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Tavola rotonda sul regolamento di organizzazione del ministero per i Beni e le Attività culturali (Roma, 9 marzo 2000)

Intervento di Marco Cammelli


1. Vorrei innanzitutto ringraziare l'avvocato Ripa di Meana e Giovanni Emiliani, insieme ai quali, per le due riviste Aedon ed Economia della cultura, abbiamo immaginato questo incontro. Ringrazio inoltre il consigliere Forlenza di essere con noi e di trattenersi per i lavori poiché, per quanto il dialogo sia aperto da molto tempo, è bene che ci siano anche momenti in cui si riesce a dialogare in modo più serrato, soprattutto in una situazione ancora aperta, com'è questa. Aperta anche formalmente, poiché il Consiglio dei ministri ha solo avviato il procedimento approvando, come appunto è stato detto, uno schema preliminare di regolamento e dunque, almeno in astratto, c'è spazio per quei chiarimenti o integrazioni che si riterranno utili.

Gli elementi che potrebbero essere sottolineati sono vari: per ragioni di tempo e per l'interesse che suscitano, mi sembra opportuno accostare ai nodi di fondo anche alcune particolarità, poiché oltre ai grandi temi, ci sono anche le piccole cose, che a volte sono però segno di questioni più importanti e vanno dunque considerate proprio per il loro valore sintomatico.

2. Cominciando da questo terreno, credo infatti che anche su aspetti così detti "minori" sia bene verificare le soluzioni adottate. Per fare qualche esempio, non è chiara la ragione per cui il capo di Gabinetto intermedia le relazioni tra il ministro e il segretario generale (articolo 3.2): tale relazione, nell'art.6 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, è infatti diretta. Anzi, la stessa funzione del segretario generale è fortemente connotata dalla prossimità con il ministro, ed è proprio questo che differenzia questo modello ministeriale da quello fondato sui dipartimenti e sulla figura dei relativi titolari.

Ancora, la consulenza dell'ufficio legislativo ai dirigenti generali potrebbe essere assicurata direttamente da relazioni dirette tra il titolare del primo e i secondi, senza necessariamente passare (art.4) attraverso il segretario generale. Aggiungo, sempre nello stesso spirito di cose di poco rilievo intrinseco ma di qualche significato sintomatico: perché collocare la disposizione sui carabinieri in testa rispetto a quelle che riguardano i compiti svolti dal ministero? E' una piccola cosa, naturalmente, ma sarebbe opportuno collocare tale norma in coda, poiché c'è una sequenza nelle cose e non è indifferente cominciare dalle attività di promozione o tutela o dai carabinieri, cioè dalla attività di sanzione o repressione.

Così ancora i controlli interni: per esempio, non sono convintissimo che il controllo strategico, così cruciale, debba essere ristretto a magistrati ordinari e amministrativi (art.7). Non lo restringerei neanche ai professori universitari, sia chiaro. In realtà il controllo strategico è insieme cruciale e difficile da fare: le professionalità andranno dunque costruite. Il controllo strategico è al servizio del ministro, per avere i terminali, per capire cosa sta succedendo, per svolgere le sue stesse funzioni di indirizzo. Se poi un ministro non è in grado di servirsene al meglio, sarà il primo a subirne le conseguenze. In ogni caso, per l'accezione che va riconosciuta al controllo strategico, non credo francamente che sia saggio oggi limitarne l'accesso a poche categorie, siano esse magistrati ordinari, amministrativi o professori universitari. Forse non è il momento di impegnarsi sul piano regolamentare, e prima di avere maturato una qualche esperienza in materia, su un terreno del genere.

3. Ma è tempo di passare alle questioni importanti, su cui si gioca la riuscita e il significato dell'intervento regolamentare. A me sembra che siano tre gli elementi su cui conviene concentrare l'attenzione: la concezione e il ruolo del ministero che emergono, la figura del segretario generale anche in rapporto ai dirigenti generali, il modello di amministrazione periferica.

Prima di affrontarli specificamente, vorrei però chiarire un punto di premessa che so non essere condiviso da tutti, ma che è determinante e comunque va reso esplicito. Per alcuni, fra cui gli estensori del provvedimento oggi in discussione, trattandosi di un regolamento e per di più destinato a disciplinare l'organizzazione di un ministero è del tutto improprio introdurre qualunque altra valutazione che non sia specificamente attinente all'oggetto (l'organizzazione del ministero dei beni culturali e ambientali) e al rango (normativa secondaria) della disciplina in oggetto.

Il che, se condiviso, escluderebbe automaticamente dal nostro ambito di discussione ben due dei tre punti che ho qualificato come cruciali: il primo, vale a dire la concezione e il ruolo del ministero, perché da riferire alle scelte del d.lg. 368/1998 con cui appunto tale riforma si è operata; e l'ultimo, il modello di amministrazione periferica, almeno nella sua accezione di elemento rilevante nel sistema delle relazioni centro-periferia perché si tratta, appunto, di materia estranea all'oggetto oggi in questione. Sono queste, in particolare, le obiezioni metodologiche e giuridiche sollevate da Oberdan Forlenza e meritano perciò di essere, seppur brevemente, esaminate.

Debbo confessare che né l'una né l'altra mi persuadono: in epoca di intensa delegificazione, riguardante in particolare proprio la materia dell'organizzazione amministrativa dei ministeri (art.4 d.lg. 300/1999), la legge (e dunque anche il decreto 368) si limita ad operare alcune scelte di fondo quali il modello (dipartimentale o a segretariato generale) prescelto, il numero massimo delle direzioni generali, la fisionomia degli uffici di diretta collaborazione con il ministro, la presenza di agenzie e poco altro: tutto il resto è affidato, appunto, al regolamento che va inteso perciò come vera e propria fonte determinante del modo di essere degli apparati ministeriali. Per quanto poi riguarda l'organizzazione periferica, è innegabile che il modo di conformare quest'ultima non è solo in funzione del centro ministeriale ma, almeno altrettanto se non più, in ragione del contesto del sistema locale con cui è chiamata ad interagire e, più in generale, al modello delle relazioni centro-periferia.
Che il ricorso agli organi periferici dello stato costituisse una forma organizzativa per modulare i rapporti tra il centro e il sistema delle autonomie è sempre stato ben presente nel nostro ordinamento, fino a rappresentare motivo di acceso dibattito tra Ricasoli e Rattazzi al tempo dell'unificazione italiana. Sarebbe davvero curioso negare queste implicazioni proprio oggi, e proprio in un settore così inscindibilmente intrecciato alle relazioni tra sistema centrale e locale come, appunto, quello dei beni culturali e ambientali.

E' dunque indubitabile che il regolamento oggi in esame ha larghi margini per disegnare il modo di essere in concreto del ministero e che, nel farlo, incide direttamente sulle relazioni tra quest'ultimo e regioni ed enti territoriali.
Il consigliere Forlenza richiamava la sequenza legislativa che abbiamo alle spalle, e dunque il decreto legislativo 20 ottobre 1998, n. 368. Per la verità, però, la sequenza è più lunga, perché questo regolamento nasce sì dal d.lg. 368/1998, come antecedente diretto, ma quest'ultimo a sua volta ha la sua base nella legge 59/1997 , e la 59 a sua volta aveva al suo interno una sequenza chiave costituita da: capo I (decentramento), capo II (riordino della amministrazione statale), capo III (semplificazione). E' stata fatta una scelta e quella va rispettata. C'è un decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 - dato positivo cui giustamente il Consiglio nazionale fa riferimento, poiché il 112 è tutto un pezzo che deve marciare, e che se non marcerà, sarà una delle ragioni di quel sovraccarico che poi finisce per schiacciare proprio queste strutture che invece chiedono fiato per respirare -, che impone nella sequenza questo ordine: il trasferimento, il riordino del ministero (Capo II), la semplificazione.

A ben vedere, dunque, su questo punto il ministero è incorso in un vero e proprio deuteron-proteron, come ci dicevano al ginnasio, e cioè nel mettere prima le cose che vengono dopo. E' una cosa possibile, ma con questo certamente con le sue mani ha creato delle condizioni che oggi gli rendono le cose difficili. Perché? Se noi prendiamo la sequenza, vediamo l'area delle funzioni, che non è soltanto la parte dei musei - che vanno, non vanno, andranno, si vedrà; per quanto, forse, qualche cosa bisognerà vedere -, ma anche tutta l'altra area della "non tutela", che ne è l'interfaccia.

Dunque, è la regionalizzazione, anche nei limiti ristretti consentiti dalla legge 59 e dal decreto 112, che costituisce l'antecedente. Primo: che si fa? Poi: come ci si attrezza? Infine: le regole ordinamentali. La sequenza, dunque, non era qualcosa di accidentale. Qualcuno ce l'aveva insegnata tempo fa, e anzi, se mi è permesso, vorrei rivolgere un pensiero a Massimo Severo Giannini, perché queste cose ce l'ha insegnate proprio lui. Allora, naturalmente, se questo ordine viene invertito, le cose si complicano. E davvero su questo, c'è del metodo dal punto di vista del ministero. Niente è accidentale, perché il d.lg. 368/1998 anticipa contemporaneamente le funzioni, e anticipa il resto del riordino dei ministeri; scatta e brucia all'ottobre 1998, quando il resto è ancora in gestazione e arriverà più tardi nel 1999, a luglio; brucia tutti sulla semplificazione, con il Testo Unico, peraltro un lavoro più che apprezzabile, che però in misura non trascurabile risente proprio di questo anticipo

Dunque, c'è una sequenza, ma la sequenza non è nelle leggi, è nelle cose. E' nella logica sequenza delle cose. E naturalmente, non rispettare questo ordine significa fatalmente incontrare problemi non trascurabili: Ecco perché dobbiamo tornare all'impostazione: non per chiedere al regolamento ciò che il regolamento non può fare, perché questo sarebbe giuridicamente e logicamente scorretto, ma per pretendere dal regolamento tutto ciò che quest'ultimo può e deve dare. Questo è, a mio parere, il modo corretto di porre la questione.

E allora, se questo è vero, il primo punto di dissenso è quello sull'impostazione, perché io credo che non ci siano dubbi sul fatto che il ministero per i Beni e le Attività culturali sia un ministero difficile, molto difficile, più difficile di altri, perché è chiamato a svolgere funzioni di sistema e contemporaneamente d'ordine - la tutela -, tutte funzioni che sono all'intersezione di più versanti, di più linee: quelle della cultura e del suo pluralismo, quelle dei saperi professionali, quelle delle iniziative dei privati e quelle, infine, del sistema delle autonomie territoriali. Dunque, per le funzioni affidategli, questo ministero si colloca, lo voglia o meno, al centro di un crocicchio percorso dalle più significative e delicate dinamiche del nostro tempo.

Chiunque metta mano a definire questo ministero non può prescindere da tale specificità, perché questo è il contesto, e il diritto può fare tutto, salvo trasformare l'uomo in donna o, venendo a noi, trasformare le piazze e i crocicchi in percorsi unidirezionali e senza intersezioni. Dunque, se quanto detto è vero, dal punto di vista istituzionale l'intervento si gioca proprio su questo: cioè sulle regole anzi, direi ancora di più, sugli istituti, sulle forme organizzative dell'apertura e dell'intersezione. Che cos'è il ministero che insiste su questa zona? Un insieme di regole, di istituti e di organizzazioni che presidiano, promuovono, governano e rappresentano questa necessaria intersezione. Mi rendo conto che, se fossimo in un'altra sede, queste parole potrebbero apparire astratte e quasi nebulose: ma ognuno dei presenti sa perfettamente quali precise implicazioni discendano da tutto questo.

Il d.lg. 368/1998, giustamente richiamato dal consigliere Forlenza, proprio al primo articolo, nel definire le funzioni del ministero (valorizzazione, gestione, tutela, ecc.) precisa che nel loro esercizio il ministero privilegia il metodo della programmazione, favorisce la cooperazione con regioni ed enti locali, con le amministrazioni pubbliche, con i privati. Dunque questo è, per così dire, il codice genetico del ministero e della sua organizzazione. Se questo è vero, allora dal punto di vista del metodo, un discorso sul centro si riesce a fare solo quando si conoscono o si sono ricostruite le diverse linee che poi al centro si incrociano. Non c'è qui nessuna ragione di conflitto tra centralisti e decentratori, autonomisti e statalisti: è invece un problema di metodo, nel senso che se io definisco un centro come un centro dedicato a raccogliere e a rilanciare queste linee, prima individuo le dinamiche di cui sono referente e poi riesco a definire chi queste linee e questi fili raccoglie.

Su questo punto dunque, con il dovuto garbo - naturalmente, perché capisco bene che possano esserci anche approcci diversi e soprattutto so quanto sia difficile passare dalla teoria alla pratica -, devo esprimere un dissenso netto, proprio netto, di metodo. Nel senso che in sostanza al centro si arriva partendo da questi fili, dal basso, dalla "periferia", e che quest'ultima, ammesso che sia ancora appropriato usare questo termine, è costituita non soltanto dalle regioni o dagli enti locali, ma anche dalle soprintendenze e dagli altri innumerevoli organi periferici del ministero.

Un metodo, vorrei aggiungere, la cui osservanza è ancora più necessaria proprio per il fatto che la legge 59/1997 ha sottratto al decentramento regionale e locale una quota consistente di funzioni: se avesse operato in altro modo, forse sarebbe stato possibile procedere diversamente ma se in una materia geneticamente legata a doppio filo ai poteri locali il legislatore mi impone di mantenere la funzioni allo stato, allora è evidente che la riserva "allo stato" non significa affatto riserva "al centro", ma semmai proprio il contrario: e cioè che nel porre mano al ministero e alla sua organizzazione dovrò darmi carico per intero di quelle esigenze di decentramento che non hanno potuto praticare la via del trasferimento a regioni e enti locali.

Vorrei aggiungere, infine, che non si tratta di cose né nuove né inattese perché negli stessi termini si pronunciava, vent'anni fa, il rapporto Giannini - Piga 1980/1981. Giannini non si preoccupava certo delle regioni: anzi, per i beni culturali era fortemente contrario, però aggiungeva: prima si parta del dato delle soprintendenze e delle articolazioni periferiche, che devono avere tutto ciò che serve loro per le funzioni ordinariamente assegnate a questi livelli e poi, ai livelli superiori, solo compiti di indirizzo, coordinamento, controllo.

Dunque, su questo punto il problema c'è, è serio, e non trovo sul piano giuridico alcun vincolo insuperabile: anzi, come ho appena detto, se un vincolo c'è è di segno opposto a quello poi adottato nel confezionare il regolamento. Quest'ultimo muove da una concezione, diciamo la verità, tolemaica, nel senso che al centro c'è il ministero e poi, per cerchi sempre più esterni, il resto: insomma, è proprio l'opposto. E questa concezione tolemaica, dove il ministero finisce per essere contemporaneamente il punto di partenza e di arrivo di tutte le dinamiche più significative, non solo è estranea a quanto fin qui osservato ma, direi, rischia anche in concreto di non essere realistica perché finisce per creare essa stessa le condizioni di quel terribile sovraccarico da cui poi ci si lamenta di essere schiacciati.

Detto questo, è inevitabile che le singole soluzioni accolte nel regolamento rivelino una forte distanza rispetto al punto di vista appena illustrato. Alle esigenze della cultura e del pluralismo, per fare un esempio specifico, non mi pare convincente rispondere con la nomina ministeriale degli esperti nei comitati di settore (artt.10, comma 1 e 11, comma 2): naturalmente può esserci il ministro con la mano felice e quello meno, ma è comunque un'altra cosa, anche perché questo ci può portare in modo diretto a quel ministero della Cultura da molti giustamente temuto e, in ogni caso, obbiettivamente esposto ai rischi, e alle pressanti attenzioni della maggioranza, specie in un sistema pur imperfettamente bipolare.

Perché, piuttosto, non prevedere designazioni dai centri culturali più importanti che sul campo si siano guadagnati le credenziali di serietà e di rappresentatività culturale? Sarebbe una soluzione assai più soddisfacente, più credibile anche delle elezioni fra i professori universitari cui pensa, con un certo ottimismo che purtroppo non mi sento di condividere, il Consiglio nazionale.

Ancora, penso alle "direzioni leggere" di cui ci parlava Marco Causi. Ebbene, l'automatismo funzione nuova = direzione nuova è un riflesso che credo vada controllato e attentamente vagliato. D'accordo, può darsi che per l'architettura e l'arte contemporanea l'istituzione di una direzione sia una risposta, ma è davvero l'unica? Siamo certi che non vi siano risposte diverse per funzioni nuove che voglio valorizzare?

Venendo ad un altro punto, i saperi professionali, mi pare che ci sia una certa debolezza per quanto riguarda gli istituti. Gli istituti debbono rispondere di tante cose. Ci sono indagini recenti, penso a quella coordinata in materia da Paolo Leon, che sollevano più di un problema. Non è che si possa far finta che i problemi non ci siano, però in ogni caso, questo è un punto su cui forse una maggiore autonomia può essere data per quanto riguarda i saperi professionali interni. Poi ci sono quelli esterni: continuo a stupirmi per la persistente, impressionante l'assenza dell'università. Sono il primo a conoscerne, per esperienza professionale, i limiti e le manchevolezze ma mi risulta difficile comprendere per quali ragioni, qui come altrove (penso al nuovo Testo unico) si proceda tagliandola pregiudizialmente fuori con conseguenze serie sia sul piano della funzionalità, sia su quello dell'autonomia, anch'essa costituzionalmente garantita, della ricerca scientifica.

Ancora, e contraddicendo in questo modo all'importante apertura operata in materia dall'art.10 del d.lg. 368/1998, ai privati nessun accenno. Da questo punto di vista il ministero emerge davvero come una struttura che si pensa secondo schemi che (un tempo, ora non più) erano propri degli apparati militari, basati cioè sul presupposto della produzione in proprio di tutto ciò di cui si possa avere bisogno: ma questa è una chiusura, funzionale a principi di autosufficienza, non l'apertura di cui si diceva. E' un altro modello, un'altra cosa.

Sulle autonomie territoriali si registra un doppio accentramento, interno e esterno. All'esterno del ministero, non è difficile registrare la dissolvenza, o comunque l'irrilevanza del governo locale, in una misura che è degna di nota. Si prenda il caso della commissione paritetica regionale di cui agli artt.154-5 d.lgsl. 112/1998. Ebbene, mentre nel testo istitutivo alla commissione viene affidato il compito chiave di assicurare "l'armonizzazione e il coordinamento, nel territorio regionale, delle iniziative dello Stato, delle regione, degli enti locali e di altri possibili soggetti pubblici e privati" (art.155, comma 1), nel regolamento qui esaminato la commissione regionale viene ridotta ad una delle variabili che il sovrintendente è tenuto a considerare per le proposte che costui fa al centro (art.26, comma 2, lett.a). Ancora: vedere che in materia di catalogazione, gli istituti centrali "possono collaborare", un flebile "possono collaborare", con regioni ed enti locali (art. 24, comma 1), confesso che fa un certo effetto. Posso capire che si dica 'si definirà in che modo si collabora', ma riferirsi al rapporto con il governo locale in modo così eventuale e sommesso significa proprio farne una variabile del tutto secondaria.

Sul piano interno, invece, sono molto favorevole alla scelta operata dal regolamento in favore delle soprintendenze regionali, ed esattamente per le ragioni richiamate da Oberdan Forlenza e da Paolo Leon. So bene che vi sono molte resistenze da parte degli operatori, ma sono anche convinto che una sovrintendenza regionale forte è la premessa per due effetti positivi: il bilanciamento ad un centro ministeriale troppo pesante e il coordinamento degli organi periferici operanti sul territorio regionale. L'uno e l'altro sono infatti il necessario punto di partenza per stabilire un positivo rapporto con regioni ed enti locali, ed è per questo che lo considero un passaggio chiave nell'intero sistema.

Manca invece, e deve invece essere inserito, come del resto prevedeva lo stesso d.lg. 368/1998, il riconoscimento della piena autonomia gestionale non solo alle soprintendenze, ma a tutta l'area delle strutture operative come le biblioteche, gli archivi, ecc. Non mi pare necessario insistere sulle ragioni per cui tale previsione è nel merito dovuta. Vorrei invece riprendere i motivi sollevati da Oberdan Forlenza nel doverne riconoscere, suo malgrado, l'impraticabilità giuridica. La ragione, sempre secondo il suo ragionamento, è dovuta all'impraticabilità di una versione particolarmente forte di autonomia, quella cioè che consisterebbe nel riconoscimento a questi organi periferici della qualità di "centri di responsabilità amministrativa" ai sensi del d.lgsl. 279/1997 (riforma del bilancio). A tale riconoscimento, infatti, si oppone per un verso il sostanziale smantellamento delle direzioni generali e dall'altro la necessaria correlazione l'istituzione di tali centri e la qualifica di dirigente generale di chi è chiamato ad esserne titolare.

Condivido quest'ultima osservazione, e l'implicita (auto)critica che ci invita a fare in merito alla soluzione adottata in materia dal decreto 80/1998, mentre non sono persuaso sugli effetti che ne deriverebbero sulle direzioni generali: certo, se ne disegnerebbe un ruolo diverso dalle altre, ma questo sarebbe del tutto ragionevole perché le direzioni generali di ministeri senza organizzazione periferica e senza conti da fare con il decentramento istituzionale (v. Difesa, Giustizia, ecc.) sono ben diverse da quelle di ministeri che invece hanno questi caratteri (oltre ai beni culturali, Istruzione, Infrastrutture, Ambiente, Sanità, ecc.), ed è ovvio che a cose diverse va data una disciplina diversa. Detto questo, e riconoscendo che tale differenziazione non è recepita dal d.lg. 300/1999, nulla toglie che si possa proporre una modifica legislativa e che rimangano altri strumenti, più tradizionali ma non trascurabili (v. deleghe tra il dirigente generale e il titolare dell'organo periferico) per fare anche a legislazione invariata qualche significativo passo avanti in questa materia.

4. E' tempo ora di accennare, sia pure molto sinteticamente, agli altri punti, cominciando dal segretario generale. La questione del segretario generale nasce, come ho ricordato, dai due modelli di ministero - a dipartimenti, a segretario generale - che il d.lg. 300/1999 fissa. Ebbene, l'articolo 6 del d.lg. 300/1999 mi sembra chiarisca molto bene che il segretario generale ha funzioni preliminari sugli atti del ministro, e cioè che il referente del segretario è assai più il ministro che la struttura. Se dovessimo semplificare: mentre il capo dipartimento guarda alle direzioni, agli apparati sotto, il segretario guarda prevalentemente sopra, cioè è colui che collabora con il ministro nella predisposizione degli atti e nell'esercizio delle funzioni che spettano a quest'ultimo. E' vero che siamo ad una prima lettura del 300, che la cosa va approfondita, e che la legge mostra sul punto qualche vistosa oscillazione perché il riferimento al compiti di "coordinare le attività" degli apparati è evidentemente incoerente con la lettura qui proposta.

Tuttavia, se si esaminano insieme i compiti del capo dipartimento e del segretario generale si vede benissimo che la ricostruzione proposta ha un suo solido fondamento. Fra l'altro tutto questo ha anche un senso, perché il ministro, proprio perché ha a che fare con molte direzioni generali, ha bisogno di un soggetto particolare che lo supporti su questa funzione di relazione diretta. Ministro e segretario li metterei in coppia; non riesco a vedere diversamente. Ed è questo il motivo per cui lamentavo che il segretario generale fosse intermediato dal capo Gabinetto. Infatti, mentre le relazioni tra ministro e strutture nel ministero a segretariato generale sono rette dal decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, che veniva richiamato prima, cioè i dirigenti generali con le loro competenze e le loro autonomie - questo, almeno, è lo schema che io leggo, e devo dire che ho ragione di ritenere che sia l'interpretazione prevalente -, nei ministeri a dipartimento la relazione è tra ministro e capo del dipartimento.

Questo è il motivo per cui francamente non riesco a capire perché il segretariato sia collocato all'art. 12: anche qui un elemento di immagine e di sequenza. Il 12 è il primo articolo del Titolo II - uffici con compiti di gestione - mentre in base a quanto ho appena detto questa figura va collocata nel Titolo I, presso il ministro.

I compiti gestionali, o a vocazione fortemente gestionale, sono invece assai estesi. Se sono fondate le osservazioni fin qui effettuate, allora dobbiamo concludere che molti di questi compiti gestionali siano compiti che in parte spettano ai dirigenti generali e che appesantiscono inutilmente, a mio parere, il segretariato, che ha invece compiti di coordinamento, essendo colui che prepara gli atti del ministro, svolgendo in questo una funzione cruciale, assolutamente cruciale e propria. Per gli stesi motivi, non capisco perché le soprintendenze regionali afferiscano al segretario generale: non riesco a capirlo, per motivi generali, perché appunto si tratta di compiti di amministrazione attiva, e per ragioni specifiche, perché ne deriva uno squilibrio dannoso per l'intero sistema degli organi periferici del ministero, dato che mentre le soprintendenze regionali afferiscono, appunto, al segretario generale, tutti i restanti organi periferici continuano a dipendere direttamente dalle direzioni. Non è difficile prevedere che, in queste condizioni, possa emergere uno squilibrio generale se non addirittura un vero e proprio dualismo all'interno di una amministrazione periferica che ha già molti problemi e non ha bisogno di averne qualcuno in più.

Sui dirigenti generali ho già detto. Ho l'impressione, spero di sbagliarmi, che se il testo venisse approvato in questi termini, sarebbe fonte di probabili ricorsi da parte dei dirigenti generali, che avrebbero buon gioco ad invocare le disposizioni del d.lg. 29/1993 invocandone il pieno rispetto. Un motivo in più, credo, per dedicarvi particolare attenzione e ripensarci in modo approfondito.

Vengo alla parte che riguarda l'organizzazione periferica. Mi pare che il regolamento su questo segni invece un grosso dato positivo, e anche coraggioso, perché come ho già detto l'innesto del soprintendente regionale è secondo me un punto cruciale. Se invece della regionalizzazione nel senso di trasferimento, si mantiene una gestione statale, è ovvio che la riorganizzazione del sistema periferico diventa cruciale, il che dovrebbe condurre ad evitare il rinvio della questione ad altri e successivi provvedimenti, perché questo aspetto deve avere fin d'ora una soluzione chiara e definitiva.

Personalmente credo che sarebbe opportuno pensare, come del resto stiamo cercando di fare per altre articolazioni delle amministrazioni periferiche (prefetture, ufficio territoriale del governo, ecc., che l'amministrazione periferica non è un pezzo di amministrazione centrale dislocato, per mere ragioni operative, sul territorio, come spesso è stato fino ad oggi, ma che l'intero sistema decentrato dello stato va ricostruito non già in chiave di "amministrazione periferica" (il che sottolinea solo il versante delle relazioni con il proprio centro di settore) ma come "amministrazione territoriale dello stato", cioè come una organizzazione che ha nel suo insistere sul territorio, e nelle sue relazioni con il governo locale, la propria ragione d'essere. Si tratta di un discorso complesso, che ho cercato di approfondire in un saggio di recente pubblicazione e a quello mi limito a fare riferimento per i necessari approfondimenti.
E allora, se questo è vero, io ho l'impressione che bisognerebbe arrivare ad una sorta di statuto dell'organizzazione periferica, che è fatto di tante cose: di relazioni definite verso il centro (privo, di norma, di compiti gestionali), di sedi di coordinamento intersettoriale, di modalità di interrelazione con regioni ed enti locali, di possibilità di differenziarsi in ragione delle diverse condizioni e dei contesti nei quali si trova ad operare. Se così fosse, è evidente che tale statuto non può essere affidato alle singole scelte dei vari ministeri competenti ma richiede una definizione d'insieme che solo a livello di consiglio dei ministri è possibile
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Non si obbietti che un taglio così ampio travalica i limiti del regolamento: primo, perché i limiti di quest'ultimo non sono poi così tanti e secondo perché questo modo di procedere permette di capire se dal regolamento abbiamo tratto tutto ciò che può e deve dare. Certo, non è detto che si debba fare tutto subito. In questo senso, come soluzione, non direi "il resto lo vedremo". Direi piuttosto "che si immagini oggi il sistema a regime e si preveda, invece, la sua applicazione graduale": oggi e in questo contesto - perché le condizioni ci sono -, domani in quell'altro, quando le condizioni lo permetteranno. Questo è un paese ricco della propria irriducibile diversità, e che proprio per questo deve imparare l'arte del gradualismo: se, come riformatori, riusciremo ad imparare questa nobile arte allora credo che i risultati di questa stagione di riforme amministrative saranno positivi e destinati a durare nel tempo.



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