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Giornata di studio su "L'istituzione del ministero per i Beni e le Attività culturali" nel quadro delle riforme amministrative

 

Il nuovo ministero: questioni risolte e problemi aperti

di Marco Cammelli

 

1. Non c’è bisogno di spendere molte parole per illustrare le ragioni delle analisi qui presentate. L’istituzione del ministero per i Beni e le Attività culturali (da ora MBAC) è prima di tutto un evento di grande importanza in sé, sia come riallocazione di funzioni prima dislocate in più sedi e affidate ad apparati di diversa taglia e regime, che come intervento di riordino e modernizzazione delle strutture del ministero.

Si tratta poi, ed è il secondo ordine di motivi per guardare con grande attenzione al d.lg. 368/1998, della prima attuazione degli artt.11 e 12 della l. 59/1997 vale a dire di quel capo II che impone di dare seguito all’ampio decentramento disposto con il capo I rivedendo a fondo la Presidenza del Consiglio, i ministeri e gli enti pubblici.

Tutti sanno, infatti, che le limitate anticipazioni che si sono avute in materia, segnatamente con la riforma (e relativa fusione) del ministero del Tesoro e del Bilancio (d.lg. 430/1997) e dell’Agricoltura (d. lg.143/1997) o erano frutto di altre deleghe (come nel primo caso) o trovavano la loro ragione in specifiche, e congiunturali, condizioni di altro genere (il secondo).

Dunque, la riforma dell’MBAC costituisce il primo esito del processo avviato dalla legge sul c.d. federalismo amministrativo e come tale, oltre che per gli aspetti intrinseci al riordino delle amministrazioni di settore, va considerato ed esaminato.

 

2. Nel progettare l’odierna giornata di studio, tuttavia, non si è ritenuto di affrontare questi temi, e le scelte operate in materia, senza un richiamo ad altri aspetti che ci sono sembrati egualmente importanti, anzi vere e proprie chiavi di lettura per la piena comprensione della riforma. Così, dopo un intervento interamente dedicato a ricostruire, come appunto recita il titolo, la filosofia e la pratica da riconoscere all’attuazione del capo II della l. 59/1997 (Gaetano D’Auria), è parso necessario riprendere il filo di attività ed esperienze senza le quali la lettura del decreto sarebbe, insieme, più difficile e più povera.

La riforma del ministero, in altre parole, è in qualche modo figlia anche dell’ampia istruttoria e delle proposte maturate in seno alla commissione che proprio a questi fini fu costituita presso il Ministro all’inizio della XIII legislatura (cd. commissione Cheli); risente, e non poteva essere diversamente, dell’intensa opera di riforma organizzativa e strutturale posta in essere, sia pure con provvedimenti di settore, nei due anni precedenti; sollecita una particolare attenzione verso quelle esperienze che, come il regime speciale di autonomia dettato appositamente per la soprintendenza di Pompei, hanno rilievo tanto in sé quanto come prime verifiche su campo di ipotesi di gestione autonoma poi generalizzate dall’art.8 del decreto 368. Gli interventi rispettivamente di Paolo Leon, Carla Barbati e Giuseppe Gherpelli sono dedicati proprio all’esame di questi profili.

 

3. Veniamo così al riordino, cioè ai contenuti della riforma e alla fisionomia che il neo-istituito ministero è destinato ad avere. Il tema è evidentemente assai ampio, ma si è pensato che i versanti più significativi fossero almeno quattro: le scelte operate nell’impianto del ministero sia come opzioni istituzionali che come fisionomia adottata per la struttura centrale (Giorgio Pastori); le indicazioni offerte sul delicato terreno degli organi di consulenza e più in generale delle strutture a carattere tecnico (Girolamo Sciullo); le esternalizzazioni, sia in termini di attività che di gestione di beni, immaginate con notevole ampiezza dall’art.10, che affrontano un profilo strategico delle politiche e della stessa organizzazione del MBAC ponendo le premesse di quello che si potrebbe definire, appunto, il ministero fuori dal ministero (Eugenio Bruti Liberati); il versante, cruciale come tutti sanno, delle soprintendenze e più in generale della amministrazione periferica, cui sono dedicati gli interventi di Luigi Bobbio e Giovanni Pitruzzella.

Nell’affrontare questi temi, va subito detto, l’analisi non potrà che essere per grandi linee per almeno due ragioni. La prima è che la disciplina del decreto, coerentemente alle scelte generali ormai operate in materia dalla legge delega, si limita ad alcune opzioni organizzative fondamentali, essendo il rimanente (e, in particolare, l’organizzazione degli uffici e delle dotazioni organiche) affidato a successivi regolamenti governativi (art. 13 l. 59/1997).

La seconda, e ancor più determinante, consiste nel fatto che i presupposti di ogni corretta scelta organizzativa, vale a dire il quantum e la natura delle funzioni da esercitare nonché il livello della loro allocazione, sono significativamente condizionati dall’andamento di tre processi che per il momento sono solo facoltizzati, e dei quali è quindi impossibile valutare, oggi, l’esito e la consistenza: il primo è quello del decentramento alle regioni o agli enti locali di musei e altri beni culturali ai sensi dell’art.150 del d.lg. 112/1998; il secondo è correlato alle esternalizzazioni verso fondazioni o soggetti privati in ragione del ricordato art.10 del decreto 368; il terzo, infine, va riferito alle innovazioni previste in tema di amministrazione periferica e, più precisamente, al ruolo del soprintendente regionale nonché all’ampiezza dell’autonomia gestionale delle restanti soprintendenze.

Se è vero infatti, come esattamente osserva Pastori, che tali norme non prevedono il decentramento di funzioni in senso stretto, è altrettanto vero che i principi del capo I della l. 59/1997 si traducono nel generale favor per un decentramento e una autonomia di gestione che valgono anche per l’intera amministrazione periferica dello Stato e che un livello regionale realmente incisivo in termini di coordinamento, di programmazione e di verifica comporta o il superamento delle altre soprintendenze (come del resto aveva immaginato la commissione Cheli, v. intervento Leon) o, almeno, il loro affrancamento dall’attuale e rigido accentramento anche per microdecisioni quotidiane e operative dovrebbero comportare un diverso modo di essere, in termini funzionali e di risorse, dei restanti apparati ministeriali.

Si noti, peraltro, che se queste sono dinamiche che dovrebbero portare ad un forte alleggerimento (quantomeno) degli apparati centrali del ministero, altri e concomitanti processi potrebbero condurre al risultato, opposto, di ampliarne significativamente l’ambito di operatività, basti pensare alle conseguenze che derivano dalla rilettura delle definizioni di paesaggio o di bene culturale riferibile al testo unico in corso di elaborazione e già inviato al parere parlamentare o a quanto potrebbe conseguire alla approvazione del nuovo regime dei centri storici, interamente assoggettato ad autorizzazioni delle soprintendenze.

Dunque, il quadro delle funzioni assegnate al ministero è soggetto a numerosi cambiamenti relativi all’estensione dei poteri assegnati e alle modalità del loro esercizio, il che non potrà non avere influenza sul modello e sulle scelte di carattere organizzativo.

 

4. Le considerazioni appena effettuate portano al cuore di alcuni interrogativi che investono, appunto, la riforma del ministero e che è giusto affrontare, non per riproporre (sterilmente) l’acceso dibattito di qualche tempo fa, ma per dare profondità alla lettura della riforma e, più ancora, per tenerne il debito conto nella attuazione.

Il primo quesito riguarda il ruolo, o se vogliamo l’idea di ministero che si è considerata nella stesura del decreto. Nella discussione di allora, al netto di pregiudiziali ideologiche favorevoli o contrarie ma parimenti inutili (appunto perché tali), erano emerse posizioni assai diverse sia in ordine al ruolo che alla fisionomia di quella che si definiva "l’autorità di governo": controversa, in particolare, era risultata la questione del se concentrare l’intera cura degli interessi pubblici del settore in un unico ministero o differenziarne invece le vocazioni (come quelle di valorizzazione e tutela, v. Covatta; come tutela dei beni e tutela dell’ambiente, v. Amorosino) assegnandole a sedi diverse, vale a dire al ministero e al sistema locale o a due ministeri distinti (beni culturali e territorio, come nelle proposte della commissione De Vergottini).

Forti differenze si avevano anche sulla formula stessa del ministero, ritenendo alcuni (come chi scrive) che il forte decentramento territoriale e l’accentuata tecnicità funzionale rendessero preferibili al centro sedi cooperative, agenzie, e uffici di staff per i quali era necessario un "ministro" (espressione politica in consiglio dei ministri degli interessi di settore) piuttosto che un "ministero"; ritenendo molti altri (la grande maggioranza) che di un ministero, sia pure leggero, vi fosse comunque bisogno.

Altri aspetti, invece, avevano registrato un accordo diffuso: l’attivazione di maggiori rapporti (finanziari e gestionali) con il privato, la necessità di una forte integrazione funzionale con le competenze di regioni ed enti locali, la autonomia (non solo dal potere politico, esterno, ma anche da quello amministrativo, interno) del personale tecnico; un forte decentramento a favore delle soprintendenze, mentre risultava del tutto incerto se e quanto la materia fosse suscettibile di interventi di semplificazione.

Il decreto 368, da questo punto di vista, richiede dunque una doppia lettura: il rapporto con l’intelaiatura e i principi del capo II della legge 59 e il raffronto con i contenuti del dibattito appena richiamato, cosa che sarebbe stata più agevole a farsi con la conoscenza dei materiali e dei risultati della commissione Cheli, purtroppo non ancora disponibili.

Il secondo interrogativo verte invece sul rapporto tra riordino del ministero e più generale processo di riforma del settore: esternalizzazioni verso il privato e il sociale, conferimenti al governo locale e autonomia degli uffici periferici, come si è detto, sono elementi che finiscono per modificare sensibilmente le funzioni assegnate al ministero incidendo, necessariamente, sul ruolo e la taglia di quest’ultimo

La sequenza ideale, del resto così definita anche dalla legge 59, avrebbe richiesto dunque prima la allocazione delle funzioni e poi il riordino del centro, mentre in questo caso è avvenuto esattamente il contrario.

Per gli inguaribili pessimisti non vi è alcun deuteron-proteron perché l’organizzazione delineata è calibrata sulle funzioni attualmente esercitate che, in realtà, si pensa di mantenere. Mi pare invece possibile, e più corretta, una diversa lettura, che considera l’inversione tra compiti e struttura un prezzo da pagare alle virtù del gradualismo di cui le condizioni del contesto e queste dinamiche, appunto, hanno indubbia necessità.

Se è così, allora l’interrogativo si sposta alla fase successiva e su un terreno diverso: il criterio di lettura del decreto diventano non già le scelte fatte ma quelle da fare, e in particolare l’attitudine del MBAC a sapersi adattare alle dinamiche appena richiamate. Ove, come è chiaro, gli elementi cruciali sono costituiti insieme dalla flessibilità, necessaria all’adattamento della struttura, dalla apertura all’esterno, vale a dire dalla predisposizione di credibili innesti dedicati ai referenti privilegiati (autonomie territoriali e soggetti privati) e, soprattutto, dagli incentivi predisposti per assecondare questo percorso.

Le relazioni qui presentate, e l’intervento di Oberdan Forlenza, mi sembra ci aiutino a rispondere a questi interrogativi.



copyright 1999 by Società editrice il Mulino


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