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Fondazioni e beni ecclesiastici di interesse culturale

La conservazione programmata

di Stefano Della Torre [*]

Sommario: 1. Premessa: come convenga intendere la conservazione programmata. - 2. La conservazione programmata come obiettivo dell’azione delle fondazioni. - 3. Qualche considerazione di sintesi. - Riferimenti bibliografici.

Planned conservation
The article focuses on the planned conservation of cultural heritage, that consists in a process of change and rationalization, ongoing for decades, which has had repercussions in the international cultural framework and the national legislative framework, and in this field the role of foundations emerges as essential.

Keywords: planned conservation; cultural heritage; restoration intervention; foundations.

1. Premessa: come convenga intendere la conservazione programmata

Introdurre il tema della conservazione programmata significa partecipare, se non addirittura farsi carico, di un processo di cambiamento e razionalizzazione, in corso da decenni, che ha avuto riflessi nel quadro culturale internazionale e nell’assetto legislativo nazionale, e ovviamente sull’azione delle fondazioni.

In termini sicuramente schematici, potremmo dire che il bisogno di conservazione del patrimonio culturale trova traduzione più facile in una domanda di puro restauro, nel senso di intervento diretto sul bene, condotto con le migliori finalità e modalità attuative, ma anche con una facile retorica di recupero della bellezza e della fruibilità, e con una facile delimitazione, concettuale e temporale, dell’intervento. Quindi un intervento che chiaramente si racconta e si rendiconta.

Questo modello felice è andato in crisi, già da qualche tempo, per una serie di ragioni che non è il caso di indagare in questa sede, ma che si possono descrivere come esplosione del bisogno concomitante con una contrazione delle risorse disponibili. Il passaggio dagli “oggetti di grande interesse” ai “beni culturali” è andato producendo una maggiore disponibilità a riconoscere un numero crescente di beni come meritevoli di attenzione e conservazione; il peggioramento delle condizioni ambientali ha creato nuovi problemi di durabilità delle opere, e reso necessari restauri sempre più frequenti; l’evoluzione delle tecniche conservative e l’attenzione alle competenze degli operatori ha innalzato la qualità degli interventi, ma non ha ridotto i costi; in compenso le risorse pubbliche sono andate diminuendo: quest’ultimo fenomeno andrebbe letto problematicamente in relazione alla democratizzazione dell’accesso ai consumi culturali, ma la questione esula dalle finalità di questa nota.

Di fatto il modello basato sul semplice restauro si è dimostrato (si sta dimostrando) insostenibile, e le riflessioni si sono spostate sulla necessità di prevenire e mantenere, piuttosto che restaurare: e sul come rendere praticamente attuabili questi postulati, che richiedevano e richiedono un cambiamento di mentalità. Un cambiamento che è stato definito “salto di civiltà” da Massimo Montella, e che non è di natura diversa dalla assunzione di responsabilità nei confronti dell’ambiente e del pianeta. Non ci si può esimere dall’evocare i dibattiti degli anni Settanta, quando nacquero parallelamente le riflessioni sui limiti della crescita e l’idea della conservazione integrata, quando Giovanni Urbani avviò la sua battaglia sulle priorità conservative nel restauro rispetto a quelle estetiche, propugnando la conservazione programmata su base territoriale e la protezione del patrimonio culturale contro il rischio sismico.

Da Urbani a oggi, la conservazione programmata si pone come cambiamento culturale e metodologico, necessario per dare sostenibilità alla gestione del patrimonio culturale: di quello tangibile, ma con forti correlazioni strategiche con i temi del riconoscimento dei valori, della consapevolezza, del coinvolgimento delle comunità, e quindi di quel che costituisce il patrimonio intangibile.

Che questo cambio di passo, salto di civiltà o di mentalità, metanoia per dirlo in greco, sia ineludibile è proclamato nel Codice dei beni culturali, di cui al d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42 che all’art. 29 fornisce una serie di memorabili definizioni, che qui diamo per note.

Ho avuto modo di osservare, più volte, che in questo caso il legislatore è andato molto oltre il livello di maturità delle pratiche e di comprensione del tema da parte degli attori. A distanza di quasi vent’anni, si sta ancora discutendo del senso delle parole e, anche se confusamente e per tentativi ci si sta muovendo nella direzione auspicata, l’inerzia nei confronti del cambiamento è fortissima, e spesso si ripetono gli stessi errori.

Con l’art. 29 del Codice, per la prima volta entravano nei testi di legge relativi alla tutela del patrimonio culturale due parole come prevenzione e manutenzione: termini d’uso comune, in cerca di un nuovo significato tecnico, e forse anche giuridico, e di una messa in pratica. L’evento fu salutato con curiosità e perfino con qualche entusiasmo, forse però distraendo dal messaggio più innovativo, compreso nella triade di aggettivi usati a qualificare l’attività complessiva: coerente, coordinata e programmata. Il Codice non dice di fare la manutenzione invece del restauro: dice di coordinare e programmare restauro, prevenzione, ovvero mitigazione dei rischi per il bene nel suo contesto, e manutenzione. Intesa, quest’ultima, più come sapiente controllo che come esecuzione di attività di routine.

In questo senso, la conservazione programmata non è un tema a sé stante, e non può che applicarsi all’intero processo, come presupposto di mentalità e di qualificazione degli obiettivi. Per questo, nel presente lavoro, è necessariamente emersa la profonda interrelazione con gli altri moduli del programma (valorizzazione e riuso).

Ponendo come centralissimo il tema del coordinamento e della programmazione, il Codice sottolinea, nemmeno troppo implicitamente, il tema della gestione delle informazioni, che nel dibattito scientifico era già stato posto, al 2004, come costitutivo della metodologia della conservazione programmata. Questo tema si traduce immediatamente nella necessaria adozione di strumenti di modellazione informativa, oggetto di sperimentazioni fin dai primi anni duemila, ma poi via via divenuta della massima attualità in vista della pervasiva transizione digitale.

In effetti l’approccio “programmato” può anche essere descritto come meta-modellazione del tema della conservazione, e in questo sta la sua potenza come guida per rendere più efficaci gli investimenti, in vista di obiettivi profondamente meditati e accuratamente descritti.

2. La conservazione programmata come obiettivo dell’azione delle fondazioni

Scegliere la conservazione programmata come approccio qualificante è una scelta forte. Significa uscire da una confortevole blandizie nei confronti degli interlocutori, e incoraggiare un processo di cambiamento che riguarda la visione, le pratiche, le competenze. Significa quindi accettare di lavorare su processi meno abituali, meno facilmente riconoscibili negli esiti, che richiedono disponibilità a impegnarsi e apprendere.

Sui beni ecclesiastici, in linea del tutto teorica, si dovrebbe poter richiamare una indicazione di qualche anno fa: le “Norme per la tutela e conservazione del patrimonio storico artistico della Chiesa in Italia” deliberate dalla Cei il 14 giugno 1974 suggerivano “una visita annuale di controllo dell’edificio eseguita da esperti”: ma questa indicazione non sembra aver trovato sistematica applicazione. Tale pratica corrisponderebbe alla visita ispettiva praticata dalla Chiesa anglicana, con cadenza quinquennale, da cui è nato il fortunato manuale di Sir Bernard Feilden, Conservation of Historic Buildings (1982). Ma si tratta di riferimenti che hanno un valore più retorico che di presa sulla realtà.

L’enorme estensione dei beni ecclesiastici di interesse culturale comprende una altrettanto enorme diversità di situazioni. Le cattedrali italiane sono per lo più gestite da fabbricerie assai attrezzate sotto il profilo delle competenze tecnico-operative e della capacità gestionali: non a caso l’associazione Fabbricerie Italiane fu tra i primi soggetti a lanciare la linea della conservazione programmata, con il convegno internazionale “Cattedrali europee. Conservazione programmata”, tenutosi a Pisa il 18/19 maggio 2012. A fronte di queste eccellenze, è diffusa la situazione di crisi delle parrocchie, con processi di concentrazione gestionale, riduzione dei frequentanti, riduzione delle risorse economiche, e così via. Tali condizioni inducono una gestione tutt’altro che virtuosa, con poca prevenzione, nessuna manutenzione, competenze tecniche presenti in modo discontinuo, nessuna gestione della conoscenza e scarsa consapevolezza.

In questo quadro, una politica di sostegno economico è fortemente sollecitata dalle necessità più urgenti, con provvedimenti che per quanto preziosi hanno un basso impatto sistemico: si rientra nel modello generale in cui gli interventi sono finanziati un po’ casualmente, senza priorità, e sono condotti senza una visione di lungo periodo.

Ragionare di conservazione programmata sarebbe importante non tanto per finanziare interventi alternativi, quanto per diffondere e consolidare una cultura della gestione “coerente, coordinata e programmata”, lavorando sui nessi sistemici, condizionando i finanziamenti alla tematizzazione di obiettivi di reale peso strategico.

La chiarezza e la condivisione degli obiettivi è quindi il primo passo che le Fondazioni dovrebbero compiere. Si potrebbe limitarsi a fare una serie di bei restauri, promossi con la retorica tradizionale e diffusa che non solo parla di “ritorno all’antico splendore”, ma spesso di salvezza, redenzione, resurrezione dei beni, con metafore che nel caso specifico assumono anche qualche connotazione inopportuna. Oppure si potrebbe decidere di voler utilizzare la leva del sostegno finanziario per indurre i cambiamenti sistemici che possono contribuire a modificare strutturalmente le condizioni conservative e gestionali del patrimonio.

Il passato è stato generoso di lezioni imparate, quindi non è difficile elencare i casi che potrebbero rendere poco efficace un intervento di restauro:

- intervento inadeguato rispetto alla pericolosità del contesto;

- intervento non sapientemente istruito, di incerta opportunità, deciso senza approfondimenti scientifici;

- bene non dotato di una forma di gestione che garantisca attenzione dopo l’intervento;

- bene utilizzato in modo irresponsabile, non curato o esposto a pressioni antropiche dannose.

Non è difficile riconoscere in questo elenco, per negativo, esattamente i concetti che definiscono la strategia della conservazione programmata: fondamento nella conoscenza, ottica della prevenzione, capacità di implementazione della tecnologia, gestione del bene anche con attenzione al contesto sociale e territoriale, con quel che ciò comporta in termini di engagement della comunità (che può anche essere la valorizzazione del volontariato consapevole).

Programmi di finanziamento che mettano a fuoco questo set di obiettivi possono indurre molti decisivi passi avanti sulla strada di un miglioramento sistemico, che può essere ulteriormente curato affiancando lo svolgimento dei progetti con programmi di condivisione teorica e comunicazione interna.

Un riferimento ineludibile sono le esperienze promosse da fondazione Cariplo, sia con i bandi dedicati alla conservazione programmata che con l’esperienza dei Distretti culturali.

Nel primo caso si è puntato esplicitamente a favorire una maturazione dei territori verso modelli più sostenibili dei grandi restauri episodici. Ai dieci anni di attuazione del bando è dedicato un quaderno dell’Osservatorio della Fondazione, che sta per essere tradotto in un libro. Nelle successive edizioni si è puntato alla diffusione delle tecnologie innovative (per la gestione della conoscenza), delle metodologie, con particolare riferimento alla programmazione e alla partecipazione, alla messa a sistema dei beni, alla prevenzione sismica. Si è trattato di progetti di piccolo taglio, mirati non a fare il restauro, ma a prepararlo correttamente, attraverso investimenti in conoscenza, strumenti, condivisione, organizzazione, e limitati lavori importanti per la loro efficacia preventiva nei confronti dei rischi e dei processi di degrado in atto.

In dieci anni questa proposta di fondazione Cariplo ha interessato un numero di beni che rappresenta oltre l’1% dei beni vincolanti del suo territorio di riferimento: può sembrare poco ma, a parte il valore assoluto, il campione è stato sufficiente a coinvolgere un elevato numero di operatori e di soggetti-chiave nel sistema regionale: proprietari, tecnici, università, soprintendenze, uffici di coordinamento. Questo ha contribuito in modo decisivo a far circolare le parole d’ordine e a stimolare la crescita delle competenze. Rilevante in questa sede è che oltre il 40% dei beneficiari risulta costituito da istituzioni ed enti ecclesiastico/religiosi.

L’esperienza dei Distretti culturali ha messo al centro il tema della gestione e la capacità dei territori di andare oltre i modelli a rete per condividere programmazioni di lungo termine. Anche in questo caso la spesa in interventi sul patrimonio tangibile ha rappresentato la parte preponderante dell’investimento, anche per andare incontro alle attese e alle capacità di cofinanziamento dei potenziali beneficiari, e la richiesta qualificante è stata quella di sostenere la richiesta di finanziamento non tanto con il bisogno dovuto alle cattive condizioni del bene, quanto con la proposta di un modello gestionale che avrebbe consentito infuturo una conservazione preventiva più efficace.

L’esempio del cambio di passo è esemplificato dal distretto della Valtellina, che è andato a occuparsi dei molti edifici, prevalentemente chiese, ma anche torri, castelli e palazzi, restaurati dieci anni prima con i fondi della legge n. 102/1990, ma in gran parte rimasti inaccessibili ad onta delle ingenue previsioni che i monumenti restaurati potessero di per sé stessi assumere il ruolo di attrattori turistici. Il progetto distrettuale comprese sia una ispezione delle condizioni dei beni, restaurati ma poi non mantenuti, sia una grande azione di sistema sulle percorrenze turistiche, in modo da sostenere valorizzazione integrata e attenzione.

3. Qualche considerazione di sintesi

I temi di massima attualità, a fronte di una analisi condivisa sui processi in atto e le minacce annunciate per i beni ecclesiastici di interesse culturale, sembrano riguardare in primo luogo la condivisione di una visione complessiva, così da pervenire a una condivisione delle esperienze e a un coordinamento delle strategie, soprattutto rispetto alle relazioni con il sistema delle regole e delle scelte politiche.

L’esperienza svolta da fondazione Cariplo si segnala soprattutto per il lavoro di selezione degli obiettivi, nella direzione di sostenere un cambiamento necessario per il paese. In questo senso il bando Prima di Compagnia di S. Paolo rappresenta un passaggio importante, soprattutto per la attenzione posta all’applicazione di strumenti digitali, in non casuale sintonia con il bando Switch della medesima Fondazione.

Una prima considerazione in merito riguarda la replicabilità, su due livelli.

Il primo è quello dell’interesse nazionale per l’impostazione proposta: come si è ricordato, la strategia della conservazione programmata è solidamente sancita dalla legislazione nazionale (dal d.lg. 42/2004 al d.m. 154/2017), e la necessità della prevenzione è ancora più urgente in altre regioni che in Lombardia, dove la pericolosità sismica è molto alta in alcune province, ma è meno sentita altrove. Nelle regioni a più elevato rischio sismico sostenere, attraverso azioni mirate e specifici programmi di finanziamento, la priorità del miglioramento sismico rispetto al restauro integrale sarebbe ottima cosa. Purtroppo, la casistica è ricca di esempi di crolli di edifici da poco imbellettati senza provvedere al consolidamento.

Il secondo livello è quello della lamentata inadeguatezza delle risorse disponibili. A questo proposito va osservato che sul bando conservazione programmata le risorse messe a bando sono servite per azioni esemplari su un campione di beni attraverso interventi di piccolo taglio, e un piccolo campione si è rivelato in grado di attivare un importante processo di revisione culturale nell’ambiente regionale.

Identificare chiaramente gli obiettivi è importante, perché al di là delle verifiche controfattuali, il tema della transizione è stimolare consapevolezza e incrementare la preparazione, le competenze a tutti i livelli. La situazione è talvolta disastrosa tra i professionisti, che peraltro possono essere selezionati con criteri di qualità e non solo di costo o di vicinanza, ma è spesso sconfortante all’interno delle organizzazioni proprietarie, negli uffici pubblici e ancor peggio negli enti ecclesiastici periferici, dove spesso ci si accontenta di un volontariato privo di competenze tecniche, di conoscenze e di capitale relazionale.

Si ritiene non più sufficiente la pur preziosa e talvolta eroica alta sorveglianza esercitata dalle Soprintendenze, operata attraverso l’autorizzazione condizionata degli interventi. Il tema infatti è quello della continuità e della gestione competente del quotidiano, della sicurezza, della implementazione delle più semplici avvertenze di conservazione preventiva.

In questa direzione si assiste, nei casi migliori, ad un progressivo strutturarsi degli uffici diocesani competenti su arte sacra/beni culturali. La funzione di mediazione rispetto alle soprintendenze affidata alle Diocesi dalle norme concordatarie può essere rafforzata e messa frutto, potenziando questi uffici e affidando loro un ruolo anche di supporto tecnico, e non solo di controllo amministrativo e autorizzazione dell’Ordinario sulle spese. Il numero delle diocesi nei territori di riferimento di ciascuna Fondazione è oggettivamente limitato e gestibile, il che può consentire di costruire i programmi di erogazione in modo coordinato, sostenendo anche l’empowerment degli stessi uffici tecnici diocesani.

Nel contesto dei bandi, l’interesse a conseguire il finanziamento talvolta prevale sugli istinti autonomistici, e può quindi contribuire a un coordinamento generale e a una crescita complessiva e parallela delle competenze utili per le buone pratiche. Questo livello di coordinamento sembra necessario per poter partecipare ai processi di evoluzione tecnologica, e non rimanerne esclusi.

Simmetricamente a questo impegno sul versante del coordinamento, si pone sicuramente un tema di ricostituzione del supporto comunitario alla gestione dei beni. Questo aspetto andrebbe a sua volta considerato in ogni intervento. Parlare di “community engagement” suona spesso velleitario, a fronte di territori spopolati, parrocchie concentrate in comunità pastorali, diminuzione del numero dei frequentanti. Tuttavia è fuor di dubbio che non esiste gestione sostenibile del patrimonio culturale senza la partecipazione di un pubblico di riferimento, da coinvolgere lungo tutto l’arco della programmazione delle attività conservative, e non soltanto in vista della fruizione. Anche questo richiede tecniche specifiche, che possono essere ricomprese nel perimetro delle azioni finanziabili, a supporto di una complessiva sostenibilità della gestione.

Riferimenti bibliografici

S. Della Torre (a cura di), La Conservazione Programmata del Patrimonio Storico Architettonico: linee guida per il piano di conservazione e consuntivo scientifico, Milano, Guerini, 2003 (https://www.academia.edu).

R. Moioli, La conservazione preventiva e programmata: una strategia per il futuro. Premesse, esiti e prospettive degli interventi di Fondazione Cariplo sul territorio, Firenze, Nardini, 2023.

R. Moioli e A. Baldioli (a cura di), Conoscere per conservare. Dieci anni per la Conservazione Programmata, 2018 (https://www.fondazionecariplo.it/static/upload/_con/conoscere-per-conservare---estratto-inserto-gda-dic2018.pdf).

G.P. Barbetta, M. Cammelli, S. Della Torre (a cura di), Distretti culturali dalla teoria alla pratica, Bologna, Il Mulino, 2013.

S. Della Torre, Regole per finanziamenti più efficaci. Le conclusioni del progetto CHANGES, in Restauro: Conoscenza, Progetto, Cantiere, Gestione, coord. di S.F. Musso e M. Pretelli, sezione 2 a S. Della Torre, A.M. Oteri (a cura di), Programmazione e finanziamenti, Roma, Edizioni Quasar, pagg. 344-352 (https://www.edizioniquasar.cloud/Restauro/assets/sez.-2.pdf).

L'eredità di Massimo Montella. Atti della giornata di studio, Supplementi (12/2022) (https://riviste.unimc.it/index.php/cap-cult/issue/view/143/showToc).

 

Note

[*] Stefano Della Torre, professore ordinario di Restauro presso il Dipartimento di Architettura, Ingegneria delle Costruzioni e Ambiente Costruito del Politecnico di Milano, Via Giuseppe Ponzio 31, 20133 Milano, stefano.dellatorre@polimi.it.

 

 

 



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