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Fondazioni e beni ecclesiastici di interesse culturale

La nuova destinazione delle chiese dismesse: un uso profano ‘non indecoroso’

di Alberto Tomer [*]

Sommario: 1. I possibili utilizzi dell’edificio e la nuova collocazione dei relativi beni mobili. Criteri generali ed esempi concreti. - 2. L’alienazione degli edifici di culto dismessi. Procedura e requisiti nel rispetto del carattere ‘non indecoroso’ del nuovo uso. - Bibliografia.

New destinations of decomissioned churches: a profane ‘but not sordid’ use
The decommissioning of a church is a prospect that affects not only the religious level, but also the one concerning the conservation and the historical and artistic understanding of the building itself and of the goods that it contains. Consequently, the discipline provided by the Code of canon law regarding the relegation to profane uses also assumes great relevance for the cultural sphere, especially with regards to which the new uses of the building could possibly be. In fact, the Code requires for them to be ‘not sordid’, albeit profane: a feature on the meaning of which is therefore convenient to dwell, in view of the changes in destination that have become increasingly frequent (and worrying) in recent years.

Keywords: churches (sacred buildings); relegation to profane but not sordid use; decommissioning of places of worship; ecclesial and/or cultural reuse of buildings.

1. I possibili utilizzi dell’edificio e la nuova collocazione dei relativi beni mobili. Criteri generali ed esempi concreti

Così come per tutti i loca sacra, anche per la specifica tipologia costituita dalle chiese la disciplina descritta dal vigente Codex Iuris Canonici (libro IV, parte III, titolo I) continua a dispiegare i propri effetti fintanto che l’edificio cui si riferisce mantenga la qualifica di “sacro”, perdendo invece di vigore qualora quest’ultima venga meno. Una prospettiva, cui si è soliti riferirsi anche con il termine di “dismissione”, che notoriamente assume grande rilevanza non solo sul piano religioso, ma pure su quello culturale: giacché tale condizione implica inevitabilmente anche un serio rischio tanto per la conservazione materiale quanto per la “leggibilità” storico-artistica dell’immobile stesso e dei beni in esso contenuti. In quest’ottica è interessante notare come proprio la disciplina canonica a cui abbiamo fatto cenno fornisca elementi che possono assumere un’importanza decisiva pure ai fini della stessa tutela del carattere culturale del medesimo patrimonio, specie in relazione ai possibili nuovi utilizzi degli edifici in parola.

Il Codice non si limita infatti a indicare quali siano i presupposti della dismissione. Anche quando effettivamente ricorrano le gravi ragioni richieste e il procedimento previsto sia seguito in modo corretto in ogni suo passaggio, questo non significa che l’edificio in precedenza adibito al culto possa essere in seguito impiegato per qualsiasi attività: nel definire la nuova destinazione, il can. 1222 sottolinea piuttosto come essa debba necessariamente consistere in un uso che, benché profano, risulti comunque “non indecoroso”. Com’è facile intuire data l’indeterminatezza di una simile formulazione, anche tale disposizione - evidentemente dettata per garantire il rispetto sia della passata funzione dell’edificio sia della sensibilità dei fedeli - ha suscitato l’esigenza di un’interpretazione più puntuale.

Al riguardo va innanzitutto precisato come questo elemento, pur rivestendo chiaramente un ruolo centrale, non vada confuso con le condizioni illustrate nell’ambito del procedimento di riduzione a uso profano: la scelta della nuova destinazione, infatti, si riferisce a un momento logicamente successivo rispetto a quello del discernimento circa la sussistenza dei requisiti necessari alla cessazione dell’uso per il culto, dal quale deve perciò essere tenuta giuridicamente distinta.

Ciò spiega anche la ragione per cui il vescovo non è obbligato a segnalare nel proprio decreto il futuro utilizzo, che al momento della riduzione potrebbe peraltro non essere stato ancora individuato. Qualora una simile indicazione vi fosse comunque inserita, le due determinazioni andrebbero perciò considerate come atti separati, da giudicare ognuno in modo autonomo. Sarebbe possibile, in altri termini, immaginare il caso di un procedimento di dismissione ritenuto conforme agli altri parametri di cui al can. 1222, ma al quale seguisse poi la selezione di un nuovo uso considerato invece indecoroso: la conseguente illegittimità interesserebbe solo quest’ultimo elemento, senza per questo investire il contenuto dell’intero decreto.

D’altra parte, la separazione di questi due momenti sul piano giuridico non impedisce certo che la preoccupazione per il futuro dell’immobile occupi, nei fatti, una posizione cruciale fin dalle fasi iniziali della riflessione del vescovo e della eventuale compartecipazione del consiglio presbiterale. Pur non potendo ovviamente essere la prospettiva del nuovo utilizzo profano il parametro per giudicare della legittimità dei presupposti della dismissione, stabilendo a posteriori se la “gravità” delle ragioni in questione è o non è tale da giustificare la cessazione del culto, la rilevanza della successiva destinazione emerge infatti con forza non solo sul piano gestionale e relativamente al singolo caso, ma si pone anche e soprattutto nell’ottica di una pianificazione condotta su una scala adeguatamente vasta e secondo una visione territoriale complessiva, che permetta - come auspicato dalle Linee guida su “La dismissione e il riuso ecclesiale di chiese” del Pontificio consiglio della cultura del 2018, al n. 27, lett. d), e al n. 34, 4° - di orientare proficuamente ogni decisione sul tema.

I dubbi maggiori circa tale requisito si concentrano tuttavia sul suo oggetto, cioè su quali utilizzi esso escluda o permetta. Se alcune attività sono pacificamente ritenute non consone al decoro richiesto dal canone - tra gli esempi più frequentemente citati a questo proposito si trovano le ipotesi di adibire l’immobile a officina, a mercato, a cinema, a ristorante, a pub, a discoteca o a night club -, per una definizione più sistematica a tale riguardo è opportuno fare riferimento alle indicazioni rinvenibili in documenti ecclesiali di varia natura, sia di valenza locale sia di portata universale. Mentre in alcuni di essi la questione in esame è trattata solo incidentalmente dal rispettivo angolo prospettico di specifico interesse, come nel caso della lettera della Congregazione per il culto divino sui concerti nelle chiese del 1987 - al n. 10 della quale si segnala che “quando l’ordinario lo ritiene necessario, potrebbe, nelle condizioni previste dal Cic, can. 1222 § 2, destinare una chiesa che non serve più al culto, ad ‘auditorium’ per le esecuzioni musicali profane, purché consone alla sacralità del luogo” -, considerazioni di carattere generale sullo stesso tema si riscontrano negli Orientamenti su I beni culturali della Chiesa in Italia della Conferenza episcopale italiana del 1992 e soprattutto nelle citate Linee guida del Pontificio Consiglio della cultura, nei quali ampio risalto viene dato appunto anche alla dimensione culturale.

Il riferimento effettuato in questa materia dal documento della Conferenza episcopale italiana, che al n. 35 definisce “usi compatibili [...] quelli di tipo culturale, come sedi per attività artistiche, biblioteche, archivi e musei”, viene infatti confermato e ampliato da quello del Pontificio Consiglio della cultura, che approfondisce le ipotesi già delineate evidenziando come siano “certamente da preferirsi adattamenti con finalità culturali (musei, aule per conferenze, librerie, biblioteche, archivi, laboratori artistici ecc.) o sociali (luoghi di incontro, centri Caritas, ambulatori, mense per i poveri e altro)”. Per converso, lo stesso testo puntualizza come tra i nuovi utilizzi non possano trovare spazio destinazioni di carattere commerciale a scopo speculativo, mentre potrebbero essere considerate quelle con finalità solidali. Va precisato, in ogni caso, che il carattere orientativo e l’origine “corale” - e geograficamente eterogenea - delle Linee guida, scaturite dal dialogo tra le delegazioni di Conferenze episcopali provenienti da diverse parti del mondo, implicano che tali indicazioni non debbano essere intese come una scelta programmata di estensione dei riusi preferibili: propriamente, esse vanno invece lette come il frutto di una riflessione che ha coinvolto esperienze anche assai differenti sullo stesso problema, offerte poi alle singole Conferenze episcopali in vista di un’elaborazione ulteriore e localmente specifica.

Proseguendo nel medesimo senso, il documento espone poi alcuni criteri a cui devono ispirarsi tutti i cambiamenti nell’assetto dell’immobile che un simile mutamento di destinazione inevitabilmente comporta: oltre a raccomandare la realizzazione di modifiche reversibili ogniqualvolta ciò sia possibile, al n. 34, 8° e 9°, si consiglia in particolare di effettuare appositi studi sulle trasformazioni che hanno portato il luogo in questione all’aspetto attuale, così da individuare quali sviluppi si collochino nel modo più compatibile e rispettoso nello stesso solco, nonché di “conservare comunque la leggibilità planivolumetrica dell’edificio, delle componenti costruttive, della gerarchia funzionale e distributiva degli spazi e dei percorsi originali altamente simbolici”.

In tutte le ipotesi di dismissione di un luogo sacro è inoltre indispensabile prestare la massima attenzione anche al trattamento del patrimonio mobile in esso contenuto, che deve essere rimosso in vista del nuovo utilizzo profano. Anche a questo proposito si rileva peraltro una sostanziale continuità tra gli Orientamenti e le Linee guida, che ne esortano il trasferimento in altre chiese così da garantire ad arredi, suppellettili e immagini sacre una permanenza d’uso a scopo di culto; laddove ciò non fosse possibile, i manufatti di maggiore pregio dovrebbero almeno essere conservati in un museo ecclesiastico “che consenta loro una nuova funzione ecclesiale e di memoria” (n. 34, 10°).

Alla medesima esigenza si rivolge d’altronde pure l’intesa relativa alla tutela dei beni culturali di interesse religioso appartenenti a enti e istituzioni ecclesiastiche conclusa tra il ministro per i Beni e le Attività culturali e il presidente della Conferenza episcopale italiana nel 2005, il cui art. 6, comma 4, prevede appunto che in relazione ai beni culturali mobili “già in proprietà di diocesi o parrocchie estinte o provenienti da edifici di culto ridotti all’uso profano dall’autorità ecclesiastica competente e che non possano essere mantenuti nei luoghi e nelle sedi di originaria collocazione o di attuale conservazione, il soprintendente competente per materia e territorio valuta, d’accordo con il vescovo diocesano, l’opportunità del deposito dei beni stessi presso altri edifici aperti al culto, qualora gli stessi siano idonei a garantirne la conservazione, ovvero presso musei ecclesiastici, se muniti di idonei impianti di sicurezza, o musei pubblici presenti nel territorio”.

A questo riguardo non sfugge peraltro come, tra gli adattamenti ritenuti compatibili con la riduzione a uso profano di una chiesa, comparisse anche la trasformazione dell’immobile in un museo. Se tale ipotesi può apparire a prima vista ottimale, garantendo sia la conservazione contestuale dei beni mobili sia un riuso culturale in linea con l’originale destinazione dell’edificio, va tuttavia pure rilevato come proprio tale eccessiva continuità imponga di approcciare una simile soluzione con estrema cautela. Senza gli adeguati accorgimenti, il rischio che si profila è infatti quello di provocare una disorientante e nociva commistione, nella percezione di fedeli e turisti, tra luoghi sacri ‘viventi’ e apparentemente indistinguibili strutture museali che di questi ultimi conservano tutte - ma soltanto - le caratteristiche esteriori: contribuendo così al radicarsi di quella problematica concezione di ‘chiesa-museo’ già incentivata dalle esperienze in cui è stato adottato in maniera meno accorta il sistema dell’accesso a pagamento a fini turistici.

L’operazione non può quindi consistere nella mera ‘musealizzazione’ di un ambiente fino a quel momento dedicato al culto, cristallizzandone la condizione tale e quale, ma si rivela indispensabile la predisposizione di espedienti museografici sufficientemente forti da rendere inconfondibile il cambiamento nella natura e nella funzione dello spazio in questione.

Tra i beni contenuti all’interno della chiesa in via di dismissione, una specifica attenzione è da tributare soprattutto agli altari, che a norma del can. 1238 § 2 mantengono la propria dedicazione o benedizione anche qualora il luogo sacro in cui sono posti venga ridotto a uso profano. Tale aspetto è evidenziato pure nelle Procedural Guidelines for the Modification of Parishes, the Closure or Relegation of Churches to Profane but not Sordid Use, and the Alienation of the Same della Congregazione per il clero del 2013, che al n. 3, lett. g), così ne sottolineano le conseguenze: “Because altars can never be turned over to profane use, if they cannot be removed, they must be destroyed”. Una prospettiva, come osservano le Linee guida del Pontificio Consiglio della cultura al n. 16, che “potrebbe porsi in netto contrasto con le norme civili della conservazione del patrimonio culturale”, ma cionondimeno irrinunciabile per l’ordinamento canonico.

Un profilo su cui è invece intervenuta una certa inversione di tendenza nella considerazione della Conferenza episcopale italiana è quello relativo all’opportunità di prevedere mutamenti di destinazione solamente parziali o temporanei, profilo che appare quindi non univoco e sul quale insistono anche ragioni di ordine fiscale. Se infatti gli Orientamenti del 1992 non solo ammettevano, ma addirittura caldeggiavano il ricorso a quest’ultima ipotesi come misura estrema ove ciò avesse permesso di evitare l’alienazione dell’immobile (n. 35: “Il mutamento temporaneo di destinazione è sempre comunque preferibile all’alienazione dell’edificio”), l’Istruzione in materia amministrativa del 2005 ha invece escluso recisamente una simile possibilità, statuendo che “la dedicazione di una chiesa al culto pubblico è un fatto permanente non suscettibile di frazionamento nello spazio o nel tempo, tale da consentire attività diverse dal culto stesso” (n. 128). Per converso, va rilevato come in altri contesti nazionali - nei quali vigono anche regimi fiscali differenti - la riduzione a uso profano di locali circoscritti dell’edificio, che nelle aree restanti mantiene invece la propria destinazione al culto, è divenuta una prassi relativamente frequente.

Un’indicazione a questo proposito si può tuttavia riscontrare pure nelle Linee guida del Pontificio Consiglio della cultura, che al n. 15 indica tra i comportamenti che devono essere censurati anche quelli consistenti nel “ridurre una parte della chiesa ad uso profano” e nel “destinare di fatto una chiesa ad attività diverse dal culto divino (sala per concerti, conferenze ecc.), mantenendo in modo sporadico le funzioni religiose”. Soluzioni che non implicano invece la cessazione della destinazione al culto dell’edificio, non comportando perciò i problemi menzionati, possono individuarsi nelle ipotesi - pure osservate con interesse in altri paesi - della trasformazione della chiesa in chiesa cimiteriale o in oratorio (purché quest’ultimo mutamento di stato non sia meramente finalizzato a una successiva riduzione a uso profano svincolata dalle condizioni di cui al can. 1222).

2. L’alienazione degli edifici di culto dismessi. Procedura e requisiti nel rispetto del carattere ‘non indecoroso’ del nuovo uso

In merito all’alienazione, va in ogni caso tenuto presente che quest’ultima, al pari della modifica di parrocchie, costituisce un’ipotesi distinta rispetto alla dismissione, ben potendo un ente ecclesiastico sia alienare un edificio ancora dedicato al culto - al quale si applicheranno perciò le disposizioni di cui all’art. 831, comma 2, c.c.: “Gli edifici destinati all’esercizio pubblico del culto cattolico, anche se appartengono a privati, non possono essere sottratti alla loro destinazione neppure per effetto di alienazione, fino a che la destinazione stessa non sia cessata in conformità delle leggi che li riguardano” -, sia mantenere la proprietà di un immobile già ridotto a uso profano.

Quale che sia la concreta fattispecie da affrontare, la procedura da seguire è comunque quella ordinariamente delineata dal Libro V, titolo III, del Codex Iuris Canonici - e sintetizzata al par. 3, lett. h), delle Procedural Guidelines del 2013 - sulla base del rapporto tra il bene in oggetto e le somme minima e massima appositamente fissate dalla Conferenza episcopale per la propria regione: risultando quindi altresì indispensabile l’apposita licenza da parte della Santa Sede per l’alienazione di tutti i beni dotati di pregio artistico o storico, indipendentemente dal loro valore economico, ex can. 1292 § 2. Per le fattispecie di nostro interesse, quest’ultima condizione andrà quindi inderogabilmente a sommarsi agli altri requisiti già previsti per l’alienazione dei beni - “non culturali” - di valore superiore a 250 mila euro: consistenti cioè non solo nella necessità che l’alienazione stessa sia determinata da una giusta causa e che sia stata effettuata una valutazione scritta da parte di esperti, ma pure nella licenza dell’autorità competente, individuata nei rispettivi statuti per quanto riguarda le persone giuridiche non soggette al vescovo o, in ogni altro caso, rappresentata dal vescovo stesso, il quale dovrà a sua volta ottenere anche l’assenso del consiglio diocesano per gli affari economici, del collegio dei consultori e delle parti interessate.

Una considerazione ulteriore si presenta tuttavia con specifico riferimento all’ambito delle chiese ridotte a uso profano, nei confronti del quale il documento della Congregazione per il clero rivolge la seguente raccomandazione al par. 3, lett. f): “Furthermore, the competent authority must assure that there is no reasonable possibility of scandal or loss of the faithful which will result from the proposed alienation”. Un problema concreto a questo proposito è rappresentato soprattutto dal rischio, a seguito della vendita dell’immobile, del mancato rispetto del carattere ‘non indecoroso’ richiesto per il suo nuovo utilizzo. Se tale elemento può essere salvaguardato per il primo acquirente tramite il ricorso ad appositi accordi contrattuali, decisamente più complessa si rivela infatti l’individuazione di strumenti che consentano di conseguire il medesimo risultato in perpetuo ed erga omnes: motivo per cui il n. 34, 6°, delle Linee guida del 2018, dopo avere sottolineato l’importanza di simili clausole, conclude facendo “appello alle autorità civili in modo da garantire mediante un vincolo giuridico la dignità del luogo” anche in vista dei successivi passaggi di proprietà.

Bibliografia

Per un approfondimento sulle tematiche esposte, ci permettiamo di segnalare alcuni riferimenti bibliografici essenziali.

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Quanto ai documenti citati, si vedano: Congregatio pro cultu divino, De concentibus in ecclesiis, 5 novembre 1987, Notitiae, 1988, pagg. 3-39; Conferenza episcopale italiana, I beni culturali della Chiesa in Italia. Orientamenti, 9 dicembre 1992, in Notiziario della Conferenza episcopale italiana, 1992, pagg. 309-336; Conferenza episcopale italiana, Istruzione in materia amministrativa, 1° settembre 2005, in Notiziario della Conferenza episcopale italiana, 2005, pagg. 325-427; Congregatio pro clericis, Official Documents of the Holy See: Letter for the Congregation for the Clergy and Procedural Guidelines for the Modification of Parishes and the Closure, Relegation and Alienation of Churches, 30 aprile 2013, in The Jurist, 2013, pagg. 211-219; Pontificium Consilium de cultura, La dismissione e il riuso ecclesiale di chiese. Linee guida, 30 novembre 2018, in Dio non abita pił qui? Dismissione di luoghi di culto e gestione integrata dei beni culturali ecclesiastici, (a cura di) F. Capanni, Roma, 2019, pagg. 257-271.

 

Note

[*] Alberto Tomer, assegnista di ricerca in Diritto canonico e Diritto ecclesiastico presso l’Alma Mater Studiorum Università di Bologna, Via Zamboni 33, 40126 Bologna, alberto.tomer2@unibo.it.

 

 



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