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Osservatorio sulla giurisprudenza del Consiglio di Stato
in materia di beni culturali e paesaggistici

a cura di Giancarlo Montedoro [*]
(con la collaborazione della dott.ssa Vania Talienti)
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Sommario: 1. Beni culturali. - 2. Beni paesaggistici.

1. Beni culturali

Cons. Stato, sez. VI, 30 gennaio 2024, n. 920 - Pres. Montedoro, Est. Ponte - In tema di ritrovamento di un reperto archeologico: natura indennitaria del premio di rinvenimento ex artt. 92 e 93 del d.lg. n. 42 del 2004 e profili partecipativi.

Il premio spettante al proprietario del sito, presso il quale è stato effettuato il ritrovamento di un reperto archeologico, non può essere considerato alla stregua di una vincita, di un pronostico, di una scommessa, derivanti dalla mera sorte. Si tratta, infatti, di un indennizzo corrisposto a titolo di ristoro per gli effetti derivanti dall’attività autoritativa di incameramento di un bene che, pur ritrovato nell’ambito di una proprietà privata, per motivi di superiori interessi pubblici è destinato allo Stato. A tale premio non si applica, pertanto, la ritenuta alla fonte a titolo di imposta prevista dall’art. 30 del d.p.r. n. 600 del 1973.

Quale espressione del principio generale che impone di integrare la normativa di settore con le regole che garantiscono la partecipazione del soggetto inciso dall’attività autoritativa in essere, l’applicazione dei principi in materia va garantita anche nel procedimento di determinazione del premio. In ogni caso va garantita la partecipazione del soggetto destinatario: o, per un verso, ex art. 7 della legge n. 241 del 1990 in caso di avvio ex officio; ovvero, attraverso il coinvolgimento ex artt. 10 e 10-bis della citata legge n. 241 del 1990, in caso di iter avviato su istanza dello stesso privato. Alla partecipazione così garantita consegue l’onere, a carico dell’Amministrazione, di esaminare e valutare gli elementi che il privato, messo in condizione di partecipare e di conoscere lo stato degli atti, abbia deciso di presentare.

Cons. Stato, sez. VI, 8 gennaio 2024, n. 276 - Pres. FF. Caputo, Est. Fasano - In tema di imposizione del c.d. vincolo indiretto.

In tema di prescrizioni di tutela indiretta del bene culturale, previste dal Codice dei beni culturali e del paesaggio approvato con il d.lg. n. 42 del 2004, l’art. 45 attribuisce all’Amministrazione la funzione di creare le condizioni affinché il valore culturale insito nel bene possa compiutamente esprimersi, senza altra delimitazione spaziale e oggettiva che non quella attinente alla sua causa tipica, che è quella di “prescrivere le distanze, le misure e le altre norme dirette ad evitare che sia messa in pericolo l’integrità dei beni culturali immobili, ne sia danneggiata la prospettiva o la luce o ne siano alterate le condizioni di ambiente e di decoro”, secondo criteri di congruenza, ragionevolezza e proporzionalità. Tali criteri sono tra loro strettamente connessi e si specificano nel conseguimento di un punto di equilibrio identificabile nella corretta funzionalità dell’esercizio del potere di vincolo: il potere che si manifesta con l’atto amministrativo deve essere esercitato in modo che sia effettivamente congruo e rapportato allo scopo legale per cui è previsto. Nel caso del vincolo indiretto, lo scopo legale concerne la cosiddetta cornice ambientale di un bene culturale: ne deriva che il limite di legittimità in cui si iscrive l’esercizio di tale funzione deve essere ricercato nell’equilibrio che preservi, da un lato, la cura e l’integrità del bene culturale e, dall’altro, che ne consenta la fruizione e la valorizzazione dinamica.

L’imposizione del vincolo indiretto costituisce espressione della discrezionalità tecnica dell’Amministrazione, sindacabile in sede giurisdizionale quando l’istruttoria si riveli insufficiente o errata o la motivazione risulti inadeguata o presenti manifeste incongruenze o illogicità anche per l’insussistenza di un’obiettiva proporzionalità tra l’estensione del vincolo e le effettive esigenze di protezione del bene di interesse storico-artistico, e si basa sull’esigenza che lo stesso sia valorizzato nella sua complessiva prospettiva e cornice ambientale, onde possono essere interessate dai relativi divieti e limitazioni anche immobili non adiacenti a quello tutelato purché allo stesso accomunati dall’appartenenza ad un unitario e inscindibile contesto territoriale.

La valutazione amministrativa preordinata all’imposizione dei vincoli, sebbene discrezionale, soggiace a precisi limiti enucleabili nel generale concetto di logicità e razionalità dell’azione amministrativa (onde evitare che la vincolatività indiretta, accessoria e strumentale possa trasformarsi in una vincolatività generale e indifferenziata), al principio di proporzionalità (congruità del mezzo rispetto al fine perseguito), alla specifica valutazione dell'interesse pubblico “particolare” perseguito ed alla necessità che nella motivazione provvedimentale sia chiaramente espressa l’impossibilità di scelte alternative meno onerose per il privato gravato del vincolo indiretto.

L’atto impositivo del vincolo risulta viziato sotto il profilo motivazionale, nel caso in cui non siano state in alcun modo esplicitate le ragioni delle prescrizioni imposte, con riferimento ad ogni singola particella interessata dal suddetto vincolo, né l'Amministrazione si sia premurata di confutare le argomentazioni illustrate dall’ente locale nelle osservazioni infraprocedimentali presentate a seguito di comunicazione di avvio del procedimento, pur avendo l’obbligo di valutarle e di esplicitare i motivi per i quali le si è ritenute irrilevanti, ciò anche al fine di evidenziare la non manifesta irragionevolezza della scelta effettuata sulla prevalenza di un valore in conflitto con l’altro.

Cons. Stato, sez. VI, 5 gennaio 2024, n. 207 - Pres. Montedoro, Est. Ravasio - Sul premio di rinvenimento di un bene culturale e sulla natura del vincolo archeologico.

L’istituto del premio dovuto a chi ritrova un bene culturale, disciplinato dapprima dagli artt. 43 e segg. della legge n. 1089 del 1939, poi dagli artt. 85 e segg. del d.lg. n. 490 del 1999, è oggi disciplinato dagli artt. 88 e seguenti del d.lg. n. 42 del 2004. Le norme succedutesi nel corso del tempo coincidono nel disciplinare il premio dovuto in caso di ritrovamento di bene culturale, prevedendo in tutti i casi: (i) che sia corrisposto un premio, non superiore al quarto del valore delle cose trovate: a) al proprietario dell’immobile dove è avvenuto il ritrovamento; b) al concessionario dell’attività di ricerca, di cui all’articolo 89, qualora l’attività medesima non rientri tra i suoi scopi istituzionali o statutari; c) allo scopritore fortuito che ha ottemperato agli obblighi posti a di lui carico; (ii) che il proprietario dell’immobile che abbia ottenuto la concessione di ricerca ovvero sia scopritore della cosa, ha diritto ad un premio non superiore alla metà del valore delle cose ritrovate; (iii) che nessun premio spetta allo scopritore che si sia introdotto e abbia ricercato nel fondo altrui senza il consenso del proprietario o del possessore.

Nel sistema della legge n. 1089 del 1939, trasfuso nel d.lg. n. 490 del 1999 e poi nel d.lg. n. 42 del 2004, assumono rilevanza due tipologie di ritrovamento: quella che consegue ad attività di ricerca archeologica e quella c.d. fortuita. La prima è di esclusiva “pertinenza” dello Stato; il che si spiega principalmente in funzione dell’appartenenza ex lege allo Stato delle cose ritrovate (art. 46 legge n. 1089 del 1939; art. 88 del d.lg. n. 490 del 1999; art. 91 del d.lg. n. 42 del 2004).

Lo Stato può svolgere l’attività di ricerca in forma diretta ovvero per mezzo di concessione ad enti o privati, i quali, dunque, operano come una sorta di “ausiliario” dell’amministrazione: in dottrina è stato osservato che il ritrovamento in tal caso è il risultato di una ricerca preordinata e organizzata, che presuppone il compimento di una serie di atti consapevoli, di un comportamento, o di un’attività teleologicamente orientata (eventualmente anche in forma di impresa), da svolgere secondo regole ben precise stabilite nell’atto di concessione o di autorizzazione, nonché mediante convenzioni stipulate con l’Amministrazione.

La scoperta fortuita, viceversa, si caratterizza per il fatto di essere del tutto occasionale, costituendo un fatto giuridico eccezionale in cui non rileva la volontà dello scopritore, ma solo l’incontro con la cosa. La nozione di scoperta fortuita viene quindi ricavata in via residuale, dovendosi considerare tale ogni rinvenimento intervenuto al di fuori di un programma di scavi archeologici. Da tale impostazione consegue che la scoperta di cose di interesse artistico-archeologico rimane “fortuita” anche laddove avvenga nell’ambito di un’attività di ricerca o di scavo, purché quest’ultima non sia finalizzata al ritrovamento di beni del genere di quelli concretamente ritrovati. Il criterio teleologico, quindi, distingue in negativo il ritrovamento fortuito, il quale, per tale ragione, viene a connotarsi come un ritrovamento che avviene “per caso”, e come tale non era previsto o prevedibile.

Il premio per il ritrovamento è corrisposto al proprietario, allo “scopritore” e al concessionario dell’attività di ricerca, se questa non rientra tra i suoi scopi istituzionali, ed è previsto sia per il caso di ritrovamento “fortuito” sia per il caso di ritrovamento nell’ambito di una campagna di scavi. Il pagamento del premio al proprietario non risulta condizionato alla circostanza che nella sua proprietà sia stato ritrovato un bene archeologico in maniera del tutto fortuita o casuale, escludendosi quindi la possibilità di corrispondere il premio ove il ritrovamento fosse prevedibile, per essere presenti sul sito indici della possibile presenza del bene culturale. Il legislatore si è prefigurato il caso in cui il proprietario sia anche “scopritore”, in senso tecnico, oppure “concessionario dell’attività di ricerca”, prevedendo che in tal caso gli spetta un premio di maggiore entità, così confermando che al premio può aspirare anche il proprietario che non sia “scopritore” in senso tecnico oppure “concessionario di ricerca”. Ciò, tuttavia, non implica che il premio al proprietario sia incondizionatamente dovuto ogni volta che sulla sua proprietà venga portato alla luce un bene culturale.

La normativa in materia deve essere letta in senso costituzionalmente orientato e quindi tenendo presente che la proprietà privata svolge, in base a quanto previsto dalla Costituzione, anche una funzione sociale (art. 42 della Costituzione), che genera in capo al proprietario non solo diritti e facoltà ma anche obblighi che soddisfano a interessi pubblici. Tale funzione sociale si apprezza in modo particolare in relazione a quegli immobili che siano sede di beni culturali: la capacità evocativa intrinseca posseduta da tali beni richiede che di essi sia garantita la fruizione, in senso lato, da parte della collettività, affinché anch’essa possa trarne arricchimento culturale: a tal fine è consentita l’imposizione di limiti anche rilevanti alla proprietà privata, tutti finalizzati a garantire la cura e il mantenimento del bene culturale, con i necessari correlativi limiti alla fruizione del bene privato in cui il bene culturale si trova. La disciplina della proprietà dei beni culturali deroga ai principi generali, prevedendo che tali beni, da chiunque e in qualunque modo ritrovati nel sottosuolo o sui fondali marini, appartengono allo Stato: si tratta di una disciplina che deroga, al contempo, sia il regime di proprietà ordinario, che si estende al sottosuolo, sia alla disciplina civilistica sul ritrovamento del tesoro, che a determinate condizioni consente a chi trova il tesoro di diventarne proprietario. Ebbene, anche questa disciplina derogatoria origina dalla funzione sociale della proprietà.

I beni immobili qualificati di bellezza naturale hanno valore paesistico per una circostanza che dipende dalla loro localizzazione e dalla loro inserzione in un complesso che ha in modo coessenziale le qualità indicate dalla legge: costituiscono una categoria che originariamente è di interesse pubblico, e l'amministrazione, operando nei modi descritti dalla legge rispetto ai beni che la compongono, non ne modifica la situazione preesistente, ma acclara la corrispondenza delle concrete sue qualità alla prescrizione normativa (Corte Cost., 29 maggio 1968, n. 56).

L’atto amministrativo svolge una funzione che è correlativa ai caratteri propri dei beni naturalmente paesistici e perciò non è accostabile ad un atto espropriativo: non pone in moto, vale a dire, la garanzia di indennizzo apprestata dall'art. 42, terzo comma, della Costituzione Nell'ipotesi di vincolo paesistico su beni che hanno il carattere di bellezza naturale, la pubblica amministrazione, dichiarando un bene di pubblico interesse o includendolo in un elenco, non fa che esercitare una potestà che le è attribuita dallo stesso regime di godimento di quel bene (Corte Cost., 29 maggio 1968, n. 56).

L’amministrazione può anche proibire in modo assoluto di edificare sulle aree vincolate che siano considerate fabbricabili, ma, in tal caso, essa non comprime il diritto sull'area, perché questo diritto è nato con il corrispondente limite e con quel limite vive; né aggiunge al bene qualità di pubblico interesse non indicate dalla sua indole e acquistate per la sola forza di un atto amministrativo discrezionale, com’è nel caso dell’espropriazione considerata nell’art. 42, terzo comma, della Costituzione, sacrificando una situazione patrimoniale per un interesse pubblico che vi sta fuori e vi si contrappone (Corte Cost., 29 maggio 1968, n. 56).

Il fatto che non vi sia garanzia costituzionale di un indennizzo per la limitazione implicata dall’indole del bene non è tanto, nella specie, l’effetto di una prevalenza dell’art. 9 della Costituzione sul successivo art. 42, terzo comma, ma deriva dall’essere il regime paesistico del diritti immobiliari del tutto estraneo alla materia dell’espropriazione per pubblico interesse quando corrisponde alle caratteristiche interiori di ciò che è oggetto di quei diritti, e dal costituire tale regime un complesso normativo che determina il modo di essere e di godere del diritti stessi, legittimato dall’art. 42, secondo comma, della Costituzione e quindi sempre dalla funzione sociale della proprietà (Corte Cost., 29 maggio 1968, n. 56).

La natura conformativa del vincolo è costantemente ribadita in giurisprudenza, mentre correlativamente si afferma che la decisione di espropriare beni soggetti a vincolo archeologico non costituisce un obbligo per l’amministrazione ma il risultato di una scelta eminentemente discrezionale, tendenzialmente sindacabile dal giudice amministrativo per motivi di legittimità e non nel merito.

L’atto che impone il vincolo archeologico (così come quello impositivo di un vincolo artistico, storico, ambientale, paesistico) è rivolto a salvaguardare un’area facente parte di un’intera categoria di beni, sottoposti dalla legge ad un peculiare regime giuridico, per le loro predeterminate caratteristiche oggettive (cfr. Corte Cost., 20 maggio 1999, n. 179), e che di conseguenza la fattispecie non è riconducibile ad una limitazione senza indennizzo al diritto di proprietà. Si è in altri termini in presenza di un vincolo conformativo della proprietà non soggetto a decadenza e volto, principalmente, a conservare i singoli beni e l’area in cui si trovano alla loro insita natura. Si tratta di un vincolo “che rivela una qualità insita nel bene, sì che la proprietà su di esso è da intendere limitata fin dall’origine; ed il vincolo è da considerare conformativo, non soggetto a decadenza, perciò incidente sul valore del bene in sede di determinazione dell’indennizzo per un’eventuale espropriazione”(Cassazione, sez. I, 20 novembre 2012, n. 20383).

Con riferimento al vincolo archeologico la giurisprudenza, sia civile sia amministrativa, è consolidata nell’affermare che il sostrato archeologico del terreno non costituisce un attributo del bene, suscettibile di apprezzamento economico, per la ragione che “le cose di interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico [...] ritrovate nel sottosuolo fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato (art. 826 c.c. e artt. 44-49 legge n. 1089 del 1939) e la presenza nel sottosuolo di beni di riconosciuto interesse archeologico comporta una limitazione -non indennizzabile- alle facoltà del proprietario del suolo (art. 840 c.c.)”(Cass. civ., sez. I, 22 settembre 2000, n. 12551).

Il vincolo archeologico “non è assimilabile ai vincoli cosiddetti espropriativi o di inedificabilità relativi a beni singoli”, ma “si iscrive, a differenza di questi ultimi, tra le limitazioni legali della proprietà ed ha, quindi, natura conformativa, rientrando nell’area di riserva (relativa) di legge stabilita dall’art. 42, secondo comma, della Costituzione, per garantire, mediante interventi diretti o attributivi di analoghi poteri all’autorità amministrativa, l’aderenza della proprietà privata alla funzione sociale, che concorre alla sua strutturazione e ne fonda la copertura costituzionale”(Cass. civ., sez. I, 3 settembre 1994, n. 7630).

Il premio dovuto a chi ritrova un bene culturale non ha funzione indennitaria: non intende, cioè, compensare il proprietario, o il concessionario di ricerca o lo “scopritore”, di eventuali perdite subite e, in particolare, per il fatto che a questi soggetti è sottratta la proprietà dei beni culturali. All’attribuzione patrimoniale in esame “[…] è sotteso lo scopo di spingere il privato ad una determinata forma di attività collaborativa ritenuta utile e consona all’interesse pubblico; sicché la elargibilità del beneficio è riconosciuta soltanto dopo che il comportamento auspicato sia stato portato ad effetto e positivamente riscontrato come meritorio. Ed il fine incentivato non è quello della ricerca e del rinvenimento di beni di ignota esistenza e collocazione, bensì quello della loro consegna, una volta rinvenuti fortuitamente o meno, all’autorità preposta alla loro tutela”(cfr. Corte Cass., Sez. Un., 11 marzo 1992, n. 2959).

Il premio per il ritrovamento (di reperti o ruderi non importa) trova giustificazione nella particolare meritevolezza del comportamento tenuto dal soggetto beneficiario. Tale meritevolezza è agevolmente ravvisabile nel comportamento del concessionario di ricerca, che si assume l’onere di organizzare l’attività di ricerca, anticipando anche i fondi necessari, dipoi garantendo la consegna del bene alle autorità pubbliche; considerazioni analoghe valgono per lo “scopritore” fortuito, il quale si viene a trovare nella condizione di poter nascondere la scoperta (che, proprio perché fortuita, non è conosciuta o conoscibile dalle autorità competenti, che pertanto non sono in condizione di esercitare la necessaria vigilanza), ma ciò nonostante si attiva per rendere noto il ritrovamento e per custodirlo e garantirne la consegna; è poi, per le medesime ragioni ravvisabile nel proprietario che sia anche concessionario di ricerca o “scopritore”, nonché nel caso in cui il concessionario o lo “scopritore” siano soggetti terzi rispetto al proprietario: ciò perché in tal caso l’attività del concessionario di ricerca e dello “scopritore” si rendono possibile grazie al consenso del proprietario, che deve consentire l’ingresso di tali soggetti sulla proprietà.

Nel caso in cui il ritrovamento sia effettuato direttamente dall’autorità preposta, il proprietario ha diritto al premio per il ritrovamento non per il mero fatto di essere proprietario ma solo se sia apprezzabile un suo comportamento meritevole, per tale intendendosi un comportamento che possa essere considerato una specie di concausa efficiente del ritrovamento. Solo una lettura della normativa in tal senso può ritenersi conforme con la funzione sociale che la proprietà privata è chiamare a svolgere nell'ordinamento italiano. Una diversa lettura, la quale imponesse l’erogazione del premio di ritrovamento al proprietario a prescindere da qualsiasi sua forma di collaborazione anzi in presenza di inerzie o comportamenti ostruzionistici, costituirebbe, in sostanza, una rendita di posizione nonché un surrettizio indennizzo per la perdita di un bene (quello culturale) che ab origine non è di proprietà del proprietario del fondo o, alternativamente, per l'imposizione del vincolo culturale sul fondo, il quale, come noto, non genera di per sé un indennizzo.

Pertanto, il proprietario, che non sia anche concessionario di ricerca o “scopritore fortuito”, può aspirare al premio di ritrovamento anche se quest’ultimo consegue all'attività di un terzo, concessionario di ricerca o di uno “scopritore”, posto che in tal caso il proprietario concorre al ritrovamento prestando il consenso alle ricerche, ovvero quando sia in concreto apprezzabile un suo comportamento che abbia contribuito al ritrovamento da parte delle autorità competenti.

Cons. Stato, sez. VI, 27 dicembre 2023, n. 11204 - Pres. Simonetti, Est. Ponte - In tema di limiti alla circolazione dei beni culturali.

Le valutazioni dei fatti complessi richiedenti particolari competenze (c.d. discrezionalità tecnica) - a differenza delle scelte politico-amministrative (c.d. discrezionalità amministrativa), rispetto alle quali il sindacato giurisdizionale è incentrato sulla “ragionevole” ponderazione di interessi non previamente selezionati e graduati dalle norme - vanno vagliate dal giudice con riguardo alla loro specifica “attendibilità” tecnico-scientifica.

Sebbene sia stata oramai definitivamente accantonata l’opinione tradizionale che escludeva si potesse riconnettere alla sentenza del giudice amministrativo l’effetto di imporre una disciplina del rapporto tra amministrazione e cittadino “sostitutiva” della disciplina dettata dall’atto annullato, resta il fatto che non sempre il contenuto ordinatorio della sentenza di accoglimento consente una definizione della fattispecie sostanziale.

In generale, il sindacato giurisdizionale sugli apprezzamenti tecnici e specialistici dell’amministrazione può oggi svolgersi non in base al mero controllo formale ed estrinseco dell’iter logico seguito dall’autorità amministrativa, bensì alla verifica diretta dell’attendibilità delle operazioni tecniche sotto il profilo della loro coerenza e correttezza, quanto a criterio tecnico ed a procedimento applicativo.

In tale contesto, in tema di esercizio della discrezionalità tecnica, se per un verso il giudice non può sostituirsi ad un potere già esercitato, per un altro parallelo verso deve stabilire se la valutazione operata nell’esercizio del potere debba essere ritenuta corretta, sia nel complesso sia nell’articolazione dei diversi passaggi, oltre che sotto il profilo delle regole tecniche applicate.

Sul versante tecnico, in relazione alle modalità del sindacato giurisdizionale, quest’ultimo è volto a giudicare se l’Autorità pubblica abbia violato il principio di ragionevolezza tecnica in coerenza ai fatti accertati, alle regole tecniche e procedimentali predeterminate, senza che sia invece consentito, in coerenza con il principio costituzionale di separazione, sostituire le valutazioni, anche opinabili, dell’amministrazione con quelle giudiziali. In particolare, è ammessa una piena conoscenza del fatto e del percorso intellettivo e volitivo seguito dall’amministrazione.

L’apprezzamento da parte dell’amministrazione ai fini dell’imposizione di scelte di vincolo legate a poteri ed obiettivi di valenza culturale si atteggia come un apprezzamento ampio dell’interesse pubblico a tutelare cose che, attenendo direttamente o indirettamente alla storia, all’arte o alla cultura, per ciò che esprimono e per i riferimenti con queste ultime, sono reputate meritevoli di conservazione. Tuttavia l’interesse pubblico a tale tutela è direttamente collegato con una valutazione in termini di particolare interesse della cosa per i propri pregi intrinseci o per il riferimento della medesima alle vicende della storia dell’arte o della cultura, sicché l’espressione precipua dell’attività tecnico-discrezionale dell’amministrazione si ha nel momento della formulazione del giudizio di particolare rilevanza del bene, discendente a sua volta o dal riconoscimento di un peculiare pregio del medesimo, o dal riconoscimento di un particolare collegamento di esso con le vicende della storia, della cultura e dell’arte.

Se è ben possibile per l’interessato - oltre a far valere il rispetto delle garanzie formali e procedimentali - contestare ab intrinseco il nucleo dell’apprezzamento complesso, in tal caso emerge contemporaneamente l’onere di metterne seriamente in discussione l’attendibilità tecnico-scientifica; se tale onere non viene assolto e si fronteggiano soltanto opinioni divergenti, il giudice deve dare prevalenza alla posizione espressa dall’organo istituzionalmente investito (dalle fonti del diritto e, quindi, nelle forme democratiche) della competenza ad adottare decisione collettive, rispetto alla prospettazione individuale dell’interessato; ciò in quanto prevale la scelta legislativa di non disciplinare il conflitto di interessi ma di apprestare solo i modi e i procedimenti per la sua risoluzione).

Il potere ministeriale di vincolo richiede, quale presupposto, una valutazione basata non sulle acquisizioni delle scienze esatte, bensì su riflessioni di natura artistica, storica e filosofica, spesso strettamente legate al contesto culturale e territoriale di riferimento, per loro stessa natura in continua evoluzione, anche solo per il notorio dato che trattasi di materie soggette a continuo studio e ricerca, nel perseguimento di analoghi interessi pubblici culturali, di istruzione e di crescita individuale e collettiva; in tale ottica non a caso lo stesso art. 9 della Costituzione afferma che lo Stato tutela lo “sviluppo” della cultura, da intendersi in termini quindi ampi, quale evoluzione in sé oltre che nei singoli.

Ai sensi del combinato disposto dei commi 3 e 4 dell’art. 68 del d.lg. n. 42 del 2004 “L’ufficio di esportazione, accertata la congruità del valore indicato, rilascia o nega con motivato giudizio, anche sulla base delle segnalazioni ricevute, l’attestato di libera circolazione, dandone comunicazione all’interessato entro quaranta giorni dalla presentazione della cosa. Nella valutazione circa il rilascio o il rifiuto dell’attestato di libera circolazione gli uffici di esportazione accertano se le cose presentate, in relazione alla loro natura o al contesto storico-culturale di cui fanno parte, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, bibliografico, documentale o archivistico, a termini dell’articolo 10. Nel compiere tale valutazione gli uffici di esportazione si attengono a indirizzi di carattere generale stabiliti con decreto del Ministro, sentito il competente organo consultivo”. In attuazione di tale previsione il decreto del Ministro dei beni e della attività culturali e del turismo 6 dicembre 2017, n. 537 (recante “Indirizzi di carattere generale per la valutazione del rilascio o del rifiuto dell'attestato di libera circolazione da parte degli uffici esportazione delle cose di interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico”) ha previsto i seguenti “elementi di valutazione volti a far emergere la sussistenza o insussistenza dei presupposti o requisiti nella cosa esaminata idonei a sorreggere la decisione di rifiuto o rilascio dell’attestato” di libera circolazione: la qualità artistica dell’opera; la rarità, in senso qualitativo e/o quantitativo; la rilevanza della rappresentazione; l’appartenenza a un complesso e/o contesto storico, artistico, archeologico, monumentale; la testimonianza particolarmente significativa per la storia del collezionismo; la testimonianza rilevante, sotto il profilo archeologico, artistico, storico, etnografico, di relazioni significative tra diverse aree culturali, anche di produzione e/o provenienza straniera.

L’introduzione nell’art. 10, comma 3, del Codice dei beni culturali e del paesaggio (norma richiamata dall’art. 68 in tema di attestato di libera circolazione) del riferimento all’interesse eccezionale per l'integrità e la completezza del patrimonio culturale della Nazione (lett. d-bis, inserita dall’art. 1, comma 175, lett. a, n. 1, della legge n. 124 del 2017), costituisce, quindi, una norma di salvaguardia, volta ad evitare che, in ragione delle nuove ipotesi normative introdotte, possa disporsi il definitivo trasferimento all’estero di opere che rivestano, comunque, un rilievo eccezionale per l’integrità e la completezza del patrimonio culturale della Nazione. Si tratta, quindi, di disposizione che, pur aggiungendosi alle ulteriori ipotesi di protezione già prevista, risulta prettamente calibrata sul meccanismo della circolazione internazionale dei beni culturali e, come tale, destinata, ad incidere - seppur solo in modo parziale - sulla nozione di eccezione culturale ex art. 36 del TFUE, quale limite alla libera circolazione di opere. Dal complesso di norme si ricava che la ratio della normativa sia quella di escludere la circolazione del bene culturale - oltre che, nelle ipotesi già previste, atteso che la disposizione si cumula ai precedenti divieti - laddove l’esportazione, tenuto conto dell’eccezionale rilevanza del bene, metta a rischio l’integrità e la completezza del patrimonio culturale nel suo insieme.

Cons. Stato, sez. VI, 21 novembre 2023, n. 9962 - Pres. Simonetti, Est. Ponte - In tema di annullamento d’ufficio dell’attestato di libera circolazione di un bene culturale oltre il termine annuale di cui all’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990.

In linea generale, costituisce ius receptum il principio per cui i provvedimenti di annullamento in autotutela sono attratti all’alveo normativo dell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, il quale ha riconfigurato il relativo potere attribuendo all’amministrazione un coefficiente di discrezionalità che si esprime attraverso la valutazione dell’interesse pubblico in comparazione con l’affidamento del destinatario dell’atto. In materia i presupposti dell’esercizio del potere di annullamento d’ufficio dei titoli rilasciati a favore dei privati sono costituiti dall’originaria illegittimità del provvedimento e dall’interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (diverso dal mero ripristino della legalità violata), tenendo anche conto delle posizioni giuridiche soggettive consolidate in capo ai destinatari. L’esercizio del potere di autotutela è, dunque, espressione di una rilevante discrezionalità che non esime l’amministrazione dal dare conto, sia pure sinteticamente, della sussistenza dei menzionati presupposti. In particolare, il potere di autotutela deve essere esercitato dalla P.A. entro un termine ragionevole, tanto più quando il privato, in ragione del tempo trascorso, ha riposto, con la realizzazione dell’intervento prospettato (nel caso de quo l’esportazione di un bene di interesse culturale), un ragionevole affidamento sulla regolarità dell’autorizzazione.

Nella visione tradizionale l’autorizzazione rimuove i limiti che, per motivi di pubblico interesse, sono posti in via generale ed astratta dalla legge all’esercizio di una preesistente situazione giuridica soggettiva. A differenza della concessione, l’autorizzazione non attribuisce nuovi diritti ma permette l’esercizio di un diritto già esistente. In tale ottica l’attestato di libera circolazione di un bene culturale rimuove il limite, fissato per ragioni di pubblico interesse, alla facoltà di disposizione di un bene di proprietà privata. La nozione di autorizzazione di cui all’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 è da intendersi in via estensiva; ciò è evidente laddove emerge come la stessa sia applicata anche ad atti che, nel disporre l’ampliamento della sfera giuridica del destinatario istante, titolare dell’interesse legittimo pretensivo azionato, nella visione tradizionale sarebbero qualificati in termini di concessione.

L’attestato di libera circolazione di un dipinto di eccezionale importanza artistica e storica e di interesse culturale è da qualificarsi in termini di autorizzazione ai fini dell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, in quanto teso ad autorizzare l’esercizio di una facoltà appartenente al privato titolare del bene e soggetta al previo controllo sulla scorta degli interessi pubblici connessi alla tutela del patrimonio culturale. Il ritiro dell’atto di assenso ottenuto non può che seguire i connotati e le regole del generale potere discrezionale di ritiro, secondo l’iter del c.d. contrarius actus.

In tema di annullamento d’ufficio, ai sensi del comma 2-bis dell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, il superamento del rigido termine di 12 mesi, previsto dal comma 1 del medesimo articolo (ridotto con la riforma del 2020, rispetto ai 18 introdotti nel 2015), è stato ritenuto consentito, anche al di là dell’interpretazione formale: a) nel caso in cui la falsa attestazione, inerente ai presupposti per il rilascio del provvedimento ampliativo, abbia costituito il frutto di una condotta di falsificazione penalmente rilevante (indipendentemente dal fatto che siano state all’uopo rese dichiarazioni sostitutive), nel qual caso sarà necessario l’accertamento definitivo in sede penale; b) nel caso in cui l’(acclarata) erroneità dei ridetti presupposti risulti comunque non imputabile (neanche a titolo di colpa concorrente) all’Amministrazione ma esclusivamente al dolo (equiparabile, per solito, alla colpa grave e corrispondente, nella specie, alla mala fede oggettiva) della parte, nel qual caso si dovrà esclusivamente far capo al canone di ragionevolezza per apprezzare e gestire la confliggente correlazione tra gli opposti interessi in gioco.

Ove non si aderisca alla tesi letterale, che limita l’operatività della causa di esclusione ai casi di falsità “effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato”, va ricordato come, secondo la giurisprudenza prevalente, la non veritiera prospettazione da parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento dell’atto illegittimo a lui favorevole non consente di configurare in capo al medesimo una posizione di affidamento legittimo, con la conseguenza per cui l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione potrà dirsi soddisfatto attraverso il documentato richiamo alla non veritiera prospettazione di parte (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 17 ottobre 2017, n. 8).

Cons. Stato, sez. VI, 13 ottobre 2023, n. 8983 - Pres. De Felice, Est. Pascuzzi - In tema di attestato di libera circolazione ex art. 68 del d.lg. n. 42 del 2004.

L’art. 68 del d.lg. n. 42 del 2004 attribuisce all’amministrazione un potere di valutazione tecnica che può essere sindacato quando, per la presenza di figure sintomatiche dell’eccesso di potere, si pone in contrasto con il principio di ragionevolezza tecnica.

Sebbene sia stata oramai definitivamente accantonata l’opinione tradizionale che escludeva si potesse riconnettere alla sentenza del giudice amministrativo l’effetto di imporre una disciplina del rapporto tra amministrazione e cittadino “sostitutiva” della disciplina dettata dall’atto annullato, resta il fatto che non sempre il contenuto ordinatorio della sentenza di accoglimento consente una definizione della fattispecie sostanziale. Ciò accade nell’ipotesi in cui il fatto presupposto del potere di apposizione del vincolo culturale - segnatamente, l’accertamento della sussistenza, nella cosa che ne forma oggetto, dell’interesse richiesto dall’art. 10, comma 3, del Codice dei beni culturali e del paesaggio - viene preso in considerazione dalla norma attributiva del potere, non nella dimensione oggettiva di “fatto storico” (accertabile in via diretta dal giudice), bensì di fatto “mediato” e “valutato” dalla pubblica amministrazione. In questi casi, il giudice non è chiamato, sempre e comunque, a sostituire la sua decisione a quella dell’Amministrazione, dovendo verificare se l’opzione prescelta da quest’ultima rientri o meno nella ristretta gamma di risposte plausibili che possono essere date a quel problema alla luce delle scienze rilevanti e di tutti gli elementi di fatto.

Nello specifico contesto della tutela dei beni culturali, il legislatore, non essendo in grado di governare tutte le possibili reciproche interazioni tra i soggetti interessati e di graduare il valore reciproco dei vari interessi in conflitto, si limita a predisporre soltanto i congegni per il loro confronto dialettico, senza prefigurare un esito giuridicamente predeterminato. In queste ipotesi, in cui l’interesse legittimo non è altro che la proiezione sul versante soggettivo dei congegni limitativi e conformativi del potere che a tale interesse si oppone, la sentenza (il più delle volte) non si pone quale fonte diretta del “rapporto amministrativo” in sostituzione dell’atto amministrativo, semplicemente perché non può contenere l’accertamento sostanziale dei presupposti per ottenere il risultato della vita. L’attività integrativa del precetto corrisponde qui ad una tecnica di governo attraverso la quale viene rimesso ai pubblici poteri di delineare in itinere l’interesse pubblico concreto che l’atto mira a soddisfare. L’intangibilità del nucleo “intimo” della decisione discrezionale consegue quindi alla stessa mancanza di un parametro giuridico di valutazione, essendosi al cospetto di attività, sì giuridicamente rilevante, ma non disciplinata da norme di diritto oggettivo (in tal senso, va letto l’art. 31, comma 3, c.p.a.).

È ben possibile per l’interessato - oltre a far valere il rispetto delle garanzie formali e procedimentali “strumentali” e gli indici di eccesso di potere - contestare ab intrinseco la decisione pubblica ma in tal caso deve accollarsi l’onere di dimostrare che il giudizio di valore espresso dall’Amministrazione sia scientificamente del tutto inaccettabile. Fino a quando invece si fronteggiano soltanto “opinioni” divergenti, il giudice, per le ragioni anzidette, deve dare prevalenza alla posizione espressa dall’organo statale appositamente investito (dalle fonti del diritto e, quindi, nelle forme democratiche) della competenza a adottare decisione collettive, rispetto alla posizione “individuale” dell’interessato, ancorché avallata da esperti del settore.

Il sindacato sulle valutazioni in cui si esprime in generale la cosiddetta discrezionalità tecnica può essere condotto ricorrendo all’applicazione delle regole della disciplina interessata con un certo grado di oggettività, pur essendo detto giudizio eventualmente suscettibile di mutamenti nel tempo dovuti all’affinamento degli strumenti con cui l’analisi viene effettuata. Il giudizio sul rilevante interesse storico-artistico di un’opera d’arte, invece, risulta irriducibilmente caratterizzato perfino da un elevato grado di mutevolezza non solo nei diversi periodi storici, in base al cambiamento dei valori estetici dell’epoca, ma, nello stesso periodo, in virtù della estrema soggettività degli fruitori delle stesse che ha dato luogo a fatti di cronaca ed al vivace dibattito tra gli stessi studiosi sulla stessa possibilità di qualificare certi “prodotti artistici” come “opere d'arte”.

Il giudizio che presiede all’imposizione di una dichiarazione di interesse (c.d. vincolo) culturale è connotato da un’ampia discrezionalità tecnico-valutativa, poiché implica l’applicazione di cognizioni tecniche specialistiche proprie di settori scientifici disciplinari della storia, dell’arte e dell’architettura, caratterizzati da ampi margini di opinabilità: carattere dal quale deriva che l’apprezzamento compiuto dall’Amministrazione preposta alla tutela è quindi sindacabile, in sede giudiziale, esclusivamente sotto i profili della logicità, coerenza e completezza della valutazione, considerati anche per l’aspetto concernente la correttezza del criterio tecnico e del procedimento applicativo prescelto, ma fermo restando il limite della relatività delle valutazioni scientifiche, sicché, in sede di giurisdizione di legittimità, può essere censurata la sola valutazione che si ponga al di fuori dell'ambito di opinabilità, affinché il sindacato giudiziale non divenga sostitutivo di quello dell’Amministrazione attraverso la sovrapposizione di una valutazione alternativa, parimenti opinabile.

Sebbene sia stata oramai definitivamente accantonata l’opinione tradizionale che escludeva si potesse riconnettere alla sentenza del giudice amministrativo l’effetto di imporre una disciplina del rapporto tra amministrazione e cittadino “sostitutiva” della disciplina dettata dall’atto annullato, resta il fatto che non sempre il contenuto ordinatorio della sentenza di accoglimento consente una definizione della fattispecie sostanziale.

La stessa nozione di bene culturale è un concetto aperto, in cui contenuto viene dato dalle elaborazioni proprie di altri rami del sapere. Il riferimento alle acquisizioni di questi diversi campi del sapere non è, tra l’altro, fisso ma mobile. In sostanza, il “laboratorio” del sapere che definisce il carattere culturale del bene non può ritenersi ancorato ad un determinato periodo storico ma, al contrario, si nutre delle progressive acquisizioni ed elaborazioni che tale sapere esprime. La “mobilità” del sapere tecnico non è che la conseguenza di una visione sistematica dell’ordinamento, inteso come un complesso composito del quale fanno parte non solo le regole propriamente giuridiche ma anche le altre scienze che integrano tale ordinamento mediante, quindi, le elaborazioni che tali scienze progressivamente realizzano e che, comunque, devono essere verificabili anche in ambito giurisdizionale.

Solo la dimensione tecnica della tutela invera il principio fondamentale dell’art. 9 della Costituzione e consente una salvaguardia che prescinda dal cedimento per opportunità rispetto ad altri interessi. Il corretto esercizio della discrezionalità tecnica nella cura del patrimonio culturale è, quindi, essenziale per concretare il precetto dell’art. 9, secondo comma, della Costituzione; realizza l’indefettibile funzione pubblica richiesta da questa eredità collettiva (il “patrimonio”) e ne assicura la rispondenza al suo “valore primario e assoluto”.

L'identificazione “giuridica” di un bene culturale necessita, quindi, delle elaborazioni dello specifico sapere attraverso il quale si apprezza la valenza culturale dell’opera. Una constatazione che, in quanto derivante dallo stesso sistema normativo, vincola lo stesso Giudice che tale sistema è chiamato ad applicare e che, quindi, non può che tener conto dei tratti caratteristici di quel sapere. Constatazione che, lungi dal tradursi nell’impossibilità di operare controlli su valutazioni tecnico-discrezionali, disegna proprio i contorni di tali controlli, i quali dovranno, in sostanza, verificare la rispondenza di una determinata valutazione ai criteri e alle regole che quel sapere esprime. In sostanza, se la stessa norma di riferimento (nel caso di specie gli artt. 12 e 13 del Codice dei beni culturali e del paesaggio) risulta integrata dal sapere tecnico, un controllo giurisdizionale effettivo e reale non può che investire anche la verifica della corretta declinazione di quel sapere nella vicenda contenziosa, tenendo conto, altresì, delle peculiarità epistemologiche di questo sapere, ivi compresa l'opinabilità intrinseca delle stesse.

Alla luce dei criteri di congruenza, proporzionalità, adeguatezza, ragionevolezza va misurata la corretta applicazione delle regole tecniche delle scienze umane ai casi concreti, operando, una verifica congiunta di tali criteri che, del resto, sono tra loro strettamente connessi e si specificano nel conseguimento di un punto di equilibrio identificabile nella corretta funzionalità dell’esercizio del potere di vincolo: perciò il potere che si manifesta con l’atto amministrativo deve essere esercitato in modo che sia effettivamente congruo e rapportato allo scopo legale per cui è previsto.

Cons. Stato, sez. VII, 18 agosto 2023, n. 7813 - Pres. Contessa, Est. Morgantini - In tema di dichiarazione di interesse culturale.

Ai sensi dell’art. 10, comma 3, lettera a), del d.lg. n. 42 del 2004, sono beni culturali, “le cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico particolarmente importante” che siano di proprietà privata, quando sia intervenuta la dichiarazione di interesse culturale di cui al successivo art. 13. Per costante giurisprudenza poi, la dichiarazione stessa è espressione di un potere ampiamente discrezionale, che è sindacabile in sede di giurisdizione di legittimità nei soli casi di esiti manifestamente abnormi o illogici.

Cons. Stato, Sez. VI, 9 maggio 2023, n. 4686 - Pres. Simonetti, Est. Ponte - Sui limiti al sindacato giurisdizionale in caso di vincolo di bene culturale.

La dichiarazione dell'interesse culturale “accerta la sussistenza, nella cosa che ne forma oggetto” dell’“interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico particolarmente importante”(combinato disposto degli articoli 10, comma 3, lettera a, e 13 del Codice dei beni culturali e del paesaggio).

Il decreto del Ministro dei beni e della attività culturali e del turismo 6 dicembre 2017, n. 537 (recante “Indirizzi di carattere generale per la valutazione del rilascio o del rifiuto dell’attestato di libera circolazione da parte degli uffici esportazione delle cose di interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico”) precisa che le relazioni a supporto del diniego all’esportazione e il contestuale avvio del procedimento di dichiarazione di interesse “devono sempre essere sviluppate in maniera esaustiva, con motivazioni puntuali, riferimenti bibliografici aggiornati, se disponibili, e attraverso l’associazione di più di un principio di rilevanza tra quelli riformulati nei nuovi In dirizzi, soprattutto nei casi in cui sembra essere predominante una valutazione legata alla qualità artistica del bene, non sufficiente da sola a giustificare un provvedimento di tutela”. Gli elementi di valutazione, idonei a sorreggere la valutazione di interesse, vengono indicati dal predetto decreto nei seguenti sei: la qualità artistica dell’opera; la rarità, in senso qualitativo o quantitativo; la rilevanza della rappresentazione; l’appartenenza a un complesso o contesto storico, artistico, archeologico, monumentale; la testimonianza particolarmente significativa per la storia del collezionismo; la testimonianza rilevante, sotto il profilo archeologico, artistico, storico, etnografico, di relazioni significative tra diverse aree culturali, anche di produzione o provenienza straniera.

Le valutazioni dei fatti complessi richiedenti particolari competenze (c.d. discrezionalità tecnica) - a differenza delle scelte politico-amministrative (c.d. discrezionalità amministrativa), rispetto alle quali il sindacato giurisdizionale è incentrato sulla “ragionevole” ponderazione di interessi non previamente selezionati e graduati dalle norme - vanno vagliate dal giudice con riguardo alla loro specifica “attendibilità” tecnico-scientifica.

Sebbene sia stata oramai definitivamente accantonata l’opinione tradizionale che escludeva si potesse riconnettere alla sentenza del giudice amministrativo l’effetto di imporre una disciplina del rapporto tra amministrazione e cittadino “sostitutiva” della disciplina dettata dall’atto annullato, resta il fatto che non sempre il contenuto ordinatorio della sentenza di accoglimento consente una definizione della fattispecie sostanziale.

Il presupposto del potere ministeriale di vincolo - ovvero l'interesse culturale dell’opera - viene preso in considerazione dalla norma attributiva del potere, non nella dimensione oggettiva di fatto “storico” (accertabile in via diretta dal giudice), bensì di fatto “mediato” dalla valutazione affidata all'Amministrazione. Ne consegue che il giudice non è chiamato, sempre e comunque, a sostituire la sua decisione a quella dell’Amministrazione, dovendo di regola verificare se l’opzione prescelta da quest’ultima rientri o meno nella ristretta gamma delle risposte maggiormente plausibili e convincenti alla luce delle scienze rilevanti e di tutti gli altri elementi del caso concreto.

È ben possibile per l’interessato - oltre a far valere il rispetto delle garanzie formali e procedimentali “strumentali” e gli indici di eccesso di potere - contestare anche il nucleo intimo dell’apprezzamento complesso, ma in tal caso egli ha l’onere di dimostrare che il giudizio di valore espresso dall’Amministrazione sia scientificamente inaccettabile.

Fino a quando si fronteggiano opinioni divergenti, tutte parimenti argomentabili, il giudice deve dare prevalenza alla posizione espressa dall’organo istituzionalmente investito (dalle fonti del diritto e, quindi, nelle forme democratiche) della competenza ad adottare decisione collettive, rispetto alla posizione “individuale” dell'interessato.

Cons. Stato, sez. VI, 10 marzo 2023, n. 2561 - Pres. Montedoro, Est. Poppi - Sulla possibilità di ricondurre lo sport al concetto “della cultura in genere” di cui all’art. 10, comma 3, lett. d), del d.lg. n. 42 del 2004.

Ai sensi dell’art. 10, comma 1, del d.lg. n. 42 del 2004 (Codice dei beni culturali e dele paesaggio), “sono beni culturali le cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico”. La enunciata regola subisce una deroga, ai sensi del successivo comma 5, in presenza di opere “la cui esecuzione non risalga ad oltre settanta anni”. Può, quindi, affermarsi che, ricorrendo i richiamati requisiti, il bene debba intendersi ope legis sottoposto a tutela sino ad avvenuta verifica negativa dell’interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico da promuoversi nelle forme di cui all’art. 12 del medesimo Codice. Inoltre, ai sensi dell’art. 10, comma 3, lett. d), del Codice dei beni culturali e del paesaggio, sono altresì beni culturali, quando sia intervenuta la dichiarazione prevista dall’art. 13 “le cose immobili e mobili, a chiunque appartenenti, che rivestono un interesse particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte, della scienza, della tecnica, dell’industria e della cultura in genere, ovvero quali testimonianze dell’identità e della storia delle istituzioni pubbliche, collettive o religiose”.

Il giudizio che presiede all’imposizione di una dichiarazione di interesse (c.d. vincolo) culturale è connotato da un’ampia discrezionalità tecnico-valutativa, poiché implica l’applicazione di cognizioni tecniche specialistiche proprie di settori scientifici disciplinari della storia, dell’arte e dell’architettura, caratterizzati da ampi margini di opinabilità: carattere dal quale deriva che l’apprezzamento compiuto dall'Amministrazione preposta alla tutela è quindi sindacabile, in sede giudiziale, esclusivamente sotto i profili della logicità, coerenza e completezza della valutazione, considerati anche per l’aspetto concernente la correttezza del criterio tecnico e del procedimento applicativo prescelto, ma fermo restando il limite della relatività delle valutazioni scientifiche, sicché, in sede di giurisdizione di legittimità, può essere censurata la sola valutazione che si ponga al di fuori dell'ambito di opinabilità, affinché il sindacato giudiziale non divenga sostitutivo di quello dell’Amministrazione attraverso la sovrapposizione di una valutazione alternativa, parimenti opinabile.

L’affermata estraneità dello sport alla cultura poiché in alcun modo attinente al mondo delle idee e della conoscenza, cui deve essere riconosciuta una indiscutibile originalità, è del tutto destituita di fondamento, come singolare è la negazione che lo sport possa essere ricondotto al concetto “della cultura in genere” espressamente menzionato dalla dall’art. 10, comma 3, lett. d), del Codice dei beni culturali e del paesaggio.

Al fine del calcolo del requisito dei settanta anni dall’esecuzione dell’opera, richiesto dall’art. 10, comma 5, del Codice dei beni culturali e del paesaggio per l’assoggettamento a tutela, è sufficiente risalire al giorno dell’inaugurazione dell’opera, senza che rilevino invece i successivi interventi manutentivi che non snaturino la consistenza e non impediscano la riconducibilità all’originaria conformazione del bene.

Cons. Stato, sez. VII, 27 febbraio 2023, n. 1966 - Pres. Lipari, Est. Tulumello - In tema di tutela di beni culturali.

Lo stato di abbandono e degrado in cui versa un bene non esclude che esso possa essere assoggettato a vincolo culturale e non comporta, per ciò solo, il venir meno della relativa tutela.

Cons. Stato, sez. VII, 23 febbraio 2023, n. 1878 - Pres. Contessa, Est. Castorina - In tema di tutela di beni culturali.

Le valutazioni di un interesse culturale particolarmente importante di un immobile, tali da giustificare l’apposizione del relativo vincolo e del conseguente regime a norma dell’art. 10, comma 3, del d.lg. n. 42 del 2004, costituiscono espressione di un potere di apprezzamento tecnico con cui si manifesta una prerogativa propria dell’amministrazione dei beni culturali nell’esercizio della sua funzione di tutela del patrimonio e che può essere sindacata in sede giurisdizionale soltanto in presenza di oggettivi aspetti di incongruenza ed illogicità, di rilievo tale da far emergere l’inattendibilità o l’irrazionalità della valutazione tecnica-discrezionale che vi presiede.

Lo stato di degrado del bene non è incompatibile con una valutazione di interesse storico-artistico architettonico: invero, un manufatto in condizioni di degrado ben può costituire oggetto di tutela storico-artistica, sia per i valori che ancora presenta, sia per evitarne l'ulteriore degrado. In particolare, è stata affermata l'irrilevanza ex se dello stato di parziale distruzione o di cattiva manutenzione o conservazione di un bene, il quale non osta alla dichiarazione di interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico particolarmente importante, restando rimesso all’apprezzamento discrezionale dell’Amministrazione preposta all’imposizione e gestione del vincolo la valutazione dell’idoneità delle rimanenze ad esprimere il valore che si intende tutelare.

La valutazione in ordine all’apposizione del vincolo di tutela (paesaggistico, monumentale, archeologico) costituisce espressione di discrezionalità particolarmente lata della pubblica amministrazione, perché implica l'applicazione di cognizioni tecnico-scientifiche specialistiche caratterizzate da ampi margini di opinabilità, sulla quale non è ammesso un sindacato di merito del giudice, ma solo l’esame di eventuali vizi di legittimità non sindacabile dal giudice della legittimità, salvo che in ipotesi di eccesso di potere, nelle sue varie forme sintomatiche, quali la manifesta illogicità, la manifesta irragionevolezza, l’evidente sproporzionalità, il travisamento dei fatti. Tale ampia discrezionalità è contemperata dall’obbligo motivazionale, a salvaguardia sia della trasparenza dell'azione amministrativa, sia delle posizioni giuridiche soggettive del cittadino.

Cons. Stato, sez. VI, 1° febbraio 2023, n. 1135 - Pres. Montedoro, Est. Pascuzzi - In tema di persistenza dell’interesse culturale di beni di proprietà di enti pubblici privatizzati.

La tutela di cose di interesse culturale non riguarda le singole componenti del bene e quindi non si estingue su quelle, tra esse, che nel corso del tempo siano state eventualmente rimosse e sostituite: ai fini della tutela il bene va comunque riguardato in quella che è la sua consistenza complessiva, il che implica che si estende anche alle parti realizzate in epoca posteriore alla imposizione del vincolo, se e nella misura in cui entrino a far parte integrante dell’organismo: ciò in coerenza con la ratio della tutela, che è quella di garantire che gli elementi da cui insorge l’interesse culturale rimangano, sempre, inseriti in un contesto idoneo a consentire di apprezzarli al meglio, nella loro potenzialità evocativa.

La tutela del bene culturale va mantenuta a prescindere dall’eventuale mutamento della natura giuridica del soggetto titolare del bene e indipendentemente dal riconoscimento formale del vincolo almeno tutte le volte nelle quali il vincolo preesiste ovvero è imposto ex lege. In tali ipotesi la discussione circa la natura di un bene ha natura di mero accertamento della qualità.

La valutazione che compie l’Autorità in ordine al valore culturale del bene da sottoporre a tutela è espressione di discrezionalità tecnica e pertanto è censurabile solo per manifesta illogicità, irrazionalità, irragionevolezza, arbitrarietà ovvero se fondata su di un altrettanto palese e manifesto travisamento dei fatti.

Nel valutare la portata applicativa dell’art. 12, comma 9, del d.lg. n. 42 del 2004 (secondo cui lo speciale procedimento disciplinato dall’art. 12 vale anche qualora i soggetti proprietari mutino in qualunque modo la loro natura giuridica), si è ravvisato nella norma l’espressione di un principio generale secondo il quale “quella di “bene culturale” costituisce una caratteristica intrinseca del bene stesso, sicché essa non può essere perduta in virtù del semplice mutamento del regime giuridico del soggetto a cui il bene fa riferimento”(Cons. Stato, Ad. Gen. del 14.4.2011, parere n. 4/2011). In particolare, “l’espressa applicabilità delle disposizioni sulla verifica dell’interesse culturale alle cose di proprietà di enti che ‘mutino in qualunque modo la loro natura giuridica’ (art. 12, comma 9, del d.lg. n. 42/2004) sembra costituire un indice significativo sia della persistenza del valore culturale delle cose appartenenti a soggetti sottoposti a processi di privatizzazione, anche dopo di questa, sia della normale irrilevanza dei processi di privatizzazione al fine di far derivare da essi l’esclusione delle cose di proprietà degli enti privatizzati dal regime di tutela. La nuova disposizione trova la propria giustificazione e il proprio presupposto nell’affermazione della persistenza dell’interesse culturale delle cose di proprietà di enti pubblici privatizzati […]”(Cons. Stato, Ad. Gen. del 14.4.2011, parere n. 4/2011).

Sia l’art. 12, comma 9, sia l’art. 13, comma 2, del d.lg. n. 42 del 2004 sono applicabili anche ai casi di processi di privatizzazione intervenuti prima della loro entrata in vigore: poiché le suddette norme esplicitano la persistenza dell’interesse culturale delle cose di proprietà di enti sottoposti a processi di privatizzazione, sarebbe incongruo ritenere che esse non possano trovare applicazione anche nei confronti di cose di proprietà di enti che siano stati privatizzati prima della loro entrata in vigore (si pone in tal senso Cons. Stato, Ad. Gen. del 14.4.2011, parere n. 4/2011).

L’art. 10, comma 3, lett. d), del Codice dei beni culturali e del paesaggio non àncora il valore dei beni di interesse particolarmente importante alla testimonianza di un’identità nazionale o ultraregionale: la norma fa invece riferimento, in senso più omnicomprensivo, all’identità delle istituzioni pubbliche o collettive, tra le quali rientra anche l’identità di una provincia o di una regione.

Il valore identitario giustificante lo speciale regime di salvaguardia per beni di interesse particolarmente importante ex lettera d) del comma 3 dell’art. 10 del d.lg. n. 42 del 2004 può essere assunto non solo dal singolo bene, ma anche da più beni che insieme concorrono a formare una comune testimonianza.

Il giudizio per l’imposizione di una dichiarazione di interesse culturale storico-artistico particolarmente importante (c.d. vincolo diretto), ai sensi degli artt. 10, comma 3, lett. a), 13 e 14, del d.lg. n. 42 del 2004, è connotato da un’ampia discrezionalità tecnico-valutativa, poiché implica l’applicazione di cognizioni tecnico-scientifiche specialistiche proprie di settori scientifici disciplinari (della storia, dell’arte e dell’architettura) caratterizzati da ampi margini di opinabilità. Ne consegue che l’accertamento compiuto dall’Amministrazione preposta alla tutela è sindacabile in sede giudiziale esclusivamente sotto i profili della ragionevolezza, proporzionalità, adeguatezza, logicità, coerenza e completezza della valutazione, considerati anche per l’aspetto concernente la correttezza del criterio tecnico e del procedimento applicativo prescelto.

L’imposizione di un vincolo comporta una conformazione della proprietà che varia in funzione del tipo di vicolo e del tipo di bene.

Il Codice dei beni culturali, approvato con il d.lg. n. 42 del 2004, agli artt. 95, 96 e 97 prevede tre fattispecie di espropriazione che, ancorché volte tutte ad assicurare l’interesse pubblico alla salvaguardia del patrimonio culturale, si distinguono per l’articolazione di tale interesse secondo fini specifici, idonei, in ciascuna delle fattispecie, a legittimare il sacrificio della proprietà privata, la cui ablazione è consentita, con l’art. 95, comma 1 (“Espropriazione di beni culturali”, di beni “immobili e mobili”), se sussiste “un importante interesse a migliorare le condizioni di tutela ai fini della fruizione pubblica dei beni medesimi”; con l’art. 96 (”Espropriazione per fini strumentali”), se l’esproprio di edifici ed aree è necessario “per isolare o restaurare beni culturali immobili” e “per assicurarne la luce o la prospettiva, garantirne o accrescere il decoro o il godimento da parte del pubblico, facilitarne l'accesso”; con l’art. 97 (”Espropriazione per interesse archeologico”, di “immobili”), “al fine di eseguire interventi di interesse archeologico o ricerche per il ritrovamento delle cose indicate nell’art. 10”, e perciò di rinvenire anche reperti non archeologici; di conseguenza, le specificità della fattispecie di cui all’art. 95, commi 1 e 2, sono: oggetto dell’esproprio è un bene già qualificato come bene culturale, che può anche essere un bene mobile; scopo primario dell’espropriazione è anzitutto l’acquisizione del bene, per la sua migliore fruizione, e non la realizzazione di un’opera con effetto di trasformazione del territorio; il Ministero ha la facoltà di autorizzare gli enti locali, su loro richiesta, ad effettuare l’espropriazione, ferma la dichiarazione di pubblica utilità da parte del Ministero stesso; nelle due altre fattispecie le specificità sono: il bene da espropriare non è di per sé tale ma è in rapporto con un bene culturale (in atto ai sensi dell’art. 96, ovvero in via potenziale ai sensi dell’art. 97) ed è sempre un bene immobile; lo scopo primario è quello di eseguire un’opera o un intervento con trasformazione dell’area; il procedimento non prevede fasi in capo ad enti territoriali non regionali; a tali specificità della fattispecie dell’art. 95 si correla la specialità del relativo procedimento di espropriazione rispetto a quello disciplinato in via generale dal d.p.r. 8 giugno 2001, n. 327, relativo alla espropriazione di immobili, o diritti relativi, per l’esecuzione di opere pubbliche o di pubblica utilità.

L'imposizione del vincolo di interesse storico e artistico, cui segue l’efficacia a tempo indeterminato del decreto dichiarativo del particolare interesse pubblico del bene, non concreta atto di espropriazione ai sensi dell’art. 42, terzo comma, della Costituzione e non comporta dunque alcun obbligo di indennizzo. Occorre, perché non vi sia esproprio, che vi sia un interesse generale alla regolamentazione dell’uso dei beni e che siano rispettati il principio di legalità e quello di proporzionalità.

2. Beni paesaggistici

Cons. Stato, sez. II, 30 gennaio 2024, n. 945 - Pres. Saltelli, Est. De Carlo -Sull’indennità risarcitoria per abusi paesaggistici minori.

La circostanza che la legge n. 1497 del 1939 sia stata abrogata definitivamente nel 2008 non ha alcun rilievo quanto all’esistenza dell’illecito da sanare poiché la norma all’epoca vigente è stata riprodotta nel d.lg. 42 del 2004, che ha raccolto le norme esistenti in precedenti testi legislativi cosicché possono considerarsi abrogate solo le fattispecie non contenute nel nuovo testo unico, trattandosi negli altri casi di mera modifica del nomen iuris. Pertanto, l’indennità risarcitoria, oggi disciplinata dall’art. 167 del d.lg. n. 42 del 2004, in caso di abusi paesaggistici cosiddetti minori, che era già prevista dall’art. 15 legge n. 1497 del 1939, è dovuta.

Cons. Stato, Sez. VI, 27 dicembre 2023, n. 11200 - Pres. Simonetti, Est. Cordì - Sull’attuale validità dei principi enunciati dall’Adunanza plenaria n. 17 del 2021 sulle concessioni balneari marittime.

I principi enunciati dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza del 9 novembre 2021, n. 17 sono tutt’ora validi dato che - a differenza della sentenza del 9 novembre 2021, n. 18, annullata per diniego di giurisdizione dalla sentenza della Corte di cassazione, Sezioni Unite, 23 novembre 2023, n. 32559 - quest’ultima non risulta essere stata impugnata. Ne consegue che, alla luce di tali principi, le proroghe delle concessioni disposte dai comuni risultano tamquam non esset.

Secondo la sentenza del 9 novembre 2021, n. 17 dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato: i) le norme legislative nazionali che hanno disposto (e che in futuro dovessero ancora disporre) la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative - compresa la moratoria introdotta in correlazione con l’emergenza epidemiologica da Covid-19 dall’art. 182, comma 2, del d.l. n. 34 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 77 del 2020 - sono in contrasto con il diritto eurounitario, segnatamente con l’art. 49 TFUE e con l’art. 12 della direttiva 2006/123/CE; tali norme, pertanto, non devono essere applicate né dai giudici né dalla pubblica amministrazione; ii) ancorché siano intervenuti atti di proroga rilasciati dalla P.A. deve escludersi la sussistenza di un diritto alla prosecuzione del rapporto in capo gli attuali concessionari; non vengono al riguardo in rilievo i poteri di autotutela decisoria della P.A. in quanto l'effetto di cui si discute è direttamente disposto dalla legge, che ha nella sostanza legificato i provvedimenti di concessione prorogandone i termini di durata; la non applicazione della legge implica, quindi, che gli effetti da essa prodotti sulle concessioni già rilasciate debbano parimenti ritenersi tamquam non esset, senza che rilevi la presenza o meno di un atto dichiarativo dell'effetto legale di proroga adottato dalla P.A. o l'esistenza di un giudicato.

La valutazione degli abusi edilizi e/o paesaggistici richiede una visione complessiva e non atomistica delle opere eseguite, in quanto il pregiudizio arrecato al regolare assetto del territorio o al paesaggio deriva, non da ciascun intervento in sé considerato, ma dall'insieme dei lavori nel loro contestuale impatto edilizio e paesistico e nelle reciproche interazioni.

Cons. Stato, sez. IV, 18 dicembre 2023, n. 10976 - Pres. Neri, Est. Conforti - Sulla tutela del legittimo affidamento in caso di pianificazione urbanistica.

In tema di disposizioni dirette a regolamentare l’uso del territorio negli aspetti urbanistici ed edilizi, contenute nel piano regolatore, nei piani attuativi o in altro strumento generale individuato dalla normativa regionale, vanno distinte: a) le prescrizioni che, in via immediata, stabiliscono le potenzialità edificatorie della porzione di territorio interessata (nel cui ambito rientrano le norme di c.d. zonizzazione, la destinazione di aree a soddisfare gli standard urbanistici, la localizzazione di opere pubbliche o di interesse collettivo); b) le altre regole che, più in dettaglio, disciplinano l’esercizio dell’attività edificatoria, generalmente contenute nelle norme tecniche di attuazione del piano o nel regolamento edilizio (disposizioni sul calcolo delle distanze e delle altezze, sull’osservanza di canoni estetici, sull’assolvimento di oneri procedimentali e documentali, regole tecniche sull’attività costruttiva, ecc.); per le disposizioni appartenenti alla prima categoria s’impone, in relazione all’immediato effetto conformativo dello ius aedificandi dei proprietari dei suoli interessati che ne deriva, ove se ne intenda contestare il contenuto, un onere di immediata impugnativa in osservanza del termine decadenziale a partire dalla pubblicazione dello strumento pianificatorio; invece, le prescrizioni di dettaglio contenute nelle norme di natura regolamentare destinate a regolare la futura attività edilizia, che sono suscettibili di ripetuta applicazione ed esplicano effetto lesivo nel momento in cui è adottato l’atto applicativo, possono essere oggetto di censura in occasione della impugnazione di questo.

L’affidamento costituisce un “principio regolatore di ogni rapporto giuridico”, compresi quelli di diritto amministrativo (Cons. Stato, Ad. Plen., 29 novembre 2021, n. 20), “che trae origine nei rapporti di diritto civile e che risponde all’esigenza di riconoscere tutela alla fiducia ragionevolmente riposta sull’esistenza di una situazione apparentemente corrispondente a quella reale, da altri creata”(Cons. Stato, Ad. Plen., 29 novembre 2021, n. 20; nella sentenza Cons. Stato, Ad. Plen., 29 novembre 2021, n. 19, si parla di tutela della “buona fede ragionevolmente riposta”). Oltre che nei suddetti termini di “fiducia ragionevolmente riposta” sull’esistenza di una situazione apparente, il principio viene anche “definito come” e “identificato con” il “convincimento ragionevole” della spettanza di un bene della vita (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 29 novembre 2021, n. 20) o, ancora, con “l’aspettativa al mantenimento nel tempo del rapporto giuridico sorto a seguito” dell’attività della pubblica amministrazione (Cons. Stato, Ad. Plen., 29 novembre 2021, n. 19) o, infine, declinata come “aspettativa del privato alla legittimità del provvedimento amministrativo rilasciato”, che se frustrata può essere fonte di responsabilità della prima”(Cons. Stato, Ad. Plen., 29 novembre 2021, n. 20).

L’affidamento del privato si configura, dunque, in ragione del convincimento ragionevole del legittimo esercizio del potere pubblico e del convincimento ragionevole dell’operato dell’amministrazione conforme ai principi di correttezza e buona fede, individuandosi in ciò il duplice parametro al quale ancorare “la fiducia”, “il convincimento” o “l’aspettativa” del privato (cfr. in tal senso, Cons. Stato, Ad. Plen., 29 novembre 2021, n. 19).

Nella tutela dell’affidamento risulta centrale la “dimensione soggettiva”, ma, nondimeno, si è messo in risalto che sussistono “limiti fisiologici” alla tutela dell’affidamento, riconducibili alle caratteristiche del rapporto amministrativo ed alla esigenza di proteggere anche altri principi ritenuti pari-ordinati o superiori alle aspettative di profitto dei singoli, come ad esempio: a) alle evenienze legate alla durata del rapporto nel tempo, al venire meno dell’elemento fiduciario, alla necessità di tenere conto di sopravvenienze normative, all’esercizio di poteri pianificatori e programmatori; b) alla prevalenza del principio di neutralità in sede di procedure lato sensu comparative; alle scelte di politica economica; alla necessità di superare prassi amministrative illegittime sia pure reiterate nel tempo.

Il provvedimento di approvazione del piano regolatore generale o di una sua variante generale compartecipano della natura di atto generale e di atto normativo nel quale le scelte urbanistiche di carattere generale non devono, di massima, essere sorrette da altra motivazione oltre quella che è dato evincere dall'esame dei criteri di ordine tecnico seguiti per la redazione del piano.

Se “la motivazione non occorre per gli atti a contenuto generale almeno con altrettanto vigore che per quelli a contenuto determinato”, costituisce, correlativamente, ragione di deroga alla regola dell’insussistenza di un obbligo di motivazione c.d. polverizzata delle scelte di piano proprio “la specificità ed occasionalità” della decisione, come avviene, ad esempio, nel caso di una variante specifica (Cons. Stato, Ad. Plen., 21 ottobre 1980, n. 37).

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha affermato che in determinate occasioni anche lo strumento urbanistico generale richiede una “motivazione specifica di certe scelte” e ha individuato nell’ambito della casistica in cui questo avviene le “ipotesi nelle quali vi è un affidamento qualificato del privato”(Cons. Stato, Ad. Plen., 22 dicembre 1999, n. 24). Nella relativa tassonomia sono stati annoverati: i) le ipotesi di precedente convenzione di lottizzazione o di accordi di diritto privato intercorsi tra il comune ed i proprietari delle aree; ii) il caso del privato che abbia ottenuto un giudicato di annullamento di un diniego di concessione edilizia o di un silenzio-rifiuto su una domanda edilizia, in ordine alla pretesa di variante di nuove previsioni urbanistiche rilevanti in quanto sopravvenute nel corso del giudizio (dandosi continuità, così, ai principi enunciati da Cons. Stato, Ad. Plen., 8 gennaio 1986, n. 1).

La tutela del legittimo affidamento rispetto all’esercizio dei poteri di pianificazione viene effettuata attraverso l’obbligo di motivazione di quelle scelte dello strumento urbanistico che costituiscono “casi specifici”. In questo caso, l’obbligo di (puntuale) motivazione costituisce il “punto di equilibrio” per salvaguardare l’affidamento legittimamente configuratosi in capo al privato titolare dell’interesse legittimo proprietario e l’attribuzione del potere di pianificazione dell’amministrazione da parte dell’ordinamento. Per converso, la tutela del legittimo affidamento del proprietario non può declinarsi come preclusione al pieno dispiegarsi del potere di pianificazione urbanistica.

Con riferimento alla tutela del legittimo affidamento relative all’ipotesi di precedente convenzione di lottizzazione o di accordi di diritto privato intercorsi tra il comune ed i proprietari delle aree, “la situazione del privato rimane “consolidata” da atti - convenzionali - di attuazione degli strumenti urbanistici generali, in forza dei quali si genera l’affidamento, cioè l’aspettativa che il successivo comportamento dell’affidante sia coerente con quello che, in precedenza, ha generato l’altrui fiducia”(cfr., Cons. Stato, Ad. Plen., 22 dicembre 1999, n. 24).

Sussiste un affidamento tutelabile in capo al privato e dunque l’obbligo in capo al comune di motivare la scelta pianificatoria, qualora sia concluso un contratto di vendita di un immobile comunale che, al tempo della stipulazione, aveva una più favorevole disciplina urbanistica, mentre, subito dopo, ha visto mutata quella disciplina in senso deteriore, per l’effetto dell’attività pianificatoria del medesimo ente locale, il quale aveva però impostato le trattative sul presupposto del più favorevole regime urbanistico. Infatti, benché il contratto non abbia ad oggetto l’attività di conformazione e trasformazione del territorio, nondimeno l’affidamento del privato può considerarsi sorto e qualificabile come “legittimo”, in quanto maturato in presenza di una serie di concomitanti circostanze che si reputano idonee a far sorgere e consolidare “la fiducia”, “il convincimento”, “l’aspettativa” del privato sulla persistenza di quel regime urbanistico che disciplinava il compendio immobiliare in concomitanza con le “operazioni di vendita”.

C.G.A. Sicilia, Ad. Sez. riunite, 7 dicembre 2023, n. 472 - Pres. Carlotti, Est. Martines - Sul potere di autotutela in materia edilizia e sull’interesse privato alla certezza dei titoli abilitativi.

Sono suscettibili di interventi in autotutela anche i titoli edilizi che si formano implicitamente attraverso il meccanismo del silenzio assenso previsto dall’art. 20 della legge n. 241 del 1990, come nel caso della perizia giurata per le procedure di condono edilizio ex art. 28 della legge regionale n. 16 del 2016. Il comma 3 dell’art. 20, infatti, prevede esplicitamente che “[n]ei casi in cui il silenzio dell’amministrazione equivale ad accoglimento della domanda, l’amministrazione competente può assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies”. Lo stesso vale in materia di segnalazione certificata di inizio attività. Il comma 4 dell’art. 19 prevede che, decorsi i termini per l’ordinario esercizio dei poteri di verifica sulle segnalazioni (trenta giorni in caso di s.c.i.a. edilizia ai sensi dell’art. 19, comma 6-bis), l’amministrazione competente adotta comunque i provvedimenti conformativi e inibitori di cui all’art. 19, comma 3, “in presenza delle condizioni previste dall’art. 21-nonies”. In entrambi i casi è, dunque, previsto dalla legge n. 241 del 1990 l’esercizio del potere di autotutela.

Il nostro ordinamento esclude un potere di autotutela temporalmente illimitato, a seguito e per effetto della introduzione, ad opera della legge n. 124 del 2015, del termine di esercizio dell’autotutela nell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, quantificato nel massimo di diciotto mesi, poi ridotto a dodici, come modificato dall’art. 63, comma 1, del d.l. n. 77 del 2021, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 108 del 2021.

In linea generale, costituisce ius receptum il principio per cui l’esercizio del potere di autotutela è, dunque, anche in materia di governo del territorio, espressione di una rilevante discrezionalità che non esime l’amministrazione dal dare conto, sia pure sinteticamente, della sussistenza dei menzionati presupposti. In particolare, il potere di autotutela deve essere esercitato dalla p.a. entro un termine ragionevole, tanto più quando il privato, in ragione del tempo trascorso, ha riposto, con la realizzazione del progetto, un ragionevole affidamento sulla regolarità dell’autorizzazione edilizia.

Il termine “ragionevole”, previsto dal citato art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, entro cui esercitare la potestà di autotutela, decorre senz’altro dalla conoscenza da parte dell’amministrazione dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell’atto di ritiro; sul punto è stato affermato che “è del tutto congruo che il termine in questione (nella sua dimensione ‘ragionevole’) decorra soltanto dal momento in cui l’amministrazione è venuta concretamente a conoscenza dei profili di illegittimità dell’atto”(Cons. Stato, Ad. Plen., 17 ottobre 2017, n. 8). A maggior ragione nel caso “di titoli abilitativi rilasciati sulla base di dichiarazioni oggettivamente non veritiere (e a prescindere dagli eventuali risvolti di ordine penale), laddove la fallace prospettazione abbia sortito un effetto rilevante ai fini del rilascio del titolo, è parimenti congruo che il termine ‘ragionevole’ decorra solo dal momento in cui l’amministrazione ha appreso della richiamata non veridicità”(Cons. Stato, Ad. Plen., 17 ottobre 2017, n. 8).

Deve ritenersi prevalente l’interesse dell’acquirente in buona fede alla stabilità e alla certezza delle situazioni giuridiche prodotte dai titoli abilitativi maturati per silentium colposo dell’amministrazione; a maggior ragione in un sistema nel quale, a seguito della novella del 2015, viene garantita la loro intangibilità una volta decorso inutilmente il periodo di operatività del potere di annullamento d’ufficio dei titoli stessi. Non può superarsi il termine rigido di diciotto mesi (poi ridotto a dodici) per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio, nel caso in cui la mancanza dei presupposti per la legittima formazione del provvedimento amministrativo (nella fattispecie titoli edilizi) sia imputabile unicamente all’amministrazione a titolo di colpa grave. Una volta superato il termine di diciotto mesi (poi dodici) previsto dall’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 per l’esercizio del potere di controllo postumo sulla validità dei titoli edilizi, si è consumato il potere di intervenire in autotutela, tenuto conto della colpa grave del Comune per non avere esercitato, nei termini di legge, i poteri di intervento ed avendo così fatto sorgere un legittimo affidamento del terzo acquirente di buona fede, estraneo alle vicende scoperte a distanza di anni e imputabili unicamente al diverso proprietario del tempo.

Anche nel caso di rappresentazioni non veritiere la P.A. nell’esercizio dei propri poteri di autotutela gode di discrezionalità “in quanto l’asserito “mendacio” (o dichiarazioni non veritiere) non obbliga l’Amministrazione all’esercizio dei poteri inibitori e repressivi, che, presupponendo la non conformità dell’atto alle vigenti norme edilizie e urbanistiche, richiede anche la ricorrenza dell’ulteriore presupposto dell’interesse pubblico al ritiro dell’atto, valutato tenendo anche conto degli interessi privati in gioco.

Nel bilanciamento tra l’interesse pubblico alla rimozione dell’atto illegittimo e la tutela dell’affidamento dei destinatari circa la certezza e la stabilità degli effetti giuridici prodotti dal provvedimento, la ricerca del giusto equilibrio induce a dare maggiore rilevanza all’interesse del privato alla stabilità del bene della vita con esso acquisito, tutte le volte in cui v’è stato un comportamento gravemente colposo dell’amministrazione.

Cons. Stato, sez. VI, 29 novembre 2023, n. 10254 - Pres. FF. Tarantino, Est. Sabbato - Sul parere di compatibilità paesaggistica.

Il parere di compatibilità paesaggistica costituisce un atto endoprocedimentale emanato nell’ambito di quella sequenza di atti ed attività preordinata al rilascio del provvedimento di autorizzazione paesaggistica (o del suo diniego). Le valutazioni espresse sono finalizzate, dunque, all’apprezzamento dei profili di tutela paesaggistica che si consolideranno, all’esito del procedimento, nel provvedimento di autorizzazione o di diniego di autorizzazione paesaggistica. Nonostante il decorso del termine per l’espressione del parere vincolante ai sensi dell’art. 146 del d.lg. n. 42 del 2004 da parte della soprintendenza, non può escludersi in radice la possibilità per l’organo statale di rendere comunque un parere in ordine alla compatibilità paesaggistica dell’intervento, fermo restando che, nei casi in cui vi sia stato il superamento del termine, il parere perde il suo carattere di vincolatività e deve essere autonomamente e motivatamente valutato dall’amministrazione deputata all’adozione dell’atto autorizzatorio finale.

In materia di condono edilizio, con riguardo agli abusi edilizi commessi in aree sottoposte a vincolo paesaggistico, il condono previsto dall’art. 32 del d.l. n. 269 del 2003, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 326 del 2003, è applicabile esclusivamente agli interventi di minore rilevanza indicati ai numeri 4, 5 e 6 dell'allegato 1 del citato decreto (restauro, risanamento conservativo e manutenzione straordinaria) e, previo parere favorevole dell'Autorità preposta alla tutela del vincolo, mentre non sono in alcun modo suscettibili di sanatoria le opere abusive di cui ai precedenti numeri 1, 2 e 3 del medesimo allegato, anche se l’area è sottoposta a vincolo di inedificabilità relativa e gli interventi risultano conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni dei relativi strumenti.

Cons. Stato, sez. VII, 23 novembre 2023, n. 10053 - Pres. Lipari, Est. Fratamico - In tema di piani paesaggistici e di strumenti urbanistici.

Se è vero che le previsioni dei piani paesaggistici sono immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi eventualmente contenute negli strumenti urbanistici (così come esplicitamente dispone l’art. 145, comma 3, del d.lg. n. 42 del 2004), non vi è alcuna preclusione a che gli strumenti urbanistici dettino, nell’ambito di propria competenza, disposizioni aggiuntive anche più restrittive dello strumento sovraordinato ed è (proprio) in tale prospettiva che va declinato il principio recato dell’art. 145, comma 3, del d.lg. n. 42 del 2004, nella parte in cui stabilisce che “Per quanto attiene alla tutela del paesaggio, le disposizioni dei piani paesaggistici sono comunque prevalenti sulle disposizioni contenute negli atti di pianificazione ad incidenza territoriale previsti dalle normative di settore, ivi compresi quelli degli enti gestori delle aree naturali protette”.

Al riguardo giova ricordare che, pur costituendo la tutela paesaggistica apprestata dallo Stato un limite inderogabile, tuttavia la Corte costituzionale “ha da tempo escluso l’illegittimità di norme regionali che non deroghino, in peius, agli standard fissati a livello statale, bensì stabiliscano norme di tutela più rigorose, salvo il sindacato di ragionevolezza”(cfr., tra le tante, Corte cost. 23 gennaio 2009, n. 12, secondo la quale “accanto al bene giuridico ambiente in senso unitario, possono coesistere altri beni giuridici aventi ad oggetto componenti o aspetti del bene ambiente, ma concernenti interessi diversi, giuridicamente tutelati. Si parla, in proposito, dell'ambiente come ‘materia trasversale’, nel senso che sullo stesso oggetto insistono interessi diversi: quello alla conservazione dell’ambiente e quelli inerenti alle sue utilizzazioni”).

Cons. Stato, sez. VI, 22 novembre 2023, n. 10031 - Pres. FF. Tarantino, Est. Lamberti - Sul termine per l’eventuale annullamento dell’autorizzazione paesaggistica.

Il termine fissato alla Soprintendenza competente per l’eventuale annullamento della autorizzazione paesaggistica rilasciata dalla Regione (ovvero dall’ente subdelegato) per quanto di natura perentoria, è previsto dalla legge soltanto ai fini dell’adozione dell’eventuale provvedimento di annullamento e non anche per la sua comunicazione ai soggetti interessati. In altri termini, perché possa dirsi rispettato il suddetto termine è sufficiente che l’atto sia adottato nel termine per provvedere, non dovendosi ricomprendere nel computo del termine stesso l’attività successiva di partecipazione di conoscenza dell’atto ai suoi destinatari. Ciò in considerazione della natura non recettizia di questo tutorio annullamento, che è espressione di cogestione attiva del vincolo paesaggistico e della conseguente ininfluenza, ai fini della sua validità, della comunicazione ai diretti interessati nell’arco temporale fissato dalla legge per l’adozione del provvedimento.

L’avvenuta edificazione di un’area non ha alcun rilievo quando si tratti di proteggere i valori estetici o paesaggistici ad essa legati; ne consegue che l’avvenuta parziale compromissione di un’area vincolata non giustifica il rilascio di provvedimenti atti a comportare un ulteriore degrado, fermo restando l’obbligo di ripristinare lo stato dei luoghi secundum ius.

La disparità di trattamento non è giuridicamente sostenibile quando si prospetta l’estensione a proprio vantaggio di un trattamento di favore che appare illegittimamente riconosciuto ad altri. In base al principio di legalità, infatti, un atto amministrativo legittimo rimane tale a prescindere da eventuali atti illegittimi adottati in situazioni simili.

Cons. Stato, sez. VII, 6 novembre 2023, n. 9557 - Pres. Contessa, Est. Castorina - In tema di autorizzazione paesaggistica.

La Corte costituzionale ha confermato il valore di tacito diniego all’accertamento di conformità, trascorsi sessanta giorni dall’istanza senza pronuncia con adeguata motivazione del Comune (sentenza 16 marzo 2023, n. 42). Il silenzio da parte del Comune diviene significativo di rigetto dell’istanza e assume piena efficacia di provvedimento esplicito di rifiuto, concretizzando un vero e proprio provvedimento tacito di diniego.

Nel caso in cui gli illeciti edilizi ricadano in zona assoggettata a vincolo paesaggistico, stante l’alterazione dell’aspetto esteriore, gli stessi risultano soggetti alla previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica, con la conseguenza che, quand’anche si ritenessero le opere pertinenziali o precarie e, quindi, assentibili con mera DIA, l’applicazione della sanzione demolitoria è, comunque, doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna autorizzazione paesistica.

L’art. 27 del d.p.r. n. 380 del 2001 impone di adottare un provvedimento di demolizione per tutte le opere che siano, comunque, costruite senza titolo in aree sottoposte a vincolo paesistico. Infatti, per le opere abusive eseguite in assenza di titolo edilizio e di autorizzazione paesaggistica in aree vincolate, vige un principio di indifferenza del titolo necessario all’esecuzione di interventi in dette zone, essendo legittimo l’esercizio del potere repressivo in ogni caso, a prescindere dal titolo edilizio ritenuto più idoneo e corretto per realizzare l’intervento edilizio nella zona vincolata; ciò che rileva, ai fini dell’irrogazione della sanzione ripristinatoria, è il fatto che lo stesso è stato posto in essere in zona vincolata e in assoluta carenza di titolo abilitativo, sia sotto il profilo paesaggistico che urbanistico.

Cons. Stato, sez. II, 9 ottobre 2023, n. 8813 - Pres. Forlenza, Est. Addesso - In tema di permesso di costruire e di autorizzazione paesaggistica con riferimento a manufatti in area sottoposta a vincolo.

L’amovibilità sul piano strutturale del manufatto non è sufficiente di per sé sola ad escluderne la rilevanza urbanistica ed edilizia e la conseguente necessità del titolo edilizio poiché all’amovibilità strutturale deve accompagnarsi la precarietà e temporaneità dell’uso e, quindi, dell’esigenza che l’opera mira a soddisfare. L’attitudine del manufatto ad essere periodicamente rimosso e reinstallato, infatti, non rileva ai fini della prova della precarietà dell’utilizzo che deve, comunque, essere fornita dall’interessato.

Il carattere precario di un manufatto deve essere valutato non con riferimento al tipo di materiale utilizzato per la sua realizzazione, ma avendo riguardo all’uso cui lo stesso è destinato, nel senso che, se le opere sono dirette al soddisfacimento di esigenze stabili e permanenti, deve escludersene la natura precaria, a prescindere dai materiali utilizzati e dalla tecnica costruttiva applicata; la precarietà non va, peraltro, confusa con la stagionalità, vale a dire con l’utilizzo annualmente ricorrente della struttura, poiché un utilizzo siffatto non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti, ma permanenti nel tempo; la precarietà dell’opera, che esonera dall’obbligo del permesso di costruire, postula, infatti, un uso specifico ma temporalmente limitato del bene.

Ne consegue l’obbligo di valutare l’opera alla luce della sua obiettiva ed intrinseca destinazione naturale, con la conseguenza che rientrano nella nozione giuridica di costruzione, per la quale occorre il permesso di costruire, tutti quei manufatti che, anche se non necessariamente infissi nel suolo o pur semplicemente aderenti a questo, alterino lo stato dei luoghi in modo stabile, non irrilevante e non meramente occasionale.

Il concetto di pertinenza urbanistica è diverso e più restrittivo rispetto alla nozione civilistica e si identifica solo con manufatti di modeste dimensioni con funzioni meramente accessorie dell’edificio principale, coessenziali ad esso e privi di autonomo valore di mercato.

In materia edilizia il vincolo pertinenziale che lega il manufatto accessorio a quello principale dev'essere tale in senso oggettivo, cosicché il primo non risulti suscettibile di alcuna diversa utilizzazione economica con la conseguenza che tale non può essere considerato un locale adibito a deposito poiché consta di volumetria aggiuntiva. Queste strutture, oltre a non essere pertinenziali, non possono essere considerate precarie, in tal senso non deponendo neppure il materiale impiegato per la costruzione in quanto la precarietà di un intervento non dipende dal materiale utilizzato, ma dal fatto che lo stesso è idoneo a soddisfare esigenze stabili.

Cons. Stato, sez. VI, 30 giugno 2023, n. 6379 - Pres. Montedoro, Est. Ponte - In tema di abusi edilizi commessi in aree sottoposte a vincolo paesaggistico.

In tema di abusi edilizi commessi in aree sottoposte a vincolo paesaggistico, il condono previsto dall’art. 32 del d.l. n. 269 del 2003, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 326 del 2003, è applicabile esclusivamente agli interventi di minore rilevanza indicati ai numeri 4, 5 e 6 dell’allegato 1 del citato d.l. (restauro, risanamento conservativo e manutenzione straordinaria) e previo parere favorevole dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo, mentre non sono in alcun modo suscettibili di sanatoria le opere abusive di cui ai precedenti numeri 1, 2 e 3 del medesimo allegato, anche se l’area è sottoposta a vincolo di inedificabilità relativa e gli interventi risultano conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici.

Cons. Stato, sez. VII, 26 aprile 2023, n. 4166 - Pres. FF. Franconiero, Est. De Carlo - In tema di nuove costruzioni ad uso abitativo in zona sottoposta a vincolo paesaggistico.

Ai sensi dell’art. 32, comma 27, del d.l. n. 269 del 2003, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 326 del 2003 non è possibile condonare un immobile costituente nuova costruzione ad uso abitativo in una zona gravata da vincolo paesaggistico ex art. 142, lett. m), del d.lg. n. 42 del 2004. Oltretutto il condono consente di legittimare i soli abusi formali, cioè l’assenza del titolo che sarebbe stato concedibile secondo le norme urbanistico-edilizie, ed i cosiddetti abusi minori di cui ai numeri 4, 5 e 6 dell’allegato I al medesimo d.l. n. 269 del 2003.

Nel caso di immobile abusivo non sorge nei privati alcun legittimo affidamento, neanche laddove accatastino il bene, e la doverosità della demolizione prescinde anche dalla risalenza dell’abuso (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 17 ottobre 2017, n. 9).

Cons. Stato, sez. IV, 20 marzo 2023, n. 2809 - Pres. Poli, Est. Verrico - Sulla natura giuridica, sugli effetti dei piani urbanistici territoriali, nonché sul piano urbanistico territoriale (PUT) della costiera amalfitana.

Le disposizioni contenute nella l.r. della Campania 27 giugno 1987, n. 35 hanno natura di prescrizioni paesaggistiche. Inoltre, il P.U.T. dell'area sorrentino-amalfitana, ai sensi dell’art. 3, commi 1 e 2, della citata legge regionale è piano territoriale con specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali e formula direttive vincolanti alle quali i Comuni devono uniformarsi nella predisposizione dei loro strumenti urbanistici.

L’eventuale scelta della regione di perseguire gli obiettivi di tutela paesaggistica attraverso lo strumento dei piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici non modifica i termini del rapporto fra tutela paesaggistica e disciplina urbanistica e, più precisamente, non giustifica alcuna deroga al principio secondo il quale, nella disciplina delle trasformazioni del territorio, la tutela del paesaggio assurge a valore prevalente. Il progressivo avvicinamento tra i due strumenti del piano paesaggistico “puro” e del piano urbanistico-territoriale con specifica considerazione dei valori paesaggistici - giunto alla sostanziale equiparazione dei due tipi operata dal Codice dei beni culturali e del paesaggio (art. 135, comma 1) - fa sì che oggi lo strumento di pianificazione paesaggistica regionale, qualunque delle due forme esso assuma, presenti contenuti e procedure di adozione sostanzialmente uguali (Corte cost., 29 gennaio 2016, n. 11).

La tutela ambientale e paesaggistica, gravando su un bene complesso ed unitario avente valore primario ed assoluto, precede e comunque costituisce un limite alla salvaguardia degli altri interessi pubblici; non a caso, il Codice dei beni culturali e del paesaggio definisce i rapporti tra il piano paesaggistico e gli altri strumenti urbanistici (nonché i piani, programmi e progetti regionali di sviluppo economico) secondo un modello rigidamente gerarchico, restando escluso che la salvaguardia dei valori paesaggistici possa cedere a mere esigenze urbanistiche.

L’art. 5 della l.r. della Campania 27 giugno 1987, n. 35 vieta, a tutti i Comuni ricompresi nel Piano urbanistico territoriale dell’area Sorrentino-Amalfitana, il rilascio di concessioni edilizie dalla data di entrata in vigore del piano urbanistico territoriale (ovvero: 21 luglio 1987; cfr. art. 4 della l.r. della Campania n. 35 del 1987) e sino all’approvazione dei Piani regolatori generali comunali. Si tratta di un divieto temporalmente illimitato e costituisce una misura di salvaguardia funzionale all’approvazione dei Piani regolatori generali comunali ovvero all’adeguamento di quelli eventualmente vigenti alle prescrizioni del Piano urbanistico-territoriale, a tutela dei valori paesaggistico-ambientali. La finalità perseguita dal legislatore è evidente: evitare la compromissione dei predetti valori paesaggistico-ambientali, con definitivo pregiudizio dell’efficacia del procedimento di pianificazione. Ne consegue l’immediata operatività dei vincoli di inedificabilità assoluta previsti dal P.U.T. dell’area sorrentino - amalfitana, a partire dall’entrata in vigore del Piano, pubblicato sul B.U.R. della Regione Campania n. 40 del 20 luglio 1987, atteso che i vincoli di inedificabilità assoluta disciplinati dal P.U.T. operano indipendentemente dal loro recepimento nella pianificazione urbanistica comunale.

La regola generale, volta a salvaguardare le previsioni del P.U.T. (che condiziona l’edificazione in zone paesaggistiche vincolate) ed a stimolare i comuni ad adeguare ad esso i rispettivi piani regolatori generali, è quella del divieto di rilascio di concessioni edilizie.

L’operatività del divieto costituisce pertanto un impedimento al rilascio di qualsiasi permesso di costruire in assenza di uno strumento urbanistico adeguato alla superiore e vincolante strumentazione urbanistica territoriale (nel caso in esame il P.U.T.), da ciò conseguendo l’irrilevanza della valutazione dell'entità delle opere di urbanizzazione presenti, di per sé determinante ai fini del rilascio del titolo in via diretta, ovvero in assenza di un piano attuativo.

Cons. Stato, Sez. II, 13 febbraio 2023, n. 1489 - Pres. Forlenza, Est. Manzione - Sulla possibilità dei dehors di rientrare nell’attività edilizia libera qualora siano funzionali a esigenze temporanee e facilmente rimovibili.

La stratificazione della normativa relativa alle strutture utilizzate dagli imprenditori commerciali per ampliare la superficie del proprio esercizio ha dato luogo nel tempo ad un disallineamento delle previsioni temporali a presidio del regolare assetto del territorio in genere, ovvero anche del paesaggio, sicché la irrilevanza di un intervento edilizio non coincide necessariamente con la consentita deroga dal preventivo avallo paesaggistico (come d’altro canto avviene per altri interventi, anche di mera manutenzione, quale la tinteggiatura della facciata, che tuttavia per l’impatto estetico può necessitare di un vaglio di qualità paesaggistica). La diversità degli interessi tutelati, che, ancor più dopo la recente novella dell’art. 9 della Costituzione, individua il paesaggio come oggetto primario di tutela, quale contenitore ampio di connotati paesaggistici e antropologici-culturali sinonimo di bellezza, giustifica anche in questo ambito un sostanziale diverso livello di tolleranza, nel senso che ciò che può stare sul suolo (seppur tutelato) per un certo lasso di tempo, non necessariamente può restarvi per lo stesso identico tempo senza essere considerato esteticamente impattante e dunque da sottoporre al vaglio preventivo di qualità dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo.

Le strutture a corredo di attività commerciali vengono denominate con l’espressione di derivazione francese dehors (letteralmente, che sta fuori), che in contrapposizione a dedans (che sta dentro), finisce per individuare proprio quei manufatti di varia tipologia che vanno ad ampliare le superfici di somministrazione di alimenti e bevande di bar, ristoranti e simili, spesso tanto più gradevoli dal punto di vista estetico e funzionali dal punto di vista pratico quanto maggiore ne è la stabilità e ancoraggio al suolo.

Sotto il profilo edilizio, i dehors, che di fatto assumono una consistenza che varia dalla semplice tenda, o ombrellone ad ampie falde, al box munito di infissi chiusi tipo veranda, possono essere installati liberamente ove rispondano alle caratteristiche di cui all’art. 6, comma 1, lett. e-bis), del d.p.r. n. 380 del 2001. La disposizione si riferisce a “opere stagionali e quelle dirette a soddisfare obiettive esigenze, contingenti e temporanee, purché destinate ad essere immediatamente rimosse al cessare della temporanea necessità e, comunque, entro un termine non superiore a centottanta giorni comprensivo dei tempi di allestimento e smontaggio del manufatto, previa comunicazione di avvio dei lavori all’amministrazione comunale”. Dalla lettura della norma emergono due elementi connotanti le strutture de quibus: uno funzionale, consistente cioè nella finalizzazione alle esigenze dell’attività, che devono tuttavia essere “contingenti e temporanee”, intendendosi per tali quelle che, in senso obiettivo, assumono un carattere ontologicamente temporaneo, quanto alla loro durata, e contingente, quanto alla ragione che ne determina la realizzazione, e che in ogni caso (cioè quale che ne sia la “contingenza” determinante), non superano comunque i centottanta giorni (termine che deve comprendere anche i tempi di allestimento e smontaggio, riducendosi in tal modo l’uso effettivo ad un periodo inferiore ai predetti 180 giorni); l’altro strutturale, ovvero l’avvenuta realizzazione con materiali e modalità tali da consentirne la rapida rimozione una volta venuta meno l’esigenza funzionale (e quindi al più tardi nel termine di centottanta giorni dal giorno di avvio dell’istallazione, coincidente con quello di comunicazione all’amministrazione competente).

Dalla diversa angolazione della tutela del paesaggio, i dehors necessitano dell’autorizzazione di cui all’art. 146 del d.lg. n. 42 del 2004, salvo si tratti di opere di lieve entità, per le quali il d.p.r. 13 febbraio 2017, n. 31, adottato in attuazione dell’art. 12, comma 2, del d.l. n. 83 del 2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 106 del 2014, come modificato dall’art. 25, comma 2, del d.l. n. 133 del 2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 164 del 2014, ha previsto l’esonero. In particolare, alla voce “A.16” dell'allegato A del citato d.p.r. n. 31 del 2017, tra gli interventi “liberi” figura l’occupazione temporanea anche di suolo pubblico o di uso pubblico “mediante installazione di strutture o di manufatti semplicemente ancorati al suolo senza opere murarie o di fondazione, per manifestazioni, spettacoli, eventi o per esposizioni e vendita di merci, per il solo periodo di svolgimento della manifestazione, comunque non superiore a 120 giorni nell'anno solare”. L’art. 146 del citato d.lg. n. 42 del 2004, quindi, trova applicazione ogniqualvolta l’installazione travalichi, per durata ovvero, alternativamente o cumulativamente, consistenza, i confini declinati dal d.p.r. n. 31 del 2017.

Lo spirare del termine previsto per esprimersi dall’art. 146 del d.lg. n. 42 del 2004 da parte della Soprintendenza non esaurisce il potere della P.A. di pronunciarsi, ma dequota il contenuto a mero “suggerimento”, sicché l'Autorità competente al rilascio dell’autorizzazione può tenerne conto, ma non ne è vincolata, dovendosi determinare autonomamente sull’impatto dell’opera sul paesaggio. L’obbligo di motivare autonomamente il diniego del titolo paesaggistico, in caso di mancato rispetto del termine previsto dalla legge per l’espressione del parere della Soprintendenza, riguarda il contenuto del giudizio, ovvero la ritenuta attitudine dell’intervento a incidere permanentemente sui valori paesaggistici, la cui rilevanza assume una valenza superiore a quella meramente estetica, tradizionalmente limitata alla visione panoramica e alla percezione “empirica” delle opere. Laddove, tuttavia, a tale merito neppure si arrivi perché non è stata superata la barriera di ammissibilità della domanda del privato, l’atto di diniego assume contenuto vincolato e portata necessitata e ben può limitarsi a riferire quanto chiarito dalla Soprintendenza, seppure tardivamente.

Cons. Stato, sez. VI, 7 febbraio 2023, n. 1289 - Pres. Montedoro, Est. Toschei - In tema di dipinto murale (c.d. murales) quale intervento di manutenzione straordinaria e, in quanto tale, soggetto a titolo abilitativo edilizio.

In sede di rilascio del titolo abilitativo edilizio - segnatamente, in sede di esame sull’effettiva disponibilità giuridica del bene oggetto dell’intervento edificatorio, limitando invero l’art. 11 del d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380 la legittimazione attiva all’ottenimento della concessione edilizia a chi sia munito di titolo giuridico sostanziale per richiederlo - sussiste l’obbligo per il Comune di verificare il rispetto da parte dell’istante dei limiti privatistici, ma soltanto alla condizione che tali limiti siano effettivamente conosciuti o immediatamente conoscibili o non contestati, di modo che il controllo da parte dell’ente locale si traduca in una semplice presa d’atto dei limiti medesimi senza necessità di procedere ad un’accurata e approfondita disamina dei rapporti civilistici.

La realizzazione di un dipinto murale (espressione con la quale è preferibile tradurre la parola ispanica "murales") sulla facciata di un palazzo costituisce obiettivamente una trasformazione di detta facciata, riconducibile nella categoria della “manutenzione straordinaria” e, come tale, soggetto a titolo abilitativo edilizio.

La realizzazione di un’opera edilizia, nella quale rientra a pieno titolo un dipinto murale (qualsiasi sia la rappresentazione figurativa che reca), è destinata a permanere nel tempo secondo la volontà del realizzatore o del proprietario dell’immobile, il quale deciderà se rimuoverla e quando rimuoverla, pur sempre chiedendo preventivamente il rilascio del titolo abilitativo necessario alla trasformazione (anche solo visiva) del territorio, sia per la realizzazione sia per la rimozione dell’opera stessa. Ne consegue che la realizzazione di un dipinto murale a carattere decorativo assume le medesime caratteristiche della realizzazione di un intervento edilizio, diversificandosene, semmai, in ragione della complessità dell’eventuale rimozione, ma tale aspetto materiale non incide sulla qualificazione giuridica dell'opera come “irreversibile”, in quanto la “reversibilità” dell’opera non assume rilievo obiettivo ma soggettivo, essendo condizionata dalla volontà del soggetto realizzatore o del proprietario dell’edificio sul quale è stata eseguita.

In materia urbanistico-edilizia, in tema di rilascio del titolo abilitativo edilizio, il potere esercitato dal Comune nel reprimere l’abuso edilizio, costituito dall’avere realizzato opere di manutenzione straordinaria senza la previa richiesta di rilascio del necessario titolo abilitativo, va qualificato di tipo “vincolato” sicché per la sua adozione non è necessaria la comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990.

 

[*] Giancarlo Montedoro, Presidente della VI Sezione del Consiglio di Stato, Piazza Capo di Ferro 13, 00186 Roma, g.montedoro@giustizia-amministrativa.it.

[**] Vania Talienti, dottore di ricerca in Diritto dell'economia presso l’Università degli Studi di Foggia e funzionario della Presidenza del Consiglio dei ministri, Piazza Colonna 370, 00187 Roma, vaniatalienti@gmail.com.

 

 

 

 

 



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