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Il problema dei monumenti nazionali e dei loro archivi

di Romeo Astorri

 

Il tema dei beni culturali di interesse religioso è oggetto, dopo la firma degli Accordi di Villa Madama di molta attenzione da parte della dottrina. In particolare essa si è soffermata sulla disciplina dei beni di cui all’art. 12 degli accordi, vale a dire quelli caratterizzati dal requisito dell’interesse religioso e dell’appartenenza ad enti ed istituzioni ecclesiastiche.

Esistono tuttavia beni che presentano un interesse religioso, pur non appartenendo ad enti ed istituzioni ecclesiastiche. Alcuni che sono il frutto di quel complesso di leggi che vanno sotto il nome di "leggi eversive", come i monumenti nazionali, si caratterizzano per la compresenza di tipologie diverse di beni culturali, anzi la loro stessa istituzione deriva dal riconoscimento del valore costituito da questa complessità.

Va subito precisato che la questione dei beni culturali ecclesiastici o di interesse religioso presenta, nella legislazione eversiva del patrimonio ecclesiastico, un carattere residuale rispetto alle disposizioni che, più direttamente concernono la soppressione delle corporazioni religiose e la conversione del patrimonio ecclesiastico.

Come ha mostrato la Gioli [1], le discussioni parlamentari su queste leggi che impegnano il parlamento dal 1864 al 1867 hanno dedicato scarsa attenzione alla tematica dei beni culturali e anche la dottrina ha guardato con attenzione prevalente, se non esclusiva, la questione del patrimonio e degli enti. Solo dopo che, in sede di revisione del concordato, i beni culturali sono stati oggetto di trattative, si è incominciato a guardare a questo tema con maggiore attenzione [2].

Le leggi eversive, tuttavia, accanto alla salvaguardia di alcuni beni culturali che vengono trasferiti a musei e biblioteche di enti locali, individuano taluni complessi appartenenti al patrimonio delle corporazioni e degli enti soppressi, la cui cura viene avocata a sé dal potere centrale e "il cui superiore ed eccezionale interesse storico-artistico diventa icona dell’identità ed unità della nazione"[3].

Nasce così una delle più "curiose" fattispecie di beni culturali, anche per le vicende che ne hanno contrassegnato il nascere, quella degli stabilimenti ecclesiastici dichiarati monumenti nazionali. La legge 7 luglio 1866, n. 3096, all’art. 33, prevede per il governo l’obbligo della conservazione di alcuni complessi monumentali e, all’art. 18, comma 7, esclude dalla devoluzione al demanio e dalla conversione i complessi suddetti.

La legislazione successiva ha confermato e completato quanto disposto dalla legge del 1866. Infatti la legge 15 agosto 1867, n. 3848, all’art. 22, dichiara che sono in vigore le disposizioni della legge dell’anno precedente quando non fosse stato disposto diversamente e, all’art. 1, fa esplicito riferimento ai monumenti nazionali.

Oggi risultano essere monumenti nazionali molti complessi monumentali che presentano un interesse rilevante, non solo dal punto di vista architettonico e delle arti figurative, ma anche per il complesso dei beni archivistici e librari, come è emerso nel convegno tenutosi a Casamari e Ferentino dal 6 all’8 novembre 1998 e i cui atti sono in corso di pubblicazione, dal titolo significativo, "La memoria silenziosa. Formazione, tutela e status giuridico degli Archivi monastici nei Monumenti nazionali".

Le norme sui monumenti nazionali presenti nel corpus delle leggi eversive non sono molte e, in prevalenza, riguardano le procedure per arrivare alla loro designazione e le conseguenze che derivano da tale dichiarazione.

La l. 3096, all’art. 33, dichiara monumenti nazionali le abbazie di Montecassino, di Cava dei Tirreni, di San Martino della Scala, di Monreale e della Certosa di Pavia. Lo stesso articolo prevede che altri complessi monumentali possano ottenere la medesima qualificazione. In questo caso, in base all’art. 5.4 del regolamento di esecuzione della legge, la designazione viene fatta dal consiglio di Amministrazione del Fondo per il culto e approvata dal ministro di Grazia e Giustizia e dei culti, sulla base di una relazione del direttore del Fondo stesso.

La l. 3848 precisa poi che tale designazione deve essere fatta con decreto reale. Il decreto reale 5 luglio 1882, n. 917 modifica ulteriormente le disposizioni, stabilendo che la designazione dei monumenti nazionali deve essere fatta di intesa con il ministro della istruzione pubblica.

A conferma di una certa laboriosità di questa normativa, dalla ricerca della Gioli emerge non solo la fatica con la quale nel dibattito parlamentare si venne elaborando la nozione, ma anche le perplessità che accompagnarono l’attuazione della legge stessa [4].

La stessa scelta di dichiarare, per legge, monumenti nazionali alcuni stabilimenti ecclesiastici, mentre per gli altri sarebbe bastato un decreto reale non appare particolarmente felice, visto che quando si è trattato di togliere la qualifica di monumento nazionale all’Abbazia di S. Martino della Scala si è dovuta approvare una legge apposita [5]. Comunque con un decreto reale del 15 agosto 1869 15 complessi vennero dichiarati monumenti nazionali [6]. Mentre nel 1877 erano inscritte nel bilancio del fondo per il culto dotazioni per altri 7 monumenti nazionali [7].

Una volta che un complesso è stato dichiarato monumento nazionale sorge per il governo l’obbligo della sua conservazione, con spesa a carico del Fondo per il culto, un obbligo che non si limita all’edificio, ma si estende anche a tutti gli elementi ("adiacenze biblioteche, archivi, oggetti d’arte, strumenti scientifici e simili") che vi sono annessi.

In base all’art. 75 del regolamento del 1867, tale obbligo comporta poi l’esclusione dalla vendita dei monumenti e dei chiostri monumentali determinati dalle leggi 7 luglio 1866 e 15 agosto 1867. Ne deriva una condizione diversa da quella degli altri beni culturali delle corporazioni soppresse, per i quali la legge prevedeva la possibilità della alienazione, con il solo vincolo per i direttori del demanio incaricati della vendita, in caso di alienazione di beni che contenessero monumenti, oggetti d’arte e simili, di porre tra le condizioni speciali, quanto ritenessero necessario per la loro conservazione [8].

La legge 19 giugno 1873, n. 1402 che estende alla provincia di Roma le leggi eversive, con una variante terminologica, stabilisce l’obbligo della conservazione degli edifici o di altri stabilimenti ecclesiastici segnalati per ricordi storici, per importanza monumentale, artistica o letteraria e dispone, all’art. 8, comma 1 che siano eccettuati dalla conversione, tra gli altri, i beni di cui al numero 7 dell’art. 18 della legge del 7 luglio 1866, vale a dire i monumenti nazionali.

Per l’art. 6 della legge sulle fabbricerie del 1870 [9] erano, poi, esenti dall’imposta del 30% "quegli edifizi addetti al culto… che siano dichiarati monumenti con Decreto Reale, sentito il parere della Giunta centrale di antichità e belle arti". Questa norma riguarda specificamente gli edifici di culto, dichiarati monumenti nazionali, ma la dottrina l’ha interpretata come se concernesse tutti i monumenti nazionali.

Da ultimo, l’art. 25 del regolamento attuativo della legge 1402, dispone che tocchi alla giunta consegnare gli edifici monumentali al ministero della istruzione pubblica insieme con una rendita prelevata dal bilancio del Fondo per Roma e provvedere all’inventario dei quadri, delle statue, degli arredi e dei mobili inservienti al culto che rimangano all’uso delle chiese dove si trovano.

Rimane ora da verificare quali siano, secondo la legislazione in questione, i requisiti perché un bene sia dichiarato monumento nazionale. L’art. 33 della legge 3096 definisce i monumenti nazionali "stabilimenti ecclesiastici distinti per la monumentale importanza e pel complesso dei tesori artistici e letterari".

A sua volta, la legge 1402 parla, all’art. 22, di "edifici od altri stabilimenti ecclesiastici di Case soppresse segnalati per ricordi storici, per importanza monumentale, artistica o letteraria". Da una lettura unitaria delle due disposizioni si può ritenere che i monumenti nazionali siano stabilimenti ecclesiastici che presentano quali requisiti essenziali, oltre al carattere monumentale, la presenza di un insieme di altri tesori artistici e letterari, oppure, nel caso della provincia di Roma, anche semplici edifici di case soppresse che si segnalino per ricordi storici, per importanza monumentale, artistica o letteraria.

Il primo elemento da chiarire è quello della ecclesiasticità. Con tale espressione, a mio avviso, si individua un carattere originario posseduto dal bene stesso, la cui interpretazione può essere collegata al "carattere ecclesiastico" cui fa riferimento l’art.1 della legge 7 luglio 1866 a proposito dei conservatori e dei ritiri, e sulla quale, soprattutto negli anni immediatamente successivi alle leggi eversive, si è molto discusso.

In riferimento ai monumenti nazionali il carattere della ecclesiasticità significa, a mio avviso, che lo stabilimento (che traduce il francese établissement, un termine che non ha un significato meramente materiale, in quanto può anche significare istituzione) possiede, dal punto di vista canonico, o meglio, dal punto di vista del rinvio che la legge fa al diritto canonico, tutti i requisiti previsti per la sua devoluzione al demanio o per la sua conversione.

Infatti la legge, prevedendo, nel caso specifico, una eccezione rispetto alla sorte subita dalla stessa tipologia di beni, in ragione della monumentalità dello stabilimento ecclesiastico cui sono pertinenti, indica che la mancanza di tale requisito comporterebbe la sua devoluzione al demanio o la sua conversione.

L’eccezione si fonda sul riconoscimento che il complesso presenta alcune caratteristiche. Secondo la legge del 1866 lo stabilimento deve possedere un carattere monumentale e, in secondo luogo, ad esso devono essere pertinenti una pluralità di altri beni (tesori) artistici e letterari (indicate in riferimento ai complessi riconosciuti dallo stesso art. 33, come le biblioteche, gli archivi, gli oggetti d’arte, gli strumenti scientifici e simili).

La legge per Roma propone due variazioni, innanzitutto permette di applicare la nozione di monumento nazionale anche ai semplici edifici di case soppresse, in secondo luogo introduce una modifica nella interpretazione della valenza monumentale del bene, che diventa non il requisito, ma uno dei requisiti, che lo qualificano e che potrebbe anche non sussistere, sostituito dalla presenza significativa di ricordi storici, o dall’importanza monumentale, artistica o letteraria. La distinzione tra edificio e stabilimento ecclesiastico, poi, induce a ritenere che non sia sempre richiesto il carattere di contenitore di una pluralità di tesori, essenziale alla luce della legge del 1866.

I monumenti e i beni ad essi attinenti sono da considerare beni demaniali, come si evince dall’ultimo comma dell’art. 18 della legge del 1866, secondo il quale gli agenti della pubblica amministrazione devono prendere possesso dei monumenti nazionali, colle loro adiacenze e coi mobili.

La spesa relativa agli edifici monumentali è, secondo lo Scaduto, "un obbligo speciale imposto dalla legge, indipendentemente dalle rendite dell’ente rispettivo" [10] e non è prevista la laicizzazione di tali edifici, che possono quindi essere compresi tra quelli di cui all’ultimo comma della legge 15 agosto 1867 e all’art. 6 della legge 11 agosto 1870, n. 5784.

Di un caso concreto di applicazione delle disposizioni concernenti i monumenti nazionali abbiamo una riprova nel verbale concernente lo "Stabilimento ecclesiastico dei Girolamini in Napoli". Da esso risulta che il delegato del demanio ha proceduto alla presa di possesso dei beni della congregazione, il rappresentante del ministro della pubblica istruzione ha reso noto che, con delibera del consiglio di amministrazione del Fondo per il culto approvata dal ministro, era stata disposta la conservazione della casa e della chiesa, quale "edifizio monumentale" e il delegato del demanio ne assegnava, sempre su indicazione del rappresentante del ministro, la custodia, insieme ai beni mobili inventariati, ai padri filippini, nominativamente indicati nel verbale [11].

Successivamente il ministro designava un soprintendente nella persona del sacerdote, coadiuvato da custodi già nominati, provvisoriamente, al momento della presa di possesso. Viene versata al soprintendente la somma che il Fondo per il culto ha stanziato per la manutenzione e la custodia delle edificio.

Il caso della chiesa e del convento dei Girolamini mostra con chiarezza la complessità della questione. L’istituto era compreso tra le eccezioni allo scioglimento previste dal decreto luogotenenziale per le provincie napoletane del 13 ottobre 1861. Poi la legge del 1866 aveva soppresso anche la casa dei Girolamini, malgrado qualche perplessità della dottrina sulla natura degli oratoriani, i quali non emettevano voto di obbedienza. Inoltre, come risulta dal verbale della presa di possesso gli oratoriani, sacerdoti o laici, presenti alla data del decreto con cui il complesso viene dichiarato monumento nazionale, sono quattordici, mentre secondo la legge 3096 solo le monache che ne facevano espressa e individuale domanda entro tre mesi, potevano continuare a vivere nella casa o in parte della casa, fino a quando non si fossero ridotte a meno di sei. Se la presenza dei religiosi è giustificata, secondo lo Scaduto, dal diritto d’uso che spettava comunque a quelli che erano presenti nello stabilimento ecclesiastico al momento della soppressione, si tratta, comunque, di una anomalia di non poco rilievo.

In seguito, dopo il concordato del 1929, la congregazione ha ottenuto la personalità giuridica, che viene concessa, in base all’art. 29 a) anche alla chiesa ex-conventuale [12].

Il fatto che in taluni altri monumenti nazionali abbia continuato a vivere un ente non soppresso, come la diocesi, nel caso di Montecassino, o la parrocchia, nel caso di Praglia, mostra la complessità della situazione, che si è venuta a creare. Essa nasce dal fatto che, da un lato coesiste in essi, come in ogni bene culturale di interesse religioso, un "concomitante interesse sia della Chiesa, sia dello Stato", che si estrinseca nella presenza di enti ecclesiastici, che, a titolo diverso e per finalità diverse utilizzano il bene, o ne sono in parte i possessori, dall’altro, nel complesso, si collocano beni culturali diversi, sottoposti, nell’ordinamento statuale, ad una disciplina differente.

La presenza degli archivi si pone, dunque nel quadro di questa complessità e diventa essa stessa produttrice di complessità, in quanto si può ipotizzare che ci si trovi in presenza non solo di archivi dello Stato, ma anche di enti ed istituzioni ecclesiastiche, e, in qualche caso, di privati, sottoposti dalla legislazione archivistica a discipline diverse.

D’altra parte il fatto che, salvo il caso delle abbazie della Campania, non esistano sezioni archivistiche, ma si debba sempre parlare di biblioteche dei monumenti nazionali mette in luce un ulteriore aspetto della complessità cui si è accennato.

Che esista qualche difficoltà anche nella consapevolezza del problema posto dagli archivi dei monumenti nazionali lo si può notare in un recente intervento sui beni archivistici nel quale non pare emergere la radicale diversità di status esistente tra l’archivio di Montecassino o di Montevergine e gli archivi diocesani e li si considera tutti come oggetto delle norme previste dall’art. 12 degli accordi di Villa Madama [13].

Per una considerazione generale credo si debba tenere conto come i monumenti nazionali siano gli unici casi, insieme agli edifici di culto nei quali il legislatore post-unitario abbia voluto preservare l’integrità del bene delle corporazioni soppresse, non per la tutela dell’interesse di culto, come per le chiese, ma, fatto, a mio avviso notevole, per una valutazione del ben in se stesso come elemento complesso e unitario in tutte le sue componenti.

Anche se poi lo Stato, mentre ha svolto una politica che ha portato ad una più penetrante tutela dell’interesse religioso connesso al culto, è stato molto meno attento a quello più direttamente culturale, anch’esso presente nei monumenti nazionali. Questo lo si può notare, del resto, nella sostanziale ambiguità della stessa nozione di monumento nazionale che, come si evidenzia anche dalla già citata l. 5784, che parla, all’art. 3 di "quelle chiese che con d.r. verranno dichiarate monumenti patrii" escludendo dalla conversione dei beni delle Fabbricerie quelle cave di marmi che siano destinate esclusivamente alla manutenzione, riparazione e completamento delle suddette chiese, può anche essere riferito ad un edificio di culto, in quanto tale.

Proprio a causa di questa sovraestimazione del servizio cultuale cui il bene era dedicato, che ha portato anche alla rottura della originaria unitarietà della proprietà di parte del complesso di beni che stanno a fondamento della qualificazione di monumento nazionale, si pone il problema della diversa disciplina cui, nel caso specifico, gli archivi sono sottoposti, proprio in quanto la normativa che li riguarda appare meno immediatamente condizionata da esigenze di carattere cultuale. In effetti, nel caso degli archivi dei monumenti nazionali, emerge la necessità di definire se l’interesse religioso di un bene culturale si esaurisca o meno nell’interesse cultuale e se, come risulta da un intesa firmata nel 1997 dalla Sicilia e dalla Regione ecclesiastica Sicilia, che individua nella "valorizzazione del patrimonio storico-artistico di interesse religioso a chiunque appartenga" un oggetto di intesa con la Chiesa cattolica, si debba ricorrere all’accordo anche nel caso di beni culturali non appartenenti ad enti e istituzioni ecclesiastiche.



Note

[1] A. Gioli, Monumenti e oggetti d’arte nel Regno d’Italia. Il patrimonio artistico degli enti religiosi soppressi tra uso e riuso, tutela e dispersione. Inventario dei "Beni delle Corporazioni religiose" 1860-1890, Roma 1997.

[2] Per una sintesi delle discussioni, con riferimenti anche alle trattative per il concordato lateranense, cfr. G. Feliciani, I beni culturali ecclesiastici nell’Accordo Italia-Santa Sede del 1984 e nelle sue norme di attuazione, in: Winfried Sculz in memoriam. Schriften aus Kanonistik und Staatskirchenrecht, v.1, Frankfurt am Mein, Peter Lang, 1999, 225-248.

[3] A. Gioli, Monumenti…, cit., 49.

[4] Ibid., 68-84.

[5] Si tratta della legge 21 giugno 1869, n. 5195.

[6] L’elenco comprendeva la chiesa e il convento di S. Francesco in Assisi, l’abbazia di Montevergine, quella di S. Niccolò l’Arena a Catania, i complessi di S. Filippo dei Gerolamini e di S. Martino in Napoli, le chiese della Martorana e di S. Giovanni degli Eremiti a Palermo, la Certosa di Calci e una serie di complessi monumentali a Firenze, le chiese e i conventi dell’Annunziata, di S. Croce, di S. Marco, di S. Maria del Carmine, di S. Maria Maggiore, di S. Maria Novella e di S. Spirito.

[7] Si erano aggiunti il convento di Fossanova, il cenobio di Monte Oliveto Maggiore ad Asciano, il convento di S. Domenico a Bologna, la certosa del Galluzzo a Firenze, il convento dei Basiliani a Grottaferrata, il convento di Subiaco e quello di Casamari e il convento della Quercia a Viterbo.

[8] All’art. 88 c. il regolamento dispone che, tra le condizioni speciali di vendita si devono indicare "le prescrizioni e le condizioni che si reputerà necessarie di introdurre qualora si trattasse di beni… che contengano monumenti, oggetti d’arte e simili allo scopo di garantirne la conservazione".

[9] Legge 11 agosto 1870, n. 5784 Allegato P, che ordina la conversione dei beni immobili delle Fabbricerie.

[10] F. Scaduto, Diritto ecclesiastico vigente in Italia, v. II, Torino 1892-1984, 409.

[11] F. Petroncelli Hubler, La tutela dello "Stabilimento ecclesiastico dei Girolamini in Napoli": un problema antico su cui si torna a discutere, in Diritto e Giurisprudenza 1982, 309-318.

[12] Sulla problematica delle chiese monumentali, cfr. R. Baccari, Sui vincoli di monumentalità delle chiese pubbliche, in Annali della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bari, Nuova Serie, vol. VI, 1946 (ora in R. Baccari, Scritti minori. Tomo secondo Diritto ecclesiastico, 67-114 n.d.a).

[13] M. Piccialuti, Beni archivistici, in G. Feliciani (a cura di), Beni culturali di interesse religioso. Legislazione dello Stato ed esigenze di carattere confessionale, Bologna 1995, 216-219.



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