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Osservatorio sulla giurisprudenza del Consiglio di Stato
in materia di beni culturali e paesaggistici

a cura di Giancarlo Montedoro [*]
(con la collaborazione della dott.ssa Vania Talienti)
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Sommario: 1. Beni culturali. - 2. Beni paesaggistici.

1. Beni culturali

Cons. Stato, sez. VI, 19 novembre 2024, n. 9285 - Pres. Simonetti, Est. Gallone - Sulla natura e sui presupposti per la valutazione dell’interesse culturale di un bene.

È legittimo il provvedimento della Soprintendenza di dichiarazione di interesse culturale di un bene, che applichi in concreto, pur non facendone espressa analitica menzione, i criteri individuati dal Consiglio superiore delle antichità e belle arti nella seduta del 10 gennaio del 1974 e recepiti dal decreto del Ministro per i beni e le attività culturali e per il turismo 6 dicembre 2017, n. 537, anche alla luce della necessaria valutazione di tipo globale e sintetico che la contraddistingue e posto che l’interesse culturale dell’opera viene preso in considerazione dalla norma attributiva del potere, non nella dimensione oggettiva di fatto storico (accertabile in via diretta dal giudice), bensì di fatto mediato dalla valutazione affidata all’amministrazione, con la conseguenza che, se è vero che l'interessato può contestare anche il nucleo intimo dell'apprezzamento complesso, lo stesso ha tuttavia l’onere di dimostrare che il giudizio di valore espresso dall’amministrazione sia scientificamente inaccettabile.

Il giudizio per l’imposizione di una dichiarazione di interesse culturale storico-artistico particolarmente importante (c.d. vincolo diretto), ai sensi degli artt. 10, comma 3, lett. a), 13 e 14, del d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), è connotato da un’ampia discrezionalità tecnico-valutativa, poiché implica l’applicazione di cognizioni tecnico-scientifiche specialistiche proprie di settori scientifici disciplinari (della storia, dell’arte e dell’architettura) caratterizzati da ampi margini di opinabilità. Ne consegue che l’accertamento compiuto dall’Amministrazione preposta alla tutela è sindacabile in sede giudiziale esclusivamente sotto i profili della ragionevolezza, proporzionalità, adeguatezza, logicità, coerenza e completezza della valutazione, considerati anche per l’aspetto concernente la correttezza del criterio tecnico e del procedimento applicativo prescelto.

L’orientamento pretorio dominante ha riconosciuto la vigenza nel nostro ordinamento dei criteri individuati dal Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti nella seduta del 10 gennaio del 1974, almeno fino al loro più recente recepimento nel d.m. 6 dicembre 2017, n. 537. Tuttavia, gli stessi svolgono un ruolo di mero indirizzo rispetto alla spendita delle potestà di discrezionalità tecnica attribuite all’amministrazione tutoria e, soprattutto, pongono parametri compositi da applicare, senza automatismo alcuno, in maniera congiunta nell’ambito di un giudizio di tipo globale e sintetico.

L’amministrazione non ha un onere di specifica e analitica confutazione delle osservazioni presentate dalla parte privata a seguito della comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, bastando che ne abbia dato conto in modo sintetico ed essendo sufficiente, ai fini della giustificazione del provvedimento adottato, la motivazione complessivamente resa a sostegno dell’atto stesso.

Cons. Stato, sez. VI, sentenza non definitiva, 16 ottobre 2024, n. 8296 - Pres. Montedoro, Est. Gallone - Sul termine per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio ed interessi sensibili di tutela del patrimonio storico ed artistico.

È rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 21-nonies, comma 1, della legge 7 agosto 1990, n. 241, per contrasto con gli artt. 3, primo comma, 9, primo e secondo comma, 97, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, con riferimento agli artt. 1, lett. b) e d), e 5, lett. a) e c) della Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore dell’eredità culturale per la società, firmata a Faro il 27 ottobre 2005, nella parte in cui, a fronte di un provvedimento a carattere autorizzativo (quale, nel caso di specie, l’attestato di libera circolazione di un’opera) ma incidente su un interesse sensibile e di rango costituzionale, come la tutela del patrimonio storico e artistico, contempla, per l’adozione del provvedimento di annullamento, il rispetto di un limite temporale fisso di dodici mesi. La previsione di un termine de quo si pone in contrasto con il parametro costituzionale di ragionevolezza, con la stessa protezione del primario bene costituzionale dell’integrità, con la responsabilità individuale e collettiva nei confronti dell’eredità culturale, con l’obbligo dello Stato italiano a “riconoscere l’interesse pubblico associato agli elementi dell’eredità culturale, con il valore del buon andamento dell’amministrazione”.

Cons. Stato, sez. V, 18 luglio 2024, n. 6440 - Pres. De Nictolis, Est. Caminiti - In tema di salvaguardia del valore storico artistico e culturale di specifiche zone del territorio comunale sottoposte ad una disciplina diretta a vietare l’esercizio di determinate attività, considerate incompatibili con la tutela del patrimonio culturale e, in particolare, con l’identità culturale collettiva dei luoghi.

Il combinato disposto dell’art. 1, comma 4, del d.lg. 25 novembre 2016, n. 222 e dell’art. 52 del d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio) è volto nel suo insieme, nel contemperamento con la libertà di iniziativa economica, a salvaguardare il valore storico artistico e culturale di specifiche zone del territorio comunale che possono pertanto essere sottoposte ad una disciplina diretta a vietare l’esercizio di determinate attività, considerate incompatibili con la tutela del patrimonio culturale. Peraltro, forme più intense di tutela possono essere dettate, ai sensi del comma 1-bis del citato art. 52, al fine di assicurare la promozione e la salvaguardia di attività di artigianato tradizionale, riconosciute quali espressione dell'identità culturale collettiva ai sensi delle Convenzioni UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e per la protezione e la promozione delle diversità culturali, adottate a Parigi, rispettivamente, il 3 novembre 2003 ed il 20 ottobre 2005, che si svolgono in determinati locali, a prescindere dal vincolo specifico impresso sugli stessi (“fermo restando quanto previsto dall’articolo 7-bis”, il quale a sua volta rinvia, all'art. 10 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, relativo all'individuazione dei beni culturali).

Attesa la ratio della disciplina in esame, ben può estendersi a tali divieti, quanto alle finalità della tutela e valorizzazione in un’ottica propulsiva, in linea generale, il principio dettato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, sia pure in riferimento al vincolo ex art. 10 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, secondo cui il vincolo di destinazione d’uso del bene culturale può essere imposto a tutela di beni che sono espressione di identità culturale collettiva, non solo per disporne la conservazione sotto il profilo materiale, ma anche per consentire che perduri nel tempo la condivisione e la trasmissione della manifestazione culturale immateriale, di cui la cosa contribuisce a costituirne la testimonianza.

Stante la specifica ratio di questa tipologia di divieti, operanti in un’ottica propulsiva di valorizzazione e promozione di determinate forme di artigianato, connotanti il profilo identitario di specifiche e circoscritte zone, ben può comprendersi come gli stessi possano essere sottoposti ad una disciplina più stringente rispetto alla tipologia dei divieti riferiti all’apertura di individuate attività semplicemente considerate incompatibili con le esigenza di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, ex art. 52, comma 1, del citato d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42.

La disciplina in esame si muove nel rispetto dei valori della Carta costituzionale e della primazia da essa recata, in quanto pur dovendo la tutela del patrimonio storico culturale essere contemperata con la liberà di iniziativa economica di cui all’art. 41 della Costituzione, non può tralasciarsi di considerare come la tutela del patrimonio storico culturale, in quanto assurgente a principio fondamentale della Costituzione, ex art. 9, sia destinata a prevalere sulla libertà di iniziativa economica, inserita fra i diritti dei cittadini.

Il Comune, d’intesa con la Regione e sentita la Soprintendenza, oltre a vietare l’esercizio di determinate attività considerate incompatibili con la tutela del patrimonio storico artistico e culturale, ben può, in un’ottica propulsiva, al fine di perseguire le finalità di cui all’art. 52, comma 1-bis del Codice dei beni culturali e del paesaggio, con lo strumento dell’intesa di cui all’art. 1, comma 4, del d.lg. 25 novembre 2016, n. 222 (che rinvia all’intero art. 52 del medesimo Codice e non solo al comma 1), vietare, in aree circoscritte del territorio cittadino - connotate dalla forte presenza di specifiche attività artigianali, caratterizzanti il profilo identitario di quel determinato luogo - tutte le nuove attività non riconducibili a quello specifico profilo identitario, che ben può essere tutelato a prescindere da un preciso vincolo storico culturale impresso a singoli locali.

È pertanto legittimo il provvedimento del Comune di Napoli che ha dichiarato l’inefficacia della SCIA e disposto l’immediata chiusura di un punto vendita aperto da una notissima pasticceria napoletana nella storica via San Gregorio Armeno, in quanto su quest’ultima è imposto un vincolo che riserva la possibilità di nuove aperture solo ad attività artigianali relative alla produzione e vendita di presepi, in linea con la tradizionale vocazione di tale via, famosa in tutto il mondo per il commercio di manufatti inerenti all'arte presepiale.

In tema di interpretazione della legge ai sensi dell’art. 12 delle preleggi, nelle ipotesi in cui l’interpretazione letterale di una norma di legge sia sufficiente ad individuarne, in modo chiaro ed univoco, il relativo significato e la connessa portata precettiva, l’interprete non deve ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca della “mens legis”, specie se, attraverso siffatto procedimento, possa pervenirsi al risultato di modificare la volontà della norma, così come inequivocabilmente espressa dal legislatore e desumibile anche dalla connessione fra i singoli disposti. Soltanto qualora la lettera della norma medesima risulti ambigua e si appalesi altresì infruttuoso il ricorso al criterio ermeneutico sussidiario dell'analisi complessiva del testo, l’elemento letterale e l’intento del legislatore, insufficienti se utilizzati singolarmente, acquistano un ruolo paritetico in seno al procedimento ermeneutico, così che il secondo funge da criterio comprimario e funzionale ad ovviare all’equivocità del testo da interpretare, potendo, infine, assumere rilievo prevalente rispetto all’interpretazione letterale soltanto nel caso, eccezionale, in cui l’effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione sia incompatibile con il sistema normativo - come in ipotesi di evidente incostituzionalità - non essendo consentito all’interprete correggere la norma nel significato tecnico proprio delle espressioni che la compongono, nell’ipotesi in cui ritenga che tale effetto sia solo inadatto rispetto alla finalità pratica cui la norma stessa è preordinata.

2. Beni paesaggistici.

Cons. Stato, sez. III, 4 novembre 2024, n. 8757 - Pres. F.F. Caputo, Est. De Carlo - Sulla rilevanza del parere tardivo della Soprintendenza sull’istanza di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica.

È illegittimo il provvedimento del Comune di rigetto dell’istanza di autorizzazione paesaggistica che si limiti a richiamare per relationem il parere reso dalla Soprintendenza dopo la scadenza del termine di cui all’art. 146 del d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42, in quanto, anche prescindendo dall’applicabilità in tal caso del silenzio assenso tra amministrazioni di cui all’art. 17-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241, il Comune non è più vincolato a decidere in conformità al parere, ma deve decidere in autonomia anche condividendo le conclusioni cui è giunta tardivamente la Soprintendenza, purché motivi sulle ragioni per cui aderisce al parere dell’organo ministeriale.

Cons. Stato, sez. IV, 16 settembre 2024, n. 7594 - Pres. F.F. Lamberti, Est. Monteferrante - Sulla ristrutturazione edilizia di ruderi ricompresi nell’area di un parco naturale.

È legittimo il provvedimento dell’Ente Parco che, nell’operare il censimento di un rudere esistente nell’area del Parco, ponga come “annotazione” la sua non ricostruibilità per non essere ancora visibili i muri perimetrali con una consistenza pari ad almeno 1/3 della struttura muraria ipotizzata preesistente, come prescritto dal relativo Regolamento per la Riqualificazione del Patrimonio Edilizio del Parco, il quale non può considerarsi implicitamente abrogato ad opera dell’art. 30, comma 1, lett. a), del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, che, nel modificare l’art. 3, comma 1, lett. d), consente interventi di ristrutturazione edilizia anche sui ruderi, a condizione che il proprietario sia in grado di dimostrarne la consistenza originaria, poiché la prevalenza delle definizioni degli interventi edilizi contenute nell’art. 3, comma 1, lett. d), del d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380, è infatti predicata dall’art. 3, comma 2, del medesimo d.p.r. rispetto alle disposizioni degli “strumenti urbanistici generali e dei regolamenti edilizi”, ma non rispetto alle previsioni speciali in materia di tutela ambientale che rispondono a specifiche esigenze di salvaguardia; del pari, è a dirsi con riferimento all’art. 10 del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 settembre 2020, n. 120, che ha esteso la nuova e più comprensiva definizione di ristrutturazione edilizia (estesa agli edifici demoliti o crollati) alle zone sottoposte a vincolo paesaggistico, ma non a quelle sottoposte a vincolo di natura ambientale, come accade per le aree che ricadono nel perimetro del Parco.

Cons. Stato, Adunanza plenaria, 30 luglio 2024, n. 14 - Pres. Maruotti, Est. Santoleri - Sull’efficacia temporale del permesso di costruire quale strumento per assicurare la funzione sociale della proprietà e la tutela del paesaggio e dell’ambiente.

L’Adunanza plenaria risponde al quesito deferito dalla Sezione Seconda del Consiglio di Stato, con ordinanza 7 marzo 2024, n. 2228, su “quale sia la disciplina giuridica applicabile alle opere parzialmente eseguite in virtù di un titolo edilizio decaduto e che non siano state oggetto di intervento di completamento in virtù di un nuovo titolo edilizio”, enunciando i seguenti principi di diritto.

In caso di realizzazione, prima della decadenza del permesso di costruire, di opere non completate, occorre distinguere a seconda se le opere incomplete siano autonome e funzionali oppure prive di tali requisiti.

Nel caso di costruzioni prive dei requisiti di autonomia e funzionalità, il Comune deve disporne la demolizione e la riduzione in pristino ai sensi dell’art. 31 del d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380, in quanto eseguite in totale difformità rispetto al permesso di costruire.

Qualora il permesso di costruire abbia previsto la realizzazione di una pluralità di costruzioni funzionalmente autonome (ad esempio villette) che siano rispondenti al permesso di costruire considerando il titolo edificatorio in modo frazionato, gli immobili edificati - ferma restando l’esigenza di verificare se siano state realizzate le opere di urbanizzazione e ferma restando la necessità che esse siano comunque realizzate - devono intendersi supportati da un titolo idoneo, anche se i manufatti realizzati non siano totalmente completati, ma - in quanto caratterizzati da tutti gli elementi costitutivi ed essenziali - necessitino solo di opere minori che non richiedono il rilascio di un nuovo permesso di costruire.

Qualora invece, le opere incomplete, ma funzionalmente autonome, presentino difformità non qualificabili come gravi, l’Amministrazione potrà adottare la sanzione recata dall’art. 34 del d.p.r. n. 380 del 2001.

È fatta salva la possibilità per la parte interessata, ove ne sussistano tutti i presupposti, di ottenere un titolo che consenta di conservare l’esistente e di chiedere l’accertamento di conformità ex art. 36 del d.p.r. n. 380 del 2001 nel caso di opere “minori” (quanto a perimetro, volumi, altezze) rispetto a quelle assentite, in modo da dotare il manufatto - di per sé funzionale e fruibile - di un titolo idoneo, quanto alla sua regolarità urbanistica.

Cons. Stato, sez. II, 23 luglio 2024, n. 6666 - Pres. F.F. Franconiero, Est. Manzione -Sulle limitazioni in materia di concessione di suolo pubblico per esigenze di tutela paesaggistica.

Le regolamentazioni amministrative che attingono la materia del suolo pubblico possono essere ricondotte a varie fonti, esclusive o concorrenti, statali, regionali e comunali. È necessario, dunque, delineare - nei suoi termini essenziali - il “sistema regolatorio” della materia, sia in senso “orizzontale” (delle diverse discipline amministrative compresenti), sia in senso “verticale” (delle varie competenze normative concorrenti). In generale, esso incontra il limite costituzionale della tutela della libertà d’impresa (e del lavoro da essa generato) in un mercato regolato, ma senza eccessi di restrizioni pubbliche della concorrenza. La legislazione statale ha tuttavia individuato nel tempo, a partire dal d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42 (art. 52, comma 1) i rimedi che l’Autorità preposta alla tutela del vincolo ovvero il Comune possono mettere in campo per riconnettere in maniera esplicita la disciplina di tutela dei beni aventi rilievo storico, artistico e culturale (che è qualificante il regime di protezione e fruizione di tali beni, costitutiva di un loro speciale status di conformazione delle attività di conservazione, manutenzione, destinazione e disposizione), con quella - di ordine commerciale - che presiede la regolazione delle attività di libera iniziativa economica su area pubblica. La forma privilegiata nella quale racchiudere lo svolgimento in collaborazione di funzioni riservate a più attori pubblici di un sistema multilivello è costituita al riguardo dall’art. 15 della legge 7 agosto 1990, n. 241.

Il coordinamento tra fonti di regolazione, nazionali, regionali e locali, in materia di limiti all’esercizio di attività commerciali, anche su suolo pubblico, spetta all’amministrazione che rilascia il relativo titolo, al fine di garantire certezza della situazione giuridica all’operatore economico. Costituisce infatti principio di correttezza tra le parti e leale collaborazione, da ultimo consacrato anche nell’art. 1, comma 2-bis, della legge 7 agosto 1990, n. 241, quello che impone di rapportarsi alla istanza di un cittadino in maniera unitaria, non frammentandone le interlocuzioni in ragione di un anacronistico quanto illegittimo riparto di competenze addirittura all’interno della stessa amministrazione pubblica.

La sottrazione di una porzione di territorio alla fruizione della collettività a seguito di concessione ad un operatore economico ha ovviamente carattere oneroso e per tale ragione l’ambito normativo a carattere generale che vi fa riferimento è quello di matrice tributaria. Accanto alla matrice fiscale, tuttavia, la tematica ne richiama di ulteriori, presentando sfaccettature poliedriche che attingono vari e mutevoli ambiti giuridici. Per tale ragione, essa non dà luogo ad un diritto soggettivo pieno e perfetto alla fruizione della superficie concessa, essendo soggetta ad una permanente regolamentazione da parte della Pubblica Amministrazione relativa non solo all’an, ma anche al quomodo, sicché ne resta ferma anche la revocabilità per ragioni di interesse generale, tra le quali rientrano certamente l’esigenza di tutela del decoro dell’ambiente urbano circostante e la sicurezza pubblica. Il principio, immanente alla disciplina del rapporto tra Pubblica Amministrazione proprietaria del bene e privato titolare dell’attività che su tale bene insiste, implica cioè che nel bilanciamento degli opposti interessi (quello pubblico alla fruizione collettiva ed indifferenziata, ma anche qualificata, del suolo e quello privato a trarre utilità economica-imprenditoriale da un uso in regime di esclusiva dello stesso), non può essere trascurato il rilievo e la pregnanza del valore storico o artistico o più in generale urbano del contesto ove il suolo si colloca, che giustifica un più elevato grado di comprimibilità dell’interesse legittimo degli operatori economici, specie poi laddove questi ultimi abbiano avuto accesso alle relative utilità senza il discrimine di una procedura di evidenza pubblica.

La cornice giuridica può inoltre essere diversa in ragione delle modalità di realizzazione dell’occupazione. Laddove la stessa avvenga, ad esempio, mediante strutture connotate da una certa consistenza e durata, essa può acquisire rilevanza sotto il profilo urbanistico-edilizio, ovvero paesaggistico; in relazione alla sua funzionalizzazione, entrerà invece in gioco la regolamentazione della specifica attività produttiva della quale costituisce ampliamento o luogo di esercizio esclusivo, ivi comprese le regole attinenti al profilo igienico-sanitario. In ogni caso, può assumere rilievo la sua configurazione estetica, che il Comune può pretendere in armonia con il contesto, ovvero omogenea rispetto alle altre che insistono nella stessa zona, previamente individuata, in una logica di miglioramento dell’impatto visivo, ma anche di prevenzione/calmierazione di fenomeni di degrado, quali tipicamente la c.d. “movida molesta”. Ed è in ragione di tali variegate finalità che possono sovrapporsi le più disparate scelte generali di ciascun Comune in merito.

L’art. 15 della legge 7 agosto 1990, n. 241 costituisce la forma privilegiata nella quale racchiudere lo svolgimento in collaborazione di funzioni riservate a più attori pubblici di un sistema multilivello. Le amministrazioni, cioè, possono farvi ricorso ogni qualvolta la competenza a trattare una certa questione sia distribuita fra più autorità, fra il centro e la periferia, fra lo Stato e gli enti locali. La necessità del coordinamento delle competenze dei soggetti pubblici con obiettivi evidenti di semplificazione procedimentale rappresenta dunque la fondamentale ragione genetica di siffatte figure di accordo, per ricompattare secondo logiche ed obiettivi di efficienza e di efficacia presso centri omogenei di governo e di amministrazione un ordine troppo frammentato di attribuzioni multilivello.

L’insistenza del legislatore sul potere di disciplina delle amministrazioni coinvolte trova la sua ragion d'essere nei tentativi messi in campo dal legislatore (si vedano, ad esempio, il decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, recante il Codice dei beni culturali e del paesaggio, il d.lg. 25 novembre 2016, n. 222, c.d. “SCIA 2”, il decreto-legge 20 febbraio 2017, n. 14, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 aprile 2017, n. 48, sulla sicurezza nelle città, e la legge 30 dicembre 2023, n. 214, legge annuale per il mercato e la concorrenza 2022) a fronte della progressiva liberalizzazione delle attività commerciali per porre dei limiti alle stesse onde evitare lo scadimento qualitativo degli insediamenti, sia incidendo sulla regolamentazione delle attività commerciali lato sensu intese (comprensive, ad esempio, anche di quelle artigianali) esercitate in locali privati, sia sui loro ampliamenti su suolo pubblico. In sintesi, a fronte della progressiva liberalizzazione delle attività commerciali, si è cercato di porre dei limiti alla stessa onde evitare lo scadimento qualitativo degli insediamenti. Il che è avvenuto per lo più valorizzando il concetto di “motivi imperativi di interesse generale” che l’art. 12 del d.lg. 26 marzo 2010, n. 59, di attuazione della direttiva 2016/123/CE relativa ai servizi del mercato interno (c.d. Bolkestein), ha indicato come legittimanti le restrizioni quantitative o territoriali all’accesso e all’esercizio di un’attività di servizio. D'altro canto, con riferimento alle concessioni di suolo pubblico, anche la giurisprudenza si è fatta interprete dell’esigenza di mantenere all’organo di governo locale una certa discrezionalità nel valutare la compatibilità col contesto delle realizzazioni richieste. Si è pertanto affermato che alle stesse, ove insistano in aree vincolate, quali per lo più i centri storici, non si attaglia la disciplina del silenzio assenso, non potendo la mera presentazione della domanda costituire titolo per l’occupazione di suolo pubblico (neppure provvisoriamente, nelle more cioè della definizione del relativo procedimento concessorio). Il semplice decorso del tempo stabilito dal regolamento comunale, infatti, non è idoneo al perfezionamento del c.d. silenzio - assenso, ex art. 20 della legge 7 agosto 1990, n. 241, che non trova applicazione nel caso di atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico e l’ambiente.

Il regime giuridico delle occupazioni di suolo pubblico, dunque, specie nelle aree urbane, è un ambito di incidenza e di compresenza di una pluralità di interessi pubblici e, conseguentemente, di molte discipline amministrative, oltre a quella, specifica, di concessione onerosa dei suoli, che non sempre si palesano di immediata percepibilità e inquadramento da parte dei cittadini. Molte di esse sono contenute in piani e programmi tipici, di natura urbanistico-edilizia, della circolazione stradale, paesaggistici, tributari; altre si rinvengono in strumenti atipici, che comunque sono accomunati agli altri dall’obiettivo di tutela dei beni culturali attraverso il controllo della tipologia degli insediamenti di qualunque genere su area normalmente in uso alla collettività. La diversità degli interessi in gioco, che, ancor più dopo la recente novella dell’art. 9 della Costituzione, individua il paesaggio come oggetto primario di tutela, quale contenitore ampio di connotati paesaggistici e antropologici-culturali sinonimo di bellezza, giustifica ad esempio il diverso livello di tolleranza delle vere e proprie strutture, nel senso che ciò che può stare sul suolo (seppur tutelato) per un certo lasso di tempo sotto il profilo edilizio, non necessariamente può restarvi per lo stesso identico tempo senza essere considerato esteticamente impattante e dunque da sottoporre al vaglio preventivo di qualità dell'Autorità preposta alla tutela del vincolo. Giustifica altresì la differente collocazione della relativa disciplina, nella regolamentazione edilizia, ovvero in atti a carattere generale più genericamente mirati alla salvaguardia del territorio, ovvero in quelli di pianificazione commerciale pure previsti dalla normativa di settore, nazionale e/o regionale.

Il difetto di coordinamento fra norme statali conseguito alla rimarcata preoccupazione del legislatore di mantenere possibilità di intervento che evitino che la tutela indiscriminata della concorrenza si risolva in un generalizzato decadimento del tessuto urbano di pregio, ovvero della sua vivibilità (la “sicurezza” in accezione moderna), non giustifica un analogo difetto di coordinamento tra organi statali e regionali, nonché, a maggior ragione, tra distinti uffici della stessa amministrazione. La rete di rimedi che possono essere messi in campo, devono convergere nella stessa direzione, e non porsi in irrimediabile contrasto. È dunque impensabile rimettere al singolo la corretta esegesi del rapporto di gerarchia o di competenza funzionale fra norme distinte afferenti la medesima materia, a maggior ragione laddove la lettura proposta da un ufficio diverga totalmente da quella propugnata ed esplicita da un altro. Quale che sia lo strumento oppure gli strumenti che il Comune sceglie di adottare, elementari esigenze di certezza del diritto, oltre che di correttezza e buona fede tra le parti, impongono che i relativi contenuti siano tra di loro armonici e comprensibili.

Il necessario coordinamento tra le diverse fonti di regolazione della materia si pone in linea con il disposto dell’art. 1, comma 2-bis, della legge 7 agosto 1990, n. 241. Di tale principio sono espressione anche il d.p.r. 7 settembre 2010, n. 160, che individua un unico punto di accesso per il richiedente in relazione a tutte le vicende amministrative che lo riguardano e che diverrebbe mero simulacro privo di sostanza ove non esprimesse anche l’esigenza di garantire che l’amministrazione si esprima con una voce unica, nonché la disciplina della conferenza dei servizi e del silenzio-assenso tra pubbliche amministrazioni (art. 17-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241).

Cons. Stato, sez. IV, 21 maggio 2024, n. 4527 - Pres. Neri, Est. Marotta - Sulla non ammissibilità di una ristrutturazione, con demolizione e ricostruzione di altro differente fabbricato, in Area Sorrentino - Amalfitana.

Il “Piano urbanistico territoriale dell’Area Sorrentino - Amalfitana” ha una valenza sovraordinata rispetto agli strumenti di pianificazione territoriale comunale; pertanto, il fatto che il piano regolatore del comune sia stato approvato dopo l’approvazione del P.U.T. “Area Sorrentino-Amalfitana” - non è sufficiente a far ritenere che lo strumento comunale sia per ciò solo conforme al P.U.T., le cui previsioni prevalgono su quelle, eventualmente difformi, contenute nello strumento urbanistico comunale. Di conseguenza, gli unici interventi ammissibili sono quelli consentiti dalla legge regionale della Campania 27 giugno 1987, n. 35; tra questi non rientra un intervento di ristrutturazione edilizia, che, per effetto dell’estensione dell’ambito applicativo dell’art. 3, comma 1, lett. d), del d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380, consiste nella demolizione di un fabbricato preesistente, con successiva ricostruzione di altro fabbricato, differente per sagoma, prospetti e area di sedime.

Tutte le disposizioni contenute nella legge regionale della Campania 27 giugno 1987, n. 35 hanno natura di prescrizioni paesaggistiche.

Il Piano urbanistico territoriale dell’Area Sorrentino - Amalfitana, ai sensi dell’art. 3, commi 1 e 2, della citata legge regionale è piano territoriale con specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali e formula direttive vincolanti alle quali i Comuni devono uniformarsi nella predisposizione dei loro strumenti urbanistici.

La Corte costituzionale (sentenza 29 gennaio 2016, n. 11) ha precisato che “l’eventuale scelta della regione (compiuta nella specie dalla Campania) di perseguire gli obiettivi di tutela paesaggistica attraverso lo strumento dei piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici non modifica i termini del rapporto fra tutela paesaggistica e disciplina urbanistica […] e, più precisamente, non giustifica alcuna deroga al principio secondo il quale, nella disciplina delle trasformazioni del territorio, la tutela del paesaggio assurge a valore prevalente. Il progressivo avvicinamento tra i due strumenti del piano paesaggistico ‘puro’ e del piano urbanistico-territoriale con specifica considerazione dei valori paesaggistici - giunto alla sostanziale equiparazione dei due tipi operata dal codice dei beni culturali e del paesaggio (art. 135, comma 1) - fa sì che oggi lo strumento di pianificazione paesaggistica regionale, qualunque delle due forme esso assuma, presenti contenuti e procedure di adozione sostanzialmente uguali”.

La tutela ambientale e paesaggistica, gravando su un bene complesso e unitario avente valore primario e assoluto, precede e comunque costituisce un limite alla salvaguardia degli altri interessi pubblici; non a caso, il Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42 definisce i rapporti tra il piano paesaggistico e gli altri strumenti urbanistici (nonché i piani, programmi e progetti regionali di sviluppo economico) secondo un modello rigidamente gerarchico, restando escluso che la salvaguardia dei valori paesaggistici possa cedere a mere esigenze urbanistiche.

I vincoli di inedificabilità assoluta previsti dal Piano urbanistico territoriale dell’Area Sorrentino-Amalfitana sono immediatamente operativi, a partire dall’entrata in vigore del Piano (pubblicato sul B.U. della Regione Campania n. 40 del 20 luglio 1987), atteso che i vincoli di inedificabilità assoluta disciplinati dal P.U.T. operano indipendentemente dal loro recepimento nella pianificazione urbanistica comunale. Da ciò deriva, quindi, che quanto previsto nel P.U.T. è vincolante per i piani comunali, anche se successivi, sia sulla base dell’esplicita previsione di legge regionale sia in ragione di quanto disposto dall’art. 143, comma 9, del d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42.

Tra l’autorizzazione paesaggistica e il permesso di costruire vi è dunque un rapporto di presupposizione necessitato e strumentale. I due atti di assenso si esprimono entrambi sullo stesso oggetto, ma l’uno in termini di compatibilità paesaggistica dell’intervento edilizio proposto, l’altro in termini di sua conformità urbanistico-edilizia. Operando, dunque, su piani diversi, il rilascio di uno dei due atti di assenso non comporta il necessario rilascio anche dell’altro e, sul piano normativo, questo rapporto si traduce, per espressa previsione normativa, in un condizionamento sul versante dell’efficacia dei provvedimenti e non della rispettiva legittimità. Ciascuno dei due provvedimenti ha un proprio regime, propri parametri di giudizio e proprie vicende. Tale conclusione è certamente valida quando viene annullata l’autorizzazione paesaggistica che è “atto a monte” del permesso di costruire. In altri termini, è bene distinguere due ipotesi: il solo annullamento del permesso di costruire e il solo annullamento dell’autorizzazione paesaggistica. Nel primo caso, l’annullamento del permesso di costruire non necessariamente riverbera i suoi effetti sull’autorizzazione paesaggistica a monte, autorizzazione quest’ultima che ben potrebbe rimanere valida, pur non essendo possibile realizzare l’opera sino all’ottenimento di un nuovo permesso. Diversamente, nel secondo caso, quando ad essere annullata è l’autorizzazione paesaggistica, per le ragioni prima evidenziate, tale annullamento non può non spiegare effetti sul permesso di costruire “a valle”.

Cons. Stato, sez. IV, 8 aprile 2024, n. 3194 - Pres. Lopilato F.F., Est. Marotta - Sul piano ambientale e sul parco dei Colli Euganei.

La legge regionale del Veneto 16 agosto 1984, n. 40 ha attribuito all’Ente gestore del parco, attraverso il piano ambientale, la possibilità di apportare delle modifiche “al perimetro del parco”. L’approvazione definitiva del piano ambientale spetta al Consiglio regionale, con la conseguenza che non è ravvisabile nessuna violazione delle prerogative istituzionali degli organi regionali. Ai sensi dell’art. 6, della legge regionale del Veneto 10 ottobre 1989, n. 38, nell’ambito del “perimetro del parco”, le prescrizioni e i vincoli del piano ambientale prevalgono sia su quelli del piano regionale territoriale di coordinamento, sia su quelli dello strumento urbanistico comunale.

Cons. Stato, sez. IV, 21 novembre 2023, n. 9969 - Pres. Mastrandrea, Est. Fratamico - Formazione per silentium del permesso di costruire e previo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica.

A fronte del previo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, il diniego di attestazione emesso dal Comune sull’assunto della assoluta inconfigurabilità del silenzio-assenso per il solo fatto della pertinenza dell’intervento ad area soggetta a vincolo rappresenta una errata applicazione del comma 8 dell’art. 20 del d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380 e una illegittima limitazione dell’operatività dell’istituto del silenzio-assenso, che producono l’effetto abnorme di frustrare le finalità di semplificazione e di accelerazione dell’agire amministrativo alla base della stessa disposizione normativa citata, nonché le esigenze di certezza delle situazioni giuridiche all’origine delle più recenti modifiche apportate ad essa ed alla legge 7 agosto 1990, n. 241.

Non può, peraltro, giungersi a diverse conclusioni neppure attraverso il confronto con la disciplina speciale dettata dalla legge 28 febbraio 1985, n. 47 in materia di condono, come tale dotata di una propria autonoma ratio, o attraverso la dequotazione del significato e della funzione della conferenza di servizi richiamata dall'art. 20 del d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380, utilizzata dall'Amministrazione comunale anche nel provvedimento di conferma del diniego di attestazione e poi nelle difese articolate in appello a giustificazione dell'esclusione dell'operatività del silenzio-assenso. Tale modulo procedimentale trova, infatti, la sua ragion d'essere nella concreta necessità di acquisire assensi e nulla osta di altri enti affidatari di interessi pubblici coinvolti nell'azione amministrativa, e dunque di un’esigenza che, nell’ipotesi in questione, risultava ab origine superata, così da trasformare il più complesso iter prospettato nella risposta del Comune in un irragionevole aggravio del procedimento.

Le eventuali ragioni di contrasto dell’attività edificatoria con la disciplina urbanistico-edilizia devono essere da esso attentamente valutate entro il termine previsto dalla legge per la conclusione del procedimento, rappresentando, in mancanza di qualsiasi esercizio del potere di autotutela contro il provvedimento formatosi per silentium, un’inammissibile motivazione postuma.

 

[*] Giancarlo Montedoro, Presidente della VI Sezione del Consiglio di Stato, Piazza Capo di Ferro 13, 00186 Roma, g.montedoro@giustizia-amministrativa.it.

[**] Vania Talienti, dottore di ricerca in Diritto dell'economia presso l’Università degli Studi di Foggia e funzionario della Presidenza del Consiglio dei ministri, Piazza Colonna 370, 00187 Roma, vaniatalienti@gmail.com.

 

 

 

 



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