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Patrimonio culturale e ambiente

Miglioramento energetico e conservazione del patrimonio culturale

di Pietro Petraroia e Valentina M. Sessa [*]

Sommario: 1. Il miglioramento energetico come componente dei processi di conservazione e valorizzazione dei beni culturali. - 2. Le recenti modifiche normative per l’efficientamento energico dei beni culturali: innovazioni e punti controversi. - 3. La necessità di un protocollo di procedura condiviso. - 4. Le Cer come strumento di efficientamento energetico e come modello per la gestione dei beni e delle attività culturali. - 5. Pensando al futuro prossimo.

Energy improvement and heritage conservation
The attention to the energy efficiency of buildings, which has spread in recent times, questions the compatibility between energy improvement measures and the conservation of cultural buildings. In this regard, regulations have recently been issued in the Italian legal system which seek to introduce energy efficiency measures also for cultural heritage, and which pose problems of compatibility between these regulations and the provisions on protection. It is therefore possible to both evaluate this aspect and the possibility of using renewable energy communities to launch cultural heritage conservation and valorization initiatives. Therefore, the initiative called “Carta di Brescia” is particularly interesting, which aims to identify types of interventions compatible with materials and structures of protected historic buildings, in order to imagine new and fruitful developments for an operational integration of the technologically more advanced craftsmanship and more sensitive and aware of historical building techniques.

Keywords: civil society; legal protection; energy efficiency; energy community improvement; planned conservation; renewable energy; materials cycle; circular economy.

1. Il miglioramento energetico come componente dei processi di conservazione e valorizzazione dei beni culturali

Lo sviluppo, in Italia e all’estero, della metodologia della conservazione preventiva e programmata data ormai da circa mezzo secolo [1] e ha subito alterne vicende [2]. Un aspetto fondamentale dell’approccio che essa esprime è la dimensione eco-sistemica, che si fonda sugli esiti di un lungo percorso di ricerche e sperimentazioni, sviluppatesi (almeno come attenzione all’“esterno” dell’opera d’arte) già dal XVIII secolo, con l’intento di meglio comprendere e controllare gli effetti potenzialmente negativi dell’interazione fra sistema oggetto (ad es. un dipinto con la sua cornice) e sistema ambiente (ad es. il luogo in cui è ubicato e il suo intorno più ampio) [3].

In altre parole, è da lungo tempo nozione comune in sede scientifica che, se la conservazione e il godimento di un manufatto di pregio culturale sono condizionati fortemente da diversi tipi di stress prodotti simultaneamente dalle condizioni ambientali [4], è solo legando lo studio accurato dell’oggetto, in tutte le sue valenze, con lo studio degli impatti su di esso prodotti dal suo contesto ambientale che è possibile sviluppare progetti di qualità per la sua salvaguardia e per un responsabile godimento assicurato anche alle future generazioni [5].

Se nel secolo scorso M. Paribeni aveva modellizzato questa interazione come scambio energetico fra i due sistemi, con l’obiettivo di inquadrare concettualmente la conservazione dei beni culturali come una strategia volta a ridurre fenomeni di entropia (ivi incluso il deterioramento) [6], nel nostro tempo il focus sull’energia è divenuto assai più che un modello ermeneutico della fisica tecnica: il contesto globale delle relazioni economiche, socio-culturali, tecnologiche, militari ha enfatizzato la percezione diffusa di innumerevoli interdipendenze alle quali non si era abituati a pensare, per di più in riferimento a molte circostanze emergenziali.

Del resto, tali interdipendenze erano già state comprese, sotto altro profilo, dalla Convenzione UNESCO dell’Aja (1954), i cui conseguenti atti integrativi e attuativi, aggiornati fino ad anni recenti, hanno ripetutamente richiamato all’impegno degli stati alla protezione dei patrimoni culturali in caso di conflitti armati [7].

Ma se nei conflitti siamo immersi in modo, per dir così, olistico e se le convenzioni internazionali del secolo scorso sembrano sempre meno condivise, allora è indispensabile ed urgente che anche il governo dei saperi esperti e delle normative assuma ad ogni livello un nuovo approccio globale e integrato.

C’è chi con buona volontà lavora persino a porre fondamenti di una “costituzione della terra” [8], inducendo importanti cambiamenti di sguardo e prospettiva, che peraltro aiutano a non pretendere soluzioni sbrigativamente operative ed efficaci nell’immediato sul piano globale, con conseguenze poco note e meditate. Tuttavia, il governo in sede normativa dei conflitti internazionali e delle conseguenti ricadute sui patrimoni culturali vede ormai iscritto in agenda un nuovo tema: quello dei danni prodotti sia dai cambiamenti climatici sul complessivo ecosistema, sia dallo specifico pericolo che si sviluppi nelle politiche pubbliche un contrasto di fatto fra gli interessi alla salvaguardia del tessuto storico del nostro paesaggio culturale e l’interesse alla sostenibilità economica di esso legata alla crisi energetica.

Si tratta peraltro di fattori di pericolosità non facilmente distinguibili nella loro incidenza sul complessivo rischio cui è esposto il patrimonio culturale, in quanto fenomeni meteo-climatici estremi, generati dal riscaldamento globale incrementano ulteriormente non soltanto il fabbisogno delle risorse per il restauro e la gestione, ma anche l’entità della perdita definitiva di materiali e strutture di pregio non rinnovabili che li costituiscono, con tutto il loro portato di testimonianza di civiltà.

Eppure, è esattamente dal nodo ambiente-patrimonio-comunità che i policy makers e i legislatori, preso atto dell’inscindibile loro rapporto (non a caso, forse, esplicitato nella nostra Costituzione già dal 2001 [9]), possono ora ripartire. Si tratta di rileggere i processi amministrativi e tecnologici sollecitati da segmenti non ancora ben coordinati della normativa ordinaria e straordinaria (ad esempio quella mirante a promuovere la piena attuazione del Pnrr), in riferimento non soltanto a interventi diretti sul patrimonio culturale, su scala puntuale e di area vasta, ma anche alla promozione di un più forte raccordo fra politiche della ricerca applicata, ruolo degli operatori economici (anzitutto imprese che investano in ricerca), soggetti istituzionali con responsabilità sul patrimonio culturale con ruolo di regolatori e/o di gestori.

La Costituzione attribuisce allo Stato un ampio potere esclusivo di legislazione in materia e, per conseguenza, una forte responsabilità nel coordinare operativamente normativa e politiche pubbliche sul raccordo fra tutela dei beni culturali e tutela dell’ecosistema e dell’ambiente; ma è altrettanto evidente che il Codice dei beni culturali e del paesaggio, in più parti, individua un percorso procedurale (per la catalogazione, la conservazione, la qualità della gestione) che rende lo sviluppo e la governance del processo partecipati a vario titolo da Regioni, università e istituti di ricerca competenti. Per far fronte alle emergenze attuali con il migliore concorso di competenze e risorse presenti nel Paese, occorrerebbe prevedere uno sviluppo di questa parte della normativa (eventualmente in sede regolamentare) che, presupponendo la prerogativa legislativa esclusiva in capo allo Stato, agevoli l’apporto coordinato di aziende particolarmente esperte, con modalità affini a quanto avviene ad esempio con le norme Iso.

2. Le recenti modifiche normative per l’efficientamento energetico dei beni culturali: innovazioni e punti controversi

Il rapporto tra ambiente e conservazione del patrimonio culturale e quello tra crisi energetica ed esigenze gestionali del patrimonio culturale, evidenziati nel precedente paragrafo, ha portato come primo effetto ad introdurre nella normativa italiana alcune disposizioni che, se da una parte sono tese a incentivare l’efficientamento energetico anche dei beni culturali, dall’altra hanno necessità di armonizzare tali misure con le disposizioni vincolistiche finalizzate a tutelarli.

Il tentativo di estendere ai beni culturali le misure di efficientamento energetico risponde alla più generale politica energetica italiana [10], che a sua volta si inserisce in un quadro internazionale [11] volto a promuovere l’economia circolare, intesa come paradigma che punta a ridurre il prelievo di risorse naturali non rinnovabili e a renderne efficiente l’uso attraverso un modello di produzione, alternativo a quello tradizionale della “economia lineare” (fondato sullo schema “estrarre, produrre, utilizzare e gettare”), e a proporre condivisione, prestito, riutilizzo, riparazione, ricondizionamento e riciclo dei materiali e prodotti, così da prolungarne il ciclo di vita, aumentandone la durabilità, riducendo gli scarti e reintroducendo nel ciclo produttivo i materiali residui e, ove possibile, generare valore ulteriore [12].

Nello specifico, il 25 settembre 2015 i paesi membri dell’Onu hanno adottato l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, entrata poi in vigore nel 2016, che tra i suoi 17 obiettivi di sviluppo sostenibile (Suistainable Development Goals, Sdg) [13] ha inserito l’incremento del ricorso alle energie rinnovabili, in particolare con l’obiettivo 7 (“Assicurare a tutti l’accesso a sistemi di energia economici, affidabili, sostenibili e moderni”), nella specie 7.2 (“Aumentare considerevolmente entro il 2030 la quota di energie rinnovabili nel consumo totale di energia”) e 7.3 (“Raddoppiare entro il 2030 il tasso globale di miglioramento dell’efficienza energetica”), e con l’Obiettivo 11 (“Rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, duraturi e sostenibili”), e specificamente 11.4 (“Potenziare gli sforzi per proteggere e salvaguardare il patrimonio culturale e naturale del mondo”).

Pochi anni dopo, nel 2019, il Green deal europeo ha a sua volta fissato come obiettivo quello di “trasformare l’UE in una società a impatto climatico zero, giusta e prospera, dotata di un’economia moderna, efficiente sotto il profilo delle risorse e competitiva” e, a tale scopo, ha stabilito di promuovere l’economia circolare, il ripristino della biodiversità e la riduzione dell’inquinamento, garantendo una transizione equa e inclusiva anche attraverso l’uso di tecnologie rispettose dell’ambiente, la decarbonizzazione del settore energetico, l’efficientamento energetico degli edifici [14].

In attuazione di tale quadro normativo, anche il legislatore italiano sta dunque promuovendo una serie di misure volte a realizzare l’efficientamento energetico degli edifici e a incrementare l’uso delle energie rinnovabili. Rispetto a queste misure si pongono due questioni.

La prima, relativa all’applicabilità di siffatte misure di efficientamento agli edifici storici, che incontra inevitabili limitazioni dovute alla valutazione di compatibilità tra le misure di efficientamento energetico e le caratteristiche storico artistiche del patrimonio culturale.

La seconda, relativa al ruolo che le altre iniziative finalizzate all’incremento delle energie rinnovabili, quali la costituzione delle Cer, possono avere anche rispetto alla conservazione e gestione dei beni culturali. Su questo secondo aspetto si tornerà nel par. 4.

Partendo dal primo aspetto, occorre ricordare che le progressive modifiche introdotte nel quadro normativo italiano per realizzare misure di efficientamento energetico degli immobili non escludono del tutto una loro applicabilità anche ai beni culturali, sebbene con cautela.

Se è vero, infatti, che permangono disposizioni limitative rispetto ai beni vincolati che trovano le loro ragion d’essere nel regime vincolistico di cui al Codice dei beni culturali e del paesaggio, deve infatti altresì constatarsi che sussistono significative aperture sul tema dell’efficientamento energetico di aree ed edifici vincolati.

In direzione ampliativa del ricorso alle misure di efficientamento energetico, in particolare, merita di essere menzionata la legge 27 aprile 2022, n. 34, di conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 1 marzo 2022, n. 17, recante misure urgenti per il contenimento dei costi dell'energia elettrica e del gas naturale, per lo sviluppo delle energie rinnovabili e per il rilancio delle politiche industriali, che modifica a sua volta l’articolo 7-bis del decreto legislativo 3 marzo 2011, n. 28, prevedendo che l’installazione, con qualunque modalità, anche nelle zone A degli strumenti urbanistici comunali, come individuate ai sensi del decreto del ministro dei Lavori Pubblici [d.m. 2 aprile 1968, n. 1444], di impianti solari fotovoltaici e termici sugli edifici [15], o su strutture e manufatti fuori terra diversi dagli edifici (...) e la realizzazione delle opere funzionali alla connessione alla rete elettrica nei predetti edifici o strutture e manufatti, nonché nelle relative pertinenze, compresi gli eventuali potenziamenti o adeguamenti della rete esterni alle aree dei medesimi edifici, strutture e manufatti, “sono considerate interventi di manutenzione ordinaria e non sono subordinate all’acquisizione di permessi, autorizzazioni o atti amministrativi di assenso comunque denominati, ivi compresi quelli previsti dal codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42, a eccezione degli impianti installati in aree o immobili di cui all'articolo 136, comma 1, lettere b) e c), del citato codice di cui al decreto legislativo n. 42 del 2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), individuati mediante apposito provvedimento amministrativo ai sensi degli articoli da 138 a 141 e fermo restando quanto previsto dagli articoli 21 e 157 del medesimo codice. In presenza dei vincoli di cui al primo periodo, la realizzazione degli interventi ivi indicati è consentita previo rilascio dell’autorizzazione da parte dell’amministrazione competente ai sensi del citato codice di cui al d.lg. n. 42/2004 citato. Le disposizioni del primo periodo si applicano anche in presenza di vincoli ai sensi dell'articolo 136, comma 1, lettera c), del medesimo codice, ai soli fini dell'installazione di pannelli integrati nelle coperture non visibili dagli spazi pubblici esterni e dai punti di vista panoramici, eccettuate le coperture i cui manti siano realizzati in materiali della tradizione locale” [16].

La disposizione recepisce un orientamento diffusosi negli ultimi anni anche nella giustizia amministrativa, ove con diverse sentenze è stato sottolineato, da una parte, il favor legislativo per le fonti energetiche rinnovabili, con la conseguente indicazione di concentrare l’impedimento assoluto all'installazione di impianti fotovoltaici in zone sottoposte a vincolo paesaggistico unicamente nelle “aree non idonee” espressamente individuate dalla regione, e la contestuale affermazione secondo cui, negli altri casi, la compatibilità dell'impianto fotovoltaico con il suddetto vincolo debba essere esaminata tenendo conto della circostanza che queste tecnologie sono ormai considerate elementi normali del paesaggio [17].

In simili fattispecie, la giurisprudenza ha affermato che vengono in rilievo interessi pubblici pari ordinati e concorrenti, entrambi di matrice ambientale: la tutela del paesaggio da una parte e, dall’altra, la promozione delle fonti energetiche rinnovabili, finalizzate al contenimento ed alla riduzione dei fenomeni di inquinamento.

Tale circostanza richiede la necessità di un rigoroso ed analitico bilanciamento degli interessi, utile a stabilire a quale di essi occorra annettere prevalenza nel caso concreto.

Di conseguenza è diffusa la concezione secondo cui “le motivazioni dell’eventuale diniego, anche parziale, di autorizzazione paesaggistica alla realizzazione di un impianto di produzione di energia da fonte rinnovabile devono essere particolarmente stringenti, non potendo a tal fine ritenersi sufficiente che l'autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico rilevi una generica minor fruibilità del paesaggio sotto il profilo del decremento della sua dimensione estetica” [18].

Queste considerazioni, secondo la giurisprudenza amministrativa, impongono una più severa comparazione tra i diversi interessi coinvolti nel rilascio dei titoli abilitativi - ivi compreso quello paesaggistico - alla realizzazione di un impianto di energia elettrica da fonte rinnovabile. Tale comparazione non può ridursi all’esame della ordinaria contrapposizione interesse pubblico/interesse privato, che connota generalmente il tema della compatibilità paesaggistica negli ordinari interventi edilizi, ma impone una valutazione più analitica che si faccia carico di esaminare la complessità degli interessi coinvolti, alla luce del fatto che la produzione di energia elettrica da fonte solare è essa stessa attività che contribuisce, sia pur indirettamente, alla salvaguardia dei valori paesaggistici [19].

La disposizione di cui alla legge 27 aprile 2022, n. 34, in ogni caso, è suscettibile di modificare significativamente il ricorso a impianti solari fotovoltaici e termici anche per quanto riguarda il patrimonio culturale, ma presenta qualche ambiguità interpretativa che desta preoccupazione.

Infatti, la norma sembra obbligare alla richiesta di autorizzazione per il collocamento degli impianti solo i beni paesaggistici di cui alle lettere b) e c) dell’art. 136, vale a dire rispettivamente le ville, i giardini e i parchi, non tutelati dalle disposizioni della parte seconda del Codice e che si distinguono per la loro non comune bellezza, da una parte, e i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale, inclusi i centri ed i nuclei storici, dall’altra: che questo sia l’ambito di esclusione dell’obbligo di autorizzazione preventiva pare confermato anche dall’indicazione che siffatti beni esclusi devono essere individuati mediante apposito provvedimento amministrativo ai sensi degli articoli da 138 a 141, così escludendo - inspiegabilmente - gli immobili culturali vincolati ai sensi dell’art. 10 e seguenti del Codice medesimo.

Se così fosse, si correrebbe il rischio di sottrarre i beni culturali, singolarmente individuati ai sensi di quest’ultima norma, all’autorizzazione preventiva che, in caso di interventi potenzialmente intrusivi come quelli di cui si discute in questa sede, risulta invece una fondamentale misura di tutela.

D’altra parte, tuttavia, la norma afferma nel prosieguo che resta fermo “quanto previsto dagli articoli 21 e 157 del medesimo codice”: preso atto che l’art. 157 il Codice, e dato per scontato che dunque il suo richiamo sia frutto di un errore materiale e che si volesse invece richiamare la norma relativa all’autorizzazione degli interventi sui beni paesaggistici, l’art. 147, resta inspiegabile che qui si faccia riferimento anche all’art. 21, che costituisce la simmetrica disposizione che impone l’obbligo di autorizzazione di lavori e opere sui beni culturali di cui all’art. 10 e seguenti, e che invece non dovrebbe applicarsi in quanto tali beni non sono tra quelli esclusi dal regime liberalizzato.

Tale richiamo potrebbe dare a intendere che i beni culturali di cui all’art. 10 e ss. non sono esclusi dall’obbligo di autorizzazione, ma resta il fatto che la norma positiva non li richiama.

Neppure si comprende, poi, la ragion d’essere dell’ultimo periodo della norma, laddove si afferma che le disposizioni di cui sopra si applicano “anche” in presenza di vincoli ai sensi dell'articolo 136, comma 1, lettera c), “ai soli fini dell'installazione di pannelli integrati nelle coperture non visibili dagli spazi pubblici esterni e dai punti di vista panoramici, eccettuate le coperture i cui manti siano realizzati in materiali della tradizione locale” [20].

Se la norma avesse richiamato anche la lettera b), essa avrebbe potuto intendersi come esplicitazione del significato generale della disposizione medesima, vale a dire che le categorie vincolate (entrambe, ex lettera b) e lettera c)) vengono sottratte all’obbligo di autorizzazione solo se i pannelli sono integrati nelle coperture e non visibili. Invece, il mancato richiamo alla lettera b) sembra voler creare un ulteriore distinguo tra le due categorie di beni, indicando che solo per quelli di cui alla lettera c) vi sia esenzione dall’obbligo di autorizzazione “anche” per i pannelli integrati nelle coperture e non visibili. Viene così da chiedersi, visto che questi ultimi sono gli interventi che presentano il minor impatto visivo, e quindi pongono meno problemi di compatibilità con l’aspetto storico-artistico del bene, che bisogno vi era di specificare che essi siano compresi tra quelli che non richiedono autorizzazione o, meglio, quale utilità giuridica vi sia nell’assentire liberamente quelli maggiormente impattanti e specificare l’inclusione di quelli meno visibili.

Più di recente devono segnalarsi altri interventi normativi. Con il d.l. 24 febbraio 2023, n. 13, conv. con mod. dalla legge 21 aprile 2023, n. 41, sono state assunte due importanti disposizioni.

La prima disposizione ha riformulato l’art. 20, comma 8 del d.lg. n. 199/2021, considerando - in attesa della determinazione da effettuarsi con uno o più decreti del ministro della Transizione Ecologica di concerto con il ministro della Cultura, e il ministro delle Politiche Agricole, alimentari e forestali, previa intesa in sede di Conferenza unificata - aree idonee alla realizzazione di impianti fotovoltaici, ai sensi della lett. c-quater), quelle che non sono ricomprese nel perimetro dei beni sottoposti a tutela e che non ricadono nelle fasce di rispetto dei beni sottoposti a tutela ex art. 136 del d.lg. 42/2004, incluse le zone gravate da usi civici, riducendo il perimetro della fascia di rispetto per gli impianti fotovoltaici (ovvero la distanza minima dall’area tutelata), precedentemente riferito all’area di 1 k.m., a soli 500 metri [21].

Tuttavia, al medesimo comma 8, lett. c-ter) si afferma che sono considerate aree idonee “esclusivamente per gli impianti fotovoltaici, anche con moduli a terra, e per gli impianti di produzione di biometano, in assenza di vincoli ai sensi della parte seconda del Codice dei beni culturali e del paesaggio: 1) le aree classificate agricole, racchiuse in un perimetro i cui punti distino non più di 500 metri da zone a destinazione industriale, artigianale e commerciale, compresi i siti di interesse nazionale, nonché le cave e le miniere; 2) le aree interne agli impianti industriali e agli stabilimenti, questi ultimi come definiti dall'articolo 268, comma 1, lettera h), del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Codice dell’ambiente), nonché le aree classificate agricole racchiuse in un perimetro i cui punti distino non più di 500 metri dal medesimo impianto o stabilimento; 3) le aree adiacenti alla rete autostradale entro una distanza non superiore a 300 metri”. In tal modo, quindi, con riguardo a queste (sole) aree, l’assenza del vincolo culturale risulta rilevante, disposizione però che mal si concilia con la già menzionata legge 27 aprile 2022, n. 34, che - come sopra ricordato - sembra in generale non contemplare i beni culturali tra quelli esclusi dalla possibilità di realizzare impianti fotovoltaici.

La seconda disposizione ha limitato il potere di intervento del ministero della Cultura, abrogando il comma 2 dell’art. 30 del d.l. n. 77/2021, come conv. dalla legge 108/2021, a sua volta modificativo dell’art. 12 del d.lg. 29 dicembre 2003, n. 387, che prevedeva il parere obbligatorio, ma non vincolante, del ministero in caso di autorizzazione di impianti contermini ad aree sottoposte a tutela paesaggistica e stabilendo che, se il progetto ricade in aree sottoposte a tutela, il ministero partecipi al procedimento autorizzatorio unico solo nel caso di progetti non sottoposti a valutazione di impatto ambientale (Via) (comma 3-bis).

In conclusione, a fronte del trend, comprensibile, volto a semplificare il quadro delle regole, non ci si può esimere dal sottolineare la perdurante necessità giuridica, oltre che pratica, del regime autorizzatorio finalizzato a verificare, per i singoli interventi, la compatibilità tra le misure di efficientamento energetico e le esigenze di tutela: nel sistema costituzionale attuale, in cui l’art. 9 accorda priorità alla tutela del patrimonio culturale come valore fondamentale, non si può pensare di eliminare del tutto i controlli preventivi in sede di autorizzazione al solo fine, pur importante, di favorire l’efficientamento, o, meglio, come si diceva, il miglioramento energetico: come per tutti gli altri interventi che incidono sui beni culturali, e che continuano ad essere soggetti a previa autorizzazione, anche per le misure di efficientamento energetico occorre valutare se gli interventi proposti consentano il mantenimento dell’integrità, dell’efficienza funzionale, dell’identità del bene e delle sue parti e quale impatto estetico provochino.

Un ausilio all’attività valutativa delle soprintendenze potrà venire dalla redazione di linee guida che facilitino la valutazione della compatibilità delle misure di miglioramento energetico con le esigenze di tutela, dando criteri guida sia per i proprietari, sia per le imprese, sia infine all’autorità ministeriale. Potrebbe essere utile, ad esempio, aggiornare e integrare la normazione tecnica, in particolare le Linee di indirizzo per il miglioramento dell’efficienza energetica nel patrimonio culturale architettura, centri e nuclei storici ed urbani (Mibact, 2015) [22] e l’atto di indirizzo sui criteri tecnico - scientifici e sugli standard di funzionamento e sviluppo dei musei, emanato dalla commissione paritetica istituita per l’attuazione dell’art. 150, comma 6, del d.lg. n. 112/1998 (d.m. 10 maggio 2001), oppure predisporre apposite linee guida per indicare strumenti, metodologie di intervento e criteri per migliorare gli immobili culturali sotto il profilo energetico, così ottenendo sia di rendere più oggettivi i criteri da applicare, sia di semplificare e accelerare la gestione dei relativi procedimenti amministrativi [23]. In tal senso una possibile occasione di introdurre tali indicazioni potrebbe essere anche l’emanazione, a lungo attesa e ancora inattuata, delle “linee di indirizzo, norme tecniche, criteri e modelli di intervento in materia di conservazione dei beni culturali” di cui all’art. 29, comma 5, del Codice dei beni culturali e del paesaggio, sulle quali si tornerà più diffusamente nel prossimo paragrafo.

3. La necessità di un protocollo di procedura condiviso

Le riflessioni di cui al precedente paragrafo sul tentativo di semplificare le procedure di efficientamento energetico anche in aree ed edifici vincolati sono un esempio di come l’esigenza di un’azione intensa e globale sul piano energetico e ambientale sembri cozzare, o comunque presenti numerosi problemi di compatibilità con l’obbligo di salvaguardia delle innumerevoli peculiarità e connotazioni di pregio proprie della relazione fra beni culturali, territorio e comunità. La politica non ha mancato di rimarcarlo in modi anche piuttosto sbrigativi, ad esempio facendo ricorso a provvedimenti denominati solitamente di semplificazione, ma in sostanza con effetti pratici di delegificazione [24], i quali privilegiano la prima delle due sfide rispetto alla seconda, probabilmente perché ritengono la protezione della dimensione culturale un bisogno subalterno o comunque di non primario interesse nell’urgenza dell’attuazione del Pnrr.

Gli ambiti del “conflitto” di interessi, entrambi pubblici, sono essenzialmente due: la gestione delle valutazioni archeologiche preliminari a interventi di scavo e trasformazione del territorio; l’installazione di impianti per la produzione di energia rinnovabile. A sua volta, questo secondo ambito, presenta due aree tecnologiche principali, che, per sintetizzare, possiamo riferire ai parchi eolici e ai pannelli fotovoltaici, nella consapevolezza che ciascuna di esse presenta numerose varianti tecniche: compito della normativa sul tema dovrebbe essere quello di regolare e qualificare la progettazione, favorire strategie di ricerca applicate cooperative, ma anzitutto promuovere interventi conservativi che riconoscano e riattivino le risorse proprie di molti edifici storici nel ridurre, ad esempio, la trasmittanza, senza però imporre valori-obiettivo pensati per edifici di altra natura ed epoca.

A nulla di utile in tal caso porta l’innalzamento dei toni del conflitto normativo, ove le ragioni delle contrapposte posizioni si fondino e si esprimano sempre più radicalmente in termini ideologici e assiomatici, anziché accettare un approccio fenomenologico. Esso, in realtà, potrebbe ridurre, o evitare del tutto, la mera prospettiva del compromesso, solitamente inefficiente e inefficace, individuando invece con maggiore appropriatezza lo stato dei fatti, degli attori effettivi e delle risorse (scientifiche, tecnologiche, economiche e non solo contabili), nonché le dinamiche e l’intensità delle reali interdipendenze fra interventi (solo apparentemente paralleli), già soltanto con l’assumere una prospettiva di valutazione calibrata sul lungo periodo e non sulla prioritaria cogenza di una qualsiasi scadenza prossima.

Non vi è dubbio che la prospettiva di lungo termine non è in sé stessa una panacea, ma va riconosciuto che essa rende ragionevole la chiamata in causa di fenomeni a ciclo non breve - che altrimenti verrebbero ignorati - e si pone di necessità nella prospettiva delle future generazioni [25]. Già soltanto questa constatazione consente di riconoscerne la produttività sul versante del calcolo dei costi e dei benefici, da effettuarsi in riferimento ad un ciclo temporale scientificamente pertinente.

Assumendo la prospettiva che qui si propone, ossia quella del governo del processo, ricostruito nella sua complessiva ricchezza di attori, componenti e sviluppi, appare chiaro, venendo allo specifico di questo contributo, che occorre liberarsi anzitutto dalla cogenza meramente assiomatica tanto di specifiche soluzioni tecniche di tutela e conservazione, quanto di pretesi obiettivi di “adeguamento” a risultati pensati per l’edilizia d’uso corrente in alcuni contesti geo-climatici, ma decisamente non pertinenti per altri [26], visto che, come sopra richiamato, è soprattutto l’interazione fra sistema oggetto (patrimonio culturale) e sistema ambiente ciò che va governato nell’interesse generale.

Merita a questo punto accorgersi che da circa venti anni giace largamente inapplicata la normativa di settore, prima accennata, volta a governare precisamente le sfide di cui si è detto: “Il Ministero definisce, anche con il concorso delle regioni e con la collaborazione delle università e degli istituti di ricerca competenti, linee di indirizzo, norme tecniche, criteri e modelli di intervento in materia di conservazione dei beni culturali”, come recita il d.lg. n. 42/2004, art. 29, comma 5.

Tale previsione - tuttora inattuata se non per casuali e forse inconsapevoli quanto dispersi episodi - rifugge, come ognuno può leggere, da ogni approccio assiomatico, ideologico, verticistico; non invoca un abaco di soluzioni specifiche e precostituite, bensì l’elaborazione di una cultura collaborativa della ricerca scientifica (umanistica e tecnologica), della sperimentazione concreta, della misurazione e, conseguentemente, dell’amministrazione pubblica; mira, cioè, a costruire saperi che riescano autorevolmente a indirizzare e a implementare soluzioni, che possano sottoporsi a verifica nel loro poter servire da modello; mira a pervenire tramite procedure collaborative all’elaborazione di criteri da agire responsabilmente o, meglio, corresponsabilmente.

Tutto ciò va colto nella sua coerenza con diverse altre disposizioni del Codice dei beni culturali e del paesaggio, che richiamano l’opportunità (quando non la prescrivano tassativamente) della collaborazione fra soggetti pubblici ovvero fra essi e soggetti privati di varia natura (da singoli cittadini, a operatori economici, a fondazioni di origine bancaria), soprattutto nei procedimenti di tutela (art. 5), nei processi di riconoscimento di valore (art. 17), nei progetti di valorizzazione (artt. 111 e 112) ovvero di gestione dei servizi (art. 114), nonché di studio e ricerca (art. 118) o per il sostegno economico (artt. 120 e 121). Una lettura organica di tali componenti del Codice andrebbe accuratamente introiettata ed elaborata nell’amministrazione ora in corso di riorganizzazione e, quindi, tradotta urgentemente in prassi ordinaria, specialmente ove si dovesse prospettare una profonda revisione del Codice stesso prima ancora di aver assicurato ampia applicazione di tali indicazioni.

Sembra dunque decisamente auspicabile un lavoro di livello nazionale (ossia statale, interregionale ma anche con l’auspicabile concorso di soggetti non pubblici, purché competenti per esperienza e livello di ingaggio), che conduca a ricomprendere nella piena attuazione del predetto comma 5 anche la definizione di piste di co-apprendimento, volte a integrare sistema produttivo e di ricerca applicata con le strutture di regolazione e gestione della tutela. Per co-apprendimento, nel caso specifico, si intende qui ogni utile atto e prassi, che consenta a più soggetti di apprendere come meglio porre in campo proprie competenze e risorse, che, pur distinte, siano tuttavia coerentemente orientate ad includere nella conservazione preventiva e programmata (riferita a tutte le tipologie di beni culturali) idonee misure di miglioramento nella gestione energetica degli edifici storici tutelati, considerati in se stessi ovvero anche per la frequente funzione di contenitori di beni, servizi, attività culturali, nonché di governo o di amministrazione.

In tale definizione si sottolinea per un verso, ancora una volta, l’opportunità del carattere processuale o sperimentale (e non soltanto apoditticamente prescrittivo) dell’approccio alla tutela, col fine di rendere l’operare per l’interesse pubblico coerente con la logica di sviluppo tipica della ricerca applicata e, quindi, attento alle azioni di misurazione, valutazione, eventuale conseguente modellizzazione, sostenendo la qualificazione dei processi progettuali come sostanza vera di ogni investimento. In questa prospettiva, l’adozione di metodologie Bim, rese applicabili anche alle peculiarità del patrimonio architettonico storico (H-Bim), potrebbe venire promossa e sostenuta indipendentemente da massimali di appalto e con estensione anche alla modellizzazione energetica degli edifici (E-Bim), per accelerare il diffondersi una cultura della progettazione integrata sia degli interventi che dei processi di gestione [27], in coerenza con la metodologia della conservazione programmata.

Non a caso già il d.m. cultura n. 154/2017, art. 3, poi abrogato dal vigente Codice dei contratti pubblici (d.lg. 31 marzo 2023, n. 36), prevedeva che la metodologia della conservazione programmata informasse l’opera pubblica riferita a beni culturali sin dalla fase di progettazione; ma l’intento del legislatore è di fatto confermato nella normativa ora vigente, salvo il transito da norma regolamentare a norma allegata al Codice stesso [28].

La soluzione operativa che sembra maggiormente coerente con il predetto comma 5, ove si assuma il fine di rendere sempre più interna alla conservazione programmata ogni azione di miglioramento energetico (abbandonando ovviamente obiettivi di adeguamento, esattamente come avvenuto da decenni per la prevenzione sismica) [29], risulta essere quella che si potrebbe definire provvisoriamente la messa a punto di un protocollo di procedura, ossia una specificazione, articolata logicamente, delle attività di “studio” e di “controllo” (per citare stavolta i commi 1 e 3 del predetto art. 29) e conseguenti decisioni, che sappia dar conto sia delle specificità e potenzialità proprie del bene culturale tutelato in tutte le sue componenti, a partire da quelle originarie [30], sia delle azioni con esse compatibili e che permettano, anche mediante la combinazione di interventi e comportamenti diversi ma fra loro coerenti (superando logiche di mero riparto di competenze), il raggiungimento di risultati misurabili e sufficientemente duraturi (ossia sostenibili) di miglioramento energetico nel quadro di un’azione conservativa.

È proprio in questa linea che vuole muoversi l’iniziativa denominata Carta di Brescia, promossa dalla Camera di commercio di quella provincia [31]: nel convegno del 4 ottobre 2023 [32], ospitato dalla fondazione Brescia Musei, che ha lanciato la Carta di Brescia, si è infatti operata fra l’altro (sia pure a mero titolo esemplificativo) una ricognizione di spunti per diverse tipologie di interventi compatibili con materiali e strutture dell’edilizia storica tutelata, dimostrandosi la possibilità di immaginare nuovi e fruttuosi sviluppi in Italia per un’integrazione operativa dell’industria tecnologicamente più avanzata e dell’artigianato più sensibile e consapevole delle tecniche edilizie storiche.

Poche settimane dopo, il successivo 7 dicembre a Roma [33], il ministero della Cultura (Direzione generale Archeologia Belle arti e Paesaggio) ha proposto pubblicamente alla discussione una selezione di casi di studio, anche sperimentali, posti in opera con la collaborazione o con l’iniziativa delle strutture tecnico-scientifiche ministeriali su territori diversi della penisola, nel comune obiettivo di creare condizioni di compatibilità fra tutela e miglioramento energetico; e anzi, come in tale occasione sostenuto da chi scrive, ponendo il tema della possibilità di un vero restauro energetico degli edifici storici come preliminare e presupposto a ulteriori interventi impiantistici.

In tale ultima occasione si è fatta strada anche una considerazione, che ci riconduce precisamente al tema di partenza, ossia alla prospettiva ecosistemica della conservazione preventiva e programmata, vale a dire la riconduzione al piano paesaggistico delle procedure volte a individuare localizzazioni per impianti di cogenerazione energetica compatibili con le esigenze della tutela.

Ma proprio la riconnessione fra restauro e mitigazione degli stress derivanti dal contesto ambientale (che già Cesare Brandi aveva posto in modo molto chiaro, assai prima della prefigurazione operativa di sviluppi che solo oggi si intravedono, grazie all’impulso di Giovanni Urbani, a suo tempo peraltro generalmente respinto [34]) chiama in causa il terzo componente della triade sopra accennata, ossia la comunità territoriale.

4. Le Cer come strumento di efficientamento energetico e come modello per la gestione dei beni e delle attività culturali

Tra gli strumenti indicati dall’Europa per perseguire gli obbiettivi della sostenibilità e dell’economia circolare vi sono le Comunità Energetiche Rinnovabili (Cer), che dovrebbero facilitare la transizione dai combustibili fossili alle energie rinnovabili, facendo al contempo fronte alle esigenze energetiche del territorio.

L’Italia ha recepito la direttiva europea Red II sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili 2018/2001 Ue dapprima con il d.l. 30 dicembre 2019, n. 162 (“Decreto Milleproroghe”), conv. nella legge 28 febbraio 2020, n. 8 [35] e, successivamente, con i decreti legislativi nn. 199 e 210 dell’8 novembre 2021, che hanno regolamentato le Cer. In ottemperanza a tali decreti sono state emanate da Arera una serie di delibere tra cui, il 4 gennaio 2023, il c.d. Tiad (Testo integrato per l’autoconsumo diffuso) [36].

Il legislatore ha scelto di adottare un modello flessibile, individuato dalla normativa solo nei suoi tratti essenziali, individuati nella natura non lucrativa e dalla composizione aperta a soggetti pubblici e privati, con esclusione di coloro che si dedicano alla produzione e commercializzazione dell’energia come attività principale [37].

Le Cer, infatti, costituiscono soggetti giuridici autonomi, fondati sulla partecipazione aperta e volontaria di “consumatori” [38], intesi quali persone fisiche, piccole e medie imprese, enti territoriali o autorità locali, incluse amministrazioni comunali, enti di ricerca e formazione, enti religiosi, del terzo settore e di protezione ambientale nonché amministrazioni locali contenute nell’elenco delle amministrazioni pubbliche divulgato dall’Istituto nazionale di statistica (Istat), accomunati dal fatto che la loro partecipazione alla Cer non costituisca la loro attività commerciale e industriale principale.

Esse nascono con l’obbiettivo di “fornire benefici ambientali, economici o sociali a livello di comunità ai suoi azionisti o membri o alle aree locali in cui opera la comunità, piuttosto che profitti finanziari”, compresi quelli appartenenti a famiglie con basso reddito o vulnerabili. Il loro tratto caratterizzante, dunque, è lo scopo mutualistico in favore dei propri membri ovvero, in aggiunta o in alternativa, lo scopo altruistico in favore del territorio e della sua popolazione. Inoltre, le Cer non possono avere come obiettivo principale il perseguimento dello scopo di lucro, ma solo un’accessoria finalità lucrativa. Tale duplice circostanza, unitamente al tentativo di promuovere le energie rinnovabili, è alla base di un sistema di agevolazioni e incentivi alle Cer per incrementarne la diffusione [39].

La normativa non impone alle Cer forme particolari, richiedendo solo il ricorso a enti non lucrativi, quali ad esempio associazioni, enti del terzo settore, cooperative, consorzi e partenariati, con l’unico vincolo di rispettare alcune condizioni, tra cui la produzione di energia con impianti alimentati da fonti rinnovabili e la sua condivisione mediante la rete di distribuzione esistente.

L’appartenenza a tali configurazioni è libera e ciascun membro mantiene i propri diritti di cliente finale, compreso quello di scegliere il proprio venditore di energia, e la possibilità di recedere in ogni momento dalla configurazione medesima [40].

I rapporti interni alla Cer sono invece regolati con contrati di diritto privato, mentre quelli esterni, con particolare riguardo al riparto dell'energia condivisa ed eventualmente alla gestione delle partite di pagamento e di incasso verso i venditori e il Gestore dei servizi energetici, sono delegati a un soggetto apposito.

Diversi sono dunque i vantaggi offerti dalle Cer: quello di essere strutture non lucrative aperte alla partecipazione della più ampia varietà di soggetti (di cui non rileva la natura pubblica o privata), di essere dotate di autonomia nella scelta della propria forma giuridica, così da adattarla alle esigenze dei propri membri, e di poter procurare benefici sia agli aderenti, sia alla collettività, mediante una logica di “comunità” tanto tra i membri, quanto tra i membri e il territorio.

Tale quadro regolatorio, se prende le mosse dalla volontà di condivisione del bisogno energetico, non preclude tuttavia che le Cer possano costituire uno strumento o un modello utilizzabile anche per altre finalità compatibili con quelle loro proprie, non escluse quelle di cura di interessi generali, e in particolare di conservazione o gestione dei beni culturali, proprio in forza del più ampio obiettivo, attribuito loro da legislatore, di “fornire benefici ambientali, economici o sociali a livello di comunità ai propri azionisti o membri o alle aree locali in cui opera, piuttosto che profitti finanziari”.

Sotto questo aspetto, risulta piuttosto evidente come il ricorso alle fonti rinnovabili, opportunamente individuate e progettate in modi compatibile con i nostri paesaggi culturali, funzionale alla riduzione delle emissioni, costituisca un beneficio per l’ambiente, e quindi anche per il patrimonio culturale disseminato sul territorio e che, pertanto, l’uso di energia pulita sia un fattore comune di beneficio sia per la tutela ambientale, sia per quella culturale.

Non è un caso che gli artt. 9 e 117, comma 2, lett. s) Cost. affianchino la tutela del patrimonio culturale a quella dell’ambiente, dell’ecosistema e delle biodiversità: i due aspetti sono fortemente correlati, tanto che l’art. 29 del Codice dei beni culturali e del paesaggio riconosce il ruolo della “prevenzione” per limitare le situazioni di rischio connesse al contesto in cui si trova il bene [41] e che già negli anni settanta si pensò di attuare la tutela dei beni su scala territoriale e ambientale, giungendo poi a redigere strumenti quali la Carta del rischio [42], a testimonianza di come il ciclo di vita della materia risenta fortemente del contesto in cui il bene è ubicato.

Il fatto che le Cer, pur nate per produrre energia nel rispetto dell’ambiente, si possano in futuro prendere anche cura dei beni che si trovano nei relativi contesti territoriali, potrebbe costituire un naturale sviluppo della loro attività [43].

Già allo stato attuale le Cer potrebbero includere, tra gli immobili riguardo ai quali realizzare misure di efficientamento energetico, anche beni immobili di carattere storico architettonico di proprietà dei loro aderenti. Di qui alla decisione di occuparsi di ulteriori immobili, di proprietà dei membri della Cer o comunque ubicati nel suo perimetro, anche laddove non siano oggetto di interventi di efficientamento energetico, il passo sarebbe breve e senza ostacoli normativi.

Si potrà stabilire, ad esempio, di conferire alla Cer immobili di proprietà di membri della Cer, perché si faccia carico della loro conservazione o gestione, oppure la Cer potrà supportare il proprietario nella conservazione e valorizzazione dei beni dei suoi membri, eventualmente esigendo in cambio la possibilità di utilizzarli o destinarli ad uso della collettività, oppure ancora la Cer potrà stipulare accordi o convenzioni con terzi proprietari di beni, con le modalità previste dal Codice civile se l’immobile risulti di proprietà privata, o con le disposizioni del Codice dei beni culturali se di proprietà pubblica.

Per lo svolgimento delle proprie attività, la Cer potrà utilizzare le proprie risorse - in particolare, i benefici economici ottenuti per l’autoconsumo di energia rinnovabile - oppure procurarsene altre secondo quanto le consente la propria autonomia di soggetto privato non lucrativo, che in quanto tale ha peraltro accesso a diverse forme di benefici e agevolazioni.

Diventerà dunque possibile utilizzare un modello organizzativo, nato per far fronte al fabbisogno energetico, anche per gestire in forma condivisa altre necessità, tra cui eventualmente quelle dei beni culturali, così che l’eventuale efficientamento energetico degli immobili sarà, a quel punto, solo un aspetto di un più ampio processo di rifunzionalizzazione e valorizzazione dei beni storici, in grado di farsi carico anche di ulteriori attività conservative e gestionali.

Proprio la natura flessibile delle Cer e il quadro regolatorio che le disegna come enti privati non lucrativi lasciano loro l’autonomia di decidere di dedicarsi anche ad altre finalità, con il solo presupposto che prevedano nei relativi statuti anche finalità ulteriori a vantaggio degli aderenti o della collettività intera.

Il passaggio dalle mere finalità di carattere energetico a più ampie attività dipende essenzialmente da una consapevolezza culturale, in quanto implica che le Cer, in attuazione del principio di sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118 Cost., e particolarmente in sintonia con la loro natura non lucrativa, sviluppino pienamente le loro potenzialità mutualistiche per rispondere anche ad ulteriori esigenze sociali che, pure, la normativa ha prefigurato fin dall’origine [44].

Ai fini di questo passaggio culturale è necessario che gli enti pubblici, che sono al contempo potenziali membri della Cer o suoi finanziatori mediante l’erogazione di contributi, svolgano un’azione di informazione su questa possibilità, di formazione dei membri delle Cer e di proposta di esperienze di condivisione della gestione e conservazione dei beni [45]. Tali iniziative potranno essere svolte in molteplici occasioni: all’atto della negoziazione dello statuto della Cer cui l’ente pubblico decida di partecipare quale membro, oppure mediante l’indicazione come presupposto dell’erogazione di benefici, o come fattore premiante, che vengano inserite in statuto disposizioni che prevedano ulteriori attività.

Ma se gli enti pubblici sono chiamati, in questo caso, a fare da soggetti trainanti, i veri attori di questo processo sono le comunità locali, intese come persone, famiglie e formazioni sociali, istituzioni e imprese, che potranno essere coinvolte in modo diffuso, capillare e responsabile nei confronti del patrimonio culturale, sviluppando una logica “di territorio”, creando “comunità” attive, rivolte non solo ai propri interessi ma anche a quelli della collettività, in una dinamica di solidarietà, tanto mutualistica quanto sociale, pienamente attuativa del principio di sussidiarietà, che risponda sia ai bisogni dei membri, sia a quelli collettivi o pubblici, di carattere patrimoniale e non.

Il modello delle Cer, già disciplinato, seppure succintamente, e ampiamente promosso e incentivato, potrebbe essere utilizzato per favorire i processi partecipativi della collettività, superando l’inerzia che incontrerebbe la diffusione di un altro modello, pensato - in ipotesi - solo per gestire il patrimonio culturale, sfruttando invece la leva aggregativa suscitata dall’esigenza energetica, comunemente sentita e più diffusa della spontanea attenzione alla conservazione del patrimonio culturale.

Nulla impedirebbe, peraltro che, assumendo questo ruolo ampliato, le Cer diventino punto di riferimento anche per altre aggregazioni non lucrative di varia natura, comprese quelle dedite alla valorizzazione del patrimonio culturale, che vedrebbero così potenziata la propria capacità operativa, realizzando una “comunità di comunità” che dia forma organizzativa a quelle che l’articolo 2, comma 2, della Convenzione di Faro definisce “comunità di eredità”, vale a dire “un insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici dell’eredità culturale, e che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future” [46].

5. Pensando al futuro prossimo

Se esattamente un secolo fa (nel 1923) venivano istituite le soprintendenze dell’arte medioevale e moderna, quasi al termine di quel processo lento che aveva portato dalla frammentazione organizzativa e normativa degli stati preunitari verso le prime leggi di tutela (1902, 1909, 1939) [47], oggi i ricorrenti temi del federalismo, eventualmente anche differenziato, pongono non soltanto quesiti di ordine politico e istituzionale, ma anche significative sfide alla protezione del diritto dei cittadini alla salvaguardia e godimento del patrimonio culturale nazionale. Il sistema giuridico-amministrativo della tutela, infatti, si è consolidato proprio in parallelo al processo di unificazione statuale e sembra oggi faticare a reggere, organizzativamente e nella mission, il confronto con una società sempre più differenziata e “liquida”, ancorché globalizzata, ove risulta difficile, anche sotto il profilo antropologico, riconoscere presupposti reali per una forte ispirazione unitaria nella gestione del territorio quale bene inevitabilmente comune.

Occorre, dunque, come punto di partenza, rieducarsi a un sentire sufficientemente condiviso, per evitare la perdita di strumenti di governo delle risorse di interesse generale, incluse appunto quelle culturali; ma, nell’acuirsi dei conflitti geopolitici e nella crisi mondiale dell’accesso alle fonti energetiche (analogamente si potrebbero aggiungere altri fattori, tra cui l’accesso all’acqua), il richiamo al valore universale della cultura, quanto più risuoni di frequente, tanto più rischia di apparire a molti soltanto retorico e talvolta persino eticamente straniante, al cospetto di disastri umani che conquistano inevitabilmente la priorità nella nostra attenzione emotiva e intellettiva di singoli e di comunità.

C’è da chiedersi se e come sia possibile ripensare sul piano giuridico e organizzativo la ricomposizione degli interessi generali con quelli locali e particolari. Si tratta di uno sforzo necessario, per quanto arduo, dal momento che non si può rinunciare a disciplinare un processo così importante, lasciandolo alla spontaneità dei soggetti coinvolti nelle situazioni concrete.

In questo senso, indubbiamente un contributo - forse non piccolo - può essere dato dalla presa di coscienza che la cogenerazione diffusa di energia non inquinante, in quanto soluzione tecnologica sufficientemente non divisiva, può valorizzare i contesti di prossimità come “laboratori della cura”, luoghi di rieducazione all’essere comunità, nei quali anche il patrimonio culturale possa venire riscoperto nella sua capacità di generare valore pubblico proprio a partire dalle sue strutture fisiche e non soltanto per i pregi simbolici o estetici o memoriali.

Il passaggio culturale dal tendere al mero obbiettivo del risparmio energetico a quello della conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale attraverso l’adozione di misure di miglioramento energetico, ed eventualmente anche attraverso le comunità energetiche, non è però automatico e deve essere sostenuto. È fondamentale, da questo punto di vista, che tale consapevolezza sia favorita da una politica, anche normativa, e dall’attività sia amministrativa degli enti pubblici, sia sociale da parte degli enti privati che perseguono finalità di interesse generale, inclusi gli enti del terzo settore e culturali, che evidenzino come il patrimonio, anche per la sapienza costruttiva che continua a trasferirci, se ad essa ci apriamo, possa divenire un forte agente di rigenerazione di competenze e di alimento per il capitale sociale.

Occorre in tal senso uno sforzo sostenuto di rinnovata conoscenza scientifica, sia delle componenti più naturali che di quelle più antropizzate del nostro ambiente, nella loro capacità effettiva di concorrere, se governate, a un benessere che possa venir percepito quasi a portata di mano per ciascuno nel proprio riconoscibile òikos, alla condizione di superare ideologie divisive e fanatiche, premiando, sia con misure di incentivazione economica, sia con dispositivi normativi appropriati, concrete soluzioni collaborative.

 

Note

[*] Pietro Petraroia, storico dell’arte e professore a contratto nel corso di Legislazione dei beni culturali presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano (Scuola di Specializzazione in Beni Storico-artistici), Via Walter Tobagi 21, 20143 Milano, pietro.petraroia@gmail.com.

Valentina Maria Sessa, professore associato di Diritto amministrativo presso l’Università degli Studi E-Campus, Via Isimbardi 10, 22060 Novedrate (CO), valentina.sessa@uniecampus.it.

I paragrafi 1 e 3 sono opera di Pietro Petraroia, i paragrafi 2 e 4 di Valentina Maria Sessa, mentre il paragrafo 5 è stato scritto da entrambi gli autori.

[1] Si v. ministero per i Beni Culturali e Ambientali, Istituto centrale del restauro, Piano Pilota per la conservazione programmata dei beni culturali in Umbria. Progetto esecutivo, Roma, 1976; per la consultazione on-line della riproduzione dello stampato originale del progetto esecutivo si v. https://predella.it/ministero-per-i-beni-culturali-e-ambientali-istituto-centrale-del-restauro-piano-pilota-per-la-conservazione-programmata-dei-beni-culturali-in-umbria-progetto-esecutivo/. Per la ripubblicazione cartacea dei contenuti dei tre volumi del piano si veda Giovanni Urbani e la conservazione programmata dei beni culturali. Storia e attualità, (a cura di) L. Abbondanza, D. La Monica, Pisa, 2019, vol. I.

[2] AA. VV., La strategia della Conservazione programmata. Dalla progettazione delle attività alla valutazione degli impatti, (a cura di) S. Della Torre, curatela ed. di M. P. Borgarino, in Proceedings of the International Conference ‘Preventive and Planned Conservation’, Monza, Mantova, 5-9 May 2014, vol. 1, Firenze, 2014; cfr. ivi S. Della Torre, Oltre il restauro, oltre la manutenzione, pagg. 1-10; ancora ivi: V. M. Sessa, Il riconoscimento normativo della conservazione programmata e la trasformazione di un principio operativo in strumento di controllo gestionale dei beni culturali, pagg. 55-66. V. anche P. Petraroia, Conservazione programmata: nascita, rifiuti, adozioni (memorie 1976-2005), prefazione a R. Moioli, La conservazione preventiva e programmata: una strategia per il futuro. Premesse, esiti e prospettive degli interventi di Fondazione Cariplo sul territorio, Firenze, 2023, pagg. 11-38, con bibliografia precedente. Inoltre, O. Rossi Pinelli, Le teorie del restauro dalla Carta di Atene a oggi, Pbe 817, Torino, 2023, in particolare pagg. 61-97 e pagg. 181-193. Sul tema, v. oltre anche la nota 21.

[3] P. Edwards identificava (1785-86) due momenti essenziali nella conservazione dei dipinti: “il soccorso e la vigilanza esteriore, onde rimuovere le occasioni di pregiudizio e difendere le pitture da ogni danno che procede da cagioni fuori del quadro; ed il rimedio costante, sollecito, e diligente di tutti i decadimenti che cominciano a manifestarsi nell’essenziale dell’opere stesse”. Cfr. ms. in Archivio Accademia Belle Arti di Venezia, Busta Copia Atti del Collegio dei Pittori, 1689/1798, pubblicato in G. Basile, Piano pratico per la generale custodia delle pubbliche pitture - Istituzione di una formale pubblica scuola pel ristauro delle danneggiate pitture, ministero per i Beni e le Attività culturali, Istituto centrale per il restauro, (a cura di) P. Edwards, Roma, 1994, pagg. 29-46.

[4] Non si può qui omettere il rinvio a Cesare Brandi, e precisamente al suo saggio su Il restauro preventivo, pubblicato in un notissimo volume miscellaneo, Teoria del restauro, Torino, 1977, pagg. 53-61 (I ed., Roma, 1963), a cura di allievi e collaboratori d’eccezione, in vista dei corsi universitari dell’autore all’Università di Palermo: J. Raspi Serra, G.Urbani, L.V. Borrelli. Sul tema, fra gli altri, P. Petraroia, Appunti sul ‘restauro preventivo’, oggi, in L’Officina dello sguardo. Scritti in onore di Maria Andaloro, (a cura di) G. Bordi, I. Carlettini, M. L. Fobelli, M. R. Menna, P. Pogliani, Roma, vol. II, Immagine, memoria, materia, pagg. 317-324.

[5] Si allude evidentemente alla recente modifica costituzionale, che ha introdotto nell’art. 9, fra l’altro, tra i compiti della Repubblica: “Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”.

[6] M. Paribeni, Prefazione, in Corso sulla Manutenzione di dipinti murali - mosaici - stucchi. Fattori di deterioramento (Dimos, parte II, modulo 1), Roma, Istituto centrale del restauro, 1979, pagg. V-XII. Cfr. O. Rossi Pinelli, op. ult. cit., 2023, pag. 190, nota 82.

[7] Cfr., per una sintesi sul tema, il sito del segretariato regionale del Lazio del ministero della Cultura: https://www.lazio.beniculturali.it/?page_id=6669 (05.01.2024).

[8] L. Ferrajoli, Perché una Costituzione della Terra?, Torino, 2021.

[9] Si veda all’art. 117 Cost., comma 2, lettera s) l’accostamento di “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali” fra le materie sulle quali lo Stato ha legislazione esclusiva.

[10] Sinteticamente, occorre rilevare l’esistenza di due processi, intimamente connessi: da un lato, l’avanzamento del processo di liberalizzazione del mercato energetico, volto ad adattare lo stesso alle profonde trasformazioni dovute al progresso tecnologico; dall’altro il sempre maggiore coinvolgimento dei governi regionali e locali, chiamati a contribuire al raggiungimento degli obiettivi di risparmio e di razionalizzazione dei consumi energetici. All’interno della politica di stimolo della crescita della produzione locale di energia a favore dell’efficienza dell’intero sistema, prosumers e comunità energetiche concorrono a delineare un quadro in cui la dipendenza energetica dei consumatori risulta fortemente ridimensionata.

Per una panoramica si vedano A. Beltran, Energia e democrazia politica. Qualche spunto storico, in Ric. stor. pol., 2018, 1, pag. 56, il quale osserva che l’idea fondamentale “è quella di dare ai cittadini la possibilità di diventare protagonisti e di lottare efficacemente contro il surriscaldamento globale. I nuovi responsabili della transizione energetica possono prendere il potere producendo la loro propria energia invece di dipendere dalle grandi società a tendenza monopolistica. In altri termini, la transizione energetica deve o può essere una transizione politica non meno che tecnologica, verso un surplus di democrazia contro il “totalitarismo” delle grandi società del settore”. In chiave critica A. Clò, Transizione energetica tra Stato e Mercato, in La transizione energetica e il winter package, (a cura di) E. Bruti Liberati, M. De Focatiis, A. Travi, 2018, Milano, pag. 97 ss., spec. pag. 102 e pagg. 107-109, i regimi di sostegno avrebbero sì aumentato (in modo eccessivamente costoso) la produzione di energia da fonti rinnovabili, ma avvantaggiando le sole classi abbienti (cioè quelle in grado di pagare l’installazione di impianti di produzione di energia rinnovabile) e scaricando sulla collettività il costo di detti regimi e così incrementando le persone in povertà energetica (a causa dell’innalzamento del prezzo dell’energia).

Si vedano anche sul tema AA. VV., La regolazione dei mercati di settore tra autorità indipendenti nazionali e organismi europei, (a cura di) P. Bilancia, Milano, 2012, pagg. 1-27; T. Favaro, Regolare la “transizione energetica”: Stato, Mercato, Innovazione, 2020, Padova, pagg. 45-54 e pag. 98; R. Galbiati, G. Vaciago, L. R. Perfetti, Il governo dell’energia dal decentramento alla riforma costituzionale, in Mercato concorrenza regole, 2002, 2, pagg. 362-365; A. Moliterni, La Strategia energetica nazionale: il problema del monitoraggio e del controllo, in Annuario di diritto dell’energia. La Strategia energetica nazionale: “governance” e strumenti di attuazione, 2019, Bologna, pagg. 235-263.

Con più specifico riguardo alle fonti di energia rinnovabile, si vedano M. Falcione, Diritto dell’energia: fonti rinnovabili e risparmio energetico, Siena, 2008; M. Ragazzo, Le politiche sull’energia e le fonti rinnovabili, Torino, 2011; F. Gualandi, La nuova disciplina delle fonti energetiche rinnovabili, Santarcangelo di Romagna, 2011; L. Cuocolo, Le energie rinnovabili tra Stato e Regioni: un equilibrio instabile tra mercato, autonomia e ambiente, Milano, 2011; A.M. Gambino e M. Provenzano, Smart cities ed efficientamento energetico, in Smart Cities e diritto dell’innovazione, (a cura di) G. Olivieri, V. Falce, Milano, 2016, pagg. 62-63; F. Amabili, La promozione dell’energia da fonti rinnovabili, in Diritto europeo dell’Ambiente, (a cura di) R. Giuffrida, Torino, 2012; G.M. Caruso, Fonti energetiche rinnovabili, in Diritto dell’Ambiente, (a cura di) G. Rossi, Torino, 2011.

[11] Per un inquadramento del tema si vedano AA.VV., Le politiche energetiche comunitarie, in Diritto ed Economia dell’Ambiente, (a cura di) B. Pozzo, Milano, 2009; L. Ammannati, La transizione dell’Unione Europea verso un modello energetico eco-sostenibile tra scelte politiche, regolazione e dinamiche di mercato, in Energ. amb. innov., 2018, 2, pag. 86 ss.; R. Miccù, Regolazione e governo multilivello del mercato europeo dell’energia, in Multilevel regulation and government. Implementation of the “Third Package” and promotion of renewable energy, (a cura di) R. Miccù, Napoli, 2016, pag. 3 ss.; per uno sguardo comparativo, B. Pozzo, Il recepimento della direttiva 2012/27/UE in materia di efficienza energetica nei Paesi europei, in particolare Regno Unito, Germania, Francia, Spagna, in Annuario di Diritto dell’energia 2016 - Politiche pubbliche e disciplina dell’efficienza energetica, (a cura di) L. Carbone e G. Napolitano e A. Zoppini, 2016, pagg. 63-77; AA. VV., Il principio dello sviluppo sostenibile nel diritto internazionale ed europeo dell’ambiente, (a cura di) P. Fois, Napoli, 2007, passim.

[12] Parlamento europeo, Economia circolare: definizione, importanza e vantaggi, Attualità - Parlamento europeo, 2 dicembre 2015, aggiornato il 10 aprile 2018, all’indirizzo https://www.europarl.europa.eu/news/it/headlines/economy/20151201STO05603/economia-circolare-definizione-importanza-e-vantaggi. Il ricorso alle energie rinnovabili fornisce infatti un’alternativa al “consumo” delle fonti di energia esauribili e contribuisce al ciclo delle materie, in alcuni casi direttamente (ad esempio, nel caso della produzione di energia da biomasse, che trasformano le essenze di origine biologica), in altri casi più indirettamente, andando a prendere il posto (e quindi risparmiando) energie non rinnovabili.

Nel nostro ordinamento l’unica definizione normativa è collocata nell’allegato al decreto ministeriale dell’11 giugno 2020 volto alla riconversione dei processi produttivi, nel cui allegato 2 si legge “per economia circolare si intende un modello economico in cui il valore dei prodotti, dei materiali e delle risorse è mantenuto il più a lungo possibile e la produzione di rifiuti è ridotta al minimo”. Il concetto è generico e non vincolante in quanto contenuto in un atto non legislativo, ma contribuisce a comprendere e a confermare che l’economia circolare è incentrata sul settore complesso dei rifiuti, dato che tutte le attività economiche ne producono, per la necessità di ridurli e di gestirli come risorse per nuove attività produttive. Secondo il decreto, le attività di ricerca e di sviluppo industriale contribuiscono all’introduzione di modelli innovativi finalizzati alla riconversione produttiva delle attività economiche tramite innovazioni di prodotto e di processo in termini di uso efficiente delle risorse e di trattamento e trasformazione dei rifiuti, compreso il riutilizzo dei materiali in una prospettiva di economia circolare o a “rifiuti zero” e di compatibilità ambientale.

In dottrina si vedano E. Scotti, Poteri pubblici, sviluppo sostenibile ed economia circolare, in Dir. econ., 2019, 1, pag. 493 ss.; E. Picozza, A. Police, G.A. Primerano, R. Rota, A. Spena, Le politiche di programmazione per la resilienza dei sistemi infrastrutturali, Economia circolare, governo del territorio e sostenibilità energetica, Torino, 2019; M. Cocconi, Un diritto per l’economia circolare, in Dir. econ., 2019, 3, pag. 113 ss.; Ead., La regolazione dell’economia circolare, Sostenibilità e nuovi paradigmi di sviluppo, Milano, 2020; F. De Leonardis, Economia circolare: saggio sui suoi tre diversi aspetti giuridici. Verso uno Stato circolare?, in Dir. amm., 2017, 1, pag. 163 ss.; M. Magri, Regioni ed “economia circolare”, in Giorn. dir. amm., 2018, 6, pag. 706 ss.; S. Antoniazzi, Transizione ecologica ed economia circolare, in Federalismi.it, 2023, 3, pag. 53 ss., spec. pag. 59, osserva che “L’economia circolare potrebbe, infatti, favorire l’emergere di più occasioni di partecipazione, in quanto prevede un ruolo sempre più attivo dei componenti della comunità. Tuttavia, è necessario distinguere chiaramente questo modello dalla c.d. ‘economia collaborativa’ che può diventare un’economia sociale, basata su relazioni sociali e doveri di solidarietà in diversi ambiti, e uno strumento al servizio delle amministrazioni nel settore dei servizi pubblici mediante piattaforme digitali. Anche la nozione di ‘economia della società’ è diversa e può essere ricondotta a un contesto in cui gli individui sono legati da un interesse generale che definisce una dimensione soggettivamente pubblica, che va oltre i diritti e gli interessi dei singoli e riguarda la collettività”.

[13] Il rapporto Brundtland (“Our Common Future”) del 1987 definisce il concetto di sviluppo sostenibile come quello che “soddisfa i bisogni delle generazioni attuali senza danneggiare quelli delle generazioni future”.

[14] Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, Il Green Deal europeo, Com (2019) 640 final, all’indirizzo https://www.consilium.europa.eu/it/policies/green-deal/.

[15] Il riferimento è alla definizione di cui alla voce 32 dell’allegato A al regolamento edilizio-tipo, adottato con intesa sancita in sede di Conferenza unificata 20 ottobre 2016, n. 125/Cu.

[16] Recentemente il Tar Campania, Salerno, sez. II, 3 gennaio 2024, n. 73, proprio con riguardo alla norma in oggetto, ha ricordato che in materia di fonti energetiche rinnovabili i principi fondamentali fissati dalla legislazione dello Stato costituiscono attuazione delle direttive comunitarie che manifestano un favor per l’allestimento di tali risorse, ponendo le condizioni per una adeguata diffusione dei relativi impianti produttivi. Alla luce di tale premessa, la mera visibilità di pannelli fotovoltaici da punti di osservazione pubblici non configura ex se un’ipotesi di incompatibilità paesaggistica, in quanto la presenza di impianti fotovoltaici sulla sommità degli edifici - pur innovando la tipologia e morfologia della copertura - non è più percepita come fattore di disturbo visivo, bensì come un'evoluzione dello stile costruttivo accettata dall'ordinamento e dalla sensibilità collettiva, purché non sia modificato l'assetto esteriore complessivo dell'area circostante, paesisticamente vincolata. Inoltre, la sentenza afferma che “ogni nuova opera d'altronde ha una qualche incidenza sul paesaggio (che è costituito, secondo una delle definizioni più appropriate, dalla interazione tra le opere dell'uomo e la natura), di tal che il giudizio di compatibilità paesaggistica non può limitarsi a rilevare l’oggettività del novum sul paesaggio preesistente, posto che in tal modo ogni nuova opera, in quanto corpo estraneo rispetto al preesistente quadro paesaggistico, sarebbe di per sé non autorizzabile”.

[17] In questo senso, Tar Campania, Salerno, sez. II, n. 564/2022, n. 2945/2022, n. 3104/2022 e n. 3285/2022 ha statuito che “il favor legislativo per le fonti energetiche rinnovabili richiede [...] di concentrare l’impedimento assoluto all'installazione di impianti fotovoltaici in zone sottoposte a vincolo paesaggistico unicamente nelle “aree non idonee” espressamente individuate dalla Regione, mentre, negli altri casi, la compatibilità dell'impianto fotovoltaico con il suddetto vincolo deve essere esaminata tenendo conto della circostanza che queste tecnologie sono ormai considerate elementi normali del paesaggio”. Cfr. in proposito Tar Lombardia, Brescia, n. 904/2010; Tar Toscana, n. 357/2017, Tar Sicilia (Catania), sez. I, n. 1459/2017; Tar Veneto, sez. II, n. 1104/2013; Tar Lombardia, Brescia, sez. I, n. 296/2021 e n. 617/2021.

[18] Cons. St., sez. VI, 25 febbraio 2016, n. 1201.

[19] In tal senso anche Tar Campania, Salerno, sez. II, n. 1458/2017.

[20] Viene così superato il precedente disposto di cui al punto A.6 dell’allegato A del d.p.r. n. 31/2017, che aveva escluso dalla necessità di autorizzazione paesaggistica “gli interventi e le opere di installazione di pannelli solari (termici o fotovoltaici) a servizio di singoli edifici, laddove posti su coperture piane e in modo da non essere visibili dagli spazi pubblici esterni; installazione di pannelli solari (termici o fotovoltaici) a servizio di singoli edifici, purché integrati nella configurazione delle coperture, o posti in aderenza ai tetti degli edifici con la stessa inclinazione e lo stesso orientamento della falda degli edifici, ai sensi dell’art. 7-bis del decreto legislativo 3 marzo 2011, n. 28, non ricadenti fra quelli di cui all’art. 136, comma 1, lettere b) e c) del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42”. La giurisprudenza aveva poi confermato che tale esenzione dall’autorizzazione non riguardava i beni di cui all’art. 136, lettere b) e c). Il Tar Sardegna, Cagliari, sez. I, 2 maggio 2023, n. 323, aveva infatti evidenziato come, secondo il punto A.6 dell’Allegato A del d.p.r. n. 31/2017, non fosse richiesta l’autorizzazione paesaggistica per l’“installazione di pannelli solari (termici o fotovoltaici) a servizio di singoli edifici, laddove posti su coperture piane e in modo da non essere visibili dagli spazi pubblici esterni; installazione di pannelli solari (termici o fotovoltaici) a servizio di singoli edifici, purché integrati nella configurazione delle coperture, o posti in aderenza ai tetti degli edifici con la stessa inclinazione e lo stesso orientamento della falda degli edifici, ai sensi dell’art. 7-bis del decreto legislativo 3 marzo 2011, n. 28, non ricadenti fra quelli di cui all’art. 136, comma 1, lettere b) e c) del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42”.

[21] Il Tar Sardegna, Cagliari, sez. I, 18 ottobre 2023, n. 844 ha statuito, con riguardo al regime transitorio previsto dalla norma in oggetto, che “nell’attuale fase emergenziale il bilanciamento complessivo degli interessi sottesi alla realizzazione degli impianti come quello in esame è stato operato direttamente dal legislatore, per dare assoluta preminenza alle ragioni di sviluppo di impianti di produzione di energia rinnovabili piuttosto che alle esigenze di tutelare l‘aspetto paesaggistico in aree - puntualmente identificate - già pregiudicate o comunque non di particolare pregio sotto tale punto di vista”.

[22] Cfr. A. Buda, V. Pracchi, Le Linee di Indirizzo per il miglioramento dell’efficienza energetica nel patrimonio culturale: indagine per la definizione di uno strumento guida adeguato alle esigenze della tutela, in Restauro: Conoscenza, Progetto, Cantiere, Gestione, Roma, 2020, pagg. 772-782.

[23] Sull’obiettivo si torna più avanti; cfr. anche le note 20-23.

[24] M. Eichberg, Semplificazione o delegificazione? Semplificazioni e tutela tra equivoci ed assenza di visione culturale, in Il capitale culturale. Studies on the Value of Cultural Heritage, Supplementi 11 (2020), pagg. 393-401.

[25] R. Poli, Lavorare con il futuro per cambiare il presente: il ruolo dei decisori e della prospettiva anticipante, in ForumPA, 28.04.2022.

[26] AA.VV., Efficienza energetica e patrimonio costruito. La sfida del miglioramento delle prestazioni nell’edilizia storica, (a cura di) E. Lucchi, V. Pracchi, Milano, 2013.

[27] Cfr. d.lg. n. 32/2023, art. 43 e allegato I.9.

[28] Cfr. d.lg. n. 36/2023 cit., allegato II.18, art. 3: “[...] gli interventi sui beni culturali sono inseriti nei documenti di programmazione dei lavori pubblici di cui all' articolo 37, commi 1 e 2, del codice e sono eseguiti secondo i tempi, le priorità e le altre indicazioni derivanti dal criterio della conservazione programmata”.

[29] V. Pracchi, Efficienza energetica e patrimonio culturale: un contributo alla discussione alla luce delle nuove linee di indirizzo, in Eresia ed ortodossia nel restauro. Progetti e realizzazioni, Conference Proceedings, Bressanone, 2016, pagg. 717-726.

[30] Cfr. R. Pender, D. J. Lemieux, The Road Not Taken: Building Physics, and Returning to First Principles in Sustainable Design, 2020, vol. 11, n. 6 (https://www.mdpi.com/2073-4433/11/6/620).

[31] Il progetto nasce da un’idea di Cultura Valore Srl (Milano, www.culturavalore.com), che si richiama, in parte, al convegno L’economia circolare per la rigenerazione del patrimonio culturale promosso da AISEC e tenutosi a Milano, Palazzo Litta, il 24 novembre 2022 (vedi: https://www.aisec-economiacircolare.org/leconomia-circolare-la-rigenerazione-del-patrimonio-culturale-storico-italiano/), in parte a confronti interprofessionali, che hanno ispirato la sezione tematica La conservazione preventiva e programmata del patrimonio culturale quale ambito delle politiche di economia circolare, ora in via di pubblicazione ne Il Capitale Culturale. Studies on the Value of Cultural Heritage, 2024 (giugno), n. 29.

[32] Convegno Sostenibilità energetica e tutela del patrimonio culturale, Brescia, 4 ottobre 2023. Il convegno, nell’anno 2023 dedicato a Brescia capitale italiana della cultura e nel quadro di Futura Lab (https://www.futura-brescia.it/programma/), ha preso le mosse dal quadro normativo europeo e nazionale e poi, in riferimento a concrete esperienze presentate, si è proposto come prima occasione di confronto tecnico e strategico fra istituzioni, università ed imprese sulla regolazione del miglioramento energetico degli edifici di interesse artistico, storico e archeologico, nel contesto urbano e paesaggistico e in relazione alle comunità. Ne è disponibile la videoregistrazione integrale, mattina: https://www.youtube.com/watch?v=IZDu7IulT2E e pomeriggio: https://www.youtube.com/watch?v=YAZU8a-_N2Y.

[33] Convegno Patrimonio culturale. Tutela e sostenibilità energetica, un dialogo possibile?, Roma, Maxxi, 7 dicembre 2023. Ne è disponibile la videoregistrazione integrale al link: https://www.youtube.com/live/a7Dw5AE5ne4?si=K1fG0X9-7jDukhzl.

[34] Le vicende delle proposte di Urbani, oltre che in numerosi testi a cura di Zanardi (cfr. fra gli altri B. Zanardi, Conservazione, restauro e tutela. 24 dialoghi, Milano, 1999, in partic. pagg. 9-62) sono riassunte in P. Petraroia, Conservazione programmata: nascita, rifiuti, adozioni (memorie 1976-2005). Cfr. inoltre AA.VV., La conservazione dei beni culturali come interesse vitale della società. Appunti sulla figura e l’opera di Giovanni Urbani, (a cura di) G. Basile, Saonara, 2010, passim.

[35] In particolare, l’art. 42-bis del d.l. n. 162/1919 aveva introdotto una disciplina transitoria per la fase sperimentale delle Cer, che comprendeva impianti alimentati a fonti rinnovabili di potenza non superiore a 200 kw ciascuno ed un perimetro di aggregazione degli impianti limitato a quelli facenti capo alla stessa cabina di trasformazione secondaria. Per un inquadramento G. La Rosa, Le comunità energetiche rinnovabili: riflessioni sull’“affidabilità” del sistema di incentivazione di cui al decreto RED II, in Riv. Giur. AmbienteDiritto.it, 2022, 1, pag. 1 ss. e R. Miccu, M. Bernardi, Premesse ad uno studio sulle energy communities: tra governance dell’efficienza energetica e sussidiarietà orizzontale, in Federalismi.it, 2022, 4, pag. 603 ss.

[36] Il Tiad regola requisiti, modalità e procedure per l’accesso all’erogazione del servizio per l’autoconsumo diffuso e consente alle Cer di operare su un’area più vasta (zona di mercato per l’energia condivisa e area sottesa alla cabina primaria per la valorizzazione dell’energia consumata) e avere impianti di potenza superiore a 200 kW. La sua entrata in vigore è legata all’emanazione del decreto del ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica contenente i nuovi incentivi per l’autoconsumo diffuso. Con il successivo aggiornamento delle regole tecniche del Gse si dovrebbe completare il quadro regolamentare in materia.

[37] E. Cusa, Sviluppo sostenibile, cittadinanza attiva e comunità energetiche, in Orizzonti del diritto commerciale, 2020, 1, pag. 71 ss., in particolare con riguardo alle forme che possono assumere le Cer, pag. 111 ss.; G. Osti, Energia democratica: esperienze di partecipazione, in Agg. soc., 2017, 68, pag. 113 ss.

[38] È opportuno notare, con specifico riferimento ai prosumer, che si tratta di figure differenti e dotate di maggiore autonomia rispetto al consumatore meramente passivo, specialmente quello vulnerabile, trattandosi di un soggetto che potrebbe essere al contempo produttore - sebbene la produzione non corrisponda all’attività economica prevalente - e cliente finale di energia elettrica. Sul tema si vedano M. Maugeri, Elementi di criticità nell’equiparazione, da parte dell’AEEGSI, dei “prosumer” ai “consumatori” e ai “clienti finali”, in N. giur. civ. comm., 2015, II, pag. 406 ss.; A. Quarta, Il diritto dei consumatori ai tempi della peer economy. Prestatori di servizi e prosumers: primi spunti, in Eur. dir. priv., 2017, pag. 667 ss.; E. Cusa, La cooperazione energetica tra tutela dei consumatori ed economia sociale di mercato, in Giur. comm., 2015, I, pag. 665 ss.

[39] Osserva E. Giarmanà, Autoconsumo collettivo e comunità energetiche. I primi interventi di regolazione, in Ambientediritto.it, 2021, 1, pag. 23, che “l’incentivo per l’energia autoconsumata è (...) volto a premiare maggiormente le quote di energia autoconsumate all’interno di una comunità energetica piuttosto che in una configurazione di autoconsumo collettivo. La ragione di tale diverso trattamento è stata individuata nella “maggiore ampiezza e dell’utilità sociale che caratterizzano tali configurazioni”, e cioè a dire nell’obiettivo di stimolare maggiormente la nascita di comunità energetiche, anche in termini di successiva “evoluzione” di una o più realtà stesse di autoconsumo collettivo sottese alla medesima cabina Mt/Bt, poiché astrattamente idonee a convogliare all’interno della medesima struttura un ventaglio alquanto variegato di utenze, più adatte pertanto a realizzare l’obiettivo di autoconsumare quanta più energia rinnovabile possibile. È forse la maggiore ampiezza delle esigenze sottese ai bisogni di una componente alquanto variegata di (auto)consumatori di energia, quale potrebbe essere quella di una Cer, a richiedere una maggiore componente d’investimento privato da parte dei soggetti partecipi. A titolo esemplificativo, basti considerare ai costi correlati alla creazione ed alla gestione di un soggetto giuridico autonomo, dotato di piena personalità giuridica, alle consulenze ed alle maestranze necessarie all’avvio dei procedimenti volti al rilascio dei titoli autorizzativi per gli impianti, all’attività di consulenza necessaria all’inoltro dell’istanza al Gse. Trattasi di aspetti che sembrano giustificare la previsione di un diverso trattamento incentivante, poiché tesi a garantire “la redditività degli investimenti”. Con la sentenza n. 48 del 23 marzo 2023 la Corte costituzionale ha comunque ricordato come le Cer siano disciplinate nella direttiva Red II (dir. Ue 2018/2001) come “soggetto giuridico” autonomo che ha quale obiettivo principale il fornire benefici ambientali, economici o sociali a livello di comunità, piuttosto che profitti finanziari e che si basa sulla partecipazione aperta e volontaria di azionisti o membri (persone fisiche, Pmi o autorità locali, comprese le amministrazioni comunali), da cui è controllato, situati nelle vicinanze degli impianti di produzione.

[40] Sempre Corte cost. n. 48/2023 cit. ha ricordato che i requisiti che i clienti finali devono possedere per poter organizzarsi in Cer e le condizioni nel rispetto delle quali le Cer devono operare, sono già disciplinati nel d.lg. n. 199/2021 e risultano improntati al principio della massima apertura delle Cer, secondo cui, come previsto nella direttiva Red II, la Cer “si basa sulla partecipazione aperta e volontaria” e gli Stati membri devono assicurare ai clienti finali “il diritto di partecipare a comunità di energia rinnovabile, (...) senza essere soggetti a condizioni o procedure ingiustificate o discriminatorie”, fornendo inter alia un quadro di sostegno che garantisca che “la partecipazione alle comunità di energia rinnovabile sia aperta a tutti i consumatori, compresi quelli appartenenti a famiglie a basso reddito o vulnerabili”.

[41] M. Guccione, La conservazione (art. 29), in Aedon, 2004, 1.

[42] Sul tema AA.VV., Carta del Rischio del patrimonio culturale, Roma, ministero Beni Culturali e Ambiente - ufficio centrale per i Beni Archeologici, Artistici e Storici - Istituto centrale per il restauro, 1996; AA.VV., La strategia della Conservazione programmata. Dalla progettazione delle attività alla valutazione degli impatti, Proceedings of the International Conference Preventive and Planned Conservation Monza, Mantova 5-9 May 2014, (a cura di) S. Della Torre, Firenze, 2014; P. Petraroia, Carta del rischio: linee guida e normativa recente, in Economia della cultura, 2014, 3-4, pag. 303 ss.

[43] Il presupposto è nella conquista, sul piano normativo, della consapevolezza che non vi è tutela efficace se non in un processo sostanzialmente partecipativo, ispirato a corresponsabilità e cooperazione civica, in ragione del riconoscimento di valore del proprio patrimonio culturale. A ciò in fondo riconduce anche la Convenzione di Faro (v. anche oltre, a nota 31), recepita nel nostro ordinamento con legge 1 ottobre 2020, n. 133; cfr. anche P. Petraroia, La valorizzazione come dimensione relazionale della tutela, in G. Negri-Clementi, S. Stabile, Il diritto dell’arte. 3. La protezione del patrimonio artistico, Milano, 2014, pagg. 41-49. Sul piano sia ideale che pragmatico, un fondamentale riferimento sul tema del ruolo delle comunità per il patrimonio culturale resta H. De Varine, Le radici del futuro. Il patrimonio culturale al servizio dello sviluppo locale, Bologna, 2005.

[44] R. Miccù, M. Bernardi, op. ult. cit., pag. 618 ss., afferma che “nel valorizzare il ruolo dei privati - sia come cittadini che come operatori economici - la sussidiarietà orizzontale si presta ad essere il giusto punto di riferimento al fine di comprendere la dialettica tra ruolo dei privati nel mercato energetico e funzione amministrativa di regolazione”, ove “nel mercato dell’efficienza energetica la regolazione non è confinata al mero perseguimento della concorrenza nel mercato, ma si arricchisce della promozione di finalità di interesse generale di tipo sociale. Occorre, allora, verificare se, stante il riferimento all’‘interesse generale’ di cui all’art. 118, comma 4, Cost., i comportamenti dei nuovi attori del mercato siano orientati non solo a fini economici, ma anche a fini sociali ed ambientali”.

[45] Ancora R. Miccù, M. Bernardi, op. ult. cit., pag. 645 concorda sulla necessità di un “forte coinvolgimento degli enti locali, chiamati a contribuire, insieme allo Stato centrale - destinatario naturale degli obblighi comunitari e principale responsabile della sua attuazione - al raggiungimento degli obiettivi di risparmio e di razionalizzazione dei consumi energetici”; sul tema si vedano anche A. Contini, Il ruolo degli enti locali sub regionali nello sfruttamento delle energie rinnovabili, in AA.VV., Verso una politica energetica integrata. Le energie rinnovabili nel prisma della comparazione, (a cura di) E.A. Carnevale, P. Carrozza, G. Cerrina Feroni, G.F. Ferrari, G. Morbidelli, R. Orrò, Napoli, 2014, pagg. 551-553; E. Ferrero, Le comunità energetiche: ritorno a un futuro sostenibile, in Ambiente & sviluppo, 2020, 8-9.

[46] Si realizzerebbe così più diffusamente quell’assunzione di responsabilità della collettività tentata già con alcune interessanti esperienze, quale quella dei patti di collaborazione relativi ai beni comuni. Sul tema si vedano AA.VV., L’Italia dei beni comuni, (a cura di) G. Arena e C. Iaione, Roma, 2012; G. Arena, Così i beni pubblici diventano beni comuni, in Vita e pensiero, 2022, 5.

[47] M. Bencivenni, R. Dalla Negra, P. Grifoni, Monumenti e istituzioni, Firenze, ministero per i beni culturali e ambientali - Soprintendenza per i beni ambientali e architettonici per le province di Firenze e Pistoia - sezione didattica, 1987, vol. 1: La nascita del servizio di tutela dei monumenti in Italia: 1860-1880; vol. II: Il decollo e la riforma del servizio di tutela dei monumenti in Italia 1880-1915.

 

 

 



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