Osservatorio sulla giurisprudenza del Consiglio di
Stato
in materia di beni culturali e paesaggistici
a cura di Giancarlo Montedoro [*]
(con la collaborazione della dott.ssa Vania Talienti) [**]
Sommario: 1. Beni culturali. - 2. Beni paesaggistici.
Cons. Stato, sez. VI, 30 agosto 2023, n. 8074 - Pres. Montedoro, Est. Cordì - Attestato di libera circolazione di un’opera d’arte e previa verifica del suo interesse culturale (nel caso di specie, la coppia di dipinti di Salvador Dalì denominati “Couple aux tetes pleines de nuages”).
I presupposti di operatività della previsione di cui all’art. 65, comma 2, lett. a), del d.lg. n. 42 del 2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio) sono: i) l’appartenenza del bene ai soggetti di cui all’art. 10, comma 1, del medesimo Codice; ii) la realizzazione dell’opera da parte di artista non più vivente; iii) l’esecuzione dell’opera in periodo antecedenti ai settanta anni; iv) l’omesso espletamento della verifica di cui all’art. 12 del citato decreto legislativo, che è condizione necessaria per l’eventuale venir meno del divieto.
In sostanza, l’individuazione della regola operante passa attraverso la verifica della titolarità soggettiva del bene: ove appartenga ad uno dei soggetti di cui all’art. 10, opera l’art. 65, comma 2, lett. a), del Codice dei beni culturali e del paesaggio, con conseguente impossibilità di uscita definitiva del bene fino a quando non sia effettuata la verifica di interesse; ove appartenga a soggetto diverso sarà possibile attivare il procedimento ex art. 68 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, se ricorrano gli ulteriori presupposti richiesti dall’art. 65, comma 3, lett. a), inclusi gli elementi ulteriori richiesti da tale disposizione rispetto all’art. 65, comma 2, lett. a), del Codice, consistenti nell’interesse culturale del bene (che, invece, l’art. 65, comma 2, lett. a), rimette alla valutazione di interesse) e nel valore superiore ad euro 13.500 (dal quale l’art. 65, comma 2, lett. a), del Codice, prescinde).
In particolare, ove il bene appartenga ad uno dei soggetti di cui all’art. 10, comma 1, del Codice dei beni culturali, si applica l’art. 65, comma 2, lett. a), dello stesso Codice, con conseguente impossibilità di uscita definitiva del bene fino a quando non sia effettuata la verifica di interesse. In presenza dei presupposti di cui all’art. 65, comma 2, lett. a), del Codice, quindi, troverà applicazione il divieto e l’amministrazione non dovrà che operare tale ricognizione dando atto dell’applicazione della norma e rimettendo la valutazione dell’interesse all’organo competente, il quale potrà essere investito anche dal privato interessato. Solo ove l’organo competente escluda l’interesse culturale del bene sarà allora possibile disporre una nuova valutazione per l’uscita dal territorio nazionale, attraverso un provvedimento autorizzativo che, anche in questo caso, non effettuerà una valutazione di interesse, già esclusa dall’organo competente.
Al contrario, il divieto non troverà applicazione ove non ricorrano i presupposti dell’art. 65, comma 2, lett. a), del Codice dei beni culturali e del paesaggio o, comunque, possa con assoluta certezza escludersi radicalmente l’interesse culturale del bene; ipotesi quest’ultima che risulta destinata ad operare nella marginalità dei casi e può ammettersi solo all’esito di una rigorosa e attenta valutazione, imposta dalla stessa logica del telaio normativo esaminato. Diversamente, ove tale radicale esclusione dell’interesse del bene non sia predicabile, dovrà, comunque, rimettersi la valutazione all’organo competente.
Tale interpretazione risulta: i) funzionale ad evitare la sovrapposizione dei procedimenti e dei giudizi che il Codice dei beni culturali e del paesaggio mantiene distinti; ii) individuare la differente portata della valutazione compiuta dall’ufficio esportazione. Si tratta di una valutazione che deve risultare improntata, comunque, a peculiare acribia e prudenza, portando ad escludere la rilevanza culturale della cosa sola qualora questa possa recisamente e con assoluta certezza negarsi, ed investendo, nel caso opposto, l’organo ministeriale competente alla verifica.
Non è poi predicabile un legittimo provvedimento implicito dell’amministrazione, atteso che sussiste una diversa competenza all’adozione dell’attestato di libera circolazione e alla verifica di interesse culturale. Inoltre, lo stesso disposto dell’art. 65, comma 2, lett. a), del Codice dei beni culturali e del paesaggio limita la verifica dell’amministrazione al solo accertamento dei presupposti, ponendo una condizione all’uscita del bene, consistente nell’esito della verifica di interesse culturale. Lo stesso meccanismo normativo esclude, quindi, la possibilità di implicita valutazione dell’interesse, condizionando la futura ed eventuale uscita dal territorio all’esito del successivo procedimento di verifica.
Cons. Stato, sez. VI, 4 agosto 2023, n. 7542 - Pres. De Felice, Est. Ravasio - In tema di tutela dei beni culturali.
Nell’ambito delle categorie dei beni culturali individuati dall’art. 10 del d.lg. n. 42 del 2004, vi è differenza tra quelli assoggettati alla verifica di culturalità ai sensi dell’art. 12 del d.lg. n. 42 del 2004 e quelli che necessitano della dichiarazione di interesse culturale ai sensi del successivo art. 13 del medesimo decreto legislativo, perché, a fronte di procedimenti volti alla verifica dell’interesse storico-artistico di un bene che appartiene ad un ente pubblico oppure a persona giuridica privata senza fine di lucro, e che dunque è presunto bene culturale in ragione di tale appartenenza, la motivazione del provvedimento di tutela non deve dar conto della presenza di un interesse particolarmente importante, interesse questo che deve invece caratterizzare la cosa oggetto di dichiarazione di bene culturale che appartiene a privati. In altri termini, perché la verifica dell’art. 12 del d.lg. n. 42 del 2004 si concluda nel senso della conferma della qualità di bene culturale di una cosa, è sufficiente che si dimostri che questa possieda un interesse culturale “senza aggettivazioni”, non già quell’interesse qualificato ricavabile dalla locuzione interesse particolarmente importante o eccezionale interesse.
In tema di beni culturali individuati dall’art. 10 del d.lg. n. 42 del 2004, a differenza dei beni di proprietà privata, inoltre, l’appartenenza di un immobile ad un novero qualificato di soggetti ne può far sì presumere (ma soltanto presumere) ope legis un particolare interesse (artistico, storico, archeologico o etnoantropologico) di rilievo pubblico, ma poi, perché detto interesse possa dirsi effettivamente sussistente (ossia “accertato”, giacché appositamente “verificato” dall’Autorità competente), occorre che, per un verso, la “esecuzione” dell’immobile risalga “ad oltre settanta anni” e, per altro verso, che venga concretamente effettuata la “verifica” da parte dei ‘“competenti organi del ministero” di settore.
In relazione ai beni di proprietà pubblica sussiste una presunzione iuris tantum di interesse culturale, con conseguente sottoposizione al relativo regime di tutela, fino all’esito del procedimento di verifica; questo può concludersi con un provvedimento amministrativo negativo di quell’interesse, che produce gli effetti di una condizione risolutiva di quel regime, ovvero con un provvedimento positivo che conferma e consolida il regime medesimo. I beni privati, invece, non soggiacciono ad alcuna presunzione e sono sottoposti a tutela solo a seguito del procedimento di dichiarazione di cui all’art. 13 del d.lg. n. 42 del 2004; l’avvio del procedimento comporta la sottoposizione del bene, in via cautelativa, al regime di tutela previsto dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, regime che viene confermato in caso di esito positivo del procedimento. L’esito positivo, in tal caso, è subordinato a condizioni più stringenti, essendo necessario accertare l’esistenza di un interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico particolarmente importante.
Il regime di cui al d.lg. n. 42 del 2004 si pone in sostanziale continuità con il sistema previgente, delineato dalla legge n. 1089 del 1939 e poi dal d.lg. n. 490 del 1999, sistema che si basava su una simile distinzione fra beni pubblici e privati: i primi sottoposti a tutela automatica, i secondi soggetti a notifica di interesse particolarmente importante. Rispetto alla disciplina approntata dalla legge n. 1089 del 1939 quella di cui al d.lg. n. 490 del 1999 si è differenziata solo per aver introdotto l’obbligo di iscrizione dei beni pubblici di interesse culturale in appositi registri; tale sistema, che aveva generato molte incertezze, è stato superato dal d.lg. n. 42 del 2004 mediante l’introduzione del procedimento di verifica dell’interesse culturale.
La vigente disciplina del d.lg. n. 42del 2004, che contiene una disciplina esplicita nel senso che la qualità di bene culturale nei beni posseduti da soggetti pubblici è presunta, ma solo in via relativa, perché permane solo se i relativi requisiti sono riconosciuti in concreto attraverso il procedimento di verifica, non è radicalmente innovativa, ma rappresenta semplicemente una precisazione di quanto già era immanente nel sistema. Il sistema, delineato fin dalla legge n. 1089 del 1939, protegge il patrimonio pubblico, che in uno Stato democratico è patrimonio di tutti i cittadini, in via presuntiva, ovvero assoggettando al vincolo tutti i beni, e fra essi tutti gli immobili di proprietà pubblica per i quali l’interesse culturale è ipotizzabile; impone però la tutela in via di presunzione relativa, perché non proibisce in alcun modo all’amministrazione di far venir meno la tutela, ove essa abbia accertato, nell’esercizio delle proprie specifiche competenze in materia, che l’interesse in concreto non sussiste. Il vigente d.lg. n. 42 del 2004, pertanto, si limita a prevedere un procedimento particolare per esercitare, a richiesta del privato, un potere di verifica di cui l’amministrazione è sempre stata titolare, e che a tutt’oggi potrebbe essere esercitato anche d’ufficio.
Ai fini della sottoposizione a tutela di un bene di proprietà privata è necessario che esso sia di interesse culturale “particolarmente importante”, laddove la tutela dei beni di proprietà pubblica scatta anche in presenza di un interesse culturale non qualificato. Questo differente regime di tutela origina dall’esigenza di contemperare gli interessi del privato, che vede significativamente limitato l’utilizzo e lo sfruttamento di un bene di cui sia dichiarato l’interesse culturale, con l’interesse pubblico alla preservazione del bene che presenta un interesse culturale: il punto di equilibrio tra le indicate, contrapposte, esigenze è stato quindi individuato dal legislatore nella possibilità di sottoporre a tutela i beni privati solo quando l’interesse culturale sia particolarmente qualificato. Le medesime esigenze non si confrontano, invece, quando il bene sia di proprietà pubblica, e ciò spiega la ragione per cui per i beni culturali pubblici è sufficiente anche un interesse non qualificato affinché siano sottoposti a tutela. Si tratta di una scelta coerente con il rilievo primario che la Costituzione accorda alla tutela del patrimonio culturale e paesaggistico ex art. 9 della Costituzione rispetto agli altri interessi pubblici compresenti.
Cons. Stato, sez. VI, 10 luglio 2023, n. 6752 - Pres. Volpe, Est. Gallone - Sull’ammissibilità del vincolo di destinazione d’uso del bene culturale a tutela della manifestazione culturale immateriale.
Il vincolo di destinazione d’uso del bene culturale può essere imposto, ai sensi degli artt. 7-bis, 10, comma 3, lett. d), 18, comma 1, 20, comma 1, 21, comma 4, e 29, comma 2, del d.lg. n. 42 del 2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), quando il provvedimento risulti funzionale alla conservazione della integrità materiale della cosa o dei suoi caratteri storici o artistici, sulla base di una adeguata motivazione da cui risulti l’esigenza di prevenire situazioni di rischio per la conservazione dell’integrità materiale del bene culturale o del valore immateriale nello stesso incorporato (Cons. Stato, Ad. Plen., 13 febbraio 2023, n. 5).
Ai sensi degli articoli 7-bis, 10, comma 3, lett. d), 18, comma 1, 20, comma 1, 21, comma 4, e 29, comma 2, del d.lg. n. 42 del 2004, il “vincolo di destinazione d’uso del bene culturale” può essere imposto a tutela di beni che sono espressione di identità culturale collettiva, non solo per disporne la conservazione sotto il profilo materiale ma anche per consentire che perduri nel tempo la condivisione e la trasmissione della manifestazione culturale immateriale di cui la cosa contribuisce a costituirne la testimonianza (Cons. Stato, Ad. Plen., 13 febbraio 2023, n. 5), ferma restando la necessità di rispettare il principio di proporzionalità.
Il procedimento di candidatura dei siti UNESCO non coincide necessariamente con l’azione di salvaguardia che il ministero della Cultura è tenuto a svolgere sul territorio italiano, ove ritenga sussistenti i presupposti previsti dal Codice dei beni culturali, e che i provvedimenti di tutela di cui all’art. 7-bis del d.lg. n. 42 del 2004 non impongono l’attivazione delle candidature, rilevanti per l’UNESCO. Ciò che, più propriamente, rileva ai fini dell’attivazione della tutela ex art. 7-bis del d.lg. n. 42 del 2004 è che, in linea con la definizione di “patrimonio culturale immateriale” di cui all’art. 2 della Convenzione UNESCO per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale del 2003, il “bene culturale viene così ad assumere una particolare valenza identitaria per una determinata comunità, nazionale o locale, veicolandola nella contemporaneità, in una linea ininterrotta tra passato e presente, per effetto della continua ricreazione, condivisione e trasmissione della manifestazione culturale di cui la cosa costituisce testimonianza” (Cons. Stato, Ad. Plen., 13 febbraio 2023, n. 5).
Il concetto stesso di “Espressioni di identità culturale collettiva”, impiegato dal più volte richiamato art. 7-bis del d.lg. n. 42 del 2004, non evoca la necessità di un motivato vincolo relazionale tra il bene ed un evento storico/culturale preciso e rilevante, ben potendosi avere una forma di manifestazione di identità collettiva che sia legata ad una pratica più che al verificarsi di uno specifico episodio. Del resto sono le stesse Convenzioni UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e per la protezione e la promozione delle diversità culturali, adottate a Parigi, rispettivamente, il 3 novembre 2003 ed il 20 ottobre 2005 cui espressamente rinvia il citato art. 7-bis, a definire in tal senso, all’art. 2, comma 1, “patrimonio culturale immateriale” le “prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how - come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi - che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale”.
Il giudizio che presiede all’imposizione di una dichiarazione di interesse (c.d. vincolo) culturale è connotato da un’ampia discrezionalità tecnico-valutativa, poiché implica l’applicazione di cognizioni tecniche specialistiche proprie di settori scientifici disciplinari della storia, dell’arte e dell’architettura, caratterizzati da ampi margini di opinabilità, sicché detta valutazione può essere sindacata in sede giurisdizionale solo in presenza di profili di incongruità ed illogicità di evidenza tale da far emergere l’inattendibilità della valutazione tecnica compiuta.
Cons. Stato, sez. VI, 3 aprile 2023, n. 3406 - Pres. Montedoro, Est. Cordì - Sulla compatibilità degli impianti fotovoltaici con le esigenze di tutela dei beni culturali.
Sebbene entrambi parti del complessivo patrimonio culturale, i beni culturali e i beni paesaggistici sono, comunque, distinti: i primi sono, infatti, le cose immobili e mobili che, ai sensi degli articoli 10 e 11 del d.lg. n. 42 del 2004, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà; i secondi sono invece, gli immobili e le aree indicati all’articolo 134 del d.lg. n. 42 del 2004, costituenti espressione dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio, e gli altri beni individuati dalla legge o in base alla legge. La differente definizione normativa è la conseguenza di una diversità ontologica tra le due categorie di beni, alla quale consegue un differente sistema di tutela, principalmente contenuto, rispettivamente, nella Parte Seconda (“Beni culturali”) e nella Parte Terza (“Beni paesaggistici”) del codice di settore. Le due categorie restano, quindi, differenziate sotto il profilo categoriale e funzionale e sono soggette a statuti normativi e meccanismi di tutela eterogenei o, comunque, non assimilabili tout court.
Le differenze esistenti tra beni culturali e beni paesaggistici non sono smentite né dalla sussistenza di possibili interferenze fra le due categorie, certamente possibili ove si consideri, ex aliis, che i beni paesaggistici, pur nell’unitaria valenza culturale e identitaria che l’ordinamento riconosce loro, possono esprimere peculiari valori in ragione, ad esempio, delle particolari qualità naturalistiche del luogo, del costituire lo stesso oggetto di rappresentazione pittorica o letteraria, o teatro di vicende storiche o di un determinato ambiente socio-economico e del suo evolversi nel tempo (i cosiddetti paesaggi culturali), e che, in tali situazioni, l’esigenza di giuridificazione del valore da preservare risulta, chiaramente, più accentuata e, conseguentemente, le concrete misure di tutela risultano particolarmente stringenti, e, sostanzialmente, mutuabili dal parallelo regime proprio dei beni culturali.
Pertanto, al di là delle interferenze e del peculiare regime dei paesaggi culturali, i beni culturali esprimono un valore culturale e identitario pregnante ed incorporato nella res extensa mentre i beni paesaggistici, conformemente alla concezione relazionale delle ragioni del valore culturale cui la tutela è funzionale, sono considerati, in continuità alla matrice dell’accezione storicistica di paesaggio (manifesta nei lavori preparatori della legge n. 1497 del 1939 e nella legge n. 733 del 1922), per l’essere “rappresentazione materiale e visibile dell’identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali” (art. 131, comma 2, d.lg. n. 42 del 2004). Tali differenze precludono, quindi, un’estensione ai beni culturali di principi affermati in relazione alla diversa categoria dei beni paesaggistici, occorrendo effettuare, al contrario, una valutazione che tenga conto delle peculiari caratteristiche del bene culturale.
Le differenze di regime tra beni culturali e beni paesaggistici emergono, inoltre, anche dalla specifica normativa in materia di interventi di efficienza energetica e piccoli impianti a fonti rinnovabili, atteso che la previsione di cui all’art. 7-bis del d.lg. n. 28 del 2011, nel consentire l’installazione, con qualunque modalità (anche nelle zone A degli strumenti urbanistici comunali, come individuate ai sensi del decreto del ministro dei Lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444) di impianti solari fotovoltaici e termici sugli edifici, o su strutture e manufatti fuori terra diversi dagli edifici, ivi compresi strutture, manufatti ed edifici già esistenti all’interno dei comprensori sciistici, considera tali interventi come manutenzione ordinaria e non richiede l’acquisizione di permessi, autorizzazioni o atti amministrativi di assenso comunque denominati, ivi compresi quelli previsti dal Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al d.lg. n. 42 del 2004, a eccezione degli impianti installati in aree o immobili di cui all’art. 136, comma 1, lett. b) e c), del citato Codice (individuati mediante apposito provvedimento amministrativo ai sensi degli artt. da 138 a 141), ma fermo restando proprio quanto previsto dall’art. 21 del medesimo Codice. In sostanza, mentre soltanto per taluni beni paesaggistici restano ferme le disposizioni di tutela, per i beni culturali rimane immutato l’obbligo di autorizzazione dell’intervento ai sensi della previsione di cui all’art. 21 del Codice di settore.
Sono legittime le prescrizioni con cui la Soprintendenza autorizza l’istallazione di pannelli fotovoltaici su un edificio di valore storico e architettonico, a condizione che: si tratti di sistemi fotovoltaici integrati di nuova generazione; siano istallati sulle parti di più recente realizzazione dell’edificio (e dunque di minor pregio storico e architettonico); i pannelli fotovoltaici siano integrati con la copertura, assecondandone la conformazione curva dell’estradosso, tramite l’utilizzo di film sottili di nuova generazione, i laminati flessibili, le tegole fotovoltaiche o i pannelli curvi. Si tratta infatti di prescrizioni che raggiungono un ragionevole punto di equilibrio tra le esigenze di efficientamento energetico e quelle di tutela del bene culturale.
Cons. Stato, Adunanza Plenaria, 13 febbraio 2023, n. 5 - Pres. Maruotti, Est. Rotondano - Sui limiti operativi del vincolo di destinazione d’uso del bene culturale.
Ai sensi degli articoli 7-bis, 10, comma 3, lettera d), 18, comma 1, 20, comma 1, 21, comma 4, e 29, comma 2, del d.lg. n. 42 del 2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), il vincolo di destinazione d’uso del bene culturale può essere imposto quando il provvedimento risulti funzionale alla conservazione della integrità materiale della cosa o dei suoi caratteri storici o artistici, sulla base di una adeguata motivazione, da cui risulti l’esigenza di prevenire situazioni di rischio per la conservazione dell’integrità materiale del bene culturale o del valore immateriale nello stesso incorporato.
Ai sensi degli articoli 7-bis, 10, comma 3, lettera d), 18, comma 1, 20, comma 1, 21, comma 4, e 29, comma 2, del d.lg. n. 42 del 2004, il vincolo di destinazione d’uso del bene culturale può essere imposto a tutela di beni che sono espressione di identità culturale collettiva, non solo per disporne la conservazione sotto il profilo materiale, ma anche per consentire che perduri nel tempo la condivisione e la trasmissione della manifestazione culturale immateriale, di cui la cosa contribuisce a costituirne la testimonianza.
Cons. Stato, sez. VI, 30 novembre 2022, n. 10552 - Pres. Volpe, Est. Cordì - In tema di tutela dei beni culturali e, in particolare, sul riparto di competenze.
Il d.p.r. n. 380 del 2001 attiene agli aspetti legati all’attività edilizia ma non riguarda il riparto di competenze sugli aspetti “infrastrutturali”, per i quali permane il quadro normativo anteriore al Testo unico in materia edilizia. Tale quadro normativo si compone sia delle previsioni contenute nella legge n. 1086 del 1971 e nella legge n. 64 del 1971 che delle specifiche regole in tema di riparto di competenze amministrative tra Stato e altre articolazioni della Repubblica; tra queste assume rilievo la previsione contenuta nell’art. 149, comma 1, lett. h), del d.lg. n. 112 del 1998, ai sensi della quale sono riservate allo Stato “le ulteriori competenze previste dalla legge 1° giugno 1939, n. 1089, e dal d.p.r. 30 settembre 1963, n. 1409, e da altre leggi riconducibili al concetto di tutela di cui all’articolo 148 del presente decreto legislativo”. Quest’ultima disposizione riserva, quindi, allo Stato le competenze in materia di beni culturali previste dalle specifiche disposizioni sul tema e, in particolare, dalle regole contenute nel d.lg. n. 42 del 2004 a cui devono intendersi riferiti, in ragione dell’evoluzione del quadro normativo medio tempore intervenuta, i rinvii contenuti nell’art. 149, comma 1, lett. h), del d.lg. n. 112 del 1998.
Sussiste una riserva di competenza statale riguardante le funzioni di tutela dei beni culturali, ivi compreso il compito di provvedere alle esigenze di conservazione di beni culturali di appartenenza statale (anche se in consegna o in uso ad amministrazioni diverse o ad altri soggetti) mediante la progettazione e l’esecuzione di interventi in capo all’amministrazione o all’eventuale soggetto che abbia in consegna il bene, ferma restando l’autorizzazione del ministero al rilascio dell’autorizzazione sul progetto ed alla vigilanza sui lavori (art. 39 del d.lg. n. 42 del 2004). Anche in relazione agli interventi sui beni culturali statali sussiste un’apposita normativa che riserva le funzioni allo Stato comportando la non operatività delle regole contenute all’interno del d.p.r. n. 380 del 2001. È la natura delle opere a far fuoriuscire dalla disciplina del testo unico sull’edilizia la materia della competenza in ordine al rilascio dell’autorizzazione sismica, la quale, in base al generale e tutt’ora vigente riparto disegnato dal d.lg. n. 112 del 1998, spetta ai competenti uffici dell’amministrazione statale.
Le disposizioni della legge n. 1086 del 1971 e legge n. 64 del 1971 e le regole contenute nel d.lg. n. 112 del 1998 attengono al riparto di competenze tra lo Stato e le ulteriori articolazioni della Repubblica e non escludono il controllo e la vigilanza sismica che non sono, pertanto, omessi ma semplicemente demandati all’amministrazione statale in considerazione della natura dell’opera. In quest’ottica la mancata riproduzione della riserva di competenza statale all’interno delle previsioni di cui all’art. 65 (Denuncia dei lavori di realizzazione e relazione a struttura ultimata di opere di conglomerato cementizio armato, normale e precompresso ed a struttura metallica), all’art. 93 (Denuncia dei lavori e presentazione dei progetti di costruzioni in zone sismiche) e all’art. 94 (Autorizzazione per l’inizio dei lavori) del d.p.r. n. 380 del 2001 non può, quindi, considerarsi indice sintomatico dell’abrogazione delle precedenti regole né delle ulteriori previsioni in tema di riparto di competenze, dovendosi, del resto, valutare complessivamente il quadro normativo vigente e tenere conto, in particolare, delle regole contenute nel d.lg. n. 112 del 1998. In sostanza, ad escludere che l’omessa riproduzione delle precedenti regole nel d.p.r. n. 380 del 2001 significhi il venir meno delle competenze sono proprio le regole contenute nel d.lg. n. 112 del 1998 che riservano specifiche funzioni allo Stato. Del resto, diversamente opinando, l’omessa riproduzione della riserva di competenza di cui alla legge n. 1086 del 1971 e legge n. 64 del 1974 nelle regole del Testo unico in materia di edilizia finirebbe non soltanto per determinare l’abrogazione di tali regole ma determinerebbe, altresì, un’alterazione (neppure espressa ma meramente implicita) delle regole di riparto contenute nel d.lg. n. 112 del 1998 nonché dell’intero assetto di tutela dei beni culturali racchiuso all’interno del d.lg. n. 42 del 2004.
Gli interventi sui beni culturali si ascrivono alla più generale nozione di tutela, rispetto alla quale sussiste una riserva di competenze statali ex art. 149, comma 1, lett. h), del d.lg. n. 112 del 1998. Carattere strutturale della nozione di tutela è la conservazione e protezione del bene dai rischi di alterazione, modifica e distruzione. La conservazione del patrimonio culturale è assicurata mediante una coerente, coordinata e programmata attività che ricomprende non solo lo studio e la prevenzione ma anche direttamente la manutenzione e il restauro (art. 29, comma 1, del d.lg. n. 42 del 2004). Per manutenzione si intende “il complesso delle attività e degli interventi destinati al controllo delle condizioni del bene culturale e al mantenimento dell’integrità, dell’efficienza funzionale e dell’identità del bene e delle sue parti” (art. 29, comma 3, del d.lg. n. 42 del 2004). Il restauro riguarda, invece, ogni intervento diretto sul bene “attraverso un complesso di operazioni finalizzate all’integrità materiale ed al recupero del bene medesimo, alla protezione ed alla trasmissione dei suoi valori culturali”; nel caso di beni immobili situati nelle zone dichiarate a rischio sismico in base alla normativa vigente, il restauro comprende l’intervento di miglioramento strutturale (art. 29, comma 4, del d.lg. n. 42 del 2004).
Spetta al ministero della Cultura definire, anche con il concorso delle regioni e con la collaborazione delle università e degli istituti di ricerca competenti, linee di indirizzo, norme tecniche, criteri e modelli di intervento in materia di conservazione dei beni culturali (art. 29, comma 4, del d.lg. n. 42 del 2004). La centralità del ruolo del ministero è espressamente giustificata dalla necessità di garantire l’esercizio unitario delle funzioni di tutela ai sensi della previsione di cui all’art. 118 della Costituzione (art. 4, comma 1, del d.lg. n. 42 del 2004); inoltre, lo stesso ministero è chiamato ad esercitare le funzioni di tutela sui beni culturali di appartenenza statale anche se in consegna o in uso ad amministrazioni o soggetti diversi dal ministero (art. 4, comma 2, del d.lg. n. 42 del 2004). Quest’ultima disposizione trova specifica declinazione nella successiva regola di cui all’art. 39 del d.lg. n. 42 del 2004 che assegna direttamente al ministero il compito di provvedere alle esigenze di conservazione dei beni culturali di appartenenza statale anche se in consegna o in uso ad amministrazioni diverse o ad altri soggetti, sentiti i medesimi. Inoltre, si prevede che, salvo che non sia diversamente concordato, la progettazione e la stessa esecuzione degli interventi siano assunte dall’amministrazione o dal soggetto medesimo, ferma restando la competenza del ministero al rilascio dell’autorizzazione sul progetto ed alla vigilanza sui lavori. In ultimo, per l’esecuzione di tali interventi relativi a beni immobili, il ministero trasmette il progetto e comunica l’inizio dei lavori al comune e alla città metropolitana.
Sussiste una specifica competenza del ministero della Cultura che comporta anche interventi diretti sui beni culturali di appartenenza dello Stato. Ricade, quindi, nella responsabilità dell’amministrazione sia la progettazione che l’esecuzione degli interventi; nozioni all’interno delle quali devono ritenersi ricomprese anche le attività di controllo e vigilanza sulla sicurezza sismica che non possono ritenersi attribuite ad Amministrazioni ed Enti diversi.
Cons. Stato, sez. VI, 23 settembre 2022, n. 8167 - Pres. Volpe, Est. Simeoli - In tema di tutela del patrimonio culturale e di promozione dello sviluppo sostenibile.
Il patrimonio culturale si compone di due componenti, beni culturali e paesaggio, unite nella sintesi verbale di cui all’art. 2, comma 1, del d.lg. n. 42 del 2004 (“il patrimonio culturale è costituito dai beni culturali e dai beni paesaggistici”), sia pure soggette ad una disciplina differenziata.
A differenza delle scelte politico-amministrative (c.d. “discrezionalità amministrativa”) – dove il sindacato giurisdizionale è incentrato sulla ‘ragionevole’ ponderazione degli interessi, pubblici e privati, non previamente selezionati e graduati dalle norme – le valutazioni dei fatti complessi richiedenti particolari competenze (c.d. “discrezionalità tecnica”) vanno vagliate al lume del diverso e più severo parametro della ‘attendibilità’ tecnico-scientifica.
Quando la valutazione del fatto complesso viene preso in considerazione dalla norma attributiva del potere, non nella dimensione oggettiva di fatto ‘storico’, bensì di fatto ‘mediato’ dalla valutazione casistica e concreta delegata all’amministrazione, il giudice non è chiamato, sempre e comunque, a ‘definire’ la fattispecie sostanziale. Difettando parametri normativi a priori che possano fungere da premessa del ragionamento sillogistico, il giudice non ‘deduce’ ma ‘valuta’ se la decisione pubblica rientri o meno nella (ristretta) gamma delle risposte maggiormente plausibili e convincenti alla luce delle scienze rilevanti e di tutti gli altri elementi del caso concreto. È ben possibile per l’interessato – oltre a far valere il rispetto delle garanzie formali e procedimentali strumentali alla tutela della propria posizione giuridica e gli indici di eccesso di potere – contestare ab intrinseco il nucleo dell’apprezzamento complesso, ma in tal caso egli ha l’onere di metterne seriamente in discussione l’attendibilità tecnico-scientifica. Se questo onere non viene assolto e si fronteggiano soltanto opinioni divergenti, tutte parimenti plausibili, il giudice deve dare prevalenza alla posizione espressa dall’organo istituzionalmente investito (dalle fonti del diritto e, quindi, nelle forme democratiche) della competenza ad adottare decisione collettive, rispetto alla prospettazione individuale dell’interessato. In quest’ultimo caso, non si tratta di garantire all’amministrazione un privilegio di insindacabilità (che sarebbe contrastante con il principio del giusto processo), ma di dare seguito, sul piano del processo, alla scelta legislativa di non disciplinare il conflitto di interessi ma di apprestare solo i modi e i procedimenti per la sua risoluzione.
La dichiarazione dell’interesse culturale accerta la sussistenza, nella cosa che ne forma oggetto dell’interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico particolarmente importante, ai sensi del combinato disposto degli articoli 10, comma 3, lett. a), e 13 del d.lg. n. 42 del 2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio). La nozione di bene culturale è un concetto giuridico indeterminato, per la cui definizione l’ordinamento giuridico fornisce solo generalissimi criteri: viene stabilito che bene culturale deve essere una “testimonianza” materiale “avente valore di civiltà”, rivestire un “particolare” o “eccezionale” interesse culturale tale da giustificarne il vincolo ed avere una certa vetustà.
Il potere ministeriale di vincolo richiede, quale presupposto, una valutazione basata non sulle acquisizioni delle scienze esatte, bensì su riflessioni di natura storica e filosofica, spesso strettamente legate al contesto territoriale di riferimento, per loro stessa natura in continua evoluzione. L’esigenza di oggettività e uniformità di valutazione dei tecnici del settore (storici dell’arte, antropologi, architetti, urbanisti al servizio della pubblica amministrazione) non può non risentire del predetto limite epistemologico.
Influendo la “cornice” ambientale sull’aspetto esteriore e sulla capacità di tramandare il “valore tipico” di cui è portatrice ogni testimonianza materiale avente valore di civiltà, l’intervento pubblico contempla uno specifico regime di salvaguardia territoriale delle zone circostanti e limitrofe. Le “prescrizioni di tutela indiretta” – previste dall’art. 45 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, nel quale è rifluita, con espressioni letterali largamente coincidenti, la fattispecie sostanziale disciplinata dapprima all’art. 21 della legge n. 1089 del 1939 e poi all’art. 49 del d.lg. n. 490 del 1999 – hanno la funzione di completamento pertinenziale della visione e della fruizione dell’immobile principale (gravato da vincolo “diretto”). In particolare, l’amministrazione “ha facoltà di prescrivere le distanze, le misure e le altre norme dirette ad evitare che sia messa in pericolo l’integrità dei beni culturali immobili, ne sia danneggiata la prospettiva o la luce o ne siano alterate le condizioni di ambiente e di decoro” (così il già citato art. 45 del d.lg. n. 42 del 2004). La soggezione di determinati beni a previsioni di tutela indiretta può fare insorgere, in capo ai loro titolari, vincoli e oneri conservativi della res, nella sua integrità e originalità, sia pure di intensità attenuata rispetto ai più gravosi obblighi “positivi” (come definiti agli artt. 30, 32, 33 e 34 del d.lg. n. 42 del 2004) che ricadono sul proprietario del bene di “diretto” interesse culturale.
Negli ordinamenti democratici e pluralisti si richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi. Così come per i “diritti” (sentenza della Corte cost. n. 85 del 2013), anche per gli “interessi” di rango costituzionale (vieppiù quando assegnati alla cura di corpi amministrativi diversi) va ribadito che a nessuno di essi la Costituzione garantisce una prevalenza assoluta sugli altri. La loro tutela deve essere “sistemica” e perseguita in un rapporto di integrazione reciproca. La primarietà di valori come la tutela del patrimonio culturale o dell’ambiente implica che gli stessi non possano essere interamente sacrificati al cospetto di altri interessi (ancorché costituzionalmente tutelati) e che di essi si tenga necessariamente conto nei complessi processi decisionali pubblici, ma non ne legittima una concezione “totalizzante” come fossero posti alla sommità di un ordine gerarchico assoluto. Il punto di equilibrio, necessariamente mobile e dinamico, deve essere ricercato - dal legislatore nella statuizione delle norme, dall’amministrazione in sede procedimentale, e dal giudice in sede di controllo - secondo principi di proporzionalità e di ragionevolezza.
In virtù del principio di integrazione delle tutele - riconosciuto, sia a livello europeo (art. 11 TFUE), sia nazionale (art. 3-quater del d.lg. n. 152 del 2006, sia pure con una formulazione ellittica che lo sottintende) - le esigenze di tutela dell’ambiente devono essere integrate nella definizione e nell’attuazione delle altre pertinenti politiche pubbliche, in particolare al fine di promuovere lo sviluppo sostenibile. Il principio si impone non solo nei rapporti tra ambiente e attività produttive - rispetto al quale la recente legge di riforma costituzionale 11 febbraio 2022, n. 1, nell’accostare dialetticamente la tutela dell’ambiente con il valore dell’iniziativa economica privata (art. 41 della Costituzione), segna il superamento del bilanciamento tra valori contrapposti all’insegna di una nuova assiologia compositiva - ma anche al fine di individuare un adeguato equilibrio tra ambiente e patrimonio culturale, nel senso che l’esigenza di tutelare il secondo deve integrarsi con la necessità di preservare il primo. Se il principio di proporzionalità rappresenta il criterio alla stregua del quale mediare e comporre il potenziale conflitto tra i due valori costituzionali all’interno di un quadro argomentativo razionale, il principio di integrazione costituisce la direttiva di metodo. La piena integrazione tra le varie discipline incidenti sull’uso del territorio che richiede di abbandonare il modello delle “tutele parallele” degli interessi differenziati che radicalizzano il conflitto tra i diversi soggetti chiamati ad intervenire nei processi decisionali.
La valenza ‘procedimentale’ del principio di integrazione delle tutele – bene esemplificata dall’art. 12, comma 10, del d.lg. n. 387 del 2003 dove si prevede che “linee guida sono volte, in particolare, ad assicurare un corretto inserimento degli impianti, con specifico riguardo agli impianti eolici, nel paesaggio”, escludendo per ciò stesso una incompatibilità di principio di essi con la tutela del paesaggio stesso – implica che il procedimento sia la sedes materiae in cui devono contestualmente e dialetticamente avvenire le operazioni di comparazione, bilanciamento e gestione dei diversi interessi configgenti.
Cons. Stato, sez. VI, 9 maggio 2022, n. 3605 - Pres. Montedoro, Est. Maggio - Sul vincolo alle ville vesuviane incluse nell’elenco di cui all’art. 13 della legge n. 578/1971, indipendentemente da chi ne sia il proprietario, quali beni culturali ex lege.
La legge n. 578 del 1971, per identità di finalità e funzioni, si pone come normativa speciale rispetto a quella generale, in tema di tutela dei beni culturali, dettata dalla legge n. 1089 del 1939 e successivamente dal d.lg. n. 490 del 1999 e dal d.lg. n. 42 del 2004. La previsione degli interventi e sussidi pubblici e dei particolari obblighi di fare, espressamente contemplati dalla legge n. 578 del 1971 (artt. 14 e segg.), logicamente presuppone l’insistenza di quelli di non fare di cui alla legge generale e delle specifiche tutele da questa accordate ai beni culturali. Nell’impostazione della menzionata legge speciale, la natura culturale del bene deriva, dunque, direttamente dalle sue qualità intrinseche accertate dall’apposta commissione chiamata, all’uopo, a formulare un apposto elenco delle ville da tutelare da sottoporre all’approvazione del ministero ai sensi del menzionato art. 13, comma 3, della legge n. 578 del 1971.
Le ville vesuviane, incluse nell’elenco approvato con d.m. 19/10/1976 e pubblicato nella G.U. del 7/1/1977, costituiscono beni culturali ex lege, indipendentemente da chi ne sia il proprietario, di modo che ai fini dell’applicazione della tutela predisposta dalla normativa generale su detti beni, è irrilevante accertare a chi spetti il diritto dominicale su di esse.
Lo stato di abbandono e degrado in cui versa un bene non esclude che esso possa essere assoggettato a vincolo culturale e non comporta, per ciò solo, il venir meno della relativa tutela, ma ciò non vale nell’ipotesi in cui il medesimo, a causa delle modifiche apportate, abbia oggettivamente perso quelle caratteristiche intrinseche che avrebbero consentito di attribuirgli valenza culturale giustificandone la protezione e, soprattutto, come nella specie, ove non vi sia certezza riguardo il tempo dell’avvenuta trasformazione e l’estensione del vincolo.
Cons. Stato, sez. II, 19 ottobre 2023, n. 9094 - Pres. Saltelli, Est. Cocomile - In tema di vincolo paesaggistico e condono edilizio.
Il parere reso dall’autorità specificamente preposta a tutela del vincolo paesaggistico a tutela del paesaggio ha effetto vincolante e preclusivo del condono edilizio e ben può essere motivato in modo sintetico; esso ha natura e funzioni identiche all’autorizzazione paesaggistica ex art. 7 della legge n. 1497 del 1939 costituendo un presupposto legittimante la trasformazione urbanistico - edilizia della zona protetta e lo strumento affidato alla legge statale per l’estrema difesa del paesaggio quale valore costituzionale primario. Di conseguenza il parere negativo della Soprintendenza è immediatamente impugnabile in quanto lesivo della posizione giuridica come ogni atto che provochi l’arresto del procedimento.
Il vaglio della Soprintendenza sulle autorizzazioni paesaggistiche rilasciate dalla Regione o dall’ente subdelegato consiste in un riesame avente ad oggetto l’accertamento circa l’assenza di vizi di violazione di legge, eccesso di potere o incompetenza (Cons. Stato, Ad. Plenaria, 14 dicembre 2001, n. 9).
Il potere di annullamento dell’autorizzazione da parte della Soprintendenza non esprime un potere di controllo (della Soprintendenza sull’operato dell’ente territoriale), ma una manifestazione di cogestione del vincolo data dalla legge a sua estrema difesa, che non comporta un riesame di merito della valutazione dell’ente competente, ma nondimeno impone la valutazione dell’atto-base anche con riferimento a tutti quei profili che possono rappresentare, nelle varie manifestazioni, sintomi di eccesso di potere.
Non sussiste alcun obbligo per l’amministrazione di pronunciarsi su un’istanza volta a ottenere un provvedimento in via di autotutela, non essendo coercibile dall’esterno l’attivazione del procedimento di riesame della legittimità dell’atto amministrativo mediante l’istituto del silenzio-rifiuto e lo strumento di tutela offerto (oggi dall’art. 117 c.p.a.). Il potere di autotutela si esercita discrezionalmente d’ufficio, essendo rimesso alla più ampia valutazione di merito dell’amministrazione, e non su istanza di parte e, pertanto, sulle eventuali istanze di parte, aventi valore di mera sollecitazione, non vi è alcun obbligo giuridico di provvedere.
Cons. Stato, sez. IV, 2 ottobre 2023, n. 8610 - Pres. Neri, Est. Furno - Sull’applicabilità del silenzio assenso di cui all’art. 17-bis della legge n. 241 del 1990 anche al parere reso dalla Soprintendenza.
L’istituto del silenzio assenso orizzontale è applicabile anche al parere della Soprintendenza.
Il parere della Soprintendenza reso tardivamente nell’ambito di una conferenza di servizi è tamquam non esset.
Il testo della legge, specie quando formulato mediante la c.d. tecnica per fattispecie analitica, fornisce la misura della discrezionalità giudiziaria; esso rappresenta il punto fermo da cui occorre muovere nell’attività interpretativa e a cui, è necessario ritornare (all’esito del combinato ricorso a tutti gli altri canoni di interpretazione). Ne consegue che il testo della legge costituisce tendenzialmente un limite insuperabile rispetto ad opzioni interpretative che ne disattendano ogni possibile risultato riconducibile al suo potenziale campo semantico (così come delimitato dalla disposizione), per giungere ad esiti con esso radicalmente incompatibili.
Non può ritenersi esistente un potere del giudice di decidere una controversia a lui sottoposta facendo diretta applicazione di un principio costituzionale (c.d unmittelbare drittwirkung), anche quando non si sia in presenza di una lacuna (e cioè quando esista una normativa di legge applicabile al caso, a meno che questa normativa non sia formulata attraverso il ricorso ad un principio o a una clausola generale).
L’art. 17-bis della legge n. 241 del 1990 è destinato ad applicarsi solo ai procedimenti caratterizzati da una fase decisoria pluristrutturata e, dunque, nei casi in cui l’atto da acquisire, al di là del nomen iuris, abbia valenza co-decisoria.
Il legislatore, attraverso gli istituti di semplificazione di cui agli artt. 14-bis) e 17-bis) della legge n. 241 del 1990 ha cercato di raggiungere un delicato punto di equilibrio tra la tutela degli interessi sensibili e la, parimenti avvertita, esigenza di garantire una risposta (positiva o negativa) entro termini ragionevoli all’operatore economico, che, diversamente, rimarrebbe esposto al rischio dell’omissione burocratica. La protezione del valore paesaggistico attribuisce, infatti, all’autorità tutoria non solo diritti ma anche “doveri e responsabilità”. In tale composito quadro, la competenza della Soprintendenza resta garantita sia pure entro termini stringenti entro i quali deve esercitare la propria funzione. Cionondimeno, in caso di mancata attivazione entro i termini, resta ferma la possibilità della Soprintendenza di poter agire in autotutela secondo il principio del contrarius actus (che la giurisprudenza amministrativa ha in più occasioni richiamato con riferimento all’autotutela sui provvedimenti adottati all’esito della conferenza di servizi) in base al quale l’eventuale esercizio dell’autotutela deve seguire il medesimo procedimento d’emanazione dell’atto che si intende rimuovere o modificare.
Il definitivo superamento dell’indirizzo interpretativo contrario all’applicazione del silenzio assenso orizzontale al parere paesaggistico è stato formalmente sancito dalla recente modifica apportata all’art. 2 della legge n. 241 del 1990 dall’art. 12, comma 1, lett. a), n. 2), del d.l. n. 76 del 2020, che ha introdotto il nuovo comma 8-bis, in base al quale “Le determinazioni relative ai provvedimenti, alle autorizzazioni, ai pareri, ai nulla osta e agli atti di assenso comunque denominati, adottate dopo la scadenza dei termini di cui agli articoli 14-bis, comma 2, lettera c), 17-bis, commi 1 e 3, 20, comma 1, ovvero successivamente all’ultima riunione di cui all’art. 14-ter, comma 7, [...] sono inefficaci, fermo restando quanto previsto dall’articolo 21-nonies, ove ne ricorrano i presupposti e le condizioni”. La lettera di tale disposizione, riferendosi espressamente alle fattispecie del silenzio maturato nel corso di una conferenza di servizi ex art. 14-bis e nell’ambito dell’istituto di cui all’art. 17-bis, è inequivocabile nell’affermare il principio (che non ammette eccezioni) secondo cui le determinazioni tardive sono irrilevanti in quanto prive di effetti nei confronti dell’autorità competente, e non soltanto privi di carattere vincolante.
Cons. Stato, sez. IV, 8 settembre 2023, n. 8228 - Pres. FF Lopilato, Est. Lamberti - Sul mantenimento delle strutture amovibili in caso di concessioni stagionali.
I beni paesaggistici (fra cui i territori costieri) rilevano e sono tutelati ex lege non solo nella propria dimensione strettamente fisica e materiale, ma anche nella più generale capacità di essere veicolo di rappresentazione e trasmissione dell’identità storico-culturale di un luogo e del popolo ivi ab immemorabili insediato, sicché la concessione ad un privato di aree del demanio costiero ne configura un uso eccezionale che, come tale, non può che svolgersi nei limiti dell’atto concessorio e, comunque, in funzione degli scopi per cui quest’ultimo è stato emanato, nel caso di specie la balneazione, la quale, a prescindere da ogni possibile statuizione normativa anche regionale, interessa fisicamente, a queste latitudini, solo i mesi estivi, sia pure lato sensu intesi, e non si spinge fino al periodo invernale.
Non vi è, dunque, in radice luogo al richiamo al favor libertatis, posto che il concessionario non si vale di un diritto di libertà per così dire “originario” a lui spettante uti civis, ma al contrario, in virtù di un provvedimento amministrativo ampliativo della di lui sfera giuridica, esercita per (legittimi) fini lucrativi un’attività commerciale su un’area che era e resta ex lege di pertinenza della collettività nazionale (art. 822 c.c.).
Le strutture amovibili di supporto alla balneazione presentano un vincolo teleologico che ne giustifica la presenza solo nel periodo in cui la balneazione è comodamente possibile; una deroga a siffatta ordinaria conseguenza che consenta il mantenimento per tutto l’anno di siffatte strutture è sì possibile, ma in presenza di una specifica motivazione che metta in rilievo il prevalente interesse pubblico a che strutture deputate alla balneazione rimangano in situ anche oltre la stagione deputata alla balneazione.
In sostanza, non è il provvedimento che impone la rimozione, ma è il provvedimento che consente il mantenimento di tali strutture che deve essere specificamente e convincentemente motivato, rappresentandone la rimozione l’ordinaria regula juris.
Il PPTR è strutturalmente privo della forza di derogare in pejus alle disposizioni di tutela ambientale previste in via generale dalla normazione statale e, comunque, allorché consente la realizzazione di strutture di facile amovibilità volte a servizio della balneazione, si colloca logicamente in linea con le sovraesposte coordinate esegetiche.
L’autorizzazione paesaggistica, a sua volta, è tesa a garantire che l’installazione di manufatti amovibili durante la stagione balneare sia compatibile con le esigenze di tutela ambientale e paesaggistica e non rappresenta né veicola in alcun modo un implicito assenso al mantenimento delle stesse per tutto l’anno.
Cons. Stato, sez. IV, 2 agosto 2023, n. 7475 - Pres. Mastrandrea, Est. Loria - Sulla nozione di bosco ai fini della tutela paesaggistica.
Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza amministrativa, la nozione di “bosco”, richiamata ai fini della tutela paesaggistica, è innanzitutto nozione normativa perché fa espresso riferimento alla definizione oggi dettata dagli articoli 3 e 4 del d.lg. n. 34 del 2018, postulanti la presenza di un terreno di una certa estensione, coperto con una certa densità da vegetazione forestale arborea e - tendenzialmente almeno - da arbusti sottobosco ed erbe. In particolare, è stato affermato che un bosco rappresenta un sistema vivente complesso insediato in modo tale da essere in grado di autorigenerarsi, così dissipando del tutto l’idea che per bosco debba intendersi l’insieme monocultura di alberi destinati, ad esempio, alla produzione di legname. Anche la giurisprudenza della Corte costituzionale (sentenza n. 201 del 2018) rammenta che l’art. 149 del d.lg. n. 42 del 2004 ha escluso dall’ambito di applicazione dell’autorizzazione paesaggistica proprio le attività, quali il taglio colturale, che rappresentano attività di gestione e di manutenzione ordinaria delle aree boscate. Ciò a riprova del fatto che la nozione di bosco non è in alcun modo riducibile a quella di un insieme di alberi.
Accanto alla nozione normativa di bosco la giurisprudenza fa riferimento ad una nozione sostanziale perché la finalità di tutela del paesaggio, sottesa alla nozione di bosco, implica il rispetto della ragionevolezza e della proporzionalità in relazione a tale finalità, con la conseguenza che foreste e boschi sono presunti di notevole interesse e meritevoli di salvaguardia perché elementi originariamente caratteristici del paesaggio, cioè del “territorio espressivo di identità”; ciò equivale a dire che la nozione normativa di bosco, per la giurisprudenza, deve essere affiancata da una nozione sostanziale perché essa è finalizzata all’apposizione del vincolo di tutela paesaggistica.
Il vincolo paesaggistico ex lege per le aree boscate presuppone, dunque, a monte la sussistenza in natura del bosco, così come definito dal legislatore, e a valle, in ragione della natura del vincolo, il provvedimento certativo adottato dall’autorità amministrativa competente che ne attesti con efficacia ex tunc l’effettiva esistenza. Ai fini della valutazione dei presupposti richiesti dalla legge per qualificare un’area come bosco occorre esaminare l’intera superficie sottoposta a vincolo boschivo e non singole particelle.
Cons. Stato, sez. VII, 5 luglio 2023, n. 6578 - Pres. Lipari, Est. Castorina - In tema di tutela del paesaggio: sulla prevalenza della posizione espressa dall’organo istituzionalmente competente in caso di “opinioni divergenti tutte parimenti plausibili”.
Il parere di compatibilità paesaggistica costituisce un atto endoprocedimentale emanato nell’ambito della sequenza di atti ed attività preordinate al rilascio del provvedimento di autorizzazione paesaggistica (o del suo diniego). Le valutazioni espresse sono finalizzate, dunque, all’apprezzamento dei profili di tutela paesaggistica che si consolideranno, all’esito del procedimento, nel provvedimento di autorizzazione o di diniego di autorizzazione paesaggistica.
Qualora nella particolare materia della tutela del paesaggio, si fronteggino “opinioni divergenti, tutte parimenti plausibili, il giudice deve dare prevalenza alla posizione espressa dall’organo istituzionalmente investito (dalle fonti del diritto e, quindi, nelle forme democratiche) della competenza ad adottare decisioni collettive, rispetto alla prospettazione individuale dell’interessato. In quest’ultimo caso, non si tratta di garantire all’amministrazione un privilegio di insindacabilità (che sarebbe contrastante con il principio del giusto processo), ma di dare seguito, sul piano del processo, alla scelta legislativa di non disciplinare il conflitto di interessi ma di apprestare solo i modi ed i procedimenti per la sua risoluzione.
Invero, a differenza delle scelte politico-amministrative (c.d. “discrezionalità amministrativa”), nel caso di valutazioni dei fatti complessi richiedenti particolari competenze (c.d. “discrezionalità tecnica”), difettando parametri normativi a priori che possano fungere da premessa del ragionamento sillogistico, il giudice non ‘deduce’ ma ‘valuta’ se la decisione pubblica rientri o meno nella (ristretta) gamma delle risposte maggiormente plausibili e convincenti alla luce delle scienze rilevanti e di tutti gli altri elementi del caso concreto. Pertanto, ove l’interessato non ottemperi all’onere di mettere in discussione l’attendibilità tecnico-scientifica della valutazione amministrativa e si fronteggino opinioni divergenti parimenti plausibili, il giudice deve far prevalere la posizione espressa dall’organo istituzionalmente competente ad adottare la decisione.
Il nuovo testo dell’art. 9 della Costituzione, come novellato dalla legge costituzionale 11 febbraio 2022, n. 1, depone nel senso della maggiore, e non minore, tutela dei valori ambientali e paesaggistici nell’ottica della salvaguardia delle generazioni future e dello sviluppo sostenibile, sicché l’interpretazione delle disposizioni che disciplinano i procedimenti in materia di ambiente e paesaggio dovrebbe essere orientata nel senso di conseguire tale obbiettivo di fondo e quindi accrescere e non diminuire il livello di protezione effettiva di tali valori.
Cons. Stato, sez. IV, 8 maggio 2023, n. 4598 - Pres. Poli, Est. Conforti - La tutela del cordone dunale: implicazioni di discrezionalità tecnica e di tutela del bene paesaggio.
La tutela del cordone dunale, non esaurendosi nell’individuazione dell’elemento naturalistico “duna”, implica la salvaguardia degli equilibri naturalistici che ne consentono la formazione, il ripascimento e i meccanismi di progressivo modellamento.
Nella particolare materia della tutela del paesaggio, laddove si fronteggino opinioni divergenti, tutte parimenti plausibili, il giudice deve dare prevalenza alla posizione espressa dall’organo istituzionalmente investito della competenza ad adottare decisioni collettive, rispetto alla prospettazione individuale dell’interessato. Non si tratta di garantire all’amministrazione un privilegio di insindacabilità, in quanto tale, contrastante con il principio del giusto processo, ma di dare seguito, sul piano processuale, alla scelta legislativa di non disciplinare il conflitto di interessi ma di apprestare solo i modi ed i procedimenti per la sua risoluzione. Nel caso di valutazioni dei fatti complessi richiedenti particolari competenze di discrezionalità tecnica, il giudice non deduce, ma valuta se la decisione pubblica rientri o meno nell’alveo delle opzioni maggiormente plausibili e convincenti, alla luce delle scienze rilevanti nonché di tutti gli altri elementi del caso concreto.
Il giudice amministrativo deve e può censurare, ove sollecitato dalla doglianza di parte, la valutazione dell’amministrazione che si ponga al di fuori dell’ambito di esattezza o attendibilità della scienza applicata o adoperata per compiere la sua decisione, quando non appaiano rispettati parametri tecnici di univoca lettura ovvero di dottrina dominante in materia. Risulta, per converso, inammissibile qualsivoglia sindacato che sostituisca l’opinabile valutazione di parte, del consulente tecnico chiamato a rivalutare la questione tecnica controversa o del medesimo Collegio decidente alla valutazione espressa dall’amministrazione, salvo che quest’ultima non sia inficiata dai vizi suindicati o non si palesi manifestamente illogica, irrazionale, arbitraria ovvero fondata su un palese e manifesto travisamento dei fatti o sia inficiata da macroscopiche contraddittorietà o incongruenze.
La Corte costituzionale ha affermato che nella disciplina, composita, delle trasformazioni del territorio, la tutela del paesaggio assurge a valore prevalente (Corte cost., sentenza n. 11 del 2016; in senso analogo, successivamente, le sentenze n. 45 e n. 24 del 2022; n. 124 e n. 74 del 2021) e che questa tutela costituisce l’oggetto di una materia attribuita alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, sicché risulta conforme alla Costituzione l’art. 145, comma 3, del d.lg. n. 42 del 2004, che prevede la prevalenza delle disposizioni dei piani paesaggistici sulle disposizioni contenute in piani urbanistici (Corte cost., sentenze n. 192 del 2022 e n. 261 del 2021; inoltre, sentenze n. 45 del 2022 e n. 141 del 2021).
La tutela ambientale e paesaggistica, gravando su un bene complesso ed unitario avente valore primario ed assoluto, precede e comunque costituisce un limite alla salvaguardia degli altri interessi pubblici: il Codice dei beni culturali e del paesaggio definisce i rapporti tra il piano paesaggistico egli altri strumenti urbanistici (nonché i piani, programmi e progetti regionali di sviluppo economico) secondo un modello rigidamente gerarchico, che permette l’immediata operatività dei vincoli di inedificabilità assoluta previsti dal piano paesaggistico indipendentemente dal loro recepimento nella pianificazione urbanistica comunale.
Assume, pertanto, in ogni caso rilievo preponderante la tutela del paesaggio costiero rispetto alle esigenze correlate al suo sfruttamento turistico e produttivo: l’inserimento di strutture funzionali alla balneazione, infatti, costituisce una modalità di utilizzo del bene paesaggistico che non può, tuttavia, tradursi nella deprivazione del valore naturalistico e culturale che deve essere preservato in modo prioritario.
Cons. Stato, sez. IV, 18 aprile 2023, n. 3892 - Pres. Poli, Est. Fratamico - In tema di autorizzazione paesaggistica.
In materia di autorizzazione paesaggistica, il giudizio affidato all’amministrazione preposta è connotato da un’ampia discrezionalità tecnico-valutativa, poiché implica l’applicazione di cognizioni tecniche specialistiche proprie di settori scientifici disciplinari della storia, delle scienze ambientali, dell’arte e dell’architettura, caratterizzati da ampi margini di opinabilità. L’apprezzamento così compiuto è sindacabile, in sede giudiziale, esclusivamente sotto i profili della logicità, coerenza e completezza della valutazione, considerati anche per l’aspetto concernente la correttezza del criterio tecnico e del procedimento applicativo prescelto, ma fermo restando il limite della relatività delle valutazioni scientifiche.
In sede di giurisdizione di legittimità, può essere censurata, pertanto, la sola valutazione che si ponga al di fuori dell’ambito di opinabilità, affinché il sindacato giudiziale non divenga sostitutivo di quello dell’amministrazione attraverso la sovrapposizione di una valutazione alternativa, parimenti opinabile.
Negli ordinamenti democratici e pluralisti si richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi. Così come per i “diritti” (cfr. Corte cost., sentenza n. 85 del 2013), anche per gli “interessi” di rango costituzionale (vieppiù quando assegnati alla cura di corpi amministrativi diversi) va ribadito che a nessuno di essi la Carta garantisce una prevalenza assoluta sugli altri. La loro tutela deve essere “sistemica” e perseguita in un rapporto di integrazione reciproca, alla costante ricerca di un punto di equilibrio, necessariamente mobile e dinamico, che deve essere individuato - dal legislatore nella statuizione delle norme, dall’amministrazione in sede procedimentale, e dal giudice in sede di controllo - secondo principi di proporzionalità e di ragionevolezza.
Se il principio di proporzionalità rappresenta il criterio alla stregua del quale mediare e comporre il potenziale conflitto tra i diversi valori costituzionali all’interno di un quadro argomentativo razionale, il principio di integrazione costituisce la direttiva di metodo. La piena integrazione tra le varie discipline incidenti sull’uso del territorio richiede di abbandonare il modello delle “tutele parallele” degli interessi differenziati che radicalizzano il conflitto tra i diversi soggetti chiamati ad intervenire nei processi decisionali.
A differenza delle scelte politico-amministrative (c.d. “discrezionalità amministrativa”) - dove il sindacato giurisdizionale è incentrato sulla “ragionevole” ponderazione degli interessi, pubblici e privati, non previamente selezionati e graduati dalle norme - le valutazioni dei fatti complessi richiedenti particolari competenze (c.d. “discrezionalità tecnica”) vanno vagliate al lume del diverso e più severo parametro della estrinseca “attendibilità” tecnico-scientifica. È ben possibile per l’interessato - oltre a far valere il rispetto delle garanzie formali e procedimentali strumentali alla tutela della propria posizione giuridica contestare, secondo i consueti indici di eccesso di potere, l’apprezzamento complesso, ma in tal caso egli ha l’onere di metterne seriamente in discussione l’attendibilità tecnico-scientifica. Se questo onere non viene assolto in modo rigoroso e si fronteggiano soltanto opinioni divergenti, tutte parimenti plausibili il giudice deve dare prevalenza alla posizione espressa dall’organo istituzionalmente investito (dalle fonti del diritto e, quindi, nelle forme democratiche) della competenza ad adottare decisione collettive, rispetto alla prospettazione individuale dell’interessato.
Si tratta di garantire all’amministrazione la riserva di funzione pubblica corollario del principio supremo di separazione dei poteri, dando un seguito, sul piano del processo - a mente dell’art. 134 c.p.a. che ha reso tassativi i casi di giurisdizione di merito - alla scelta legislativa di non disciplinare il conflitto di interessi ma di apprestare solo i modi e i procedimenti per la sua risoluzione.
L’avvenuta edificazione di un’area immobiliare o le sue condizioni di degrado non costituiscono ragione sufficiente per recedere dall’intento di proteggere i valori estetici o culturali ad essa legati, poiché l’imposizione del vincolo costituisce il presupposto per l’imposizione al proprietario delle cautele e delle opere necessarie alla conservazione del bene e per la cessazione degli usi incompatibili con la conservazione dell’integrità dello stesso; (dall’altro), ai fini della imposizione del vincolo paesaggistico (e della sua tutela) l’ambiente rileva non solo come paesaggio, ma soprattutto come assetto del territorio, comprensivo financo degli aspetti scientifico - naturalistici (come quelli relativi alla protezione di una particolare flora e fauna), pur non afferenti specificamente ai profili estetici della zona. A ciò deve aggiungersi, poi, la constatazione della importanza ancora maggiore di salvaguardare un’area verde, quando questa appaia già in parte compromessa e, comunque, gravemente minacciata dalla crescente urbanizzazione e dall’incremento di “consumo” del suolo.
L’opzione zero è consentita, sia pure in via residuale, quando l’unico intervento costruttivo astrattamente ipotizzabile comprometta irrimediabilmente in concreto il bene protetto e, dunque, la parte privata sia tenuta, in realtà, in mancanza di alternative meno impattanti, ad astenersi dall’apportare qualsiasi modificazione all’area vincolata.
Cons. Stato, sez. IV, 11 aprile 2023, n. 3652 - Pres. Poli, Est. Fratamico - Sulla discrezionalità nell’attività di tutela del patrimonio paesaggistico.
L’amministrazione gode di ampia discrezionalità nello svolgimento dell’attività di tutela del patrimonio paesaggistico ed i suoi provvedimenti in materia possono essere sì sindacati sotto il profilo della legittimità procedimentale anche in relazione alla censura di eccesso di potere, ma non nel merito della scelta effettuata. In particolare, poi, in tema di vincoli paesaggistici, la valutazione dell’autorità preposta alla tutela degli stessi si caratterizza per l’ampia discrezionalità sia tecnica che amministrativa, che sfugge al sindacato di legittimità, nel momento in cui non sia caratterizzata da indici sintomatici di non corretto esercizio del potere.
Cons. Stato, sez. IV, 24 marzo 2023, n. 3006 - Pres. Poli, Est. Fratamico - “Stato legittimo dell’immobile” ed ambito di competenza valutativa in sede di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica.
In sede di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica si deve tener conto dei soli profili paesaggistici ed ambientali non potendo (più) verificarsi in quella sede anche il cd. “stato legittimo” dell’immobile. In tale sede occorre valutare l’incidenza dell’intervento progettato dal richiedente sul paesaggio in senso lato, e non gli aspetti attinenti alla regolarità urbanistica ed edilizia dell’opera, stante l’autonomia strutturale e funzionale del titolo paesaggistico rispetto a quelli implicanti l’accertamento della legittimità urbanistico-edilizia del medesimo progetto. La medesima autonomia dei profili paesaggistici dagli aspetti urbanistico-edilizi si riscontra nel “diritto vivente” della giurisprudenza costituzionale e penale (della Cassazione), secondo il quale i reati in materia edilizia e paesaggistica si riferiscono alla tutela di interessi pubblici e beni giuridici distinti, con tutte le conseguenze in tema di concorso dei reati, cause di estinzione dei reati, e via discorrendo (cfr. Corte cost. n. 439 del 2007, n. 378 del 2007, n. 144 del 2007; Cass. pen., sez. III, 22 marzo 2013, n. 13783; Sezioni Unite, 28 novembre 2001, S., sez. V, 7 settembre 1999, S.; sez. III, 4 aprile 1995, M.).
Una interpretazione contraria, che ammetta una commistione tra i diversi profili e una “confusione” dei poteri, si pone in contrasto con il principio di legalità che innerva l’azione amministrativa, perché amplia praeter legem (o contra legem) quello che è l’ambito di competenza dell’amministrazione procedente, in quanto la obbligherebbe a considerare e a pronunciarsi su profili non rimessi, dal legislatore, alla sua cura e al suo apprezzamento, frustrando anche ulteriori principi dell’attività amministrativa, quali quelli di non aggravamento del procedimento e di certezza dell’azione amministrativa.
Cons. Stato, sez. VII, 24 marzo 2023, n. 3008 - Pres. Lipari, Est. Fratamico - In tema di discrezionalità tecnica della Soprintendenza nel procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica.
Nel procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica la discrezionalità tecnica esercitata dalla Soprintendenza è una manifestazione di giudizio consistente in una attività diretta alla valutazione e all’accertamento di fatti e che, nell’effettuare le valutazioni di propria competenza, in linea di massima, l’amministrazione applica concetti non esatti, ma opinabili, con la conseguenza che può ritenersi illegittima solo la valutazione la quale, con riguardo alla concreta situazione, possa ritenersi manifestamente illogica, vale a dire che non sia nemmeno plausibile, e non già una valutazione che, pur opinabile nel merito, sia da considerare comunque ragionevole, ovvero la valutazione che sia basata su un travisamento dei fatti o che sia carente di motivazione.
La consolidata giurisprudenza amministrativa sui limiti al sindacato dei provvedimenti esercizio di discrezionalità tecnica evidenzia come la Soprintendenza disponga di un’ampia discrezionalità tecnico - specialistica nel dare i pareri di compatibilità e come il potere di valutazione tecnica esercitato sia sindacabile in sede giurisdizionale soltanto per difetto di motivazione, illogicità manifesta ovvero errore di fatto conclamato.
Cons. Stato, sez. IV, 21 marzo 2023, n. 2836 - Pres. Poli, Est. Verrico - Questioni problematiche sul parere di compatibilità paesaggistica.
Il parere di compatibilità paesaggistica costituisce un atto endoprocedimentale emanato nell’ambito di quella sequenza di atti ed attività preordinata al rilascio del provvedimento di autorizzazione paesaggistica (o del suo diniego). Le valutazioni espresse sono finalizzate, dunque, all’apprezzamento dei profili di tutela paesaggistica che si consolideranno, all’esito del procedimento, nel provvedimento di autorizzazione o di diniego di autorizzazione paesaggistica.
In materia di tutela paesaggistica, nonostante il decorso del termine per l’espressione del parere vincolante ai sensi dell’art. 146 d.lg. n. 42 del 2004 da parte della Soprintendenza, non può escludersi in radice la possibilità per l’organo statale di rendere comunque un parere in ordine alla compatibilità paesaggistica dell’intervento, fermo restando che, nei casi in cui vi sia stato il superamento del termine, il parere perde il suo carattere di vincolatività e deve essere autonomamente e motivatamente valutato dall’amministrazione deputata all’adozione dell’atto autorizzatorio finale.
Nel procedimento in cui la Soprintendenza reca le proprie valutazioni di compatibilità paesaggistica, la stessa può formulare le valutazioni di merito, di cui deve tenere conto l’autorità competente ad emanare il provvedimento finale.
L’opzione zero può e deve essere consentita. Secondo il più recente orientamento giurisprudenziale, laddove, nella particolare materia della tutela del paesaggio, si fronteggino opinioni divergenti, tutte parimenti plausibili, il giudice deve dare prevalenza alla posizione espressa dall’organo istituzionalmente investito (dalle fonti del diritto e, quindi, nelle forme democratiche) della competenza ad adottare decisioni collettive, rispetto alla prospettazione individuale dell’interessato. In quest’ultimo caso, non si tratta di garantire all’amministrazione un privilegio di insindacabilità (che sarebbe contrastante con il principio del giusto processo), ma di dare seguito, sul piano del processo, alla scelta legislativa di non disciplinare il conflitto di interessi ma di apprestare solo i modi e i procedimenti per la sua risoluzione
A differenza delle scelte politico-amministrative (c.d. “discrezionalità amministrativa”), nel caso di valutazioni dei fatti complessi richiedenti particolari competenze (c.d. “discrezionalità tecnica”), difettando parametri normativi a priori che possano fungere da premessa del ragionamento sillogistico, il giudice non “deduce” ma “valuta” se la decisione pubblica rientri o meno nella (ristretta) gamma delle risposte maggiormente plausibili e convincenti alla luce delle scienze rilevanti e di tutti gli altri elementi del caso concreto. Pertanto, ove l’interessato non ottemperi all’onere di mettere in discussione l’attendibilità tecnico-scientifica della valutazione amministrativa e si fronteggino opinioni divergenti parimenti plausibili, il giudice deve far prevalere la posizione espressa dall’organo istituzionalmente competente ad adottare la decisione.
La necessità del bilanciamento diviene maggiore quando confligge l’interesse alla tutela dell’ambiente con quello alla tutela del paesaggio. Stante l’assenza, in generale, di una primazia o prevalenza assoluta di un principio e diritto fondamentale rispetto agli altri, tale assunto valendo anche per i ‘diritti’ (cfr. Corte cost., sentenza n. 85 del 2013) e per gli ‘interessi’ di rango costituzionale (vieppiù quando assegnati alla cura di corpi amministrativi diversi), si impone per essi una tutela di carattere “sistemico”, da perseguire in un rapporto di integrazione reciproca.
A tali fini non assume specifica rilevanza l’individuazione della natura monostrutturata o polistrutturata della decisione, ai fini dell’applicabilità del meccanismo del silenzio assenso, di cui all’art. 17-bis della legge n. 241 del 1990, all’autorizzazione paesaggistica disciplinata dall’art. 146 del d.lg. n. 42 del 2004, da intendersi nel senso che, nel primo caso, le due amministrazioni (quella titolare del procedimento e quella interpellata) devono condividere la funzione decisoria ed essere titolari di un potere decisorio sostanziale, mentre, nel secondo caso, una delle due amministrazioni riveste un ruolo meramente formale, nel senso che raccoglie e trasmette l’istanza all’altra amministrazione, unica decidente.
Il nuovo testo dell’art. 9 della Costituzione, come novellato dalla legge costituzionale 11 febbraio 2022, n. 1, depone nel senso della maggiore, e non minore, tutela dei valori ambientali e paesaggistici nell’ottica della salvaguardia delle generazioni future e dello sviluppo sostenibile. Ne discende che l’esegesi delle disposizioni che disciplinano i procedimenti in materia di ambiente e paesaggio dovrebbe essere orientata nel senso di conseguire tale obiettivo di fondo e quindi accrescere e non diminuire il livello di protezione effettiva di tali valori.
Cons. Stato, sez. VI, 10 marzo 2023, n. 2559 - Pres. Montedoro, Est. Cordì - Sulla compatibilità delle strutture funzionali alla balneazione con le esigenze di tutela del paesaggio.
I territori costieri compresi in una fascia della profondità di trecento metri dalla linea di battigia sono considerati aree tutelate per legge ex art. 142, comma 1, lett. a), del d.lg. n. 42 del 2004, rientrando, quindi, nella categoria dei beni paesaggistici di cui all’art. 136 del medesimo articolato normativo. La scelta legislativa assegna, quindi, protezione giuridica ai territori costieri, preservandoli da possibili lesioni esteriori che possano intaccare non solo la dimensione naturalistica ma, altresì, collettiva e identitaria che caratterizza le coste. Deve, infatti, considerarsi come il percorso normativo in tema di tutela dei beni paesaggistici muova da una concezione relazionale delle ragioni del valore culturale cui la tutela è funzionale. Il paesaggio non è, infatti, considerato nella sua dimensione strettamente territoriale e indifferenziata, ma, dando continuità alla matrice dell’accezione storicistica di paesaggio (manifesta nei lavori preparatori della legge n. 1497 del 1939 e nella legge n. 733 del 1922), nell’essere “rappresentazione materiale e visibile dell’identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali” (art. 131, comma 2, del d.lg. n. 42 del 2004). Il paesaggio ha, quindi, un immanente valore culturale che emerge, del resto, dalla stessa disposizione di cui all’art. 9, comma 2, della Costituzione, ove l’espressione “della Nazione”, figura come specificazione speculare, connotativa sia in relazione al patrimonio storico e artistico che al paesaggio.
In queste coordinate generali si ascrivono, pertanto, anche le coste alle quali la previsione di cui all’art. 142, comma 1, lett. a), del d.lg. n. 42 del 2004 assegna quel valore culturale immanente alla nozione giuridica di paesaggio e che costituisce, al contempo, la ragione fondante e il parametro della tutela. Il valore culturale del paesaggio costiero si afferma non soltanto in ragione del dato di natura (che in sé risulterebbe tutelabile mediante strumenti diversi, calibrati sugli aspetti ambientali e naturali), ma in considerazione della valenza identitaria che le coste assumono, quali parti della “forma” del Paese e testimonianze materiali della storia millenaria di una penisola che ha avuto nelle proprie coste il crocevia delle partenze, dei ritorni e degli approdi degli uomini e delle civiltà che hanno concorso a determinare l’identità della Nazione italiana.
I beni paesaggistici costieri (come gli altri beni paesaggistici), pur nell’unitaria valenza culturale e identitaria che l’ordinamento riconosce loro, possono esprimere peculiari valori in ragione, ad esempio, delle particolari qualità naturalistiche del luogo, del costituire lo stesso oggetto di rappresentazione pittorica o letteraria, o teatro di vicende storiche o di un determinato ambiente socio-economico e del suo evolversi nel tempo. In simili situazioni, l’esigenza di giuridificazione del valore da preservare risulta, chiaramente, più accentuata e, conseguentemente, le concrete misure di tutela risultano particolarmente stringenti. In altri casi, al contrario, le caratteristiche del concreto paesaggio costiero potrebbero risultare tali da richiedere una tutela meno intensa. Ed è in relazione a tali situazioni che può ipotizzarsi l’applicazione della regola in esame, operante, in ogni caso, solo a seguito di una valutazione concreta da parte dell’Autorità competente in materia che apprezzi la compatibilità di un simile utilizzo della costa per periodi ulteriori rispetto alla stagione balneare ove il valore paesaggistico possa non risultare, in tal modo, alterato.
L’inserimento di strutture funzionali alla balneazione costituisce una modalità di utilizzo del bene paesaggistico che non può, tuttavia, tradursi nella deprivazione del valore naturalistico e culturale che deve essere preservato in modo prioritario. La conservazione della dimensione naturale e identitaria della costa costituisce, quindi, l’esigenza primaria con la quale devono coniugarsi le possibilità di sfruttamento per ragioni turistiche e ricreative, che sono, tuttavia, da considerarsi secondarie nel quadro assiologico che discende dalla Costituzione.
La realizzazione di strutture funzionali alla balneazione costituisce un’eccezione rispetto alla primaria necessità di conservazione del sostrato materiale che si offre alla percezione umana, e che, ordinariamente, può ammettersi solo laddove temporalmente limitata alla specifica stagione della balneazione. In sostanza, l’ordinamento ammette la realizzazione di tali strutture (che realizzano, comunque, l’interesse sociale ed economico ad una certa modalità di fruizione della spiaggia) ma l’interpretazione delle regole che abilitano simile possibilità non può non tener conto di come la stessa riguardi un bene paesaggistico che, pertanto, deve essere “restituito” nella sua dimensione naturale ed identitaria una volta che la stagione balneare sia terminata. Pertanto, qualora una disposizione legislativa regionale consenta il mantenimento, per l’intero anno solare, delle strutture funzionali all’attività balneare, purché di facile amovibilità, tale norma non va intesa nel senso che impone, quale regola ordinaria, il mantenimento delle strutture per l’intero anno solare, bensì come eccezione limitata ai casi in cui tale possibilità non incida sulle predette esigenze di tutela paesaggistica e, in particolare, del paesaggio costiero.
Cons. Stato, sez. VII, 11 gennaio 2023, n. 372 - Pres. Lipari, Est. Contessa - In tema di autorizzazione paesaggistica.
Una situazione paesaggisticamente compromessa ad opera di preesistenti realizzazioni, lungi dal consentire nuove deturpazioni, richiede maggiormente per la legittimità dell’azione amministrativa che nuove costruzioni non deturpino esteriormente l’ambito protetto.
In materia di beni ambientali, il potere di annullamento del nulla-osta paesaggistico da parte della Soprintendenza statale - disciplinato, dapprima, dall’art. 1 della legge n. 431 del 1985, dall’art. 151 del d.lg. n. 490 del 1999 e, infine, limitatamente al periodo transitorio, dall’art. 159 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, approvato con il d.lg. n. 42 del 2004 - non comporta un riesame complessivo delle valutazioni discrezionali compiute dalla Regione o da un Ente sub-delegato, tale da consentire la sovrapposizione o sostituzione di una propria valutazione di merito a quella compiuta in sede di rilascio dell’autorizzazione, estrinsecandosi in una verifica di legittimità, che, tuttavia, si estende a tutte le figure sintomatiche del vizio di eccesso di potere.
Il termine fissato alla Soprintendenza competente per l’eventuale annullamento della autorizzazione paesaggistica rilasciata dalla Regione (ovvero dall’ente subdelegato) ai sensi dell’articolo 151 del d.lg. n. 490 del 1999 (nonché, in seguito, ai sensi del regìme transitorio di cui all’articolo 159 del d.lg. n. 42 del 2004), per quanto di natura perentoria, è previsto dalla legge soltanto ai fini dell’adozione dell’eventuale provvedimento di annullamento e non anche per la sua comunicazione ai soggetti interessati. In altri termini, perché possa dirsi rispettato il suddetto termine è sufficiente che l’atto sia adottato nel termine per provvedere, non dovendosi ricomprendere nel computo del termine stesso l’attività successiva di partecipazione di conoscenza dell’atto ai suoi destinatari. Ciò in considerazione della natura non recettizia di questo tutorio annullamento, che è espressione di cogestione attiva del vincolo paesaggistico e della conseguente ininfluenza, ai fini della sua validità, della comunicazione ai diretti interessati nell’arco temporale fissato dalla legge per l’adozione del provvedimento.
Cons. Stato, sez. IV, 3 gennaio 2023, n. 100 - Pres. Poli, Est. Rotondo - Sulla possibilità del Comune di introdurre in sede di pianificazione urbanistica vincoli ambientali o paesaggistici anche in zona agricola.
La destinazione a zona agricola di una porzione di territorio, in sede di pianificazione del territorio, assolve oltre che a esigenze prettamente agrarie ed urbanistiche, anche a quelle di tutela dell’ambiente, anche in via cumulativa, a seconda del profilo considerato, con la duplice conseguenza che la tutela paesaggistica è perfettamente compatibile con quella urbanistica o ecologica, trattandosi di forme complementari di protezione, preordinate a curare, con diversi strumenti, distinti interessi pubblici. Il Comune conserva, pertanto, la titolarità, nella sua attività pianificatoria generale, la competenza a introdurre vincoli o prescrizioni preordinati al soddisfacimento di interessi paesaggistici. L’art. 1 della legge n. 1187 del 1968 ha esteso, infatti, il contenuto del piano regolatore generale anche all’indicazione dei “vincoli da osservare nelle zone a carattere storico, ambientale e paesistico”, legittimando l’autorità comunale titolare del potere di pianificazione urbanistica a valutare autonomamente tali interessi e, nel rispetto dei vincoli già esistenti posti dalle amministrazioni competenti, ad imporre nuove e ulteriori limitazioni. Ne consegue che, la sussistenza di competenze statali e regionali in materia di tutela di determinati ambiti territoriali storicamente qualificati e di pregio naturale non esclude che la tutela di questi stessi beni sia perseguita in sede di adozione e approvazione di un piano regolatore generale.
Il piano regolatore generale, nell’indicare i limiti da osservare per l’edificazione nelle zone a carattere storico, ambientale e paesistico, può disporre, infatti, che determinate aree siano sottoposte a vincoli conservativi, indipendentemente da quelli disposti da altri livelli di pianificazione nel perseguimento della salvaguardia delle cose di interesse ambientale. La distinzione tra le forme di tutela previste dalla legislazione di settore e le scelte pianificatorie volte alla valorizzazione di ambiti territoriali di interesse ambientale non risiede, invero, nel dato quantitativo relativo all’ambito, puntuale o meno, degli oggetti interessati dalle determinazioni limitative, quanto, piuttosto, nel dato teleologico relativo alla diversa finalità che permea le rispettive statuizioni amministrative; il piano regolatore generale può, pertanto, recare previsioni vincolistiche incidenti su singoli ambiti (o edifici), configurati in sé quali “zone”, quante volte la scelta, pur se puntuale sotto il profilo della portata, sia rivolta non alla tutela autonoma delle realità “ex se” considerate bensì al soddisfacimento di esigenze urbanistiche evidenziate dal carattere qualificante che la singola area o zona assume nel contesto dell’assetto territoriale. In tale caso, infatti, non si realizza alcuna duplicazione rispetto alla sfera di azione della pianificazione superiore o della legislazione di settore, in quanto il pregio del bene, pur se non sufficiente al fine di giustificare l’adozione di un provvedimento impositivo di vincolo paesaggistico in base alla considerazione atomistica delle caratteristiche del bene, viene valutato come elemento di particolare valore urbanistico e può quindi, costituire oggetto di salvaguardia in sede di scelta pianificatoria.
I piani regolatori generali, nell’indicare i limiti da osservare per l’edificazione nelle zone a carattere storico, ambientale e paesistico, possono disporre che determinate aree siano sottoposte a vincoli conservativi, indipendentemente da quelli disposti da altri livelli di pianificazione nel perseguimento della salvaguardia delle cose di interesse ambientale.
Il rapporto fra piano regolatore generale o sue varianti da un lato, e vincoli e destinazioni di zone a vocazione storica, ambientale e paesistica, dall’altro, fa sì che i beni costituenti bellezze particolari o naturali, ovvero si connotino come nella specie per la presenza di peculiarità e singolarità colturali, possono formare oggetto di distinte forme di tutela ambientale, anche in via cumulativa, a seconda del profilo considerato, con la duplice conseguenza che la tutela paesaggistica è perfettamente compatibile con quella urbanistica. Più in particolare, in sede di adozione del piano regolatore generale, il Comune può legittimamente introdurre vincoli o limitazioni di carattere ambientale.
Il pianificatore locale ha competenza a dettare una disciplina dell’uso dei suoli e dei parametri edificatori su determinate, qualificate aree agricole presenti sul proprio territorio, allorquando esigenze e finalità di tutela del paesaggio e dell’ambiente lo richiedano; disciplina che può limitare sia la nuova che la esistente attività edificatoria.
Cons. Stato, sez. VII, 29 dicembre 2022, n. 11699 - Pres. Lipari, Est. Sestini - In tema di concessioni delle aree demaniali marittime a fini di sfruttamento commerciale per attività balneari.
Il regime concessorio delle aree demaniali marittime a fini di sfruttamento commerciale per attività balneari costituisce una espressa e tassativa eccezione, del tutto temporanea, al generale principio della libera fruibilità del bene pubblico da parte dell’intera comunità, conseguendone al termine l’obbligo di restituzione in pristino del bene, con esclusione di ogni modifica strutturale permanente o non inerente all’uso pattuito. La concessione neppure può in alcun modo vanificare o comunque alterare il regime di tutela previsto per la medesima area in ragione del suo pregio ambientale e paesaggistico, di modo che è vietata al concessionario, così come a chiunque altro, la realizzazione di manufatti permanenti o non facilmente amovibili o comunque suscettibili di pregiudicare la conservazione del bene, conseguendone la sottoposizione di tali attività ad un peculiare regime amministrativo. Tali considerazioni valgono, evidentemente, anche per le aree di proprietà contigue a quelle demaniali per la duplice ragione della condivisione dei medesimi pregi ambientali e paesaggistici e della strumentalità rispetto al regime concessorio dell’arenile marittimo pubblico.
Le strutture balneari, per essere autorizzate, debbono essere direttamente connesse all’uso a fini balneari dell’area in concessione e debbano evitare ogni alterazione permanente dello stato dei luoghi, includendo tale preclusione tutte le opere ed i manufatti non facilmente rimovibili, ovverosia non rimovibili senza lasciare ferite o alterazioni permanenti, implicanti un ripristino, ovvero una innovazione e non una mera conservazione comunque suscettibili di pregiudicare la conservazione di un bene ambientale, ovvero di un bene pubblico di cui è necessario garantire, anche alla luce della recente riforma costituzionale, la trasmissione alle future generazioni. Il concetto di “temporaneità” dei manufatti è direttamente connesso, da un lato, alla strumentalità rispetto alla temporanea e non irreversibile destinazione commerciale dell’area alle attività balneari (di modo che possa essere rimosso alla cessazione di tali attività) e, dall’altro, a quello di “facile amovibilità” (ovvero di una futura amovibilità senza conseguenze per l’ambiente). In altri termini, il vincolo opera sul preminente “lato pubblico” della preservazione del bene per il futuro e non sul “lato privato” del suo attuale e contingente utilizzo commerciale, e non è pertanto direttamente connesso al carattere stagionale dell’attività balneare, che peraltro risulta sempre più estesa nel corso dell’anno solare, in ragione dell’evoluzione del mercato turistico con lo scaglionamento delle ferie in più periodi e dell’espansione dei servizi ricreativi marinari e di quelli connessi, ma anche a causa dell’inesorabile e progressivo surriscaldamento climatico.
L’obbligo di procedere alla rimozione stagionale dei manufatti inerenti all’esercizio della concessione balneare sussiste in tutti i casi in cui (ma solo nei casi in cui) la loro persistenza nella stagione invernale si possa motivatamente ritenere pregiudizievole per la conservazione e la trasmissione alle future generazioni dei valori ambientali e paesaggistici che caratterizzano l’area costiera interessata. Questa valutazione deve, inoltre, confrontarsi con il reale contesto di riferimento, risultando l’obbligo di rimozione stagionale pienamente giustificato qualora la persistenza invernale del manufatto risulti specificamente dannosa per il paesaggio o per l’ecosistema.
La valutazione da compiere concerne, dunque, il complessivo pregio ambientale e paesaggistico dell’area secondo la definizione dell’ambiente data dalla Corte Costituzionale (fin dalla sentenza n. 641 del 1987) come un “bene immateriale unitario”, intangibile e da dover preservare, e non solo la tutela del paesaggio, che configura invece un singolo e parziale profilo ambientale ed in cui la natura dei luoghi rileva solo in relazione a un percorso culturale di apprezzamento della loro universale bellezza o singolarità, consentendo variazioni del giudizio in relazione al contesto di antropizzazione della costa, contemplando un concetto di universalità che non può essere legato alla fruizione della sola comunità locale presente nel periodo invernale e non ammettendo “deroghe stagionali” della protezione per il periodo estivo (imponendosi casomai una maggiore tutela proprio nel periodo di massimo afflusso dei potenziali fruitori del bene paesaggistico).
L’esercizio di qualunque potestà pubblica, ovvero di un potere autoritativo suscettibile di conformare l’attività privata a un interesse pubblico (così come accade con il nulla-osta rilasciato dalla Soprintendenza per le opere inerenti alle concessioni balneari), comporta che si debba parametrare la ragionevolezza del sacrificio imposto al privato (che in questo caso è costretto a un’onerosa attività di rimozione stagionale dei manufatti) in relazione alla sua utilità per l’interesse pubblico (in questo caso, l’interesse ambientale e paesaggistico all’integrità della costa) istituzionalmente perseguito dalla Soprintendenza. I parametri di ragionevolezza, adeguatezza e proporzionalità sono valutabili dal giudice amministrativo, in quanto non entrano nel merito della discrezionalità tecnica sottesa alle modalità dell’intervento autoritativo e quindi ai contenuti tecnici del parere in esame, e restano invece ancorati al percorso logico compiuto dalla Soprintendenza nella ponderazione fra l’interesse privato e l’esigenza di tutela sopraindicati. Si tratta di una tipica espressione di discrezionalità amministrativa, che il giudice deve valutare nella sua complessiva ragionevolezza rispetto alle disposizioni normative (e non tecniche) applicabili alla fattispecie.
Cons. Stato, sez. IV, 8 novembre 2022, n. 9798 - Pres. de Francisco, Est. De Carlo - Sul parere della Soprintendenza previsto dall’art. 146 del Codice dei beni culturali e del paesaggio.
Il parere della Soprintendenza previsto dall’art. 146 del d.lg. n. 42 del 2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio) deve essere emesso nel termine di quarantacinque giorni; se tale termine non viene osservato il parere successivamente emesso non è illegittimo, ma perde ogni suo carattere vincolante per l’amministrazione che lo ha richiesto. Pertanto, in un caso siffatto, deve essere l’amministrazione a motivare sulla concedibilità o meno dell’autorizzazione paesaggistica e, se potrà anche utilizzare argomenti espressi nel parere tardivo della Soprintendenza, non potrà però acriticamente rifarsi al predetto parere - dovendo invece assumere interamente su di sé l’onere di decidere (e dunque di motivare la propria determinazione) - giacché, diversamente opinando, si finirebbe col negare sostanzialmente qualunque rilievo giuridico al termine che la legge assegna alle Soprintendenze.
Cons. Stato, sez. VI, 25 luglio 2022, n. 6573 - Pres. FF Lamberti, Est. Fasano - In tema di autorizzazione paesaggistica.
In ordine al carattere di norma speciale dell’art. 146 del d.lg. n. 42 del 2004, rispetto alla norma generale di cui all’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, la giurisprudenza amministrativa ha precisato che il parere reso al Comune ai fini paesaggistici dall’amministrazione preposta alla tutela dello specifico interesse non è soggetto all’obbligo di comunicazione preventiva del preavviso di rigetto di cui al citato art. 10-bis, in quanto costituisce esercizio, entro un termine decadenziale, di un potere che intercorre tra autorità pubbliche.
L’unico limite che la Soprintendenza competente incontra in tema di annullamento dell’autorizzazione paesaggistica è costituito dal divieto di effettuare un riesame complessivo delle valutazioni compiute dall’ente competente tale da consentire la sovrapposizione o sostituzione di una nuova valutazione di merito a quella compiuta in sede di rilascio dell’autorizzazione. Tale limite sussiste, però, soltanto se l’ente che rilascia l’autorizzazione di base abbia adempiuto al suo obbligo di motivare in maniera adeguata in ordine alla compatibilità paesaggistica dell’opera. In caso contrario sussiste un vizio di illegittimità per difetto o insufficienza della motivazione e ben possono gli organi ministeriali annullare il provvedimento adottato per vizio di motivazione e indicare, anche per evidenziare l’eccesso di potere nell’atto esaminato, le ragioni di merito che concludono per la non compatibilità delle opere realizzate con i valori tutelati.
Il potere dell’Autorità competente alla tutela del vincolo paesistico ad esprimere il giudizio in ordine alla compatibilità di un intervento rispetto al vincolo medesimo è connotato da un’ampia discrezionalità tecnico-valutativa, poiché implica l’applicazione di cognizioni tecnico - scientifiche specialistiche proprie di settori disciplinari caratterizzati da ampi margini di opinabilità. Di conseguenza, l’apprezzamento compiuto dall’amministrazione preposta alla tutela paesaggistica - da esercitarsi in rapporto al principio fondamentale dell’art. 9 della Costituzione - è sindacabile, in sede giudiziale, esclusivamente sotto i profili della logicità, coerenza e completezza della valutazione, considerati anche per l’aspetto concernente la correttezza del criterio tecnico e del procedimento applicativo prescelto, ma fermo restando il limite della relatività delle valutazioni scientifiche, sicché, in sede di giurisdizione di legittimità, può essere censurata la sola valutazione che si ponga al di fuori dell’ambito di opinabilità, affinché il sindacato giudiziale non divenga sostitutivo di quello dell’amministrazione attraverso la sovrapposizione di una valutazione alternativa, altrimenti opinabile.
Il vincolo paesaggistico mira alla salvaguardia non solo del territorio nel suo aspetto fisico e statico ma del bene ambiente considerato nella sua interezza, con la conseguenza che vanno sempre apprezzati anche gli effetti delle opere non immediatamente percepibili.
In tema di diniego dell’autorizzazione paesaggistica, la motivazione deve ritenersi sufficiente quando evidenzi l’impatto dell’opera sulla bellezza naturale e l’esigenza di tutelarla, dato che l’obiettivo dell’amministrazione, nell’esercizio della funzione di tutela del paesaggio, è quello di difendere, mercè un giudizio di comparazione, il contesto vincolato nel quale si collochi l’opera, tenendo sì presenti le effettive e reali condizioni dell’area d’intervento ma anche se l’eventuale sovraccarico di plurimi interventi in situ non abbia raggiunto un livello di saturazione incompatibile con il vincolo.
Cons. Stato, sez. VI, 4 luglio 2022, n. 5536 - Pres. FF. Tarantino, Est. Caputo - Sulla distinzione tra tutela paesaggistica e tutela archeologica.
La tutela paesaggistica e quella archeologica sono distinte e autonome. La legge Galasso ha posto l’accento sulla nozione di “zona”, assoggettando a vincolo paesaggistico i territori interessati da presenze di rilevanza archeologica, che vengono tutelati non per la loro facies, bensì per l’attitudine alla conservazione del contesto di giacenza del patrimonio archeologico nazionale. Viceversa, il vincolo archeologico di cui agli artt. 1 e 3 della legge n. 1089 del 1939 presuppone un’intrinseca valenza archeologica del bene su cui viene apposto e ha pertanto ad oggetto diretto il bene e non il territorio su cui esso si trova.
La ratio della tutela configurata dalla legge Galasso è il particolare rapporto col paesaggio di valori archeologici presenti in una determinata zona: pertanto, il vincolo può essere imposto solo ove sussista un idoneo atto di ricognizione da parte degli organi competenti. La valutazione (di merito) d’interesse archeologico della zona si sottrae al sindacato di legittimità.
La presenza di reperti archeologici nella zona autorizza, ai sensi degli artt. 138 ss. del Codice dei beni culturali e del paesaggio, la competente commissione provinciale - di cui fa parte il Soprintendente per i beni archeologici competente per territorio - a promuove il procedimento impositivo del vincolo, la cui tutela costituisce primario interesse pubblico, non recessivo rispetto alle esigenze di promozione delle fonti d’energia rinnovabile. L’art. 9 della Costituzione, come novellato dalla legge costituzionale 11 febbraio 2022, n. 1, prevede che la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali. Il vincolo archeologico, posto al vertice nella gerarchia dei valori storico-culturali, fa dunque oramai parte dei principi fondamentali della Costituzione.
Cons. Stato, sez. IV, 4 aprile 2022, n. 2462 - Pres. Poli, Est. Martino - In tema di tutela del paesaggio e strumenti urbanistici.
La tutela ambientale e paesaggistica, gravando su un bene complesso ed unitario avente valore primario ed assoluto, precede e comunque costituisce un limite alla salvaguardia degli altri interessi pubblici; non a caso, il Codice dei beni culturali e del paesaggio definisce i rapporti tra il piano paesaggistico e gli altri strumenti urbanistici (nonché i piani, programmi e progetti regionali di sviluppo economico) secondo un modello rigidamente gerarchico; restando escluso che la salvaguardia dei valori paesaggistici possa cedere a mere esigenze urbanistiche.
La tutela del paesaggio non è riducibile a quella dell’urbanistica, né può essere considerato vizio della funzione preposta alla tutela del paesaggio il mancato accertamento dell’esistenza, nel territorio oggetto dell’intervento paesaggistico, di eventuali prescrizioni urbanistiche che, rispondendo ad esigenze diverse, in ogni caso non si inquadrano in una considerazione globale del territorio sotto il profilo dell’attuazione del primario valore paesaggistico.
L’avvenuta edificazione di un’area immobiliare o le sue condizioni di degrado non costituiscono ragione sufficiente per recedere dall’intento di proteggere i valori estetici o culturali ad essa legati, poiché l’imposizione del vincolo costituisce il presupposto per l’imposizione al proprietario delle cautele e delle opere necessarie alla conservazione del bene e per la cessazione degli usi incompatibili con la conservazione dell’integrità dello stesso.
Ai fini della imposizione del vincolo paesaggistico, l’ambiente rileva non solo come paesaggio ma soprattutto come assetto del territorio, comprensivo financo degli aspetti scientifico - naturalistici (come quelli relativi alla protezione di una particolare flora e fauna), pur non afferenti specificamente ai profili estetici della zona.
In sede di imposizione del vincolo di tutela ambientale non è richiesta una ponderazione degli interessi privati unitamente ed in coerenza con gli interessi pubblici connessi con la tutela paesaggistica, neppure allo scopo di dimostrare che il sacrificio imposto al privato sia stato contenuto nel minimo possibile, sia perché la dichiarazione di particolare interesse sotto il profilo paesistico non è un vincolo di carattere espropriativo, costituendo i beni in questione una categoria originariamente di interesse pubblico, sia perché, comunque, la disciplina costituzionale del paesaggio erige il valore estetico-culturale a valore primario dell’ordinamento.
Cons. Stato, sez. IV, 9 febbraio 2022, n. 935 - Pres. Maruotti, Est. D’Angelo - Sulla nozione di bosco ai fini della tutela paesaggistica.
La nozione di bosco richiamata ai fini della tutela paesaggistica è un elemento normativo, in quanto fa espresso riferimento alla definizione di cui all’art. 2 del d.lg. n. 227 del 2001, richiedente la presenza di un terreno di una certa estensione, coperto con una certa densità da vegetazione forestale arborea, arbusti, sottobosco ed erbe. Il vincolo paesaggistico per le aree boscate presuppone la sussistenza in natura del bosco.
La finalità di tutela del paesaggio, sottesa alla nozione di bosco, implica il rispetto della ragionevolezza e della proporzionalità in relazione a tale finalità, con la conseguenza che foreste e boschi sono presunti di notevole interesse e meritevoli di salvaguardia perché elementi originariamente caratteristici del paesaggio, cioè del “territorio espressivo di identità” ex art. 131 d.lg. n. 42 del 2004.
Elemento qualificante del bosco è la presenza di un sistema vivente complesso ovvero di “un ecosistema in grado di autorigenerarsi”.
Cons. Stato, sez. VI, 7 gennaio 2022, n. 55 - Pres. Volpe, Est. Russo - Sul parere della Soprintendenza con riferimento ad un procedimento di condono edilizio.
Il parere reso dall’Autorità specificamente preposta a tutela del vincolo paesaggistico a difesa del paesaggio ha effetto vincolante e preclusivo del condono edilizio e ben può esser motivato in modo sintetico, col riferimento alla descrizione delle opere e alle circostanze nelle quali le stesse sono collocate. Invero, il parere della Soprintendenza, specie in un procedimento di condono edilizio, ha natura e funzioni identiche all’autorizzazione paesaggistica ex art. 7 della legge n. 1497 del 1939 e art. 146 del d.lg. n. 42 del 2004, per esser entrambi i provvedimenti testé citati il presupposto legittimante la trasformazione urbanistico-edilizia della zona protetta e, in pratica, uno strumento affidato dalla legge statale all’estrema difesa del paesaggio, valore costituzionale primario.
[*] Giancarlo Montedoro, Presidente della VI Sezione del Consiglio di Stato, Piazza Capo di Ferro 13, 00186 Roma, g.montedoro@giustizia-amministrativa.it.
[**] Vania Talienti, dottore di ricerca in Diritto dell'economia presso l’Università degli Studi di Foggia e funzionario della Presidenza del Consiglio dei ministri, Piazza Colonna 370, 00187 Roma, vaniatalienti@gmail.com.