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Testimonianze

Cultura e pubbliche amministrazioni nel “decreto giustizia”: tra riorganizzazioni e spoils system [*]

di Lorenzo Casini [**]

Sommario: 1. Premessa. - 2. Il decreto giustizia e il governo legislatore. - 3. Le disposizioni in materia di cultura (art. 10). - 3.1. La riorganizzazione del ministero della Cultura. - 3.2. Lo spoils system dei dirigenti. - 3.3. Le altre disposizioni sulla cultura. - 4. Gli incarichi al personale in quiescenza (art. 11). - 5. Conclusioni. - Appendice: Dati OCSE sul personale pubblico.

Culture and public administration in the “decreto giustizia”: between reorganization and spoils system
The text examines the law proposal that transforms the new organization of the ministry of Culture and provides for other interventions in the field of culture and public administration, with clear innovations in the ministry structure. The analysis highlights the problems and critical points of these initiatives, including the risk of spoils system mechanisms, focusing on the assignments of retired staff and the Oecd statistical data regarding the public employment.

Keywords: ministry of culture; cultural heritage; public administration; spoils system; public employment; cultural goods law.

1. Premessa

Il presente scritto prende in esame il disegno di legge A.c. 1373 di conversione in legge del decreto-legge 10 agosto 2023, n. 105, recante disposizioni urgenti in materia di processo penale, di processo civile, di contrasto agli incendi boschivi, di recupero dalle tossicodipendenze, di salute e di cultura, nonché in materia di personale della magistratura e della pubblica amministrazione (d’ora in avanti, “decreto giustizia”) [1].

Dopo alcune considerazioni generali sull’uso da parte del governo della decretazione d’urgenza e sui decreti-legge c.d. omnibus (par. 2), questo scritto si sofferma su due ambiti trattati dal provvedimento:

1) le misure riguardanti il settore della cultura, con particolare riguardo alla riorganizzazione del ministero (par. 3);

2) le disposizioni sul trattenimento in servizio del personale in quiescenza (par. 4).

Può sin da ora anticiparsi che il decreto-legge in esame presenta alcuni profili problematici, sia di carattere generale (non omogeneità di materia e difetto dei requisiti di straordinaria necessità e urgenza per alcune disposizioni), sia con specifico riferimento alle norme sulla cultura (dubbia legittimità costituzionale della norma sulla cessazione degli incarichi dirigenziali).

2. Il decreto giustizia e il governo legislatore

Il decreto giustizia si inserisce nel solco dell’attività legislativa portata avanti dai governi italiani negli ultimi decenni, caratterizzata da un uso massiccio della decretazione d’urgenza.

Basta considerare le ultime tre legislature: il numero dei decreti-legge è progressivamente cresciuto ed è aumentata la percentuale di leggi di iniziativa governativa. Nella XVIII legislatura (2018-2022), i decreti-legge sono stati 146, contro i 100 della XVII (2013-2018) e i 118 della XVI (2008-2013). Il peso delle leggi di conversione sul numero complessivo di leggi è salito, nella XVIII legislatura, al 33 per cento (era il 21,90 per cento nella XVII e il 27,11 per cento nella XVI); mentre la percentuale di leggi di iniziativa governativa ha raggiunto l’80 per cento nella XVIII legislatura, contro il 74 per cento della XVII e il 76 per cento della XVI [2].

Questi numeri sono ulteriormente cresciuti nei primi 11 mesi della legislatura in corso (la XIX, iniziata nell’ottobre 2022), con 29 leggi di conversione di decreti-legge, a fronte di 8 leggi ordinarie, 12 leggi di ratifica di trattati internazionali e la legge di bilancio. Ciò porta addirittura al 58 per cento il peso delle leggi di conversione sul numero complessivo di leggi approvate; con una percentuale di leggi di iniziativa governativa pari al 70 per cento, che giunge sino all’84 per cento senza le leggi di ratifica di trattati internazionali [3].

Sarebbe un errore, però, inquadrare questo così frequente ricorso alla decretazione d’urgenza come un fenomeno solo recente della storia repubblicana. Già negli anni settanta, con la VI legislatura (1972-1976), il numero di decreti-legge cominciò a crescere, toccando i 30 annuali, con una media analoga a quella della XVII legislatura. I numeri dalla VII (1976-1979) alla XIV legislatura (2001-2006) furono perciò molto alti, con il picco della XI (1992-1994) e della XII (1994-1996), che videro entrambe l’adozione di oltre 240 decreti l’anno (con 336 provvedimenti nel 1994, tra decreti nuovi e reiterati) [4]. Va infatti considerato che, a partire dagli anni settanta del XX secolo, per un verso, inizia a divenire sempre più frequente la c.d. reiterazione dei decreti-legge, fenomeno poi terminato nel 1996 a seguito dell’intervento della Corte costituzionale [5]; per altro verso, la riforma dei regolamenti parlamentari del 1971 determinò una (apparente) perdita di potere del governo nel dettare l’agenda dei lavori, favorendo così sia il ricorso ai decreti-legge per avere un percorso parlamentare accelerato, sia l’aumento dei decreti legislativi [6].

Neanche sarebbe corretto, perciò, attribuire solo alla pandemia l’acuirsi di queste dinamiche tra governo e Parlamento. Sono diversi anni che il peso dell’esecutivo nell’attività legislativa è sempre più schiacciante. Così come era già Luigi Einaudi, un secolo fa, a mettere in risalto il “danno di legiferare per decreti anziché per leggi”, anche perché la decretazione d’urgenza preclude un vero dibattito pubblico e impone tempi e ritmi serrati, che raramente producono una buona legislazione e, spesso, provocano altri decreti [7]. A distanza di quasi ottanta anni dalla costituente, i timori espressi da Costantino Mortati si sono dunque rilevati fondati. In quella sede, fu lui a rilevare che di tutti i decreti-legge che la storia parlamentare ricorda, solo una percentuale minima è giustificata dall’urgenza; perché in tutti gli altri casi questa è un pretesto che il governo, e per esso la burocrazia, usa per decretare a sua volontà [8].

Tra i motivi di questo fenomeno, vi è la necessità della classe politica di dare - o almeno immaginare di farlo - risposte immediate alla collettività e all’opinione pubblica: sotto questo profilo, il decreto-legge è lo strumento più adatto alle esigenze, anche mediatiche, di velocità e speditezza. Vi è poi il miraggio della norma auto-applicativa e della sostituzione della legge all’amministrazione, che può portare spesso governo e singoli ministri a illudersi che, grazie a una norma di legge, un determinato problema sia risolto.

I parametri costituzionali di straordinaria necessità e urgenza lasciano così il posto a quelli di semplice celerità. In aggiunta, nonostante l’attività di contenimento svolta dal Presidente della Repubblica - sia sui testi governativi, sia in sede di conversione parlamentare - e dalla Corte costituzionale, la tendenza del governo a costruire decreti c.d. omnibus - già usati negli anni settanta del XX secolo, se si pensa ai c.d. “decretoni” del governo Colombo [9] - si è tutt’altro che frenata. Sotto questo aspetto, l’emergenza sanitaria per la pandemia e il Pnrr hanno prodotto numerosi testi che, con il nome di decreti «cura Italia», rilancio, ristori, sostegni, aiuti e appunto Pnrr, hanno di fatto rappresentato mini-manovre finanziarie senza tuttavia i paletti stabiliti dalla legge n. 196 del 2009: basti qui citare il d.l. n. 18 del 2020, conv., con modificazioni, nella legge n. 27 del 2020, il c.d. “decreto cura Italia”, che aveva in origine 127 articoli, poi aumentati in Parlamento di altri 49; oppure d.l. n. 34 del 2020, conv., con modificazioni, nella legge n. 77 del 2020, il c.d. “decreto rilancio” emanato con 266 articoli, poi cresciuto di altri 78 articoli in sede di conversione.

La tendenza del governo a eccedere nella decretazione d’urgenza e a predisporre decreti-legge c.d. omnibus non è rallentata con la fine della pandemia. Si tratta di una prassi consolidatasi nel tempo, come visto, dalla quale l’attuale esecutivo non si è ancora discostato.

In questo contesto, il decreto giustizia conferma questi dati e questa tendenza, a partire dallo stesso titolo del provvedimento, composto da un ricco elenco di temi tra loro non tutti collegati. In 13 articoli, infatti, è possibile individuare un corpo omogeneo di 5-6 articoli, con disposizioni riguardanti la giustizia e delle quali risulta difficile contestare la necessità e l’urgenza (articoli 1-5 e articolo 6, che inasprisce le pene per il reato di incendio boschivo). Dopo di ché, però, si susseguono disposizioni variegate riguardanti i più diversi settori, per le quali risulta anche meno agevole individuare i requisiti di straordinaria necessità e urgenza: il sostegno al recupero dalle tossicodipendenze e dalle altre dipendenze patologiche mediante la destinazione dell’8 per mille (articoli 7-8); l’isolamento, l’auto-sorveglianza e il monitoraggio relativi al Covid-19 (articolo 9); la cultura e l’organizzazione del competente ministero (articolo 10); gli incarichi pubblici a personale in quiescenza (articolo 11). Gli articoli 12 e 13 riguardano rispettivamente le coperture finanziarie e l’entrata in vigore.

Nei paragrafi successivi, come anticipato, l’analisi è incentrata sulle disposizioni relative alla cultura e alla pubblica amministrazione (articoli 10 e 11). Sui restanti articoli, si rinvia alla scheda di lettura predisposta dal servizio studi lo scorso 6 settembre e alle audizioni informali [10].

3. Le disposizioni in materia di cultura (art. 10)

L’articolo 10 del decreto giustizia riguarda la cultura e la riorganizzazione del competente ministero. I commi 1-3 prevedono la riorganizzazione del ministero della Cultura (Mic) (parr. 3.1 e 3.2), mentre i commi 4-5 dettano norme sulle celebrazioni per l’ottavo centenario della morte di San Francesco d’Assisi (2026) e sulla proroga dell’incremento di 1 euro dei biglietti di istituti e luoghi della cultura da destinare al sostegno delle zone alluvionate (par. 3.3).

3.1. La riorganizzazione del ministero della Cultura

Il decreto prevede il cambio di modello organizzativo per il ministero della Cultura, articolandolo in (non più di 4) dipartimenti come unità di primo livello. Il numero complessivo di uffici dirigenziali di livello generale è di 32, comprensivo dei dipartimenti.

La quantità di uffici dirigenziali di livello generale non cambia, perché prima del decreto il Mic ne aveva 27, incluso il segretario generale, ai quali il decreto-legge n. 44 del 2023 ne aveva aggiunti 5 (come avvenuto, con numeri diversi, anche per altri ministeri). La trasformazione in dipartimenti comporta comunque un aumento di spesa, dato dal differenziale di costo tra 3 posizioni di capo dipartimento, da un lato, e 3 direttori generali, dall’altro (per il quarto capo dipartimento si prevede lo stesso costo del segretario generale, figura soppressa): un onere complessivo stimato in 171.460 euro annui, che il comma 3 dell’articolo 10 copre a valere su fondi destinati al Mic a partire dal 2024. Sotto questo aspetto, si tratta di una stima al ribasso, in quanto i costi per l’attivazione di quattro dipartimenti, a loro volta articolati in direzioni generali, sono maggiori del differenziale stipendiale tra un capo dipartimento e un direttore generale: aumentano, per esempio, spazi e personale di supporto.

In prospettiva più ampia, con riguardo alla trasformazione del Mic in dipartimenti, possono formularsi alcune considerazioni tanto di ordine generale, quanto specifiche per questa amministrazione.

In termini generali, l’operazione prevista dal decreto è analoga a quella compiuta dall’attuale governo in altri 3 casi: per il ministero della Salute [11] e per il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali [12] e quello delle Imprese e del Made in Italy [13], si è previsto il cambio di modello da quello con segretario generale e direzioni generali a quello con dipartimenti quali unità organizzative di primo livello. Così facendo, il governo ha sostanzialmente riportato le lancette indietro al 1999-2001, quando l’assetto dei ministeri prevedeva una netta preferenza del modello dipartimentale (9-10 ministeri) rispetto a quello con segretario e direzioni generali come unità di primo livello (3-4 ministeri, incluso quello per i beni e le attività culturali, ma su questo si tornerà più avanti).

Dal 2001, non è la prima volta che si verificano questi cambiamenti e, se vi sono stati ministeri che hanno sempre mantenuto lo stesso assetto (Interni, Giustizia, Economia e Finanza, Infrastrutture e trasporti con dipartimenti, per esempio; Esteri, Difesa e sostanzialmente Beni culturali con segretario e direzioni generali, per esempio), non sono mancati casi di ministeri che hanno mutato diverse volte modello (come l’Ambiente, la Salute e il Lavoro, appunto). L’andamento numerico di questi 24 anni è ricostruito nel grafico 1.

Nota - L’anno 1999 fa riferimento al disegno originariamente previsto dal d.lg. n. 300 del 1999.

Le ragioni che con il tempo hanno portato - fino al 2023 - a una certa “resistenza” verso l’affermazione del modello dipartimentale sono diverse e riguardano sia scelte politiche, sia comportamenti amministrativi. I capi dipartimento possono essere soggetti a spoils system - con decadenza al cambio di governo, se non confermati entro 90 giorni dal voto di fiducia - e dunque, seppur con trattamento stipendiale più alto, non sono sempre posti ambiti dai dirigenti pubblici perché possono non essere “stabili” come quelli di direttore generale. Allo stesso tempo, la struttura per dipartimenti - individuati secondo aree funzionali tra loro distinte - fu ideata per attuare nel miglior modo possibile la separazione tra politica e amministrazione: con i dipartimenti, la parte politica, il ministro, è più “lontano” dalle direzioni generali e dall’amministrazione attiva; viceversa, il modello con direzioni generali quali unità di primo livello, con un segretario generale, assicura una linea di comando più diretta, sicché si comprende anche perché, nel disegno del 1999 con 12 ministeri (in realtà mai entrato in vigore perché già nel 2001 i ministeri divennero 14), gli unici 3 ministeri così configurati fossero proprio Difesa, Esteri e Beni culturali.

In ogni caso, dal 2010 al 2020, l’assetto complessivo è rimasto sostanzialmente inalterato, con un equilibrio tra ministeri a dipartimenti e ministeri con segretario e direzioni generali. Va inoltre rilevato che, rispetto al modello immaginato nel 1999, l’attuazione del modello dipartimentale è stata diversa e meno “pura”, soprattutto con riguardo alla identificazione degli uffici competenti per le risorse umane e strumentali. Mentre il disegno originario del d.lg. n. 300 del 1999 prevedeva - e in teoria prevede tutt’ora - che a ogni dipartimento fossero affidati tutti i compiti finali e strumentali delle aree funzionali di competenza, l’attuazione ha invece visto poi la creazione anche di dipartimenti strumentali, con direzioni generali per personale e bilancio dedicate all’intero ministero: si è così replicato il modello tradizionale per direzioni generali, ma con un livello gerarchico in più. Non è questo, del resto, l’unico caso di “tradimento” avvenuto in fase attuativa dei modelli concepiti nel biennio 1997-1999: basti citare l’esperienza delle agenzie amministrative, un modello organizzativo a cui si è fatto ricorso in modo sensibilmente inferiore - e diverso - rispetto a quanto immaginato con il d.lg. n. 300 del 1999.

A partire dal 2020, però, la geografia dei ministeri inizia nuovamente a cambiare in modo significativo. Per un verso, sono istituiti per “gemmazione” due nuovi ministeri con portafoglio (Università e ricerca nel 2020; Turismo nel 2021), entrambi disegnati con segretario generale e con direzioni generali quali unità organizzative di primo livello. Per altro verso, con l’attribuzione al ministero dell’ambiente delle funzioni in materia di transizione ecologica, nel 2019 questo dicastero è stato (nuovamente) articolato in dipartimenti.

L’attuale governo, come anticipato, ha cambiato approccio e incrementato questi mutamenti organizzativi, determinando in pochi mesi il passaggio a modello dipartimentale di ben 4 ministeri: Salute, Imprese e made in Italy, Lavoro e politiche sociali e, appunto, Cultura. Rispetto a queste trasformazioni, si segnalano due anomalie.

La prima riguarda i tempi, perché, a parte il caso della Salute, per gli altri 3 ministeri questi interventi non stati realizzati con lo strumento per così dire tradizionale e naturale, ossia il decreto-legge c.d. ministeri, sull’organizzazione del governo appena insediato, che ogni esecutivo ha predisposto a partire dal 2001 (per l’attuale esecutivo, si tratta del decreto-legge 11 novembre 2023, n. 173, conv., con modificazioni, nella legge 16 dicembre 2023, n. 204). Al di là dei legittimi dubbi circa i requisiti di necessità e urgenza, tutto questo provoca comunque un effetto non positivo sulle strutture, perché esse vivono un riassetto organizzativo aggiuntivo a quello fisiologico già attraversato con il cambio di governo.

La seconda anomalia è che, diversamente da quanto avvenuto nel recente passato, per esempio con l’Ambiente, la trasformazione organizzativa non è stata accompagnata o motivata dalla attribuzione di nuove o ulteriori funzioni, ma si è verificata - come espressamente dichiarato anche nella relazione illustrativa - a funzioni invariate. In queste trasformazioni, invece, vi sono stati semmai incrementi delle dotazioni organiche (come quelle disposte dal decreto-legge n. 44 del 2023), che però non sono state collegate a modifiche del modello organizzativo (per dipartimenti o con segretario e direzioni generali quali unità di primo livello).

Queste due anomalie non escludono che le modifiche organizzative siano state ispirate anche dall’esigenza politica di avere un avvicendamento negli incarichi apicali di questi ministeri. Nel modello con direzioni generali quali unità di primo livello, infatti, è solo il segretario generale che può essere assoggettato a spoils system e, se non confermato, cessa come detto decorsi 90 giorni dal voto di fiducia del nuovo governo; i direttori generali non sono “toccati” dai cambi di esecutivo. Invece, una riorganizzazione radicale e la creazione di nuovi uffici, a maggior ragione un cambio di modello da quello con segretario e direzioni generali a quello con dipartimenti come unità di primo livello, possono portare a un numero significativo di nuovi conferimenti, sia per le strutture create, sia per quelle riorganizzate in modo importante.

Le considerazioni d’ordine generale sopra esposte si collegano direttamente a quelle più strettamente riferite al ministero della Cultura, la cui trasformazione in dipartimenti non appare, oggi, pienamente comprensibile [14].

Come anticipato, il ministero della Cultura è sempre stato articolato in direzioni generali quali unità di primo livello, con un segretario generale, tranne una breve parentesi tra il 2004 e il 2006 (come riportato anche dalla scheda di lettura), quando tra le sue competenze vi era anche lo sport [15]. I motivi che portarono nel 1999 a mantenere per la cultura il disegno con segretario e direzioni generali, come per gli Esteri e la Difesa, sono noti e, a quel tempo, la scelta non fu esente da critiche. Una scelta che allora venne presa anche perché il ministero per i Beni e le Attività culturali si era già riorganizzato, con segretario e direzioni generali, nell’ottobre 1998 (con il d.lg. n. 368 che per la prima volta portò dalla Presidenza del Consiglio dei ministri a questa amministrazione le competenze in materia di spettacolo e cinema, con i relativi fondi): non era quindi ipotizzabile nel 1999, quando fu adottato il d.lg. n. 300, cambiare modello e passare a dipartimenti.

Oggi appaiono chiare le ragioni del perché per il ministero della Cultura rimanga preferibile il modello con segretario generale e con direzioni generali quali unità di primo livello.

Innanzitutto, questo ministero - la cui “stranezza organizzativa” risale sino alle sue origini, quando nel 1974-75 fu creato con decreto-legge il ministero per i Beni Culturali e Ambientali [16] - ha competenze omogenee riguardanti un’unica macro-materia, il patrimonio culturale, nella sua duplice dimensione materiale (beni culturali e beni paesaggistici) e immateriale (spettacolo e cinema).

Inoltre, le funzioni di tutela sul territorio attribuite al ministero, con la sua capillare struttura periferica (in particolare le soprintendenze), richiedono sempre di più linee di comando dirette, senza duplicazioni, il più possibile brevi e ben collegate al vertice politico, nel rispetto ovviamente dei ruoli: basti qui citare i conflitti sempre più frequenti in Consiglio di ministri per la realizzazione di impianti di energie rinnovabili (fotovoltaici o eolici), con il Mic impegnato ad assicurare la tutela dei beni paesaggistici (compito rafforzato nel 2006 e nel 2008). Queste esigenze trovano piena attuazione, per il patrimonio culturale, nel modello a direzioni generali, con un segretario generale a garantire le attività di indirizzo e coordinamento dell’amministrazione tra le diverse funzioni del ministero. A conferma di ciò, quando si è tentato tra il 1998 e il 2014 di attivare direzioni generali con competenza regionale (prima i soprintendenti regionali e poi le 17 direzioni regionali), queste poi furono poi soppresse perché avevano duplicato le linee di comando nel rapporto centro-periferia, rendendo meno efficiente ed efficace l’azione amministrativa.

Va poi rilevato che l’amministrazione della cultura svolge prevalentemente compiti ad alto contenuto tecnico e scientifico: basti richiamare i poteri di vincolo o di autorizzazione in materia di beni culturali e beni paesaggistici. Risulta allora poco efficiente moltiplicare il numero di posizioni apicali assoggettabili a spoils system, minando così la stabilità e la autorevolezza dei ruoli tecnici del ministero.

A questi motivi, va aggiunto quanto accaduto nel periodo 2004-2006 e va considerato il nuovo assetto organizzativo delineato per la cultura nel periodo 2013-2022.

Nel 2004, come anticipato, il ministero per i Beni e le Attività culturali e per lo sport fu trasformato in dipartimenti. La scelta si rivelò fallimentare, per le ragioni sopra illustrate e perché emerse l’inefficienza causata dall’aver moltiplicato posizioni apicali e linee di comando. Perfino nel settore del cinema e dello spettacolo, per esempio, la figura di un capo dipartimento rese - e tutt’ora renderebbe - più bizantina la gestione amministrativa, con un passaggio inevitabile da 2 a 3 uffici di livello dirigenziale generale. Così, nel 2006, le competenze in materia di sport tornarono alla Presidenza del Consiglio dei ministri e il ministero per i Beni e le Attività culturali ritornò a essere articolato per direzioni generali come unità di primo livello.

Vero è che, nel 2004, la scelta del modello dipartimentale fu accolta positivamente, ma, a distanza di venti anni, si comprendono anche le ragioni di queste posizioni di allora [17].

Primo, a quel tempo, il nuovo assetto delineato dal d.lg. n. 300 del 1999 era entrato in funzione da soli 3 anni, nel 2001, e i ministeri erano ancora in una fase di assestamento. In quel clima, il “nuovo” modello per dipartimenti era ancora visto come quello prevalente e preferibile. Secondo, proprio in virtù di questo comprensibile entusiasmo iniziale, il modello per dipartimenti era ancora percepito come attuabile in modo puro, per esempio senza dipartimenti con compiti interamente strumentali: gli anni successivi hanno poi portato a soluzioni diverse, ibride, dove le differenze tra i due modelli (a dipartimenti e a direzioni generali) si sono attenuate. Terzo, le critiche che in quegli anni venivano mosse all’idea di un’unica linea di comando rappresentata dal segretario generale non si erano ancora misurate con le pressioni alle quali sono stati sottoposti negli anni successivi gli uffici periferici del ministero, pressioni alimentate anche dagli effetti negativi prodotti dal tentativo di avere uffici periferici con competenze regionali. Quarto, il ministero a quel tempo svolgeva anche funzioni in materia di sport, sicché la scelta del modello dipartimentale appariva almeno in teoria percorribile. Quinto, negli anni i punti di contatto e le aree di sovrapposizione tra i beni e le attività culturali sono divenuti sempre più numerosi, tanto da poter includere all’interno del patrimonio culturale materiale e immateriale entrambe le materie. Sesto, le successive riforme del ministero, in particolare quelle relative ai musei, hanno reso ancor meno praticabile, all’interno della rigida organizzazione piramidale propria dei ministeri, la soluzione del modello per dipartimenti.

A partire dal 2014, infatti, il ministero della Cultura è stato oggetto di significative riforme dirette a meglio individuare le funzioni amministrative svolte e a creare un sistema museale nazionale con musei statali dotati di autonomia organizzativa. In questo lungo percorso di riforma, l’opzione del modello dipartimentale è stata sempre esclusa - anche quando nel periodo 2013-2021 al ministero erano state attribuite le competenze in materia di turismo - per le ragioni sopra esposte e per il timore di determinare stravolgimenti ancora maggiori per la macchina organizzativa. Nell’autunno 2013, per esempio, nei lavori della commissione per il rilancio dei beni culturali e del turismo e per la riforma del ministero in base alla disciplina sulla revisione della spesa, presieduta da Marco D’Alberti, l’ipotesi di adottare il modello dipartimentale non fu presa in considerazione (e, ciò nonostante, al ministero fossero state appena affidate le competenze in materia di turismo) [18]. Inoltre, la riforma dei musei statali, realizzata trasformando un numero elevato di uffici dirigenziali di livello sia generale, sia non generale, in istituti autonomi, è difficilmente compatibile con il modello dipartimentale.

Il sistema dei musei statali - pienamente confermato anche dall’attuale ministro, almeno nello schema di regolamento di organizzazione già trasmesso al Consiglio di Stato per il parere e in cui aumentano gli istituti autonomi del ministero - prevede un certo numero di istituti con qualifica dirigenziale di livello generale (come il parco archeologico di Pompei, il parco archeologico del Colosseo, le Gallerie degli Uffizi, la Pinacoteca di Brera, Capodimonte o la Reggia di Caserta) e un numero ancora più elevato (oltre 30) di istituti con qualifica dirigenziale di livello non generale. Tutte queste strutture sono state disegnate con tratti organizzativi simili, soprattutto quanto al regime di autonomia; ma esse mantengono una qualifica differente, con stipendi diversi per i rispettivi direttori e con un rapporto diverso con la Direzione generale competente, la Dg Musei. Quest’ultima svolge attività di coordinamento nei confronti degli istituti di livello dirigenziale generale, mentre esercita poteri direttivi pieni, inclusa la nomina e l’avocazione, verso gli istituti di livello dirigenziale non generale. Ebbene, è chiaro che l’introduzione di un Dipartimento in questo disegno organizzativo implicherebbe la moltiplicazione dei livelli di comando. E, se è vero che il capo Dipartimento assumerebbe un peso maggiore rispetto ai musei di livello dirigenziale generale - i cui direttori comunque continuerebbero a essere nominati con un d.p.c.m. su proposta del ministro ai sensi dell’articolo 19, comma 4, del d.lg. n. 165 del 2001 - nei confronti dei musei di livello non generale egli o ella avrebbe comunque necessità di una Direzione generale, secondo la logica della piramide organizzativa che da Napoleone a Cavour sino ai nostri giorni rappresenta la struttura ministeriale.

Sia le evoluzioni nell’attuazione del d.lg. n. 300 del 1999, sia la storia del ministero della Cultura e le sue precedenti riorganizzazioni - numerose tanto che vi è chi ha usato la espressione “lego istituzionale” che bene rende l’idea di così tante trasformazioni [19] - mostrano allora che oggi, nel 2023, il modello dipartimentale non rappresenta la scelta ottimale per questa amministrazione.

Sulla base delle considerazioni esposte, non è chiaro perché il decreto giustizia abbia previsto la nuova articolazione del ministero della Cultura in dipartimenti. La elencazione delle aree funzionali, che ha giustamente espunto dal testo originario le funzioni non più esercitate da tempo (come la vigilanza sul Coni), ma purtroppo anche quelle ancora svolte (come la vigilanza sull’Istituto per il credito sportivo, che negli ultimi anni ha sviluppato importanti linee di finanziamento per il settore cultura), si presenta essenzialmente come una operazione di cosmesi normativa. Anzi, la articolazione delle funzioni del ministero mostra una divisione per criteri misti (materia, fine, attività), non ben coordinati tra loro e con un uso delle espressioni beni culturali, beni paesaggistici e patrimonio culturale non sempre appropriato. In sostanza, le aree funzionali individuate sembrano riprodurre gli stessi errori commessi nel 2004, quando per il ministero venne sperimentata, senza successo, la soluzione dipartimentale [20].

Va invece apprezzato l’aver fatto salve le funzioni delle strutture preposte all’attuazione degli interventi del Pnrr, in particolare l’unità di missione e la soprintendenza speciale. Anche se la dicitura “funzioni” sembra come lasciare aperta la possibilità che esse siano poi attribuite ad altri uffici. Sarebbe allora stato preferibile fare salvi direttamente questi uffici, con le loro funzioni, e non solo le funzioni che essi svolgono.

3.2. Lo spoils system dei dirigenti

Nell’ambito della riorganizzazione del ministero della Cultura, l’articolo 10 del decreto giustizia prevede anche una misura anomala di dubbia legittimità costituzionale. Il riferimento è al comma 2, dove è stabilito che “Gli incarichi dirigenziali generali e non generali decadono con il perfezionamento delle procedure di conferimento dei nuovi incarichi ai sensi dell’articolo 19 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165”.

Questa norma è innanzitutto inopportuna. La possibilità di procedere al conferimento di nuovi incarichi dirigenziali nel caso di una riorganizzazione radicale degli uffici è infatti generalmente ammessa. Ma, per tutelare la continuità degli uffici ed evitare che si realizzino riorganizzazioni fittizie solo per far decadere uno o più dirigenti, la riorganizzazione deve essere appunto molto significativa e rispondere a presupposti precisi, identificati dalla giurisprudenza.

La Corte di cassazione, in particolare, ha chiarito che la revoca/decadenza di incarico per riorganizzazione si può avere solo in presenza di due presupposti (non compatibili con una decadenza generalizzata): a) uno strutturale: la riorganizzazione deve riguardare le specifiche posizioni dirigenziali oggetto di revoca e cioè “attenere al settore cui è preposto il dirigente” interessato; b) uno funzionale: la riorganizzazione deve essere “sostanziale”, quindi non ridursi a correttivi puramente formali o nominalistici [21].

Disposizioni legislative dirette a determinare il conferimento di nuovi incarichi dirigenziali tramite interventi di riorganizzazione hanno poi rilevanti conseguenze sul piano della legittimità costituzionale. Su questo, la Corte costituzionale, per esempio, ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 2, comma 20, del decreto-legge n. 95 del 2012, dove era prevista la cessazione degli incarichi esterni (ai sensi dell’articolo 19, commi 5-bis e 6, del d.lg. n. 165 del 2001) nella Presidenza del Consiglio dei ministri all’esito di una riorganizzazione conseguente alla riduzione degli organici [22]. La Corte ha censurato la disposizione in assenza di un chiaro collegamento tra la finalità di riordino organizzativo e la decadenza degli specifici incarichi: la norma, così come formulata, era “assimilabile in termini sostanziali al fenomeno dello spoils system”, in violazione dei principi di imparzialità, buon andamento e continuità degli uffici.

Analogamente, quando nel 2012-2013 fu prevista una importante riorganizzazione dei ministeri a seguito della spending review del governo Monti e dei consistenti tagli alle dotazioni organiche, il decreto-legge n. 101 del 2013 usò questa formula: “Le amministrazioni [...] all’esito degli interventi di riorganizzazione [...], provvedono al conferimento degli incarichi dirigenziali per le strutture riorganizzate seguendo le modalità, le procedure ed i criteri previsti dall'articolo 19 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165. Sono salvaguardati, fino alla scadenza dei relativi contratti, i rapporti di lavoro in essere alla data di entrata in vigore del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135 mediante conferimento di incarico dirigenziale secondo la disciplina del presente comma” (articolo 1, comma 8).

In quella occasione, in cui tutti i ministeri dovettero riorganizzarsi per attuare tagli del 10 per cento al numero di uffici dirigenziali, governo e Parlamento codificarono la prassi generale, ossia che una riorganizzazione astratta o la semplice adozione di un nuovo regolamento di organizzazione non producono di per sé la possibilità di conferire nuovi incarichi dirigenziali; quest’ultima trova invece giustificazione, nel rispetto dei principi di imparzialità e buon andamento di cui all’articolo 97 Cost. e a salvaguardia dei contratti in essere, soltanto a seguito di rilevanti modifiche sostanziali, avvenute in concreto, dei compiti attribuiti a un dato ufficio.

Come rilevato anche sugli organi di stampa, la formula usata nell’articolo 10, comma 2, del decreto giustizia, dalla portata molto ampia, sembra invece tradire il disegno di applicare uno spoils system generalizzato nel ministero della Cultura [23]; un disegno reso palese anche dall’aver rimarcato l’inclusione degli incarichi dirigenziali non generali (sarebbe bastato dire “gli incarichi dirigenziali”, senza specificare generali e non generali). Nel ribadire l’ovvio, ossia che con un nuovo conferimento il precedente incarico decade, la norma introduce un quid novi: lascia intendere che, una volta approvato il nuovo regolamento di organizzazione, si procederà a conferire nuovi incarichi per tutti gli uffici dirigenziali, sia quelli di nuova istituzione o riorganizzati in modo molto importante, sia quelli non toccati dalla riorganizzazione. In questo caso, la norma lederebbe l’articolo 97 Cost. per violazione dei principi di imparzialità e buon andamento.

Al fine di evitare probabili contenziosi, alimentati anche dalle clausole di salvaguardia dettate dalla contrattazione collettiva, sarebbe dunque auspicabile espungere questa disposizione. Va da sé, comunque, che una interpretazione costituzionalmente orientata della norma in questione è quella secondo la quale gli unici nuovi incarichi dirigenziali da conferire siano quelli riferiti a strutture nuove o a strutture riorganizzate in modo radicale o comunque molto significativo, in linea con la giurisprudenza della Corte di cassazione.

3.3. Le altre disposizioni sulla cultura

L’articolo 10 del decreto giustizia, come anticipato, prevede due ulteriori misure in materia di cultura.

La prima misura - al comma 4 - è l’abrogazione dell’articolo 2, comma 3, della legge n. 140 del 2022, per le celebrazioni dell’ottavo centenario della morte di San Francesco d’Assisi. In particolare, viene soppressa la previsione che rinvia a un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri per stabilire i criteri di assegnazione e il riparto annuale del contributo economico disposto dalla legge. La norma, verosimilmente dettata da esigenze di snellimento dell’iter burocratico, suscita alcune perplessità rispetto alle modalità con cui poi potranno essere ripartite le risorse.

La seconda misura - al comma 5 - è la proroga di tre mesi e mezzo, dal 15 settembre al 31 dicembre 2023, dell’incremento di 1 euro del costo dei biglietti di ingresso nei luoghi e istituti della cultura situati in aree alluvionate. L’iniziativa è senz’altro condivisibile nelle intenzioni. Restano però i dubbi sull’impianto già costruito con la norma originaria, ossia la previsione di un nuovo fondo per raccogliere e ripartire le risorse, e sulla complessità delle fasi attuative. Nel caso di istituti autonomi, per esempio, questa modalità complica molto il percorso delle risorse, perché gli istituti avrebbero potuto trasferire direttamente i fondi dalla loro cassa.

4. Gli incarichi al personale in quiescenza (art. 11)

L’articolo 11 del decreto giustizia detta misure sul trattenimento in servizio di dirigenti pubblici e sugli incarichi a personale in quiescenza, con l’intento di migliorare l’efficienza delle pubbliche amministrazioni. Le disposizioni intervengono in due modi.

In primo luogo (commi 1 e 2), esse modificano la disciplina transitoria già stabilita dal d.l. n. 44 del 2023, che aveva consentito alle amministrazioni di trattenere in servizio, fino al 31 dicembre 2026, il personale dirigenziale di cui all’articolo 19, commi 3 e 4, del d.lg. 30 marzo 2001, n. 165 - e dunque titolare di incarichi dirigenziali di livello generale - in possesso di specifiche professionalità. La nuova disposizione prevede invece che il trattenimento è possibile per i dirigenti generali, anche apicali, “che siano attuatori di interventi previsti nel Piano nazionale di ripresa e resilienza”. In sostanza, la misura sembra restringere l’ambito di applicazione della disciplina dettata pochi mesi fa, ora contestualmente abrogata, facendo opportunamente salvi gli incarichi già conferiti.

In secondo luogo (comma 3), l’articolo 11 introduce una nuova deroga ai divieti di conferire incarichi a personale in quiescenza. In particolare, vengono sottratti a questo divieto gli incarichi di vertice degli uffici di diretta collaborazione delle autorità politiche. Sono comunque mantenuti i tetti retributivi esistenti nel caso di cumulo di compensi e trattamenti pensionistici.

Questa misura sugli uffici di diretta collaborazione suscita alcune perplessità. Innanzitutto, per come essa è formulata. L’articolo 5, comma 9, del decreto-legge n. 95 del 2012 è stato più volte modificato negli anni, tanto che oggi si prevede un regime articolato tra incarichi retribuiti e gratuiti e di durata massimo un anno per quelli direttivi. Sarebbe stato quindi preferibile scrivere direttamente “Non si applica l’articolo...” invece di richiamare genericamente il divieto. Inoltre, in termini generali, è giunto il tempo di operare un ripensamento organico della disciplina, invece di procedere con deroghe per settori specifici (in questo caso, peraltro, riguardante incarichi di carattere strettamente fiduciario conferiti dagli organi politici).

In conclusione, viste le condizioni critiche in cui versa la pubblica amministrazione italiana, soprattutto con riguardo all’età del personale, sarebbe auspicabile disegnare interventi di più ampio respiro e meno micro-settoriali. I dati Ocse tratti dal Government at a Glance 2023 e 2021, riportati in appendice, sono impietosi, perché, da un lato, restituiscono l’immagine, in Italia, di una pubblica amministrazione vecchia e che non cresce, e, dall’altro lato, sfatano il mito di un eccesso di personale pubblico rispetto alle forze lavoro complessive. Il punto fondamentale non è però ampliare le ipotesi di trattenimento in servizio di personale in quiescenza o procedere con massicce assunzioni a regime invariato, ma resta quello di ripensare in modo radicale la disciplina giuridica ed economica del personale pubblico.

5. Conclusioni

In definitiva, il decreto giustizia mostra profili problematici rispetto alla non omogeneità delle materie trattate, nel solco dei decreti-legge c.d. omnibus.

Con riguardo alla cultura, in primo luogo, prevede una trasformazione del ministero della Cultura in Dipartimenti, in contrasto con la lunga storia di questa amministrazione e con l’articolazione delle funzioni che essa effettivamente svolge. In secondo luogo, esso dispone uno spoils system generalizzato per tutti i dirigenti del ministero della Cultura, di dubbia legittimità costituzionale e foriero di contenziosi.

Infine, con riferimento al trattenimento in servizio del personale in quiescenza, si concentra su aspetti micro, senza considerare il quadro generale.

Appendice: Dati OCSE sul personale pubblico

 

Note

[*] Testo dell’audizione informale nelle commissioni permanenti I (affari costituzionali) e II (giustizia) riunite della Camera dei deputati sul disegno di legge A.c. 1373 - conversione in legge del d.l. 10 agosto 2023, n. 105, recante disposizioni urgenti in materia di processo penale, di processo civile, di contrasto agli incendi boschivi, di recupero dalle tossicodipendenze, di salute e di cultura, nonché in materia di personale della magistratura e della pubblica amministrazione (Roma, 12 settembre 2023).

[**] Lorenzo Casini, professore ordinario di Diritto amministrativo nella Scuola IMT Alti Studi di Lucca, Piazza S. Ponziano, 6 - 55100 Lucca, LU, lorenzo.casini@imtlucca.it.

[1] https://www.camera.it/leg19/126?leg=19&idDocumento=1373.

[2] Per i dati qui riportati, si veda il Rapporto annuale sulla legislazione, prodotto dall’osservatorio sulla legislazione della Camera dei deputati, nonché le informazioni sulla produzione normativa rese disponibili dal comitato per la legislazione e altre pubblicazioni ufficiali del Parlamento. Per i dati antecedenti al 2008, si v. M. Cotta e F. Marangoni, Il Governo, Bologna, il Mulino, 2015, pag. 191 ss. Più in generale, si rinvia a quanto scritto in Il Governo legislatore, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 2023, 1, pag. 149 ss., e agli articoli raccolti nel medesimo fascicolo, tutti dedicati al tema della separazione dei poteri.

[3] Di queste, nel 2023, circa la metà sono state proposte dalla presidente di commissione.

[4] Faceva notare già L. Paladin, Le fonti del diritto italiano, Bologna, il Mulino, 1996, che “grave” era il “fatto che la decretazione governativa sta ormai sopravanzando nettamente l’insieme delle leggi formali: nel ’93 tali legge sono infatti ammontate a un totale di 177, di cui solamente 106 presentavano contenuti diversi dalla conversione di detti decreti; mentre nel ’94 le leggi formali pubblicate in Gazzetta ufficiale sono state 163, 79 delle quali si risolvevano nel convertire i decreti stessi” (pag. 246).

[5] Corte cost., sentenza n. 360 del 1996.

[6] Lo evidenziano M. Cotta e F. Marangoni, Il Governo, cit., pag. 206 ss. Sulla riforma del 1971, L. Paladin, Per una storia costituzionale dell’Italia repubblicana, Bologna, il Mulino, 2004, pag. 272 ss., sottolineò che, anche a séguito dei nuovi regolamenti, “l’idea della centralità delle assemblee parlamentari si risol[se] in una formula ambigua e polisensa” (pag. 277); si v. anche C. Ghisalberti, Storia costituzionale d’Italia 1848/1994, 1974, IV ed., Roma-Bari, Laterza, 2004, pag. 472 ss.

[7] L. Einaudi, Decreti e leggi (10 aprile 1925), in Id., Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), VIII-1925, Torino, Einaudi, 1965, pag. 211. Anche se Einaudi scriveva prima della Costituzione e prima ancora della legge n. 100 del 1926, il suo scritto è valido ancora oggi.

[8] Seduta della seconda sottocommissione della commissione per la Costituzione del 4 marzo 1947.

[9] L. Paladin, Le fonti del diritto italiano, cit., pag. 247.

[10] http://documenti.camera.it/leg19/dossier/Pdf/D23105.pdf.

[11] In sede di conversione del decreto-legge 11 novembre 2022, n. 173, convertito, con modificazioni, dalla legge 16 dicembre 2022, n. 204, ossia il decreto-legge ministeri.

[12] Con il decreto-legge 22 aprile 2023, n. 44, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 giugno 2023, n. 74.

[13] Con il decreto-legge 22 giugno 2023, n. 75, convertito, con modificazioni, dalla legge 10 agosto 2023, n. 112.

[14] G. Corso, Il ministero per i beni e le attività culturali (articoli 52-54), in La riforma del governo. Commento ai decreti legislativi n. 300 e n. 303 del 1999 sulla riorganizzazione della Presidenza del Consiglio e dei ministeri, (a cura di) A. Pajno e L. Torchia, Bologna, il Mulino, 2000, pag. 375 ss.; R. Cecchi, Abecedario. Come proteggere e valorizzare il patrimonio culturale italiano, Milano, Skira, 2015, pag. 52 ss.; L. Casini, Ereditare il futuro. Dilemmi sul patrimonio culturale, Bologna, il Mulino, 2016, pag. 157 ss.; C. Barbati, Il “nuovo” Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, in Giorn. dir. amm., 2015, pag. 206 ss., nonché gli scritti di M. Cammelli, G. Sciullo, C. Barbati, P. Forte e G. Piperata in Aedon, 2015, 1, e, più in generale, gli articoli sul tema pubblicati in Aedon dal 1998 a oggi.

[15] C. Barbati, Organizzazione e soggetti, in C. Barbati, M. Cammelli, L. Casini, G. Piperata, G. Sciullo, Diritto del patrimonio culturale, II ed., Bologna, il Mulino, 2020, pag. 73 ss., in particolare pag. 87 ss.

[16] L’espressione è di M.S. Giannini, Infine un’organizzazione amministrativa dei beni culturali (anni Ottanta), ora in Id., Scritti, X, Milano, Giuffrè, 2008, pag. 405 ss., qui 410, il quale osservava che “il ministero fu istituito per ragioni di governo, ma seguitò a restare, per l’attività, la direzione generale che era prima”, ossia la ex Direzione generale delle cose d’interesse artistico presso il ministero della Pubblica istruzione. In precedenza, S. Cassese, I beni culturali da Bottai a Spadolini, in L’Amministrazione dello Stato, Milano, Giuffrè, 1976, pag. 152 ss.; G. Spadolini, Una politica per i beni culturali, Roma, Colombo, 1975.

[17] M. Cammelli, La riorganizzazione del ministero per i Beni e le Attività culturali (d.lg. 8 gennaio 2004, n. 3), in Aedon, 2003, 3; G. D’Auria, Filosofia e pratica del Capo II della legge 59/1997, in Aedon, 1999, 1.

[18] La Relazione finale è consultabili qui: http://www.aedon.mulino.it/primopiano/relazione_finale_commissione_beni_culturali_2013.pdf.

[19] G. Sciullo, Il ‘Lego’ istituzionale: il caso del Mibac, in Aedon, 2006, 3; L. Casini, La riorganizzazione del Mibact: dal “lego” istituzionale alla manutenzione amministrativa, in Aedon, 2019, 3.

[20] Nel 2004-2006, in teoria, il modello dipartimentale - tenuto conto che al ministero era attribuito anche lo sport - poteva apparire “ragionevole in termini di logica organizzativa. Sennonché l'articolazione del modello non è stata fra le più felici. Da un lato, la configurazione prescelta accorpava aree funzionalmente separabili (beni culturali e beni paesaggistici) mentre teneva separate aree accorpabili (beni archivistici e librari rispetto agli altri beni culturali) e, dall’altro, con la costituzione del dipartimento per la ricerca, l’innovazione e l’organizzazione venivano ritagliate funzioni in tema di risorse finanziarie, umane e materiali (dando ad esse autonomo rilievo) che, invece, nella ‘logica’ dipartimentale, improntata all'integrazione fra funzioni finali e funzioni strumentali (art. 5, comma 1, d.lg. n. 300/1999), avrebbero dovuto essere appannaggio degli altri dipartimenti, a tutto beneficio della funzionalità operativa” (così G. Sciullo, Il ‘Lego’ istituzionale: il caso del Mibac, cit.).

[21] Cass. civ., sez. lav., 3 febbraio 2017, n. 2972.

[22] Corte cost., sentenza n. 15 del 2017. L’art. 2, comma 20, del decreto-legge n. 95 del 2012 prevedeva che: “Ai fini dell'attuazione della riduzione del 20 per cento operata sulle dotazioni organiche dirigenziali di prima e seconda fascia dei propri ruoli, la Presidenza del Consiglio dei ministri provvede alla immediata riorganizzazione delle proprie strutture sulla base di criteri di contenimento della spesa e di ridimensionamento strutturale. All'esito di tale processo, e comunque non oltre il 1º novembre 2012, cessano tutti gli incarichi, in corso a quella data, di prima e seconda fascia conferiti ai sensi dell'articolo 19, commi 5-bis e 6, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165. Fino al suddetto termine non possono essere conferiti o rinnovati incarichi di cui alla citata normativa”.

[23] S. Cassese, Tweet e ricerca del consenso, ma è questa la politica?, in Corriere della Sera, 26 agosto 2023.

 

 

 



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