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Tavola rotonda sul regolamento di organizzazione del ministero per i Beni e le Attività culturali (Roma, 9 marzo 2000)

 

Intervento di Marco Causi



Le basi economiche del conflitto fra centralismo e federalismo nelle politiche culturali sono ben note. Nei beni e nelle attività culturali coesistono la natura di bene pubblico locale (diffondono benefici economici territoriali concentrati e contengono benefici-comunità di livello locale o regionale) e quella di bene pubblico puro [1].

Mentre la prima natura è meglio compresa dai soggetti e dagli attori territoriali, la seconda natura, collegata ai valori di esistenza, è meglio perseguita da corpi tecnici indipendenti, assoggettati a valutazioni e controlli di tipo prettamente scientifico, liberi da condizionamenti locali.

Il conflitto peggiora insieme alla crescita della consapevolezza e dell'interesse delle collettività locali per la prima delle due dimensioni, e alla conseguente crescita della loro disponibilità a pagare i costi di conservazione, valorizzazione, gestione, promozione.

Anche i dati della situazione italiana sono noti. La crescita della spesa pubblica culturale è stata trainata, negli anni '80, da fonti di finanziamento straordinarie e dalla spesa locale e regionale, mentre nella prima metà degli anni '90 alla riduzione delle risorse statali (-18% in termini reali) ha corrisposto un aumento significativo di quelle locali (+4,1% nelle regioni e +3,4% nei comuni) [2].

Si tratta di due fasi storiche nettamente diverse, caratterizzate da un ciclo politico-economico che è andato dal massimo lassismo sulla spesa al massimo rigore. Eppure un fattore comune c'è stato, nel settore culturale: la costante riduzione del peso e del potere dei corpi tecnici centrali deputati alle missioni di esistenza, spiazzati prima dalla spesa straordinaria - attribuita in base a criteri eterogenei a quelli dell'amministrazione dei beni culturali - e sia prima che dopo dal protagonismo dei soggetti locali (con le consuete divergenze e "macchie di leopardo" sul territorio nazionale).

Giunti alla metà degli anni '90, la spinta federalista aveva così ottime carte da giocare nel settore dei beni e delle attività culturali: una burocrazia centrale sempre più debole e povera di risorse; una crescita della spesa (e della sua qualità) da parte dei governi locali, i quali erano altresì i più interessati all'innovazione istituzionale e alle nuove forme di governance [3]; la ripresa di interesse per l'utilizzo delle risorse culturali nei processi di sviluppo e di crescita dell'occupazione, i quali - a differenza degli anni '80 - venivano sempre più programmati nell'ambito di strategie di dimensione locale e regionale [4]; il progredire della crisi di legittimazione della spesa pubblica, anche indotto dai Trattati europei, e il tentativo di recuperare legittimità al welfare assoggettandolo a un monitoraggio più stretto, avvicinando cittadini e decisori politici e applicando schemi di sussidiarietà. E' in questo momento che prende forma anche in questo settore un progetto di riordino istituzionale ispirato ad una prospettiva federalista e legato ai nomi di Marco Cammelli e di Paolo Leon [5].

Fra il 1996 e il 1998, però, lo Stato rompe l'equilibrio che si era consolidato e riporta il pendolo a suo vantaggio. Lo fa, essenzialmente, con tre azioni: la prima è quella, tutta politica, di assegnare alla cultura una priorità che mai prima questo settore aveva avuto nell'azione del governo centrale, priorità segnalata dall'affidamento delle deleghe culturali al vice presidente del Consiglio dei ministri; la seconda è quella di metter mano al portafoglio, dotando il settore di un flusso significativo di risorse aggiuntive, da un lato con la quota del Lotto destinata agli interventi di conservazione e valorizzazione dei beni culturali (e con altri interventi non irrilevanti di assegnazione di risorse in sede di bilancio ordinario e in sede di programmazione CIPE), dall'altro lato con il recupero e il consolidamento delle risorse destinate al FUS; la terza è quella di avviare un progetto di razionalizzazione e di modernizzazione delle politiche e delle istituzioni deputate ai beni e alle attività culturali ispirata più al modello francese che al federalismo "temperato" proposto da Cammelli e Leon.

Mi rendo conto che quest'ultima affermazione andrebbe documentata con più dovizia di particolari e con più spazio di quelli qui disponibili. E però, l'esempio di cui oggi discutiamo ne è una dimostrazioni lampante. Come ha ben descritto prima di me Paolo Leon, il modello che emerge dal regolamento di attuazione della riforma del ministero per i Beni e le Attività culturali proietta nel futuro italiano un'organizzazione a "matrice" fra settori e territori regionali molto simile a quella che la Francia ha cominciato a sperimentare dalla fine degli anni '80 e che si è progressivamente rafforzata lungo gli anni '90, sotto le spinte del protagonismo delle collettività locali e dell'adeguamento al modello istituzionale europeo Comunità-Stato-regioni [6].

Ciò che caratterizza questo modello francese (e italiano) è un'evoluzione verso la territorializzazione dell'intervento statale senza che ciò comporti - almeno, nel settore culturale - la devoluzione delle competenze amministrative alle autorità locali, ovvero minimizzando l'entità della devoluzione. Si parla insomma di regioni con la "r" minuscola, di territori regionali, al cui interno lo Stato ricostruisce la sua burocrazia assegnandole, accanto alle missioni consuete, anche quella di aderire più strettamente alle domande e ai fabbisogni locali. Il che significa, naturalmente, codificare e costruire "dal basso" i meccanismi della co-decisione e del partenariato istituzionale con i governi e i soggetti locali [7].

E' interessante notare come la burocrazia statale continui a non vedere di buon occhio neppure questa versione della regionalizzazione con la "r" minuscola. Come esempio potrei citare le posizioni critiche espresse dal Consiglio Nazionale. In queste posizioni c'è, a mio modo di vedere, non solo un errore strategico, ma anche una vera e propria ignoranza delle cose. Il processo di decentramento sta coinvolgendo infatti non solo l'amministrazione dei beni culturali, ma l'intero corpo dello Stato. In altri settori sta viaggiando più velocemente e, soprattutto, ha ormai coinvolto pienamente la spesa in conto capitale - una spesa di non poco interesse per chi abbia a cuore la tutela e la conservazione.

La programmazione della spesa pubblica in conto capitale ha assunto la regione come territorio di riferimento e l'intesa istituzionale di programma come strumento. Molte fonti finanziarie aggiuntive, e per prime quelle di origine comunitaria - su cui sono stati assegnati più di 5 mila miliardi per investimenti sulle risorse culturali delle aree depresse del territorio italiano nei prossimi sette anni - vengono programmate con strumenti di scala regionale. E quindi, l'idea che l'approvvigionamento di risorse per il finanziamento delle funzioni di tutela e di conservazione del patrimonio culturale sia un lavoro a cui delegare soltanto il, o la, ministro pro-tempore, è semplicemente un'idea sbagliata, e foriera di grandi rischi per la salvaguardia dei beni culturali, nonché per la stessa capacità di governance del sistema da parte dei corpi tecnici.

A maggior ragione questo è vero se si guarda al di là del recinto della spesa pubblica in conto capitale. Le Fondazioni bancarie, che oggi contribuiscono per circa 150 miliardi al sistema e che sono attese crescere, con la piena applicazione della legge Ciampi, fino almeno a 6-700 miliardi, hanno forti radicamenti territoriali al cui interno concentrare le azioni meritorie. Le più grandi si stanno già dotando di procedure di selezione e valutazione dei progetti che dipendono da parametri qualitativi e quantitativi. L'esperienza ci ha insegnato che le sponsorizzazioni culturali - un mercato che vale circa 400 miliardi all'anno - si organizzano più facilmente non negli incontri fra i ministri e gli amministratori delegati, ma a livello locale, facendo incontrare le domande delle istituzioni culturali con le potenziali offerte delle imprese.

L'esperienza ci ha insegnato che nel mercato delle sponsorizzazioni un ruolo superiore al previsto è giocato dalle imprese locali, anche di piccola e media dimensione. Nella gestione dei beni culturali e nella promozione e gestione delle attività culturali (dalle esposizioni al teatro, musica e danza) ci troviamo già oggi pienamente in un sistema federale, con ampie disponibilità di spesa e assunzioni di responsabilità da parte di Comuni, Province e regioni. La promozione e concertazione locale degli interventi, diciamo il lobbying per i progetti, già oggi viene effettuato dai responsabili più intelligenti delle istituzioni e degli uffici statali periferici dei beni culturali insieme ai loro omologhi comunali e regionali.

Sono comprensibili e naturali le paure che questo processo comporta. Vanno riconosciute le strozzature che possono renderlo pericoloso, e vanno predisposti tutti i possibili interventi per superarle - primi fra tutti l'aumento delle capacità professionali dedicate ai beni culturali all'interno degli enti locali e regionali e il parallelo aumento delle capacità professionali negli uffici statali per gestire con maggiore efficacia le diverse fasi dei cicli progettuali, i rapporti con i soggetti locali e quelli con il mondo delle imprese. Ma è chiaro, tuttavia, che questa è una direzione di marcia rispetto alla quale i beni culturali non possono restare indietro, se non correndo il rischio di tornare ad una marginalizzazione ancora più forte di quella che hanno subìto nei periodi più bui della storia pubblica nazionale.

Allora, se guardiamo l'evoluzione della Francia troviamo un modello a matrice, proprio del tipo che noi stiamo andando a costruire, e cioè: in ciascuna regione francese è stato costituito un ufficio dell'amministrazione centrale del ministero della Cultura; presso questo ufficio c'è un dirigente dotato di un budget; grazie a questo budget, il delegato regionale ha un potere di contrattazione con tutti gli altri soggetti che contribuiscono in quella regione al finanziamento delle istituzioni culturali. La contrattazione e la definizione del quadro finanziario per i festival, i teatri, la lirica, i musei, le istituzioni culturali avviene localmente, e rimbalza al centro solo in fase di programmazione generale e di valutazione dei risultati, tranne che per quei casi di "livello nazionale" che vengono in tutto o in parte co-finanziati su capitoli di bilancio di diretta competenza delle direzioni generali.

Non è difficile prevedere che, con questo modello, è destinato a emergere un conflitto fra uffici regionali e direzioni generali. E' un conflitto che, in Francia, è nato dopo pochi anni, man mano che i budget regionali aumentavano - e aumentavano perché attraverso la regionalizzazione si riusciva ad attivare con più efficacia la leva del co-finanziamento. E', evidentemente, un conflitto sull'attribuzione delle risorse. Il regolamento di attuazione della riforma del ministero cerca di eliminare il conflitto non attribuendo un budget al soprintendente regionale. Questo a me sembra sorprendente, poiché nega l'obiettivo principale della riforma. Se il soprintendente regionale non ha budget - magari residuale, magari piccolo, almeno all'inizio - come potrà esercitare un ruolo di coordinamento territoriale e di contrattazione, all'interno della stessa amministrazione statale e nel rapporto con gli altri soggetti portatori di risorse? Se vogliamo fare come in Francia, allora è bene andare fino in fondo ed evitare questa evidente contraddizione.

Preparandoci, poi, a gestire una fase di transizione anche lunga, a monitorare gli inevitabili conflitti, a trovare volta per volta soluzioni flessibili, a investire nel tempo su una nuova leva di risorse umane dirigenziali di questa amministrazione, che sappiano integrare esperienza tecnico-scientifica con qualità manageriali. Io sono convinto che all'interno dell'amministrazione esistono risorse che possono partecipare a questa leva, e anche per questo mi sembra importante l'opportunità che è offerta dai nuovi uffici regionali: per rompere un assetto gerarchico e un modello organizzativo top-down che ha la sua parte di responsabilità nella spiegazione dello stato insoddisfacente dell'azione amministrativa in questo, come in altri, settori. E' legittimo e comprensibile che le burocrazie delle direzioni generali oppongano resistenza a questo processo. Ma è anche possibile, in questi casi, fare appello alle forze intermedie e, se necessario, a forze nuove.

Così come non concordo con le critiche che il Consiglio Nazionale ha opposto al processo di regionalizzazione, che farebbe diventare troppo "leggere" le direzioni generali esistenti, non capisco neanche la polemica contro le nuove direzioni generali. Le nuove direzioni generali, se ben le guardiamo, sono davvero leggere, perché tutte le nuove funzioni assegnate al ministero per i Beni e le Attività culturali sono funzioni leggere. Sull'architettura e sull'arte contemporanea si tratta essenzialmente di funzioni di promozione, formazione, sollecitazione ed incentivazione ad altri enti a produrre (ad esempio, la progettazione di qualità dell'architettura, i premi e le borse di studio per i giovani creatori, ecc.).

Le nuove direzioni, insomma, sono davvero figlie dell'originario disegno di un ministero snello, di un ministero che si libera di compiti gestionali e si dota di staff di elevato livello che possano gestire missioni nazionali sui fattori trasversali di sviluppo del settore. Esse nascono di per sé leggere - mentre le altre, se vogliamo, lo dovranno diventare gradualmente nel tempo - e forse è necessario che il processo sia monitorato attentamente, per evitare che cavilli amministrativi o pigrizia attuativa facciano nascere i nuovi uffici carichi di inutili fardelli.

L'ultimo punto che vorrei toccare riguarda un'altra dimensione del processo di devoluzione, che non attiene ai rapporti fra Stato ed enti locali, ma ai rapporti fra i diversi apparati dell'amministrazione statale. Mi riferisco all'autonomia contabile, amministrativa e finanziaria degli uffici periferici e degli organi che gestiscono beni culturali (musei, aree archeologiche, monumenti), soprattutto quelli di più grande dimensione. Il regolamento non rispetta alcune promesse programmatiche e non contiene segnali di avanzamento sull'autonomia. E' vero che non ci sono neppure passi indietro. E' vero - o almeno, così sembra - che l'autonomia può passare per altri atti. Tuttavia, si tratta a mio parere di un segnale negativo.

Negativo per chi l'autonomia la sta sperimentando, poiché sembra di intravedere un giudizio quanto meno neutrale sull'esperienza in corso a Pompei, che al contrario sta visibilmente cogliendo risultati di grande rilievo: penso al nuovo sistema contabile, alla riorganizzazione delle procedure, alla razionalizzazione degli acquisti, al sistema di monitoraggio, alle gare d'appalto per il giardinaggio, i servizi aggiuntivi e la biglietteria elettronica. Penso al patrimonio di esperienza e di conoscenza accumulato in soli due anni dalla soprintendenza autonoma, che ha un enorme valore per tutto il sistema perché è possibile ormai trasferirlo ad altri uffici senza incorrere nei costi di apprendimento e di aggiustamento in cui, inevitabilmente, ci si è imbattuti in fase di sperimentazione.

Ma è un segnale negativo anche per chi l'autonomia la sta aspettando e reclamando, come le direttrici e i direttori dei musei statali, che hanno recentemente firmato un appello in proposito, anche finalizzato al riconoscimento della figura professionale (ecco un esempio di "forze intermedie" che mi sembra poco valorizzato dalle posizioni ultra-conservatrici del Consiglio Nazionale).

Con il sensibile aumento della domanda e delle risorse destinate alla cultura, realizzato in questi anni, il vero pericolo che abbiamo di fronte è che l'amministrazione non sia all'altezza dei nuovi compiti che le sono stati assegnati. Che la domanda resti razionata, che le risorse disponibili restino inutilizzate, che le opportunità di aumentarle ulteriormente non vengano colte. Che non venga avviato, insomma, un ciclo di investimenti nelle strutture organizzative, nella capacità professionali, nell'abilità gestionale - investimenti almeno tanto importanti quanto quelli destinati ai cantieri di restauro. La chiave di questi investimenti, però, si chiama autonomia, nelle sovrintendenze così come nei musei e nelle aree archeologiche. Anche procedendo gradualmente e tenendo ben conto dei fattori dimensionali rilevanti.

Senza autonomia, infatti, manca l'incentivo all'innovazione amministrativa e gestionale. Ma, a mio parere, si attenua anche l'incentivo all'innovazione nella sfera della produzione dei servizi culturali, come la ricerca, il catalogo, la manutenzione, ecc. Poiché sappiamo bene che uno degli ostacoli di fondo del funzionamento del nostro sistema, soprattutto nello Stato, ha origine da una composizione del personale troppo sbilanciata verso le basse qualifiche, che lascia poco spazio alle qualifiche tecniche e a quelle "nuove", connesse alla gestione attiva dei processi di tutela e di valorizzazione, il vero passo avanti che dobbiamo avere il coraggio di compiere è, semmai, quello di rilanciare sull'esperienza di Pompei e di avviare un nuovo ciclo di esperienze di autonomia, comprendendovi in questo caso anche il personale. I beni culturali dovrebbero al più presto, insomma, seguire l'esperienza delle Università.



Note

[1] P. Leon, L'economia della riforma, in Economia della cultura, n. 2, 1999; A. Bariletti e M. Causi, Risorse e occupazione nei beni culturali, Accademia Nazionale dei Lincei, Sviluppo tecnologico e disoccupazione: trasformazione della società, Atti dei Convegni Lincei, n. 139, Roma, 1998.

[2] Ministero per i beni e le attività culturali - Dipartimento dello Spettacolo, La spesa pubblica per la cultura e lo spettacolo in Italia nella prima metà degli anni '90, Roma, 1998 (mimeo).

[3] Come è documentato, ad esempio, in A. Leon, La gestione privata dei beni culturali in Italia, in Economia della Cultura, n. 3, 1997 e in R. Grossi e S. Debbia (a cura di), Cantiere Cultura, Edizioni Il Sole 24 Ore, Milano, 1998.

[4] Cfr. Ministero per i beni culturali e ambientali e Cles, Finanziamenti comunitari e beni culturali, Roma, 1996 e M. Causi, Politiche per l'occupazione e beni culturali, in Economia Pubblica, n. 3, 1997.

[5] M. Cammelli, Riordino istituzionale dei beni culturali e dello spettacolo in una prospettiva federalista, in Economia della Cultura, n. 3, 1996 e P. Leon, Note a margine della relazione Cammelli, in Economia della Cultura, n. 3, 1996.

[6] P. Beghain, Le competenze condivise, ovvero il paradosso francese, in Economia della Cultura, n. 2, 1999.

[7] P. Petraroia, Il raccordo fra i diversi livelli istituzionali: vecchie controversie e nuovi scenari, in Economia della Cultura, n. 2, 1999.



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