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Osservatorio sulla giurisprudenza del Consiglio di Stato
in materia di beni culturali e paesaggistici

a cura di Giancarlo Montedoro [*]

Sommario: 1. Beni culturali. - 2. Beni paesaggistici.

1. Beni culturali

Cons. Stato, sez. VI, 7 febbraio 2024, n. 1245 - Pres. Montedoro, Est. Ponte - In tema di valutazione dell’interesse culturale di un immobile, ai fini dell’imposizione del vincolo, e del relativo sindacato giurisdizionale.

Le valutazioni di un interesse culturale particolarmente importante di un immobile, che siano tali da giustificare l’apposizione del vincolo e del conseguente regime ex art. 10, comma 3, d.lg. n. 42 del 2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), rappresentano l’esplicazione di un potere di apprezzamento tecnico, proprio dell’amministrazione dei beni culturali nell’esercizio della funzione di tutela del patrimonio; tali valutazioni possono essere sindacabili in sede giurisdizionale soltanto in presenza di oggettivi aspetti di incongruenza, travisamento di fatti e illogicità.

Le valutazioni dei fatti complessi richiedenti particolari competenze (c.d. discrezionalità tecnica) – a differenza delle scelte politico-amministrative (c.d. discrezionalità amministrativa), rispetto alle quali il sindacato giurisdizionale è incentrato sulla “ragionevole” ponderazione di interessi non previamente selezionati e graduati dalle norme – vanno vagliate dal giudice con riguardo alla loro specifica “attendibilità” tecnico-scientifica.

Sebbene sia stata oramai definitivamente accantonata l’opinione tradizionale che escludeva si potesse riconnettere alla sentenza del giudice amministrativo l’effetto di imporre una disciplina del rapporto tra amministrazione e cittadino “sostitutiva” della disciplina dettata dall’atto annullato, resta il fatto che non sempre il contenuto ordinatorio della sentenza di accoglimento consente una definizione della fattispecie sostanziale. In tale ottica, a fronte dell’esercizio di un tale peculiare potere, in specie dinanzi ad una diversa prospettazione basata su elementi parimenti tecnici, il sindacato – analogamente ad altri ambiti di carattere tecnico e specialistico – non si può più fermare alla verifica della mera attendibilità estrinseca, dovendo cercare più avanti il punto di caduta, in coerenza al bilanciamento – da un canto – fra poteri e – da un altro canto – fra interessi, pubblici e privati nonché alla delimitazione del nucleo di merito rimesso all'amministrazione.

In generale, il sindacato giurisdizionale sugli apprezzamenti tecnici e specialistici dell’amministrazione può oggi svolgersi non in base al mero controllo formale ed estrinseco dell’iter logico seguito dall’autorità amministrativa, bensì alla verifica diretta dell’attendibilità delle operazioni tecniche sotto il profilo della loro coerenza e correttezza, quanto a criterio tecnico ed a procedimento applicativo.

Il controllo giurisdizionale, teso a garantire una tutela giurisdizionale effettiva, anche quando si verta in tema di esercizio della discrezionalità tecnica di un autorità dotata di competenze specialistiche, non può essere limitato ad un sindacato meramente estrinseco, estendendosi al controllo intrinseco, anche mediante il ricorso a conoscenze tecniche appartenenti alla medesima scienza applicata dall’amministrazione, sulla attendibilità, coerenza e correttezza degli esiti, in specie rispetto ai fatti accertati ed alle norme di riferimento attributive del potere. In tale contesto, in tema di esercizio della discrezionalità tecnica, se per un verso il giudice non può sostituirsi ad un potere già esercitato, per un altro parallelo verso deve stabilire se la valutazione operata nell’esercizio del potere debba essere ritenuta corretta, sia nel complesso che nell’articolazione dei diversi passaggi, oltre che sotto il profilo delle regole tecniche applicate.

Sul versante tecnico, il sindacato giurisdizionale è volto a giudicare se l’Autorità pubblica abbia violato il principio di ragionevolezza tecnica in coerenza ai fatti accertati, alle regole tecniche e procedimentali predeterminate, senza che sia invece consentito, in coerenza con il principio costituzionale di separazione dei poteri, sostituire le valutazioni, anche opinabili, dell’amministrazione con quelle giudiziali. In particolare, è ammessa una piena conoscenza del fatto e del percorso intellettivo e volitivo seguito dall'amministrazione.

L’apprezzamento da parte dell'amministrazione ai fini dell’imposizione di scelte di vincolo legate a poteri ed obiettivi di valenza culturale si atteggia come un apprezzamento ampio dell’interesse pubblico a tutelare cose che, attenendo direttamente o indirettamente alla storia, all’arte o alla cultura, per ciò che esprimono e per i riferimenti con queste ultime, sono reputate meritevoli di conservazione. Tuttavia l’interesse pubblico alla tutela della cosa che attenga direttamente o indirettamente alla storia, all’arte o alla cultura è direttamente collegato con una valutazione in termini di particolare interesse della cosa per i propri pregi intrinseci o per il riferimento della medesima alle vicende della storia dell’arte o della cultura, sicché l’espressione precipua dell’attività tecnico-discrezionale dell’amministrazione si ha nel momento della formulazione del giudizio di particolare rilevanza del bene, discendente a sua volta o dal riconoscimento di un peculiare pregio del medesimo, o dal riconoscimento di un particolare collegamento di esso con le vicende della storia, della cultura e dell’arte.

La circostanza che l’attività dell'amministrazione, volta ad esprimere il giudizio di rilevanza, pur implicando un apprezzamento di conformità della cosa valutata ad un modello astratto alla stregua di criteri estetico-culturali, sia sostanzialmente di carattere ricognitivo e conoscitivo (in quanto volta ad accertare l’esistenza della peculiare qualità della cosa da sottoporre a tutela), e non, invece, di carattere volitivo, come quando l’amministrazione è chiamata ad operare, per il perseguimento di un determinato interesse, una scelta fra due diverse soluzioni possibili, non esclude, ovviamente, che il margine di apprezzamento si basi su elementi tecnici, che restano di carattere peculiare e specialistico.

Se è ben possibile per l’interessato – oltre a far valere il rispetto delle garanzie formali e procedimentali – contestare ab intrinseco il nucleo dell'apprezzamento complesso, in tal caso emerge contemporaneamente l’onere di metterne seriamente in discussione l’attendibilità tecnico-scientifica; se tale onere non viene assolto e si fronteggiano soltanto opinioni divergenti, il giudice deve dare prevalenza alla posizione espressa dall’organo istituzionalmente investito (dalle fonti del diritto e, quindi, nelle forme democratiche) della competenza ad adottare decisione collettive, rispetto alla prospettazione individuale dell’interessato; ciò in quanto prevale la scelta legislativa di non disciplinare il conflitto di interessi ma di apprestare solo i modi e i procedimenti per la sua risoluzione.

Il potere ministeriale di vincolo richiede, quale presupposto, una valutazione basata non sulle acquisizioni delle scienze esatte, bensì su riflessioni di natura artistica, storica e filosofica, spesso strettamente legate al contesto culturale e territoriale di riferimento, per loro stessa natura in continua evoluzione, anche solo per il notorio dato che trattasi di materie soggette a continuo studio e ricerca, nel perseguimento di analoghi interessi pubblici culturali, di istruzione e di crescita individuale e collettiva; in tale ottica non a caso lo stesso art. 9 della Costituzione afferma che lo Stato tutela lo “sviluppo” della cultura, da intendersi in termini quindi ampi, quale evoluzione in sé oltre che nei singoli. L’esigenza di oggettività e uniformità di valutazione dei tecnici del settore (storici dell’arte, antropologi, architetti) non può non risentire del predetto limite di sindacato.

La mera e generica circostanza tipologica che un fabbricato rappresenti una testimonianza di un tipo di costruzione di un particolare periodo storico non è di per sé elemento sufficiente a giustificare l’adozione di un provvedimento individuale e concreto. Al tempo stesso, un apprezzamento basato sulla mera valenza documentaria non è sufficiente per individuare giuridicamente un bene culturale: in questa operazione non si può infatti prescindere da un elemento valutativo concreto, incentrato sul pregio distinto, selettivo e irripetibile della singola cosa e dunque sul riferimento specifico agli elementi che questo pregio.

Se lo stato di abbandono di un bene di per sé non osta alla dichiarazione di interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico – potendo un manufatto in condizione di degrado ben costituire oggetto di tutela storico-artistica, sia per i valori che ancora presenta, sia per evitarne l’ulteriore decadimento, tuttavia è onere dell'Amministrazione dei beni culturali prendere in considerazione le puntuali obiezioni sollevate circa la realistica possibilità di conservazione e valorizzazione dell’immobile. Diversamente, è concreto il rischio che si persegua una concezione del tutto astratta (e quindi vuota) del bene che si vorrebbe tutelare.

Cons. Stato, sez. VI, 24 gennaio 2024, n. 753 - Pres. Simonetti, Est. Gallone - In tema di collezione di eccezionale interesse archeologico.

La nozione legale di collezione di cui all’art. 10, comma 3, lett. e), del d.lg. n. 42 del 2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio) si riferisce unicamente alle raccolte di tipo museale o aventi scopi espositivi, ma può concernere pure serie di beni, o insiemi o gruppi di cose tra loro collegate da un elemento storico o artistico comune, oltreché connotate da criteri di omogeneità, di affinità o di identità di destinazione funzionale (quand’anche non si rinvenga prima face un ordinato e predefinito disegno organizzativo) e che, considerate nel loro complesso, esprimano rilevanti interessi culturali, storici o artistici.

Il concetto di collezione, che legittima l’apposizione del vincolo, richiede ben di più del solo requisito soggettivo e locativo, in quanto – altrimenti – si finirebbe con il ricondurre detta nozione alla sola volontà soggettiva del proprietario di raccogliere oggetti di disparata natura per soddisfare le proprie propensioni culturali o anche di sola curiosità. Sul piano oggettivo ciò che rileva è, infatti, che i reperti che ne fanno parte, per le loro caratteristiche intrinseche (origine geografica, datazione, tecniche e stili di realizzazione), debbano presentare un comune contenuto tematico la cui lettura è consentita sola dalla conservazione del carattere unitario del complesso di cose. Quest’ultimo requisito della unitarietà tematica è, invero, insito nel significato letterale del termine “collezione”, inteso come raccolta di beni (universitas rerum) che vede il suo valore aggiunto, rispetto alla somma del valore dei singoli reperti che ne fanno parte, proprio in tale dimensione comune.

Con riferimento alla sussistenza del requisito della eccezionalità dell’interesse archeologico della collezione, ferma l’ampia discrezionalità tecnica di cui gode sul punto la Soprintendenza, sotto il profilo squisitamente semantico, “eccezionalità” non equivale alla “unicità” (attributo ben in ristretto e che si risolve nella assoluta mancanza, nel panorama nazionale ed internazionale, di collezioni analoghe). Il suo apprezzamento passa, peraltro, per una valutazione necessariamente sintetica e globale del valore della collezione anche alla luce di quello che è il tratto di omogeneità che la caratterizza. Peraltro, se la presenza di un certo numero di reperti in stato di conservazione non ottimo (perché non integri o lacunosi) ovvero di autenticità dubbia non vale ex se ad escludere che la collezione presenti complessivamente un eccezionale interesse, è in ogni caso necessario che detta determinazione sia adeguatamente supportata sul piano motivazionale.

Cons. Stato, sez. VI, 2 gennaio 2024, n. 13 - Pres. Simonetti, Est. Pascuzzi - Sul divieto di sanatoria postuma degli abusi paesaggistici per opere comportanti la creazione di nuovi volumi.

L’art. 146, in combinato disposto con l’art. 167, commi 4 e 5, del d.lg. n. 42 del 2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), come modificato dall’art. 1, comma 36, della legge n. 38 del 2004, innovando rispetto al passato assetto normativo, ha introdotto il divieto di sanatoria postuma degli abusi paesaggistici per opere comportanti la creazione di nuovi volumi. Il divieto di cui all’art. 146 non era tuttavia immediatamente operativo, essendo destinato ad entrare in vigore solo a far tempo dall’andata a regime del nuovo procedimento autorizzatorio previsto dalla stessa norma, con conseguente applicazione, nelle more, della disciplina transitoria dettata dall’art. 159 che non prevedeva, medio tempore, alcuna inibitoria alla sanabilità ex post degli interventi edilizi aventi incidenza volumetrica. Solo a seguito delle modifiche apportate all’art.159 dal d.lg. n. 157 del 2006, infatti, la durata del regime transitorio è stata ancorata ad una data certa, e cioè all’approvazione dei piani paesistici (art. 156, comma 1), ed è stato disposto espressamente che, anche nel periodo transitorio, dovesse trovare applicazione il divieto di autorizzazione postuma (allora comma 12 dell’art. 146).

Con la modifica dell’art. 159 del d.lg. n. 42 del 2004 ad opera del d.lg. n. 157 del 2006 è stata introdotta una disposizione di natura innovativa – applicabile ex nunc – e non di interpretazione autentica con effetti retroattivi – di guisa che l’art. 146 del d.lg. n. 42 del 2004 (nel testo originario prima delle modifiche introdotte nel 2006) costituisce norma a regime, non applicabile nel periodo transitorio precedente alla entrata in vigore della modifica stessa. La nuova disciplina deve ritenersi vigente solo per le fattispecie insorte successivamente alla sua entrata in vigore, ossia per gli abusi realizzati dopo che il divieto ha acquisito efficacia.

2. Beni paesaggistici

Cons. Stato, sez. IV, 24 giugno 2024, n. 5584 - Pres. Neri, Est. Martino - Sul vincolo di inedificabilità previsto dalle schede di identificazione e definizione delle specifiche discipline d’uso degli immobili e delle aree di notevole interesse pubblico (cosiddette schede PAE) nella regione Puglia.

Le schede di identificazione e definizione delle specifiche discipline d’uso degli immobili e delle aree di notevole interesse pubblico (cosiddette schede PAE) contengono previsioni puntuali dettate per singoli ambiti territoriali sulla base del piano paesaggistico territoriale regionale (c.d. PPTR) e non hanno natura regolamentare, poiché difettano delle caratteristiche di generalità, astrattezza e innovatività dell’ordinamento.

Le schede di identificazione e definizione delle specifiche discipline d’uso degli immobili e delle aree di notevole interesse pubblico (cosiddette schede PAE) sono immediatamente conformative delle aree alle quali si riferiscono e devono essere impugnate negli ordinari termini di decadenza decorrenti dalla pubblicazione del piano paesaggistico territoriale regionale (c.d. PPTR) sul bollettino ufficiale della regione, non potendosene per converso invocare l’annullamento (o la disapplicazione) in occasione dell’adozione di singoli provvedimenti applicativi.

In un quadro normativo, in cui l’art. 42 della Costituzione riconosce e garantisce la proprietà privata, un vincolo conformativo particolarmente intenso come l’inedificabilità assoluta va imposto dall’amministrazione in termini chiari ed espliciti, prendendosi la responsabilità, anche politica, della relativa scelta. Pertanto, nell’incertezza fra le due interpretazioni possibili, più o meno restrittiva, va scelta quella che conduce al risultato più liberale che esclude un meccanico vincolo di inedificabilità per aree estese e comporta, in positivo, che le aree classificate come zone omogenee A ovvero B al 6 settembre 1985 sfuggano alla previsione generale di inedificabilità prevista dalla scheda PAE che le comprenda; peraltro, ciò non significa consentire un’edificazione indiscriminata, perché si tratta pur sempre di aree vincolate con i relativi decreti ministeriali, nelle quali per intervenire è richiesta l’autorizzazione paesaggistica.

Cons. Stato, sez. VI, 10 giugno 2024, n. 5151 - Pres. Volpe, Est. Poppi - Sulla competenza ad integrare la dichiarazione di notevole interesse pubblico adottata dalla regione su proposta della Commissione regionale per il patrimonio culturale (nella specie, con riferimento al Promontorio di Capo Colonna).

Ai sensi dell’art. 140, comma 1, del d.lg. n. 42 del 2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio) “la regione, sulla base della proposta della commissione, esaminati le osservazioni e i documenti e tenuto conto dell’esito dell’eventuale inchiesta pubblica, entro sessanta giorni dalla data di scadenza dei termini di cui all’articolo 139, comma 5, emana il provvedimento relativo alla dichiarazione di notevole interesse pubblico degli immobili e delle aree indicati, rispettivamente, alle lettere a) e b) e alle lettere c) e d) del comma 1 dell’articolo 136”. La competenza della Regione, attribuita dalla norma, permane anche in relazione alle successive integrazioni del provvedimento. L’art. 141-bis, comma 1, del medesimo decreto legislativo assegna, infatti, al Ministro o alla Regione la competenza ad “integrare le dichiarazioni di notevole interesse pubblico rispettivamente adottate”.

È illegittimo per incompetenza, quindi, il provvedimento di perimetrazione della zona di interesse archeologico adottato dal presidente della Commissione regionale per il patrimonio culturale, in quanto la competenza della regione ad emanare, su proposta della Commissione, il provvedimento relativo alla dichiarazione di notevole interesse pubblico degli immobili ai sensi degli artt. 140 e 141-bis del decreto legislativo n. 42 del 2004, permane anche in relazione alle successive ed eventuali integrazioni del medesimo; a tale proposito, non si può attribuire rilievo alla previsione contenuta nell’art. 39 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 29 agosto 2014, n. 171, posto che tale disposizione attribuisce e disciplina le competenze della commissione regionale per il patrimonio culturale senza riconoscere l’esercizio dei medesimi poteri al presidente.

Cons. Stato, sez. IV, 29 maggio 2024, n. 4818 - Pres. F.F. Rotondo, Est. Fratamico - In tema di parere di compatibilità paesaggistica espresso dopo la chiusura della conferenza di servizi in materia di autorizzazione unica regionale.

Il parere di un’Amministrazione chiamata a partecipare a una conferenza di servizi, in quanto titolare di uno degli interessi pubblici coinvolti nelle determinazioni da assumere, deve necessariamente intervenire entro il termine della conferenza stessa, divenendo altrimenti irrilevante, rectius inefficace.

Tale interpretazione, frutto della attuale riflessione giurisprudenziale sulla trasformazione del ruolo della semplificazione, da valore strumentale (ossia come principio generale da collegare all’esigenza di migliorare l’efficienza amministrativa nel valutare tutti gli interessi che si confrontano nel procedimento e di aumentare l’efficacia nella cura degli interessi pubblici al contempo garantendo una più agevole tutela delle pretese del cittadino) a bene o valore di natura finale, autonomo rispetto agli interessi curati dalle amministrazioni competenti al rilascio di assensi comunque denominati e sulla attenuazione della valenza forte e assolutizzante dell’attributo di primarietà associato agli interessi sensibili come quello del paesaggio, nella misura in cui viene ammesso un loro bilanciamento in concreto con altri valori e principi, quale quello della salvaguardia dell’ambiente – nella consapevolezza dell’importanza centrale del fattore tempo nella programmazione finanziaria del privato e per il raggiungimento dell’obiettivo della competitività del sistema Paese – conduce, quindi, a giudicare illegittimi gli atti impugnati in primo grado, poiché l'Amministrazione per mutare il proprio avviso sui temi in questione avrebbe dovuto utilizzare, se del caso, il suo potere di autotutela nelle forme consentite dalla legge e non limitarsi ad esprimere al di fuori dalla conferenza di servizi e successivamente alla conclusione di essa il suo parere contrario alla realizzazione dell’intervento de quo.

È illegittimo il diniego di autorizzazione paesaggistica in relazione al progetto di costruzione ed esercizio di un impianto di produzione di energia elettrica da fonte eolica che si fondi sul parere contrario di compatibilità paesaggistica reso dalla Soprintendenza successivamente alla chiusura, con esito positivo, della conferenza di servizi prevista per il procedimento autorizzatorio unico regionale (PAUR). Nel procedimento scandito dall’art. 27-bis del d.lg. 2 aprile 2006, n. 152 tutte le amministrazioni interessate dal progetto, e dunque con competenza propria in materia, sono tenute a partecipare alla conferenza e ad esprimere in tale sede anche i pareri di cui sono investite per legge, secondo le dinamiche collaborative proprie dello strumento di semplificazione procedimentale previsto dalla legge, cosicché il parere negativo espresso al di fuori della conferenza è illegittimo per incompetenza alla stregua di un atto adottato da un’Autorità priva di potere in materia.

Cons. Stato, sez. III, 26 aprile 2024, n. 3780 - Pres. F.F. Caputo, Est. Sestini - Sulla legittimità della decisione con cui si ritiene compatibile con i vincoli paesaggistici un complesso immobiliare che riqualifica un centro in precedenza degradato.

Non sussistono ostacoli normativi al riesercizio del potere pubblico mediante l’adozione di nuovi atti di autorizzazione paesaggistica, in quanto il divieto di sanatoria di opere realizzate in aree vincolate per legge non è applicabile nel caso in cui nel momento della realizzazione dell’opera il titolo abilitativo era stato rilasciato ed è stato solo successivamente annullato. Quanto alla fase di rinnovazione dei procedimenti, devono essere osservate le norme sul procedimento e sulla competenza vigenti al momento dell’adozione dei nuovi atti (art. 146 del d.lg. n. 42 del 2004), con la conseguenza che, ferme restando le fasi procedimentali già svolte, l’Amministrazione comunale deve adottare gli atti di autorizzazione paesaggistica previa acquisizione del parere vincolante della Soprintendenza, che dovrà essere rilasciato, anche con eventuali prescrizioni, nel rispetto dei termini procedimentali previsti dalla legge.

È legittima la decisione della Pubblica Amministrazione di ritenere compatibile con i vincoli paesaggistici la realizzazione del complesso immobiliare in questione; infatti, si tratta della realizzazione di un’importante opera architettonica di complessiva riqualificazione di un centro urbano precedentemente degradato, certamente ascrivibile all’interesse economico che ha motivato il finanziamento privato delle nuove opere edilizie e diversamente valutabile quanto al soggettivo apprezzamento estetico, ma anche legittima sotto il profilo della valutazione, ponderazione e comparazione dei diversi profili di interesse pubblico coinvolti, da parte dell’ente democraticamente esponenziale della comunità locale, che ha non irragionevolmente ritenuto prevalenti le esigenze di sistemazione e modernizzazione dell’habitat urbano di vita della medesima comunità rispetto alla preservazione di contesti tradizionali oramai compromessi, così come acclarato dalla competente Soprintendenza con due pareri paesaggistici adottati a seguito di un’ampia istruttoria aperta alla partecipazione di tutti gli interessi coinvolti.

Cons. Stato, sez. III, 15 aprile 2024, n. 3383 - Pres. F.F. Franconiero, Est. Fratamico- In tema di strutture funzionali alla balneazione e tutela del paesaggio.

La realizzazione di strutture funzionali alla balneazione costituisce una modalità di utilizzo del bene paesaggistico che non può tradursi nella deprivazione del valore naturalistico e culturale, che deve essere preservato in modo prioritario; alla luce dei principi costituzionali, infatti, le possibilità di sfruttamento per ragioni turistiche e ricreative sono da considerarsi secondarie rispetto alla prioritaria esigenza di tutela della costa. Ne consegue che qualora una disposizione legislativa regionale consenta il mantenimento, per l’intero anno solare, delle strutture funzionali all’attività balneare, purché di facile amovibilità, tale norma non va intesa nel senso di imporre, quale regola ordinaria, il mantenimento delle strutture per l’intero anno solare, bensì come eccezione limitata ai casi in cui tale possibilità non incida sulle predette esigenze di tutela paesaggistica.

Cons. Stato, sez. IV, 1° febbraio 2024, n. 1044 - Pres. Neri, Est. Martino - In tema di tutela paesaggistica del bosco e di vincolo idrogeologico.

Il vincolo boschivo, in quanto rilevante ex lege, prescinde dal suo effettivo recepimento negli atti di pianificazione generale ovvero dalla sua rappresentazione cartografica nella pianificazione paesaggistica, che al riguardo non interviene con effetti costituitivi limitandosi ad operare una mera ricognizione circa l’effettiva esistenza del bene tutelato in base alle sue qualità intrinseche.

I “territori coperti da foreste e da boschi, ancorché percorsi o danneggiati dal fuoco, e quelli sottoposti a vincolo di rimboschimento” sono stati sottoposti a vincolo paesaggistico con l’art. 1, primo comma, lett. g), del d.l. 27 giugno 1985, n. 312 (Disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1985, n. 431 (c.d. legge Galasso). Il vincolo stesso – poi trasfuso nell’art. 146, comma 1, lett. g), del d.lg. 29 ottobre 1999, n. 490 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell’art. 1 della legge 8 ottobre 1997, n. 352), che ha abrogato e sostituito la legge Galasso – è ora contenuto all’art. 142, comma 1, lett. g), del d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), secondo cui “Sono comunque di interesse paesaggistico e sono sottoposti alle disposizioni di questo Titolo: [...] i territori coperti da foreste e da boschi, ancorché percorsi o danneggiati dal fuoco, e quelli sottoposti a vincolo di rimboschimento, come definiti dall’articolo 2, commi 2 e 6, del d.lg. 18 maggio 2001, n. 227”, recante “Orientamento e modernizzazione del settore forestale, a norma dell'articolo 7 della L. 5 marzo 2001, n. 57”. La definizione di bosco, originariamente contenuta nel citato art. 2 del d.lg. n. 227 del 2001, è confluita ora nell’art. 3 del d.lg. 3 aprile 2018, n. 34 (Testo unico in materia di foreste e filiere forestali), il quale equipara i termini “bosco, foresta e selva” (comma 1) e distingue a seconda che la definizione stessa riguardi materie di competenza esclusiva dello Stato (comma 3) o delle Regioni (comma 4).

Il quadro normativo in materia di tutela paesaggistica di boschi e foreste è distinto da quello in materia di vincolo idrogeologico. Secondo quanto previsto dall’art. 1 del r.d.l. 30 dicembre 1923, n. 3267, il vincolo idrogeologico riguarda direttamente e specificamente i terreni e non già i boschi in quanto tali e ha come finalità la prevenzione di smottamenti e movimenti franosi in genere. Ai sensi della disposizione testé richiamata, infatti, “Sono sottoposti a vincolo per scopi idrogeologici i terreni di qualsiasi natura e destinazione che, per effetto di forme di utilizzazione contrastanti con le norme di cui agli artt. 7, 8 e 9 possono con danno pubblico subire denudazioni, perdere la stabilità o turbare il regime delle acque”.

Circa il rapporto tra la tutela paesaggistica del bosco e il vincolo idrogeologico, la giurisprudenza amministrativa ha precisato che l’autorizzazione alla trasformazione di boschi insistenti su terreni vincolati per scopi idrogeologici costituisce un elemento dello schema normativo attraverso cui il r.d. 30 dicembre 1923, n. 3267 articola la funzione conservativa e protettiva dei boschi, intesi nella loro naturale funzione di strumenti di difesa geologica e idrica del territorio, dispiegantesi attraverso la forza immobilizzatrice delle radici del complesso boscato e con l’azione regimante delle acque esercitata dal cotico erboso; perciò, ai fini della predetta autorizzazione, rileva la valutazione dell’interesse pubblico della difesa del suolo dal punto di vista idrico e geologico, per le conseguenze negative di danno o anche di pericolo che la trasformazione stessa può comportare per i suoli interessati. In tale ottica i presupposti per il rilascio del nulla osta idrogeologico sono indicati dalla specifica disciplina e possono riguardare anche interventi irrilevanti paesaggisticamente ma incidenti sulla stabilità dei terreni.

Pertanto, la tutela derivante dal vincolo idrogeologico si estende anche agli interventi edificatori interessanti terreni non boschivi, purché compresi nell’area vincolata per cui la trasformazione dei terreni, cui fa riferimento l’art. 7 del r.d. 16 maggio 1926, n. 1126, e i lavori di trasformazione, previsti dal successivo art. 21, consentono alla Pubblica Amministrazione di adottare non già mere prescrizioni operative, bensì misure restrittive ed anche impeditive di ogni tipo di intervento che, per le sue caratteristiche e per i mezzi impiegati, incidano sul territorio in modo non dissimile dalle utilizzazioni per scopi agricoli.

Le scelte tecnico-valutative, specie ove discendenti dall’applicazione di cognizioni tecnico-scientifiche proprie di settori caratterizzati da ampi margini di opinabilità, sono sindacabili in sede giudiziale esclusivamente sotto i profili della logicità, coerenza e completezza della valutazione, eventualmente anche sotto l’aspetto della correttezza del criterio tecnico e del procedimento applicativo prescelto, fermo restando il limite della relatività delle valutazioni scientifiche. In sede di giurisdizione di legittimità può essere pertanto censurata la sola valutazione che si ponga al di fuori dell’ambito di opinabilità, poiché diversamente il sindacato giudiziale diverrebbe sostitutivo di quello dell’Amministrazione attraverso la sovrapposizione di una valutazione alternativa, parimenti opinabile.

Cons. Stato, sez. IV, 11 aprile 2023, n. 3638 - Pres. Mastrandrea, Est. Marotta - Sugli effetti della mancata preventiva acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica.

La mancata preventiva acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica di cui all’art. 146 del d.lg. n. 42 del 2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio) incide sull’efficacia, non sulla legittimità, del titolo edilizio. Il permesso di costruire, infatti, può essere rilasciato anche in mancanza di autorizzazione paesaggistica, che si atteggia, perciò solo, alla stregua di una condizione di efficacia, con la conseguenza che i lavori non possono essere iniziati, finché non intervenga il nulla osta de quo.

 

[*] Giancarlo Montedoro, Presidente della VI Sezione del Consiglio di Stato, Piazza Capo di Ferro 13, 00186 Roma, g.montedoro@giustizia-amministrativa.it.

 

 

 

 



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