Fondazioni e beni ecclesiastici di interesse culturale
Il riuso dei beni culturali di interesse religioso nella disciplina statale dei beni culturali
di Giuseppe Manfredi [*]
Sommario: 1. L’assenza nell’ordinamento statale di una disciplina del riuso dei beni culturali di interesse religioso e la disciplina generale sul mutamento di destinazione d’uso dei beni culturali. - 2. L’applicazione della disciplina statale sul mutamento di destinazione d’uso dei beni culturali ai beni di interesse religioso. - Nota bibliografica.
The re-use of cultural assets of religious interest in the state regulation of cultural assets
The paper examines the provisions of d.lg. n. 42/2004 and the nature of the public powers relating the reuse of the churches and the other religious buildings.
Keywords: cultural heritage; churches; public powers.
1. L’assenza nell’ordinamento statale di una disciplina del riuso dei beni culturali di interesse religioso e la disciplina generale sul mutamento di destinazione d’uso dei beni culturali
Nell’ordinamento statale italiano non esiste una disciplina generale del riuso dei beni culturali di interesse religioso, e men che meno una qualche disposizione che abbia un contenuto analogo al canone 1222 del Codice di diritto canonico, che come noto prevede che le chiese non adibite al culto devono essere destinate a un “uso profano non indecoroso”.
Come noto il vigente Codice dei beni culturali e del paesaggio ex d.lg. n. 42 del 2004 nel primo comma dell’art. 9 prevede che “per i beni culturali di interesse religioso appartenenti ad enti ed istituzioni della Chiesa cattolica o di altre confessioni religiose” Stato e Regioni provvedono “d’accordo con le rispettive autorità”, ma solo “relativamente alle esigenze di culto”.
Nel secondo comma di questa disposizione si prevede poi che in ordine a questi beni si osservano anche le intese stipulate con la Chiesa cattolica e con le altre confessioni religiose: ma l’intesa “relativa alla tutela dei beni culturali di interesse religioso appartenenti a enti e istituzioni ecclesiastiche” stipulata nel 2005 dal Ministro per i beni e le attività culturali e dal Presidente della Conferenza episcopale italiana non contiene norme che si occupino specificamente del riuso dei beni in parola.
Sicché nell’ordinamento statale generale non vi sono norme di contenuto analogo a quelle che ad esempio vengono dettate nell’intesa tra il Presidente della Regione siciliana e il Presidente della Regione ecclesiastica Sicilia per la tutela, la conservazione e la valorizzazione dei beni di istituzioni ed enti ecclesiastici con interesse culturale del 2010, che nell’art. 9 prevede che “nel caso di cambiamento dell’uso religioso o di culto e conseguente cessione della proprietà a terzi, la Regione siciliana può esercitare il diritto di prelazione e si impegna a osservarne la preclusione agli usi disdicevoli con l’identità nativa dei beni, che saranno indicati dalla medesima Regione ecclesiastica Sicilia”.
L’odierna assenza di una disciplina generale del riuso forse è dovuta al fatto che in passato poteva essere considerato come un evento per così dire fisiologico che gli edifici che originariamente erano adibiti al culto, una volta venuta meno questa destinazione, si vedessero attribuita una destinazione affatto diversa da quella originaria.
Ad esempio, nella città in cui vive chi scrive, nella prima metà del Novecento due delle quattro sale cinematografiche che sino a poco tempo fa insistevano nel centro storico erano state collocate in edifici che in origine ospitavano chiese, presumibilmente perché gli ampi spazi interni di questi edifici si prestavano a essere trasformati agevolmente in sale di proiezione: ma non si conserva memoria del fatto che ciò all’epoca abbia cagionato particolari perplessità.
Ma ovviamente in passato il fenomeno che qui interessa non aveva mai raggiunto le dimensioni odierne [1] che destano preoccupazione per le esigenze di conservazione dei beni in parola, e che in molti casi possono urtare, o anche ferire il sentimento religioso.
Nondimeno l’unica disciplina di fonte statale applicabile al riuso di questi beni resta quella del mutamento di destinazione d’uso dei beni culturali dettata dal Codice dei beni culturali e del paesaggio.
In particolare anche qui trova applicazione innanzitutto l’art. 20 del Codice, che nel primo comma riprende una norma che era già stata prevista nell’art. 11 della legge n. 1089 del 1939, e dunque dispone che i beni culturali, oltre a non poter essere distrutti, deteriorati o danneggiati, non possono neppure essere “adibiti ad usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione”.
Peraltro va segnalato che per consentire alle competenti Soprintendenze di verificare i mutamenti di destinazione d’uso di questi beni, nel quarto comma dell’art. 21 del Codice è stata introdotta dal d.lg. n. 156 del 2006 la disposizione secondo cui “il mutamento di destinazione d’uso dei beni medesimi è comunicato al soprintendente per le finalità di cui all’articolo 20, comma 1”.
E va segnalato che nella prassi quest’ultima disposizione viene intesa nel senso di un implicito riconoscimento del potere delle Soprintendenze di inibire gli usi che vengono ritenuti non compatibili [2].
Inoltre l’art. 170 del Codice sanziona penalmente gli usi non compatibili, disponendo che “è punito con l’arresto da sei mesi ad un anno e con l’ammenda da euro 775 a euro 38.734,50 chiunque destina i beni culturali indicati nell’articolo 10 ad uso incompatibile con il loro carattere storico od artistico o pregiudizievole per la loro conservazione o integrità”.
Ai nostri fini interessa poi ricordare che l’art. 56 prevede che è soggetta alla autorizzazione del Ministero della cultura “l’alienazione dei beni culturali appartenenti a soggetti pubblici diversi da quelli indicati alla lettera a) o a persone giuridiche private senza fine di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti”.
Inoltre l’art. 55 nel secondo comma dispone che la richiesta di autorizzazione ad alienare dev’essere corredata da una serie di indicazioni, tra cui anche l’indicazione della destinazione d’uso in atto, e quella “della destinazione d’uso prevista, anche in funzione degli obiettivi di valorizzazione da conseguire”.
E nel comma 3-bis che “l’autorizzazione non può essere rilasciata qualora la destinazione d’uso proposta sia suscettibile di arrecare pregiudizio alla conservazione e fruizione pubblica del bene o comunque risulti non compatibile con il carattere storico e artistico del bene medesimo. Il Ministero ha facoltà di indicare, nel provvedimento di diniego, destinazioni d’uso ritenute compatibili con il carattere del bene e con le esigenze della sua conservazione [3].
2. L’applicazione della disciplina statale sul mutamento di destinazione d’uso dei beni culturali ai beni di interesse religioso
A fronte del fenomeno che qui interessa di recente nella letteratura giuridica si è sostenuto che riguardo al riuso dei beni culturali di interesse religioso le valutazioni dovrebbero “ponderare i diversi interessi, pubblici e privati, coinvolti dall’esercizio del potere”, e che in questo contesto dovrebbero essere considerati anche “gli interessi dell’autorità ecclesiastica, anche se non proprietaria, e quelli dei fedeli” [4].
In effetti la considerazione e la valutazione di questi interessi pare aver determinato alcuni interventi della Soprintendenze: “questo ad esempio, è accaduto quando, nel 2015, la chiesa dell’Abbazia della Misericordia nel centro storico di Venezia, di proprietà privata, ha ospitato una performance artistica che consisteva nell’adibire temporaneamente l’edificio a moschea. L’amministrazione, in seguito a proteste, ha bloccato e ordinato la rimozione dell’installazione, e la motivazione di tali provvedimenti è consistita principalmente nel fatto che la richiesta di autorizzazione non prevedeva, o almeno non delineava con chiarezza, quello che poi era stato realizzato. Anche il provvedimento ... che ha imposto il ripristino della chiesa di San Paolo Converso a Milano, è stato emanato dopo le proteste nei confronti della performance di un artista che aveva inserito all’interno dell’edificio un campo da tennis ove i visitatori erano invitati a giocare” [5].
Ma anche laddove si condivida la preoccupazione per le ricadute di un riuso dei beni in parola eccessivamente disinvolto, questa prospettazione non pare interamente convincente.
In effetti nella giurisprudenza amministrativa non mancano pronunzie nelle quali si legge che “l’ampia discrezionalità” dell’amministrazione dei beni culturali “deve essere ponderata (anche) alla luce del proporzionale bilanciamento degli interessi coinvolti”: così Cons. Stato, sez. VI, n. 5986/2018. Nondimeno nella giurisprudenza del Consiglio di Stato a oggi pare prevalente l’orientamento che sostiene che “i poteri attribuiti dal Codice all’amministrazione dei beni culturali non sono espressione di discrezionalità amministrativa, ma, piuttosto, consistono in mere valutazioni tecniche sulle misure adeguate ai fini della tutela e della valorizzazione dei beni culturali” - così Cons. Stato, sez. VI, n. 3197/2016.
Ma nello stesso senso si veda anche, più ampiamente, Cons. Stato, sez. VI, n. 3652 del 2015, ove - con riguardo alla materia della tutela del paesaggio, ma svolgendo considerazioni che possono essere trasposte anche riguardo ai beni culturali - si precisano quali sono le ragioni di ordine costituzionale che impongono di escludere la ponderazione di interessi dalle decisioni dell’amministrazione dei beni culturali, rilevando che “le valutazioni di comparazione e ponderazione di interessi, proprie della discrezionalità amministrativa, restano del tutto estranee alla fattispecie di legge e, ove di fatto introdotte, rendono l’atto viziato per eccesso di potere. Come ben evidenziato in dottrina, la discrezionalità tecnica, a differenza di quella amministrativa, si concentra su un unico interesse, nel caso quello paesaggistico, attraverso la verifica in fatto della sua configurazione e trasformazione nel caso concreto.
Diversamente dalla discrezionalità amministrativa, la discrezionalità tecnica non può dar luogo ad alcuna forma di comparazione e valutazione eterogenea. Nell’esercizio della funzione di tutela spettante al Mibac, l’interesse che va preso in considerazione è solo quello circa la tutela paesaggistica, il quale non può essere aprioristicamente sacrificato dal Mibac stesso, nella formulazione del suo parere, in considerazione di altri interessi pubblici la cui cura esula dalle sue attribuzioni ... l’indeclinabilità della funzione pubblica di tutela del paesaggio per la particolare dignità data dall’essere iscritta dall’art. 9 Cost. tra i principi fondamentali della Repubblica, è stata del resto più volte affermata dalla giurisprudenza costituzionale (cfr., ad esempio, Corte cost., 27 giugno 1986, n. 151, 29 dicembre 1982, n. 239; 21 dicembre 1985, n. 359; 5 maggio 1986, n. 182; 10 ottobre 1998, n. 302; 19 ottobre 1992, n. 393; 12 febbraio 1996, n. 2; 28 giugno 2004, n. 196; 29 ottobre 2009, n. 272; 23 novembre 2011, n. 309) sia di questo Consiglio di Stato (cfr. ex multis Cons. Stato, Ad. plen., 14 dicembre 2001, n. 9; VI, 3 luglio 2012, n. 3893; VI, 18 aprile 2011, n. 2378; 22 settembre 2014, n. 4775)”.
A questa stregua pare dunque che l’amministrazione non possa procedere a una ponderazione dell’interesse culturale con interessi di diverso segno anche quando decide sul mutamento di destinazione d’uso dei beni culturali: e, dunque, non pare possibile che l’interesse delle istituzioni ecclesiastiche e delle comunità dei fedeli a vedere adibiti i locali già destinati al culto a usi non indecorosi possa essere preso in considerazione e valutato per così dire ex se.
È invece decisamente più convincente l’idea che la pregressa destinazione religiosa possa assumere rilievo al fine della valutazione tecnica di quali sono gli usi non compatibili con il carattere storico di detti beni, e dunque con il valore culturali degli stessi [6].
Ad esempio, è difficile immaginare che l’amministrazione dei beni culturali possa considerare compatibile con il valore culturale dei beni di cui qui si discute la destinazione a pista da skatebord o a night club [7].
Peraltro s’è segnalato che non mancano sentenze dei giudici amministrativi che sembrano andare nel senso appena prospettato: ad esempio T.A.R. Emilia-Romagna, sez. Parma, n. 4 del 2005, ove si afferma che un immobile originariamente adibito alla istruzione religiosa e civile, e in seguito a ospedale, dev’essere impiegato “in modo da preservarne tale identità storico-culturale, oramai compenetratasi nelle cose che hanno costituito il supporto materiale dell’attività assunta a riferimento dalla tradizione del luogo”, e che ciò pertanto giustifica “il generale divieto delle ‘destinazioni d’uso per attività commerciali, industriali e artigianale’. Sono invero attività prive di qualsiasi collegamento con l’identità storico-culturale del bene e di per sé suscettibili di alternarne in modo significativo i tratti distintivi, sì da non risultare irrazionale l’intervenuto giudizio di incompatibilità con gli obiettivi di tutela assegnati alla cura dell’Amministrazione ...”.
Sicché, se del caso, le istituzioni ecclesiastiche o le comunità di fedeli, al pari di ogni soggetto dell’ordinamento, potrebbero senz’altro segnalare alle Soprintendenze gli usi dei beni in parola che non sono compatibili con detto valore.
Oppure potrebbero intervenire nei procedimenti amministrativi iniziati a fronte delle comunicazioni di mutamento d’uso ex art. 21, comma 4, del Codice, per rappresentare la non compatibilità dell’uso indicato nella comunicazione.
Il che è senz’altro consentito dall’art. 9 della legge sul procedimento amministrativo n. 241 del 1990, che prevede che “qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento, hanno facoltà di intervenire nel procedimento”.
Ma anche se questa interpretazione appare convincente, non va dimenticato che la genericità della nozione di compatibilità dell’uso che è dedotta nel Codice dei beni culturali (fors’anche maggiore di quella di uso non indecoroso dedotta nel citato can. 1222 del CJC) sinora ha impedito l’affermarsi di orientamenti giurisprudenziali univoci.
Sicché nello scorso decennio il Consiglio di Stato in una pronunzia ha affermato l’illegittimità dell’inibitoria della destinazione d’uso per attività industriali e commerciali dei locali di un ex convento, in base alla considerazione che “le antiche celle delle suore sono state demolite già negli anni Sessanta, e ... gli attuali corpi di fabbrica non presentano particolari elementi di decoro o architettonici degni di interesse” (Cons. Stato, sez. VI, n. 1011 del 2010). E in un’altra sentenza ha ritenuto ammissibile che sempre i locali di un ex convento vengano destinati addirittura a deposito di rifiuti, in base alla considerazione che trattasi di “rifiuti differenziati non percolanti, quindi una serie di inerti come vetro, plastiche, metalli e carta ed inoltre residui naturali, come residui di potatura e sfalci, legno ed indumenti usati”, e che quest’uso ha carattere temporaneo (Cons. Stato, sez. V, n. 4941 del 2015).
Oltre agli autori che vengono citati nel testo, sui concreti assetti degli edifici non più adibiti al culto v. almeno S. Marini, M. Roversi Monaco, Le chiese chiuse di Venezia. Mappatura, progetti e criteri di riuso di una costellazione di edifici a fondamento di una nuova idea di città, nella rivista telematica In_Bo, 2017, pag. 358; R. Bagnoli, R. Capurro, Il riuso delle chiese anglicane in Riviera e Costa Azzurra, in In_Bo, 2017, pag. 335 ss.: F. Susini, Chiese non più chiese: il caso urbano di Pisa, ivi, 2017, pag. 384 ss.
Riguardo alle valutazioni tecniche sull’uso dei beni culturali v. almeno il lavoro di C. Videtta, Alla ricerca di un punto di equilibrio tra valutazioni tecniche opinabili e uso dei beni culturali, in Riv. giur. urb., 2017, pag. 282 ss.
Dopo l’invio per la pubblicazione di questo lavoro, chi scrive ha trattato più estesamente l’argomento in Il riuso dei beni culturali di interesse religioso, in Urb. app., 2022, 5, pag. 589 ss., e va segnalata la pubblicazione dell’ampio lavoro monografico di D. Di Modugno, Gli edifici di culto come beni culturali in Italia. Nuovi scenari per la gestione e il riuso delle chiese cattoliche nel diritto statale, Torino, 2023.
Note
[*] Giuseppe Manfredi, professore ordinario di Diritto amministrativo presso il Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Piacenza, via E. Parmense 84, 29122 Piacenza, giuseppe.manfredi@unicatt.it.
[1] Denunciate ad es. nel recente pamphlet di T. Montanari, Chiese chiuse, Torino, 2021, ove per tacer d’altro si legge che “i numeri, del resto, sono impressionanti: nel centro storico di Lucca, per esempio, sono state dismesse 42 chiese su 69, mentre a Pavia 24 su 40; in entrambi i casi circa il 60 per cento dei luoghi di culto cattolici non esiste più come tale”.
[2] Cfr. in proposito M. Brocca, La disciplina d’uso dei beni culturali, in Aedon, 2006, 2.
[3] Su questa disciplina cfr. D. Dimodugno, Il riuso degli edifici di culto: profili problematici tra diritto canonico, civile e amministrativo, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 2017, 23, pag. 16 ss.
[4] M. Roversi Monaco, Da res sacrae a beni culturali: prospettive per l’ordinamento statuale, in Dir. amm., 2019, pag. 373.
[5] M. Roversi Monaco, Da res sacrae a beni culturali, cit., pag. 374.
[6] Idea prospettata sempre da M. Roversi Monaco, Da res sacrae a beni culturali, cit., pag. 374 e ss., oltre che da T. Montanari, Chiese chiuse, cit., spec. pag. 90 ss.
[7] Sono solo due degli esempi fatti da T. Montanari, op. cit., pag. 34 s., di peculiari usi di edifici già destinati al culto che si verificano all’estero.