviene in tutta linearità a dichiarare l'infondatezza della questione prospettata e, come corollario, a respingere il ricorso per conflitto di attribuzioni.

Rispetto alla pronuncia, ineccepibile sul piano giuridico-normativo da essa prescelto, relativamente al quale è solo da aggiungere la postilla della complessiva coerenza del d.lg. 19 con l'assetto dei rapporti Stato-autonomie territoriali delineato dall'art. 153 del d.lg. 31 marzo 1998, n. 112, sembrano aperti giudizi solo di ordine politico-culturale e giuridico-istituzionale, in ragione non tanto dei contenuti della pronuncia, quanto piuttosto del primo ricorso che l'ha determinata. E sempre che non ci si limiti soltanto a registrare lo stesso ricorso come un ennesimo segno del "malessere del Nord-Est".

Quanto al primo ordine di valutazioni, l'occasione (insieme, ahimè, ai limiti di chi scrive) suggerisce solo un rapido cenno, nell'ottica del cittadino disorientato dal contenzioso delle istituzioni.

Che lo Stato sia presente in un ente culturale in ragione di un asserito interesse generale, non appare irragionevole. Che in ordine ad un ente culturale, ormai saldamente legato al tessuto di una città, i soggetti territoriali interessati chiedano un maggior coinvolgimento (magari accompagnato anche dall'offerta di un maggior impegno di ordine finanziario), appare però altrettanto non irragionevole.

Quello che conta, e si vorrebbe realizzato, è che la Biennale assolvesse al meglio alla sua missione, impiegando in modo ottimale il denaro dei contribuenti. Nell'ottica del cittadino potrebbe affrontarsi anche il tema dell'utilità/adeguatezza della privatizzazione "a freddo" operata per la Biennale dal d.lg. 19 [1]. Ad ogni modo per questo ordine di valutazioni, che fatalmente porterebbe a riflettere sul ruolo complessivo delle istituzioni culturali nel rapporto fra pubblico e privato, e all'interno del pubblico, nel rapporto fra le istituzioni politiche, è stato forse di troppo anche questo accenno.

Qualche parola di più consente, e richiede, il piano giuridico-istituzionale. Due passi del ricorso meritano un'osservazione. Nel primo si afferma che "non tutto quello che è "di interesse nazionale" è necessariamente rappresentato in priorità dallo Stato, potendolo essere - quando l'interesse sia radicato nel territorio - dalla regione, che della Repubblica (soggettivizzazione della Nazione) è rappresentante in parte de qua istituzionale e necessaria".

Ora può certamente convenirsi che ciò che riveste interesse nazionale non necessariamente deve assumere forma statale, perché possono ben ipotizzarsi per l'espressione e la sintesi dei diversi elementi che compongono l'interesse nazionale sedi di carattere misto, statale-regionale, o anche solo interregionale. Ma che dell'interesse nazionale possa essere portatrice la singola regione, pare proprio da escludersi, se si vuole conservare un minimo di convenzione sulle regole concettuali di base: la singola regione è l'ente esponenziale degli interessi della propria comunità, non anche di quelli di altre comunità e tanto meno di quello nazionale. In questo senso, del resto, è la limpida formulazione dell'art. 127, comma 3, Cost. (contrasto di una legge regionale "con gli interessi nazionali o con quelli di altre Regioni").

Il secondo passo, già riportato, contiene il collegamento fra la "venezianità" della Biennale e la "tradizione e quindi l'identità del 'popolo veneto'". La venezianità della Biennale è un fatto di storia e di cultura innegabile, tanto che sarebbe difficile ipotizzare per questa istituzione, in ragione dei caratteri che essa ha nel tempo assunto e che ormai ne costituiscono l'identità, una sede e un contesto differenti. Ma di venezianità si tratta, e non di altro per proprietà transitiva (inattendibile anche già sotto un profilo culturale). Altrimenti, perché non rivendicare la regionalità della nomina del presidente dell'ente Arena di Verona?

Insomma, la dimensione degli interessi evocati spingeva essa stessa verso una conclusione diversa da quella "regionale" (in prevalenza) rappresentata: conclusione sovraregionale, in un caso, locale, nell'altro.

Puntualizzazione questa, si dirà, marginale rispetto alla sentenza della Corte, che ha seguito, come si è visto, tutt'altri binari, ma forse non inutile, dal momento che anche gli interessi pubblici hanno una sintassi istituzionale. E piacerebbe che quando sono invocati non a scopo di mera rivendicazione di ruolo, se ne tenesse conto.

Soprattutto è da pensare che da essa non possa prescindere un disegno di assetto delle istituzioni culturali pubbliche munito di qualche razionalità.



Nota

[1] Per un'analisi del decreto, cfr. G. Sciullo, La Biennale di Venezia come società di cultura, in Aedon, 1/1998 [N.d.R.].



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