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I confini della tutela: il vincolo culturale di destinazione d’uso

Vincoli sui locali storici e prescrizioni d’uso: superamento di un (inesistente) contrasto giurisprudenziale e riconferma di principi pacifici anche (innovativamente) alla luce dell’art. 7-bis del Codice dei beni culturali e del paesaggio nella sentenza dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 5/2023 [*]

di Nicola Aicardi [**]

Sommario: 1. I vincoli di interesse culturale relazionale sui locali storici e le connesse prescrizioni d'uso: il caso affrontato dall'Adunanza plenaria e il (supposto) contrasto giurisprudenziale. - 2. L'orientamento (in verità) consolidato della giurisprudenza del Consiglio di Stato: le due sentenze capostipiti (Cons. Stato, Sez. VI, n. 723/1983 e n. 359/1986). - 3. La conferma del medesimo ordinamento nella sentenza della Corte costituzionale n. 118/1990. - 4. La riconducibilità all'orientamento consolidato di tutte le successive pronunce del Consiglio di Stato, ancorché indicate dall'Adunanza plenaria come espressive di tre indirizzi in (supposto) conflitto. - 5. La (scontata) riconferma dell'orientamento consolidato anche da parte dell'Adunanza plenaria. - 6. La (innovativa) convalida dell'orientamento consolidato anche alla luce dell'art. 7-bis del codice dei beni culturali e del paesaggio. - 7. Le (ripetitive) ulteriori considerazioni generali e conclusive. - 8. Gli elementi (comunque) di utilità della pronuncia dell'Adunanza plenaria.

Constraints on historic venues and prescriptions of use: overcoming a conflict in case law (non-existent) and reconfirmation of peaceful principles also (innovatively) in the light of art. 7-bis of the Cultural Heritage and Landscape Code in the sentence of Adunanza Plenaria nr. 5/2023 of the Italian State Council
The essay comments the sentence of the “Adunanza plenaria” of the Council of State nr. 5/2023 on constraints of relational cultural interest on historic venues and the consequent rules of use. It does not agree with the identification of three opposing jurisprudential guidelines and it’s aimed at showing the presence of a consolidated orientation which has established the legitimacy of such constraints and the consequent prohibition of changing the historic use of constrained assets if it is demonstrated the incorporation of protected intangible values in tangible assets subject to restrictions. The commented sentence confirms this consolidated orientation, validating it innovatively also in the light of article 7-bis of the Code of cultural heritage and landscape.

Keywords: Historic Venues; Constraints of relational cultural interest; Prohibition of changing the historic use.

1. I vincoli di interesse culturale relazionale sui locali storici e le connesse prescrizioni d'uso: il caso affrontato dall'Adunanza plenaria e il (supposto) contrasto giurisprudenziale

L'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza 13 febbraio 2023, n. 5, qui in commento, si è pronunciata sui vincoli di interesse culturale relazionale ai sensi dell'art. 10, comma 3, lett. d) del d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42, recante il codice dei beni culturali e del paesaggio (di seguito il “Codice”), imposti su locali, con i relativi arredi, sede di esercizi commerciali tradizionali (i c.d. “locali storici”), in ragione del collegamento degli stessi e delle attività ivi esercitate con particolari vicende, momenti o epoche della storia dei luoghi, e alle connesse prescrizioni limitative delle loro destinazioni d'uso.

La fattispecie presa in esame dall'Adunanza plenaria riguarda il ristorante il Vero Alfredo di piazza Augusto Imperatore a Roma, assoggettato nel 2018 a questo tipo di vincolo, impugnato nel giudizio da cui è scaturito il deferimento all'Adunanza stessa. Il vincolo, apposto sull'immobile e sui mobili in esso contenuti, è stato adottato in ragione - tra l'altro - della perdurante presenza dell'originario allestimento, comprensivo delle decorazioni a stucco, degli arredi e dei bassorilievi d'epoca, in linea con il gusto del periodo, nonché delle numerose opere artistiche conservate e del collegamento di tali beni con i valori immateriali rappresentati dalla tradizione enogastronomica e dalla socialità che, dai primi anni cinquanta ad oggi, ha reso il ristorante, frequentato nel tempo da personalità dello spettacolo e della vita culturale e politica (anche come attestato dalle 403 foto apposte sulle pareti e dai 58 libri-firme di celebrità, dichiarati, con tutela a parte, di interesse storico particolarmente importante), uno spazio fisico e simbolico di accoglienza e di incontro, di cui è stato ritenuto meritevole conservare anche la continuità d'uso, vietandone, in sostanza, il mutamento [1].

Il deferimento all'Adunanza plenaria delle questioni connesse alla contestata legittimità del vincolo in questione era stato disposto dalla Sezione VI del Consiglio di Stato, con ordinanza 28 giugno 2022, n. 5357, la quale aveva ravvisato, sull'argomento, un contrasto giurisprudenziale giudicato meritevole di essere risolto con l'intervento nomofilattico rafforzato del supremo consesso della giustizia amministrativa.

Ad avviso dell'ordinanza di rimessione, vi sarebbero, infatti, tre indirizzi in conflitto, in punto di legittimità dei vincoli di interesse culturale relazionale sui locali storici e delle conseguenti prescrizioni d'uso.

Secondo il primo indirizzo - più restrittivo - i vincoli che impongano una data destinazione d'uso dei beni tutelati, adibiti ad attività commerciali, non sarebbero compatibili con il diritto positivo e con la tutela costituzionale del diritto di proprietà e della libertà di iniziativa economica, traducendosi in un vincolo di tutela, anziché del bene culturale, dell'attività ivi svolta.

In base al secondo indirizzo - intermedio - sarebbe invece ammissibile derogare al divieto di imposizione della destinazione d'uso, ma solo in circostanze eccezionali, qualora il bene tutelato abbia subìto una particolare trasformazione con una sua specifica destinazione e un suo stretto collegamento per un'iniziativa storico-culturale di rilevante importanza; solo in tal caso, infatti, il valore oggetto di tutela finirebbe con l'incorporarsi a tal punto con il bene vincolato da risolversi in un vincolo a tutela della res (e non dell'attività).

Il terzo indirizzo - più permissivo - considererebbe viceversa non estranea, in via generale, al sistema normativo della tutela dei beni culturali la previsione di limiti alla destinazione d'uso dei beni vincolati, ancorché adibiti ad attività commerciali, qualora risulti motivatamente accertato che questi beni incarnino i valori che le prescrizioni attinenti all'uso hanno inteso proteggere, e senza peraltro che ciò si risolva nell'obbligo di gestire le attività in questione.

L'individuazione di questi tre indirizzi - per come prospettata dell'ordinanza di rimessione - non è stata messa in discussione dall'Adunanza plenaria, la quale, sul punto, si è limitata a riportare il quadro delineato dall'ordinanza stessa, per poi procedere, come si dirà, a fornire la propria soluzione.

2. L'orientamento (in verità) consolidato della giurisprudenza del Consiglio di Stato: le due sentenze capostipiti (Cons. Stato, Sez. VI, n. 723/1983 e n. 359/1986)

Secondo chi scrive, invece, sulla questione di diritto qui in esame la giurisprudenza del Consiglio di Stato non è mai stata divisa, ma, al contrario, era già da lungo tempo consolidata intorno alla posizione di seguito illustrata [2].

Capostipiti di questa posizione - univoca - della giurisprudenza del Consiglio di Stato sono due sentenze di una quarantina d'anni fa, relative a provvedimenti di vincolo assunti su locali a destinazione commerciale del centro storico di Roma.

La prima sentenza (Cons. Stato, Sez. VI, 10 ottobre 1983, n. 723 [3]) si pronunciò con riguardo alla fiaschetteria Beltramme di via della Croce, vincolata ai sensi dell'allora vigente art. 2 della legge 1° giugno 1939, n. 1089 [e cioè, oggi, il citato art. 10, comma 3, lett. d) del Codice], in quanto - come si desume dalla sentenza - “tipica trattoria romana”, divenuta “luogo di incontri e scambi conviviali su problemi di cultura e attualità” tra “artisti, scrittori, giornalisti e uomini di cultura italiani e stranieri”, mantenuta “sostanzialmente inalterat[a] dall'inizio del secolo”, e che conserva, tra l'altro, “sporti in legno dell'epoca”, un'“autentica insegna” e “schizzi satirici e quadri” dei vari artisti che la frequentavano.

Il Consiglio di Stato ritenne che le ragioni di tale vincolo fossero “riconducibil[i] senza dubbio al tipo di interessi presi in considerazione” dal citato art. 2 della legge n. 1089/1939 e che il vincolo in questione potesse legittimamente implicare limiti alla destinazione d'uso del bene vincolato, atteso che, ai sensi dell'art. 11, comma secondo della medesima legge n. 1089/1939, in combinato disposto con il successivo art. 12, comma primo [norme oggi rifuse nell'art. 20, comma 1 del Codice], è fatto divieto di adibire le cose sottoposte a tutela a “usi non compatibili con il loro carattere storico od artistico, oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione o integrità”.

Né erano fondate le censure di violazione dei principi di legalità e di tipicità dei provvedimenti amministrativi (con le connesse contestate violazioni degli artt. 41 e 42 Cost.), perché il vincolo non aveva imposto “lo svolgimento di una determinata attività economica” e i divieti d'uso derivanti dal vincolo non erano “idonei a rendere obbligatoria la gestione della trattoria” (pur ponendone “di fatto le premesse”).

La seconda sentenza (Cons. Stato, Sez. VI, 5 maggio 1986, n. 359 [4]), frutto della riunione di più appelli, riguardò invece i vincoli apposti, sempre ai sensi dell'allora vigente art. 2 della legge n. 1089/1939, su alcune librerie del centro storico di Roma (tra cui la libreria internazionale Rizzoli e la libreria Croce).

Qui il Consiglio di Stato osservò che i valori culturali, “per divenire tutelabili”, devono essere “‘incarnati in strutture’ ... perpetuabili o [comunque] stabili”, con conseguente illegittimità dei provvedimenti di tutela, perché nelle librerie vincolate non vi erano “strutture materiali nelle quali i valori storici e culturali ... [si fossero] immedesimati”, sicché il “rapporto tra valori e strutture ... si riduce[va] tutto alla gestione dell[e] libreri[e]” e “il vero oggetto della tutela” risultava perciò essere “l'esercizio commerciale”.

Questo - precisò il Consiglio di Stato - a differenza del precedente relativo alla fiaschetteria Beltramme, in cui il vincolo era stato apposto su un locale “sede d'incontro di artisti e uomini di cultura, costituente ancora un ambiente inalterato e ricco di memoria”, nel quale “i valori culturali ivi sviluppatisi ... [erano] ben ‘incarnati’ nell'ambiente”.

Il Consiglio di Stato manifestò di “comprende[re]” che i vincoli sulle suddette librerie romane erano stati adottati “nell'intento di salvare il centro storico dalla volgarizzazione conseguente all'abbandono delle attività tradizionali (artigianato, librerie, ecc.) in favore di esercizi commerciali spesso non all'altezza delle tradizioni”; evidenziò, tuttavia, che il perseguimento di questo obiettivo richiedeva nuovi “strumenti adeguati”, senza poter “chiedere al giudice di compiere uno sforzo interpretativo che, andando oltre i limiti consentiti, sconfin[asse] nella sostituzione della volontà del legislatore”. Secondo il Consiglio di Stato, il giudice, nel precedente sulla fiaschetteria Beltramme, si era “spint[o] fino al limite dell'interpretazione estensiva della norma, oltre al quale il problema diventa[va] politico e, quindi, legislativo”.

Dal “combinato disposto” dei due leading cases appena riportati si ricava - cristallino - il seguente principio di diritto.

Il vincolo di tipo relazionale sui locali storici è legittimo solo qualora esista un collegamento obiettivo - dimostrato dalla motivazione del provvedimento - tra l'immobile tutelato (con i relativi arredi e altre eventuali pertinenze) e i valori culturali che l'Amministrazione ha inteso salvaguardare, connessi all'uso commerciale cui lo stesso è stato nel tempo adibito. I valori da difendere devono essere, cioè, naturalmente e obiettivamente “incarnati” e “immedesimati” nei beni vincolati, i quali devono costituirne la testimonianza materiale tramandabile nel tempo.

In mancanza di questo obiettivo collegamento tra le strutture materiali e il valore culturale, il vincolo è invece illegittimo, perché il suo scopo, in questo caso, non è proteggere il bene, ma l'uso cui esso è adibito, ossia l'attività commerciale: l'atto è dunque invalido per mancanza di oggetto, dal momento che il vero oggetto della tutela non è il bene, ma l'esercizio commerciale, o comunque per sviamento di potere per divergenza dell'atto dai suoi fini istituzionali, giacché il fine concretamente perseguito (e cioè la salvaguardia dell'impresa commerciale), seppur apprezzabile, è estraneo agli interessi pubblici in vista dei quali l'Amministrazione ha titolo di esercitare i propri poteri di tutela sui beni culturali.

L'imposizione, quando legittima, del vincolo in questione non implica, tuttavia, alcun obbligo di effettiva continuazione dell'attività commerciale tradizionale. Il vincolo, difatti, ha ad oggetto i beni ed è preordinato ad assicurarne la conservazione; esso non può pertanto comportare obblighi attivi di facere connessi alla destinazione d'uso degli stessi, e cioè l'imposizione, al destinatario del vincolo, del dovere di perpetuare attivamente (in via diretta o a mezzo di locatari) la destinazione d'uso storica.

Peraltro, come efficacemente rilevato dal Consiglio di Stato nella sentenza sulla fiaschetteria Beltramme, il vincolo “pone di fatto le premesse” per la continuazione dell'attività tradizionale. Infatti, posto che i beni vincolati non possono, per legge, essere adibiti a “usi non compatibili con il loro carattere storico od artistico”, se l'interesse culturale che ha giustificato il vincolo è dato dalla destinazione del bene a un particolare uso commerciale, ne discende, necessariamente, che questo sarà l'unico uso da ritenere compatibile con i valori tutelati. Dunque, il vincolo, in collegamento con il divieto di usi incompatibili, ha l'effetto di imprimere un'unica destinazione d'uso ai beni vincolati: quella in atto al momento della sua apposizione. È evidente, di conseguenza, che questa limitazione potrà, in concreto, ragionevolmente indurre il destinatario del provvedimento a far sì che l'attività tradizionale possa proseguire, nella consapevolezza di non poter adibire i beni in questione ad altri usi, eventualmente più remunerativi.

3. La conferma del medesimo ordinamento nella sentenza della Corte costituzionale n. 118/1990

A pochi anni di distanza, l'impostazione della giurisprudenza del Consiglio di Stato fu confermata anche dalla Corte costituzionale, con la sentenza 9 marzo 1990, n. 118 [5].

La questione decisa trasse origine dall'impugnazione, avanti al Tar Lazio, dei vincoli imposti sul caffè Genovese di Cagliari e sulla gioielleria Masenza di Roma.

Il Tar Lazio, con due identiche ordinanze di promovimento della questione di costituzionalità [6], reputò che tali provvedimenti avessero come scopo principale di “assicurare la continuità dell'attività commerciale” svolta nei locali tutelati e, in quanto tali, fossero estranei alle previsioni dell'allora legge n. 1089/1939; dubitò, però, della costituzionalità di questa legge, e in particolare dei suoi artt. 1 e 2 che indicavano le tipologie di beni assoggettabili a tutela, per contrasto con l'art. 9 Cost., nella parte in cui non prevedevano, e quindi escludevano, “la possibilità di tutelare attività culturalmente rilevanti e caratterizzanti l'assetto di una via, di un quartiere, di una zona (cioè la cultura che vive in un certo contesto territoriale)”.

La Corte costituzionale rigettò la questione seguendo il medesimo orientamento già sviluppato dalle due sentenze del Consiglio di Stato sopra esaminate.

Essa rilevò, infatti, che “l'utilizzazione” del locale commerciale non può assumere “rilievo autonomo, separato e distinto dal bene”, ma si deve “compenetra[re] nelle cose che ne costituiscono il supporto materiale e, quindi, non può essere protetta separatamente dal bene”; dunque, il vincolo “non può assolutamente riguardare l'attività culturale in sé e per sé, cioè, considerata separatamente dal bene, la quale attività, invece, deve essere libera secondo i precetti costituzionali”.

Peraltro, laddove i valori derivanti dall'uso risultino effettivamente compenetrati nei beni, l'“esigenza di protezione culturale dei beni, determinata dalla loro utilizzazione e dal loro uso pregressi, si estrinseca in un vincolo di destinazione che agisce sulla proprietà del bene e può trovare giustificazione, per i profili costituzionali, nella funzione sociale che la proprietà privata deve svolgere (art. 42 della Costituzione)”.

4. La riconducibilità all'orientamento consolidato di tutte le successive pronunce del Consiglio di Stato, ancorché indicate dall'Adunanza plenaria come espressive di tre indirizzi in (supposto) conflitto

L'orientamento cui diedero corpo le due anzidette sentenze pilota del Consiglio di Stato, avallato anche dalla Corte costituzionale, è stato da allora sempre seguito. Pertanto, non si ritiene esatto - come ha fatto l'Adunanza plenaria, riprendendo passivamente la ricostruzione operata dall'ordinanza di rimessione - ascrivere le successive pronunce rese in argomento dal Consiglio di Stato a tre indirizzi tra loro contrapposti e inconciliabili.

4.1. Quanto alle pronunce indicate come appartenenti al supposto primo indirizzo, più restrittivo, esse sono, in realtà, quelle in cui il vincolo è stato annullato perché, ad avviso del giudice, l'incorporazione dei valori culturali nelle strutture materiali non sussisteva (o, comunque, l'Amministrazione non era stata in grado di comprovarla). Queste pronunce, cioè, non vietano in re ipsa l'apposizione dei vincoli sui locali commerciali e le conseguenti restrizioni alle loro destinazioni d'uso, ma si limitano ad accertare, nelle fattispecie esaminate, l'assenza dei presupposti per tale apposizione e per i divieti di modificazione dell'uso che ne derivano.

Se si esaminano le tre sentenze citate dall'Adunanza plenaria come espressive dell'indirizzo in questione [7], ci si avvede che esse non smentiscono mai, in astratto, l'ammissibilità dei vincoli di cui si tratta e le conseguenti possibili limitazioni delle destinazioni d'uso.

La sentenza Cons. Stato, Sez. VI, 16 settembre 1998, n. 1266 [8], relativa al vincolo imposto sui locali e gli arredi della farmacia Due Torri di Bologna, partendo anche dal presupposto che già in primo grado era stato accertato che gli arredi in questione, risalendo solo a qualche decennio addietro, erano di “epoca ben più recente” rispetto all'avvio dell'“attività speziaria” nei locali suddetti, “iniziata nel 1518”, e che i locali stessi erano “ormai privi delle principali attrezzature che connotavano l'attività degli speziali”, ha confermato che, ai fini dell'apposizione del vincolo di cui trattasi, i “valori culturali ... che sono la ragion d'essere della tutela ... debbono essere ‘incarnati’ in strutture materiali”, perché, in caso contrario, la tutela finisce per avere illegittimamente ad oggetto “la gestione commerciale o l'esercizio artigianale di determinate attività”, atteso che la mera “annosità dell'esercizio di un'attività ... non basta per incorporare nell'immobile ... i valori ... culturali legati all'attività stessa”.

E anche con riguardo alla questione specifica delle conseguenti limitazioni degli usi dei beni vincolati, la sentenza, laddove ha affermato che il divieto normativo di usi incompatibili dei beni culturali, pur consentendo di “interdi[re] utilizzazioni lesive del valore incorporato” nei beni stessi, non “legittima l'imposizione, a priori, di un vincolo di destinazione d'uso dei beni immobili allorché tale destinazione si connetta solo indirettamente e non univocamente alla possibilità di conservare [l']integrità fisica e funzionale dei mobili che eventualmente contenga”, ha riconosciuto, a contrario, l'ammissibilità dell'imposizione sull'immobile tutelato della destinazione d'uso in atto al momento del vincolo qualora essa risulti direttamente e univocamente necessaria per conservare l'integrità fisica e funzionale delle cose mobili (arredi e altro) in esso contenute.

Le restanti due pronunce riguardano vincoli imposti su locali (già) adibiti a cinema teatro.

La sentenza Cons. Stato, Sez. VI, 2 marzo 2015, n. 1003, relativa al cinema teatro Concordi di Padova, dopo aver ribadito che non sono ammessi i “vincoli culturali di mera destinazione d'uso”, e cioè i vincoli finalizzati alla “tutela funzionale di attività imprenditoriali in determinati immobili”, ha rilevato che nella fattispecie il vincolo perseguiva questa non consentita finalità; infatti, le strutture materiali sottoposte a tutela non erano più in grado di assicurare la “concreta sopravvivenza della testimonianza culturale” connessa alla loro originaria destinazione d'uso (di cinema teatro), dal momento che tale uso era stato “da tempo dismesso” e non era più ripristinabile a causa di obiettive “circostanze eterne”, sicché il vincolo avrebbe finito per “contraddire la stessa salvaguardia materiale del bene, cui la legge di tutela è orientata”.

In senso analogo, la sentenza Cons. Stato, Sez. VI, 29 dicembre 2017, n. 6166, concernente il cinema teatro Ariston di Campobasso, ha evidenziato l'insussistenza ab origine o comunque la sopravvenuta perdita dell'iniziale pregio culturale dell'immobile sottoposto a tutela (atteso che quest'ultimo, realizzato negli anni Cinquanta del Novecento, “non è testimonianza storica dell'architettura di epoca fascista, ma rappresenta solo l'elaborazione progettuale e la realizzazione imitativa di quell'architettura”, e in ogni caso, nel tempo, “ha subito numerosi rimaneggiamenti, superfetazioni e ristrutturazioni che ne hanno modificato profili e struttura e, negli ultimi anni, ha patito un grave degrado, a causa della non funzionalità e dell'incuria, di guisa che le caratteristiche originarie del progetto sono andate pressoché perdute”) e da ciò ha dedotto che “sotto le mentite spoglie di un vincolo strutturale” era stato in realtà imposto un mero “vincolo di destinazione d'uso” (a cinema teatro); vincolo non più peraltro attuabile, perché l'immobile “non ha più i requisiti strutturali imposti dalle sopravvenute normative in materia di antincendio, sismicità, standards urbanistici e sicurezza degli edifici destinati a pubblici spettacoli”.

Anche in queste due pronunce il giudice non ha postulato una preconcetta inammissibilità dei vincoli che abbiano l'effetto di imporre una data destinazione d'uso dei beni, adibiti ad attività commerciali, sottoposti a tutela, ma ha semplicemente ravvisato, nelle concrete fattispecie decise, l'insussistenza (o, comunque, il definitivo venir meno) del necessario presupposto dei vincoli in questione, e cioè la persistente incorporazione, nei beni oggetto dei provvedimenti impugnati, dei valori culturali connessi alle destinazioni d'uso imposte.

Le pronunce indicate non sono, peraltro, le uniche rinvenibili, nelle quali il Consiglio di Stato ha considerato illegittimo il vincolo per mancata (dimostrazione della) incorporazione dei valori da salvaguardare nelle strutture sottoposte a tutela. Si possono ulteriormente ricordare, senza pretesa di completezza:

- Cons. Stato, Sez. VI, 10 ottobre 2002, n. 5434, sul ristorante Bagutta di Milano, la quale, premesso che “l’imposizione di un vincolo che riverberi i propri effetti sulla utilizzazione del bene vincolato” è legittimo solo “allorché risulti chiaro che detta utilizzazione non assume rilievo autonomo, separato e distinto dal bene, ma si compenetra nelle cose che ne costituiscono il supporto materiale”, ha rilevato, nella specie, l’illegittimità del vincolo perché i locali vincolati (sede di un elegante ristorante di fama internazionale) avevano perso ogni riferimento con il valore che il vincolo intendeva tutelare, e cioè la memoria della “‘modesta trattoria toscana’ che ospitava prevalentemente (nel centro milanese degli affari) pranzi e cene di lavoro e nella quale ha avuto origine il premio letterario ‘Bagutta’”;

- Cons. Stato, Sez. VI, 22 gennaio 2004, n. 161, sulla libreria Treves di Napoli, che ha evidenziato, tra l'altro, lo sviamento dell'agire dell'Amministrazione, perché il vincolo era stato motivato per la ragione che la libreria “rischia[va] di scomparire dal panorama culturale cittadino a causa di una controversia con la proprietà”, sicché il vincolo si rendeva necessario per la “salvaguardia di attività consone all'ambiente che le accoglie”, ma senza adeguatamente motivare né il legame della libreria con specifiche vicende o momenti della storia locale né, tanto meno, la capacità delle strutture materiali a testimoniare i valori che il vincolo mirava a proteggere;

- Cons. Stato, Sez. VI, 16 novembre 2004, n. 7471, sulla farmacia Saluz di Cagliari, che ha rilevato, nel provvedimento di vincolo, la carenza della motivazione circa la “sussistenza di valori culturali, estetici e storici tutelabili perché ‘incarnati in una determinata struttura’”, posto che esso si limitava a dare atto che il locale era ubicato “nel cuore commerciale della città” e presentava arredi ottocenteschi in legno pregiato, “senza nulla aggiungere di più specifico in relazione al riferimento della farmacia alla storia della cultura e alla rilevanza artistica dell'arredo”;

- Cons. Stato, Sez. VI, 14 giugno 2017, n. 2920, sul cinema America di Roma, che ha annullato il vincolo per mancanza del riferimento a specifici fatti storici che l'immobile sarebbe stato in grado di testimoniare, posto che lo stesso era stato tutelato “con riferimento ad un'epoca generica, nemmeno precisamente individuata”, e richiamando, in maniera non sufficiente, solo il “periodo di successo dell'industria cinematografica locale” [9].

4.2. Passando alle due pronunce indicate dall'Adunanza plenaria come espressive di un supposto indirizzo intermedio [10], anch'esse, in realtà, non fanno altro che ripetere l'univoco principio di diritto sopra esposto.

La sentenza Cons. Stato, Sez. VI, 28 agosto 2006, n. 5004, relativa alla bottega di arredamento Canetoli di Bologna, ha rammentato che non è consentito “tutelare i valori storico-culturali senza la protezione delle strutture materiali in cui tali valori si immedesimano”, sicché i vincoli di cui trattasi sono legittimi solo alla condizione, non ravvisata nel caso esaminato, che “il valore oggetto di tutela abbia finito con l'incorporarsi a tal punto con l'immobile tutelato”, da fare sì che “oggetto del vincolo” siano l'immobile e la sua conservazione “e non già l'attività in esso esercitata”, ma senza che ciò implichi “necessariamente anche la continuazione dell'attività” stessa.

La sentenza Cons. Stato, Sez. VI, 6 maggio 2008, n. 2009, relativa alla confetteria Pietro Romanengo di Genova, ha dato atto che in argomento esiste un “consolidato orientamento della giurisprudenza - inaugurato dalla sentenza sulla fiaschetteria Beltramme e che poggia, altresì, sulla “fondamentale decisione” della Corte costituzionale n. 118/1990 - tale per cui il vincolo sugli immobili adibiti a esercizi commerciali “è legittimamente motivato con la sussistenza sia dell'immedesimazione e compenetrazione dei valori storico culturali con le strutture materiali, nonché del collegamento dei beni e della loro utilizzazione con gli eventi storico culturali della città, sia del pregio artistico dell'immobile e di alcuni arredi in esso contenuti”; di conseguenza, qualora vi sia l'indicata “‘compenetrazione’ del valore con i beni che ne costituiscono il supporto materiale”, è consentito che l'Amministrazione “disponga il divieto di adibizione ad uso incompatibile, e, ove necessario individui l'uso con i medesimi compatibile”. Nella fattispecie, richiamando quanto già rilevato dal giudice di primo grado, tale “inscindibile compenetrazione” è stata effettivamente ravvisata, perché nel negozio in questione “l'adeguamento funzionale alla istanza del commercio moderno ... [ha] prodotto interventi del tutto esigui e comunque tali da non compromettere l'immagine complessiva e da non impedire la possibilità di subire ancor oggi tutto il suo fascino”; dunque, “gli arredi del negozio, oltre ad incarnare i valori storico-artistici, mantengono integro ed ancora attuale il vincolo strumentale (che li lega) all'esercizio dell'attività commerciale svolta nei locali”, di talché il vincolo “non si muov[e] formalmente dai beni per giungere a vincolare invece l'attività”, ma risulta giustificato in ragione della “destinazione ancora attuale dei beni, che pales[a] il loro intrinseco valore da tutelare”.

4.3. Infine, anche il supposto terzo indirizzo, più permissivo, può senz'altro essere ricondotto all'orientamento univoco di cui sopra: esso comprende, infatti, i casi in cui l'immedesimazione tra le cose vincolate e i valori sottoposti a tutela è stata positivamente ravvisata dal giudice e quindi il vincolo, con le limitazioni d'uso che ne conseguono, è stato salvato.

L'Adunanza plenaria non ha fornito esempi di pronunce rientranti in questo supposto terzo indirizzo, salvo dare atto che l'ordinanza di rimessione si è pronunciata in favore di esso.

Peraltro, si possono qui menzionare le pronunce del Consiglio di Stato che, nel corso del tempo, hanno confermato la legittimità dei vincoli impugnati, anche con riferimento alle consequenziali limitazioni delle loro destinazioni d'uso, in ragione della comprovata sussistenza del requisito dell'incorporazione dei valori immateriali da proteggere nelle strutture sottoposte a tutela. Sempre senza pretesa di completezza si possono citare:

- Cons. Stato, Sez. VI, 28 febbraio 1990, n. 321 [11], sul bar confetteria Roma già Talmone di Torino, che ha considerato legittimo il vincolo perché relativo a beni “in cui si incarnano ... valori e testimonianze legate alla storia della cultura” e ha precisato che quando “il valore tutelato sta nella ‘conservazione’ di un ‘luogo’, inteso anche in senso culturale, il divieto di adibire la cosa ad usi incompatibili con il suo carattere storico o artistico, o con la sua conservazione o integrità, non può che risolversi nella necessità di mantenere la destinazione che costituisce un aspetto del valore culturale del bene, che questo intende testimoniare e trasmettere”;

- Cons. Stato, Sez. VI, 18 ottobre 1993, n. 741 [12], sulla farmacia del Campo di Siena, che ha considerato legittimo sia il vincolo - per il collegamento del bene con fatti della storia, trattandosi di un esercizio risalente al XIII secondo, che avrebbe pure ospitato Dante nel 1281, oltre a essere stato, nel Risorgimento, luogo d'incontro dei più illustri personaggi senesi del tempo, e, al contempo, per la rilevata “pregevolezza dell'arredo e dell'attrezzatura”, che fa sì che i valori da tutelare possano dirsi “obiettivamente immedesimati nella struttura materiale”, la quale “appare idonea a testimoniar[li] ed a trasmetter[li]” - sia la conseguente espressa imposizione dell'obbligo di “conservare la stessa destinazione d'uso”, non essendo “in contrasto con la legge” un comando che, “calando nel concreto la previsione legislativa” sul divieto di usi incompatibili dei beni culturali, “indichi l'uso compatibile ... con i valori ... espress[i]” da tali beni;

- Cons. Stato, Sez. VI, 23 marzo 1998, n. 358 [13], sulla libreria del Teatro già Prandi di Reggio Emilia, che ha considerato legittimo il vincolo, dando atto del carattere inalterato del contesto della libreria (arredi, decorazioni ecc.) e della frequentazione della stessa da parte di personaggi della politica e della cultura, non solo locale, e ricordando che per “la tutelabilità di ambienti legati alla storia ciò che rileva è ... l'immedesimazione fra valori storico-culturali e strutture materiali, sicché non appare possibile tutelare i primi senza la protezione delle seconde”;

- Cons. Stato, Sez. VI, 10 novembre 1998, n. 1523 [14], sulla cioccolateria Gay Odin di Napoli, che ha considerato legittimo il vincolo per le “caratteristiche artistiche e decorative del negozio”, correttamente valutate “quale significativa testimonianza dello stile e del fenomeno culturale sinteticamente indicato col nome di Liberty”;

- Cons. Stato, Sez. VI, 17 febbraio 1999, n. 170 [15], sul caffè Genovese di Cagliari, che ha considerato legittimo il vincolo da un lato per il rilevato pregio della palazzina di ubicazione dell'esercizio commerciale (di “sobrio stile liberty”) nonché “dell'architettura degli interni e dell'arredamento del locale” e, dall'altro lato, per l'idoneità delle strutture “a testimoniare ... eventi particolarmente significativi per la storia culturale e civile della città di Cagliari”, in relazione alla “continuità e persistenza delle frequentazioni commerciali, risalenti alla presenza ed all'attività imprenditoriale della numerosa colonia dei Genovesi a Cagliari”, con conseguente riconoscimento della sussistenza “sia dell'immedesimazione e compenetrazione dei valori storico-culturali con le strutture materiali, nonché del collegamento dei beni e della loro utilizzazione con gli eventi storico-culturali della città, sia del pregio artistico del locale e di alcuni arredi in esso contenuti”;

- Cons. Stato, Sez. VI, 26 luglio 2005, n. 3984, sulla libreria Rizzoli di Bologna, che ha considerato legittimo il vincolo, dando atto che il locale della libreria “è rimasto sostanzialmente immutato nel suo insieme e nei minimi particolari, conservando l'originario apparato funzionale e decorativo, costituito dalle scaffalature lignee e dai banconi di vendita, dai lampadari e da parte dei serramenti” e che “la libreria ha rappresentato un tradizionale punto di incontro e d'attrazione per letterati e uomini di cultura ed è [stata] ... un preciso punto di riferimento nella memoria storica cittadina”;

- Cons. Stato, Sez. VI, 4 settembre 2020, n. 5357, sul teatro Italia di Mezzano (RA), che ha considerato legittimo il vincolo, dando atto che il bene “costituisce una testimonianza di grande interesse storico-culturale per il significato assunto all'interno della comunità locale [e cioè per la circostanza di essere stato costruito nel 1920 per volere della locale cooperativa agricola dei braccianti], nonché per il linguaggio architettonico derivato da un felice connubio di temi classici e di espressioni moderne di stampo liberty”.

5. La (scontata) riconferma dell'orientamento consolidato anche da parte dell'Adunanza plenaria

Data la sostanziale univocità dell'orientamento della giurisprudenza del Consiglio di Stato, l'intervento dell'Adunanza plenaria non ha potuto che inserirsi - come era scontato - nel solco da essa già tracciato.

E infatti, al par. III in diritto, l'Adunanza plenaria, in coerenza con tale orientamento e richiamate, altresì, le conclusioni della sentenza della Corte costituzionale n. 118/1990, ha confermato che i vincoli di interesse culturale relazionale sui locali storici sono legittimi “in ragione della sussistenza sia dell'immedesimazione dei valori storico culturali con le strutture materiali (l'immobile e gli arredi in esso contenuti) che del collegamento dei beni e della loro utilizzazione con determinati eventi della storia e della cultura”, potendosi peraltro anche trattare del “richiamo a fatti ed eventi - comunque specifici - della ‘storia locale’ ovvero della ‘storia minore’, pur sempre idonei a giustificare la conservazione e la trasmissione del valore culturale”.

Pertanto, per la legittimità dei vincoli in questione occorre “un'approfondita istruttoria”, che accerti “il collegamento del bene con specifici fatti e accadimenti relativi alla storia sociale, politica, artistica e culturale”, e una “motivazione ... adeguata”, che rappresenti le ragioni per le quali “il valore culturale” risulti “compenetra[to] nelle cose che ne costituiscono il supporto materiale” e sia quindi “divenuto ad esso ‘consustanziale’”.

Sarebbe invece “illegittimo per sviamento” il vincolo che “mirasse non alla conservazione ed alla salvaguardia della res in cui è incorporato il valore storico culturale particolarmente importante”, ma unicamente “a far continuare la prosecuzione di una specifica attività commerciale o imprenditoriale”.

Anche l'Adunanza plenaria ha riconosciuto, poi, che i vincoli in questione, se legittimamente apposti alle condizioni ora indicate, comportano limitazioni all'uso dei beni sottoposti a tutela in forza del già ricordato art. 20, comma 1 del Codice, che vieta di adibire i beni tutelati “ad usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione”.

In particolare, sviluppando quanto già chiaramente emergeva dalla pregressa giurisprudenza, anche l'Adunanza plenaria ha confermato che tale norma può implicare l'esistenza di un unico uso compatibile del bene, “in tutte le ipotesi in cui un mutamento di destinazione d'uso possa comunque, tenuto conto delle particolarità concrete, essere pregiudizievole per la conservazione del bene e del relativo valore culturale che esso esprime”.

L'Adunanza plenaria ha curato poi di precisare quali sono le norme in forza delle quali l'Amministrazione può dettare prescrizioni attinenti all'uso del bene già all'atto dell'imposizione del vincolo: l'art. 18, comma 1 del Codice, che attribuisce all'Amministrazione un generale potere di vigilanza “al fine di garantire il rispetto dei divieti posti dalla disciplina di riferimento, ivi compreso il divieto di usi incompatibili” ex art. 20, comma 1 del Codice, e il successivo art. 29, comma 2, che enuncia il “principio di prevenzione”, il quale “impone di limitare ex ante le situazioni di rischio connesse al diverso possibile uso del bene culturale”.

Pertanto, “l'Amministrazione, nel dichiarare l'interesse culturale del bene, può sia (in negativo) precludere ogni uso incompatibile con la conservazione materiale della res, sia (in positivo) disporre la continuità dell'uso attuale cui la cosa è stata, storicamente e fin dalla sua realizzazione, destinata”.

Tale potere può peraltro essere esercitato - come pure ha sottolineato l'Adunanza plenaria - anche dopo l'apposizione del vincolo, in particolare “all'atto della comunicazione del mutamento della destinazione d'uso” del bene tutelato; comunicazione obbligatoria, da parte dell'interessato, ai sensi dell'art. 21, comma 4, secondo periodo del Codice, “per le finalità” di cui all'art. 20, comma 1 del Codice stesso, e cioè - appunto - per consentire all'Amministrazione di vigilare che il bene non venga adibito a usi incompatibili.

L'Adunanza plenaria ha ribadito, infine, che l'imposizione delle limitazioni d'uso non si risolve in alcun “obbligo di gestire” l'attività economica corrispondente all'uso compatibile; dunque, “l'Amministrazione non può ... imporre né che l'attività economica prosegua, né [tanto meno] che continui ad essere svolta dallo stesso soggetto”, al quale “non può essere attribuita una sorta di ‘rendita di posizione’”.

6. La (innovativa) convalida dell'orientamento consolidato anche alla luce dell'art. 7-bis del codice dei beni culturali e del paesaggio

Se con le considerazioni sinora riportate l'Adunanza plenaria ha seguito vie già ampiamente battute dalla giurisprudenza, è, invece, sicuramente più innovativo il richiamo, al successivo par. IV in diritto, a conferma delle conclusioni raggiunte, anche dell'art. 7-bis del Codice e, a sua volta, delle Convenzioni UNESCO cui tale norma rinvia.

Si tratta, a quanto consta, del primo significativo contributo della giurisprudenza amministrativa - e direttamente al massimo livello - all'esegesi della norma in questione.

La presa di posizione intorno all'art. 7-bis del Codice era stata, peraltro, espressamente sollecitata dall'ordinanza di rimessione, la quale, tenuto conto che il vincolo sul ristorante il Vero Alfredo era stato motivato dall'Amministrazione anche ai sensi di questa norma, aveva sottoposto all'Adunanza plenaria il quesito se, alla luce della medesima, fosse legittimo “un vincolo di destinazione d'uso della res a garanzia non solo della sua conservazione, ma pure della continua ricreazione, condivisione e trasmissione della manifestazione culturale immateriale di cui la cosa costituisce testimonianza”.

L'art. 7-bis del Codice stabilisce che le “espressioni di identità culturale collettiva contemplate dalle Convenzioni UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e per la protezione e la promozione delle diversità culturali ... sono assoggettabili alle disposizioni del ... [Codice] qualora siano rappresentate da testimonianze materiali e sussistano i presupposti e le condizioni per l'applicabilità” dell'art. 10 del Codice stesso (e cioè per assoggettare a tutela tali testimonianze materiali come beni culturali ai sensi dell'art. 10 del Codice).

Correttamente, l'Adunanza plenaria ha affermato che, in forza dell'art. 7-bis del Codice, una res che già abbia “un proprio interesse culturale” ai sensi dell'art. 10 del Codice può essere sottoposta a tutela come bene culturale anche perché riveste “una particolare rilevanza per il suo collegamento qualificato con una manifestazione culturale immateriale, della cui esistenza la stessa res costituisce prova, consentendo di ricostruirne contenuto e caratteristiche identitarie”; e questo in ragione del fatto che di tali manifestazioni culturali deve essere assicurato il rispetto in forza degli “obblighi assunti in via pattizia” dallo Stato italiano con la ratifica delle Convenzioni UNESCO cui l'art. 7-bis del Codice rimanda.

Dunque, l'esigenza di proteggere il valore culturale immateriale che la cosa è in grado di testimoniare può rappresentare - ai sensi dell'art. 7-bis del Codice e delle Convenzioni UNESCO cui esso rimanda - una motivazione ulteriore a sostegno della tutela della cosa stessa, a condizione, però, che essa abbia già, di per sé, i caratteri per essere qualificata come bene culturale in forza dell'art. 10 del Codice.

In presenza di tutele che siano motivate, in forza delle Convenzioni UNESCO richiamate dell'art. 7-bis del Codice, anche in ragione del valore culturale immateriale espresso dai beni materiali vincolati, l'Adunanza plenaria ha poi sottolineato la conseguente necessità che venga “garanti[ta] non soltanto l'integrità fisica della res, ma anche la continuità dell'espressione culturale di cui la cosa costituisce ‘testimonianza vivente’”; espressione che deve poter essere “costantemente ricreata” e richiede pertanto “strumenti di tutela che ne permettano una continua riproduzione, indispensabile per evitarne la dispersione”.

Tra gli strumenti di tutela utilizzabili a tale fine, l'Adunanza plenaria ha valorizzato “il vincolo di destinazione d'uso”, il quale consente di porre “la res a servizio dell'espressione culturale [immateriale] di cui essa costituisce testimonianza”.

Dunque, la motivazione della tutela anche ai sensi dell'art. 7-bis del Codice e delle correlate Convenzioni UNESCO (e cioè - lo si ripete - anche in ragione dell'idoneità della cosa fisica vincolata a testimoniare valori culturali immateriali) “integra e rafforza il sistema delle tutele ... contemplate” dal Codice, consentendo, in particolare, che l'Amministrazione imponga il divieto di modifica della destinazione d'uso in atto del bene protetto anche qualora ciò risulti necessario per evitare la dispersione del valore culturale immateriale di cui esso costituisce documento materiale.

L'Adunanza plenaria ha poi calato le considerazioni generali svolte intorno all'art. 7-bis del Codice alla fattispecie dei vincoli sui locali storici, affermando che tali vincoli, quando siano motivati anche in ragione dell'esigenza di proteggere i valori contemplati dalle Convenzioni UNESCO richiamate dalla norma in questione:

- possono comunque essere emessi solo in presenza dei presupposti di cui all'art. 10 del Codice per la dichiarazione di interesse culturale delle cose tutelate, e cioè solo dimostrando l'“intima connessione tra gli elementi materiali tangibili e quelli immateriali”, i quali devono rappresentare un “tutt'uno inscindibile”, in cui sia “impossibil[e] ... scindere le dimensioni materiali da quelle immateriali, stante la loro immedesimazione”;

- fra beni materiali e beni immateriali che attribuisca ad un tempo rilevanza storico-artistica ai beni e valore storico e sociale all'attività svolta”;

- possono logicamente implicare l'imposizione, da parte dell'Amministrazione, del divieto di modifica della destinazione d'uso in atto, perché, “se venisse meno ... l'attività, verrebbe meno la stessa ragion d'essere della tutela”: dunque, “il vincolo sull'immobile e su quanto esso contiene non può prescindere, pena la sua vanificazione, dall'imprimervi un determinato uso”;

- non consentono, comunque, che sia “disposta una riserva di attività a favore di un determinato gestore, né ... [che sia] imposto un obbligo di prosecuzione dell'attività a suo carico”.

7. Le (ripetitive) ulteriori considerazioni generali e conclusive

L'Adunanza plenaria, ai par. V e VI in diritto, ha proseguito poi - come da intitolazione dei paragrafi stessi - con ulteriori “considerazioni generali sul patrimonio culturale” e con le “conclusioni”. In queste parti sono stati ripresi e ribaditi, con parole diverse, i medesimi concetti già espressi nei paragrafi precedenti e sono stati confermati, riassuntivamente, i risultati esegetici raggiunti.

Si tratta, per la gran parte, di considerazioni sovrabbondati (e, per tanti versi, oggettivamente non rispettose del dovere di sinteticità degli atti del giudice ex art. 3, comma 2 cod. proc. amm.).

Volendo comunque riportare talune espressioni, ancorché ripetitive, impiegate in dette parti, si evidenzia ancora una volta che, secondo l'Adunanza plenaria:

- il bene culturale materiale può essere anche “‘testimonianza vivente’ ... dell'esistenza ... [di una] manifestazione culturale, immateriale e collettiva, che, per mezzo di esso, si alimenta e si ricrea, perpetuandosi nel tempo”, e può pertanto presentare, per questa ragione, una “particolare forza ‘evocativa’”;

- peraltro, affinché questa condizione sussista, “la manifestazione culturale ‘immateriale’ deve riferirsi ad una cosa materiale, mobile o immobile, che consenta di ricostruirne contenuti e caratteristiche”, nel senso che “deve esservi tra esse un ‘rapporto bilaterale’”, tale per cui “la cosa acquista valore di testimonianza per mezzo del suo rilievo culturale”;

- dunque, “all'espressione immateriale e identitaria deve sempre accompagnarsi un substrato materiale, dato da una cosa che la testimoni e che giustifichi una tutela ai sensi dell'art. 10 del Codice”; deve essere comprovata, cioè, l'“impossibilità di scindere la dimensione materiale da quella immateriale del bene culturale”, dimostrando che “i diversi elementi, materiali e immateriali, che ... compongono [il bene], traendo forza e sostanza dal legame inscindibile gli uni con gli altri, non possono essere separatamente considerati e tutelati”; occorre attestare, in altre parole, “anche l'ulteriore condizione della ... ‘materializzazione’ [dei valori immateriali] in una cosa che possa essere considerata (prima ancora che tutelata) come ‘bene’ culturale, cioè come ‘oggetto’ cui indirizzare l'attività amministrativa di tutela volta ad assicurarne la conservazione”;

- alle condizioni ora ricordate, la protezione dei valori immateriali, ai sensi dell'art. 7-bis del Codice, può essere “ricondott[a] ... alle forme ordinarie di tutela” previste dal Codice, le quali “operano innanzitutto attraverso i decreti di vincolo”; il “quid pluris introdotto dall'art. 7-bis sta, dunque, nel consentire, riguardo alla cosa materiale, non solo la conservazione del valore culturale in essa incorporato e derivante già dalla sua qualificazione come bene culturale ai sensi dell'art. 10 ... [del Codice], ma anche la continuità dell'espressione culturale di cui la cosa costituisce testimonianza”;

- ciò che viene assoggettato “alla disciplina vincolistica” sono “le testimonianze materiali di tali espressioni culturali e identitarie”, ma la tutela si giustifica “anche in virtù dei significati (immateriali) che esse rivestono”; di conseguenza, la cosa fisica sottoposta a tutela deve essere “salvaguardata e protetta non solo per la sua intrinseca consistenza (ovvero: per il suo valore strutturale ed estetico), ma anche per la sua connessione funzionale” con i correlati valori immateriali;

- deve perciò essere assicurata “la maggior estensione possibile, a legislazione vigente, delle forme di tutela previste dall'ordinamento”, così da “consent[ire] una protezione ‘elastica’ ed efficace al bene culturale, senza limitarsi alla sua consistenza materiale, ma considerandolo globalmente, per i valori culturali che esso esprime e reca in sé”;

- in questo contesto, se “l'uso pregresso ... contribuisce al valore culturale immateriale insito nella cosa”, esso “non può venir meno, perché altrimenti andrebbe dispersa l'essenza del bene protetto e la sua stessa ragione di tutela”; in altri termini, “[q]ualora un bene abbia il valore che gli è proprio anche per il collegamento con una determinata attività, la sola conservazione del bene materiale mediante il provvedimento di vincolo è condizione necessaria, ma non sufficiente per la sua adeguata protezione, in quanto la destinazione a un uso incompatibile o diverso da quello cui esso è stato nel tempo stabilmente destinato finirebbe per obliterare proprio il valore storico-culturale che è alla base del provvedimento di vincolo, vanificando gli interessi pubblici che ne sono alla base”; la “tutela può dunque essere estesa dal bene alla sua destinazione quando la rilevanza storico, artistica e culturale del bene sia anche la conseguenza dello svolgimento di una determinata attività”;

- peraltro, un “tale vincolo di destinazione può operare soltanto sul piano oggettivo, regolando l'uso della res, senza disporre alcun obbligo di prosecuzione dell'attività svolta né la riserva di una tale attività, a prescindere dagli accordi conclusi tra le parti, in favore dell'attuale gestore”;

- possono rientrare in questa forma di tutela “anche i c.d. locali storici”, qualora all'esito di una “adeguata istruttoria” risulti che la memoria storica che essi tramandano si sia “materializza[ta]” nelle cose vincolate (locali, arredi e altri “oggetti ivi raccolti e conservati”).

8. Gli elementi (comunque) di utilità della pronuncia dell'Adunanza plenaria

Traendo le conclusioni di quanto sin qui illustrato, si può, anzitutto, confermare senz'altro che l'intervento dell'Adunanza plenaria non era strettamente indispensabile, data la ravvisata insussistenza di differenti indirizzi esegetici in conflitto in seno alla giurisprudenza del Consiglio di Stato.

Peraltro - ferma restando la già rilevata prolissità della motivazione, che ne rende obiettivamente dispersiva la lettura - la pronuncia, nella sostanza, può essere salutata con favore.

In primo luogo, essa ha confermato e rafforzato, al massimo livello esegetico, l'orientamento consolidato ormai da un quarantennio, rendendolo, in tal modo, non più modificabile, se non attraverso un nuovo intervento della stessa Adunanza plenaria ex art. 99, comma 3 cod. proc. amm.

Di questo orientamento la pronuncia ha ripercorso, in maniera esaustiva, gli aspetti più significativi e ha puntualizzato alcuni profili, in particolare - come già si è detto - laddove ha chiarito che l'Amministrazione ha il potere di imporre prescrizioni già all'atto del vincolo, le quali possono attenere anche all'uso dei beni tutelati e avere l'effetto, in collegamento con il divieto normativo di destinare i beni stessi a usi incompatibili con il loro valore culturale, di imprimere sui medesimi un'unica destinazione d'uso: quella storica, espressiva del valore culturale (anche immateriale) che il vincolo ha inteso proteggere.

D'altra parte - si può aggiungere a chiosa - simili prescrizioni sono date anche nell'interesse del destinatario del vincolo, perché ne prevengono condotte suscettibili, a posteriori, di essere contestate anche penalmente: infatti, poiché le mere modifiche di destinazione d'uso, se non accompagnate da opere, non sono soggette all'autorizzazione preventiva dell'Amministrazione ai sensi dell'art. 21, comma 4 del Codice (ma a mera comunicazione), l'interessato - in mancanza di indicazioni preventive da parte dell'Amministrazione - rischia più facilmente di incorrere, a cose fatte, nella violazione, sanzionata penalmente (oggi ex art. 518-duodecies, comma secondo cod. pen.), del divieto di adibire i beni tutelati a usi incompatibili.

In secondo luogo, la pronuncia ha sviluppato e offerto, per la prima volta, una condivisibile esegesi dell'art. 7-bis del Codice.

Tenuto conto dei valori culturali immateriali riconosciuti e protetti dalle Convenzioni UNESCO che detto art. 7-bis richiama, ratificate dallo Stato italiano e quindi entrate a pieno titolo nell'ordinamento interno, la norma è stata correttamente letta come disposizione che vale a esplicitare che la salvaguardia di tali valori può avvenire anche nelle forme e con gli strumenti previsti dal Codice, ma solo qualora i valori stessi - sulla base di un'adeguata istruttoria e di un'approfondita motivazione - risultino incorporati in beni materiali già di per sé stessi tutelabili come beni culturali ai sensi dell'art. 10 del Codice.

A ciò consegue il legittimo esercizio, anche a protezione di questi valori immateriali, di tutti i poteri di tutela assegnati dal Codice all'Amministrazione a difesa dei beni materiali costituenti il sostrato dei valori in questione; tra questi, in particolare, il potere di prescrivere le destinazioni d'uso, quando ciò risulti obiettivamente necessario per la salvaguardia dei valori immateriali compenetrati nelle strutture vincolate.

Non si tratta, pertanto, di un indebito allargamento delle maglie della tutela, ma dell'applicazione - alle condizioni dianzi ricordate - degli esistenti strumenti di tutela dai beni materiali vincolati anche in vista della protezione dei valori immateriali da essi incarnati. Tale applicazione si impone direttamente in forza delle Convenzioni UNESCO, le quali sono richiamate dall'art. 7-bis del Codice al solo scopo di palesarne la necessità di coordinamento con il Codice stesso, ma fermo restando che detta necessità sussisterebbe comunque, nella sostanza, anche a prescindere dalla sua avvenuta esplicitazione in diritto positivo.

 

Note

[*] Attualità-valutato dalla Direzione.

[**] Nicola Aicardi, professore ordinario di Diritto amministrativo nel Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Bologna, Via Zamboni, 22, Bologna, nicola.aicardi@unibo.it.

[1] Come si legge nell'ordinanza di rimessione all'Adunanza plenaria, che appresso si indicherà in testo, il vincolo, a supporto di tali valutazioni, “- ha elencato alcuni frequentatori illustri del locale, segnalando, tra l’altro, la dedica e il disegno apposti da Walt Disney, un’annotazione critica di Palmiro Togliatti (fonte di dibattito in una pagina di uno degli album), il disegno del proprio profilo apposto da Hitchcock, nonché i versi composti in onore di Alfredo e delle sue fettuccine da Aznavour; - ha rappresentato che nel locale: a) si esibivano alla fine degli anni Cinquanta il chitarrista Spina e il violinista Cioppettini, noti jazzisti; b) sono state girate, nei primi anni Settanta, una scena del film Polvere di Stelle, recentemente, una scena del film To Rome with Love, avendo Woody Allen scelto tale sede in ragione del valore simbolico che il luogo incorporava in relazione al mondo del cinema hollywoodiano e alla costruzione dell'immaginario della “Dolce Vita”; c) è stata tenuta la conferenza stampa di presentazione del film “La Scomparsa di Patò” alla presenza del cast completo e di Andrea Camilleri, autore dell'omonimo romanzo; - ha segnalato la notorietà all'estero del Il Vero Alfredo, già consolidata in Europa e negli Stati Uniti, e proseguita negli anni ’70 e ’80 tramite la prassi dei festival e l'apertura di alcuni ristoranti in franchising in Ameria Latina (in particolare, in Brasile e in Messico); - ha valorizzato la personalità istrionica del fondatore Alfredo Di Lelio, costituente tutt'oggi l'elemento di attrazione per gli avventori; - ha evidenziato il successo di una formula gastronomica e di ospitalità, perpetuatasi attraverso immutate prassi di attività che, ancorché ammantata di mondanità e lustro spettacolare, è profondamente nutrita di elementi della tradizione popolare, italiana e specificamente romana; - ha precisato che la socialità goliardica costituisce uno dei tratti più fortemente caratterizzanti l'atmosfera del locale in continuità tra passato e presente, espressa ad esempio dalla gestualità del ristoratore e del direttore di sala, che mescolavano le fettuccine di fronte ai clienti al ritmo della tarantella prima di servirle; rito ancora oggi rinnovato dai camerieri.

[2] Le sentenze del Consiglio di Stato citate nel prosieguo sono rinvenibili al sito www.giustizia-amministrativa.it; per quelle più risalenti, non reperibili a tale sito, è indicata la Rivista di pubblicazione cartacea.

[3] In Riv. giur. edil., 1983, I, pag. 1012 ss.

[4] In Giust. civ., 1987, I, pag. 235 ss.

[5] In Giur. cost., 1990, I, pag. 660 ss.

[6] Tar Lazio, ordinanze 8 giugno 1989 e 13 aprile 1989, in Gazz. Uff., 1a serie speciale, rispettivamente n. 43 e n. 44 del 1989.

[7] Le sentenze citate dall'Adunanza plenaria (al punto 2.1. in diritto) sono cinque, ma due di queste non appaiono immediatamente pertinenti. La prima (Cons. Stato, Sez. VI, 12 luglio 2011, n. 4198) riguarda il vincolo apposto sullo studio d'artista dello scultore Romeo Dall'Era a Venezia ai sensi della speciale disposizione di cui all'art. 51 del Codice (la quale impone direttamente per legge il divieto di mutamento della destinazione d'uso dei locali vincolati): contrariamente a quanto sembra emergere dalla pronuncia dell'Adunanza plenaria, questa sentenza, tuttavia, non afferma in alcun modo che l'imposizione dei vincoli di destinazione d'uso non sia ammessa al di fuori della speciale disciplina di tale art. 51. La seconda (Cons. Stato, Sez. V, 25 marzo 2019, n. 1933) riguarda la qualifica di “negozio storico” attribuita a una cartolibreria del quartiere Nomentano di Roma con provvedimento del Comune di Roma assunto sulla base di una delibera del Consiglio comunale (la n. 130 del 14 giugno 2005) recante una disciplina di protezione (non di tipo vincolistico) degli esercizi commerciali di lunga tradizione.

[8] In Foro amm., 1998, pag. 2397.

[9] Più recentemente, un nuovo vincolo apposto sul medesimo cinema è stato invece giudicato legittimo (da Cons. Stato, Sez. IV, 14 marzo 2023, n. 2641), ma in forza di una norma speciale sopravvenuta, e cioè l'art. 8, comma 1 della nuova legge sul cinema 14 novembre 2016, n. 220, che ha espressamente consentito di tutelare le «sale cinematografiche» ai sensi dell'art. art. 10, comma 3, lett. d) del Codice, e quindi “ha ampliato l'oggetto di tutela” previsto da questa norma, e comunque in forza di una rinnovata motivazione del valore culturale del cinema stesso quale “ ‘testimonianza’ ormai rara di una stagione della storia della cultura degli anni ’50 e ’60, valutata anche alla luce della chiusura, demolizione o trasformazione radicale di numerosi altri cinema coevi, che negli scorsi decenni sono stati adibiti a multisala o ad altre funzioni commerciali”.

[10] Le pronunce citate dall'Adunanza plenaria (al punto 2.2. in diritto) sono tre, ma anche in questo caso una (Cons. Stato, Sez. IV, 12 giugno 2013, n. 3255) non riguarda direttamente il tema trattato, avendo ad oggetto una variante urbanistica assunta dal Comune di Firenze, che limitava le tipologie commerciali insediabili in talune zone del territorio comunale.

[11] In Foro it., 1991, III, c. 1.

[12] In Riv. giur. edil., 1994, I, pag. 133.

[13] In Urb. e app., 1998, par. 1085.

[14] In Foro amm., 1998, pag. 3166.

[15] In Foro amm., 1999, pag. 394. In precedenza, il vincolo sul medesimo locale era stato annullato per insufficienza della motivazione, ma con “salvezza degli ulteriori provvedimenti dell'Amministrazione”: cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 28 novembre 1992, n. 964, in Cons. Stato, 1992, I, pag. 1725.

 

 

 



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