Osservatorio sulla giurisprudenza del Consiglio di
Stato
in materia di beni culturali e paesaggistici
a cura di Giancarlo Montedoro [*]
Sommario: 1. Beni culturali. - 2. Beni paesaggistici.
Cons. St., sez. VI, 3 marzo 2022, n. 1510 - Pres. De Felice, Est. Caputo - In tema di vincolo cimiteriale.
La Soprintendenza ai sensi dell’art. 30, comma 2, del d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio) non è competente a decidere l’ubicazione e l’intestazione del bene culturale. La norma, prescrivendo che la Soprintendenza “indichi le modalità” di conservazione della destinazione, le assegna unicamente la funzione conservativa del bene già previamente collocato.
La dichiarazione di interesse culturale costituisce espressione di potestà tecnico-discrezionale attribuita alla competenza dell’organo ministeriale. In continuità con l’indirizzo giurisprudenziale consolidato, va ribadito che il giudizio che presiede all’imposizione di una dichiarazione di interesse culturale storico-artistico particolarmente importante (c.d. vincolo diretto), ai sensi degli artt. 10, comma 3, lett. a), 13 e 14 del d.lg. n. 42 del 2004 è connotato da un’ampia discrezionalità tecnico-valutativa, poiché implica l’applicazione di cognizioni tecnico-scientifiche specialistiche proprie di settori scientifici disciplinari (della storia, dell’arte e dell’architettura) caratterizzati da ampi margini di opinabilità. Ne consegue che l’accertamento compiuto dall’Amministrazione preposta alla tutela è sindacabile in sede giudiziale esclusivamente sotto i profili della ragionevolezza, proporzionalità, adeguatezza, logicità, coerenza e completezza della valutazione, considerati anche per l’aspetto concernente la correttezza del criterio tecnico e del procedimento applicativo prescelto (Cons. St., sez. VI, 4 settembre 2020, n. 5357).
Il vincolo cimiteriale, ordinariamente di assoluta inedificabilità, è suscettibile di deroga ai sensi dell’art. 338, comma 7, del r.d. n. 1265 del 1934. La norma prevede che sugli edifici esistenti all’interno della zona cimiteriale sono consentiti tutti quegli interventi diretti al loro recupero, ovvero funzionali al loro utilizzo, in aggiunta a quelli previsti dall’art. 31, lett. a), b), c) e d) della legge 5 agosto 1978, n. 457. Il rinvio a quest’ultima disposizione normativa fa sì che le strutture ubicate in un’area sottoposta al vincolo cimiteriale possano, in ogni caso, essere sottoposte a interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, di ristrutturazione edilizia e, soprattutto, a interventi di restauro e risanamento conservativo.
È dirimente quanto affermato dalla giurisprudenza, dalla quale non sussistono giustificati motivi per qui discostarsi, laddove ha precisato che con l’art. 28 della legge n. 166 del 2002 sono state previste alcune deroghe al vincolo cimiteriale per gli edifici esistenti situati all’interno di queste fasce, consentendo per essi alcune tipologie d’intervento di recupero, quali manutenzione ordinaria e straordinaria, restauro e ristrutturazione edilizia, ammettendosi interventi di ampliamento nella misura massima del 10 per cento ed il cambio di destinazione d’uso (Cons. St., sez. VI, 4 marzo 2019, n. 1479).
Cons. St., sez. IV, 14 febbraio 2022, n. 1059 - Pres. Maruotti, Est. Verrico - Sui rapporti tra vincolo paesaggistico e vincolo archeologico e, in particolare, sulla dichiarazione di vincolo paesaggistico di zone di interesse archeologico.
In linea generale esiste una sostanziale differenza tra il vincolo archeologico imposto ai sensi della Parte II del d.lg. n. 42 del 2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio) ed il vincolo paesaggistico determinato dall’esistenza di “zone di interesse archeologico”, oggi previsto dall’art. 142, comma 1, lett. m), della Parte III del Codice (Cons. St., sez. IV, 2 febbraio 2016, n. 399): mentre il primo è riferito specificatamente ai singoli reperti archeologici, il secondo è preordinato alla tutela del contesto ambientale e del paesaggio di interesse archeologico.
Una volta che su un’area è imposto il vincolo archeologico, la Soprintendenza ben può valutare se la realizzazione di un piano o di un progetto di un’opera singola abbia un impatto, visivo o territoriale, talmente significativo da alterare lo stato dei luoghi, potendo a tal fine prescindere dalla prova che sull’area insistano effettivamente ruderi o reperti delle vestigia del passato. In ragione del contenuto dell’atto impositivo del vincolo, rileva l’unità storico-culturale dell’area, e rientra nell’ambito delle competenze proprie della Soprintendenza per i beni archeologici una valutazione ostativa alla radicale trasformazione dei luoghi, tale da sconvolgere il precedente paesaggio archeologico-paesaggistico (Cons. St., sez. VI, 4 dicembre 2012, n. 6203).
Inoltre, la dichiarazione di vincolo paesaggistico di zone di interesse archeologico costituisce uno dei diversi casi di c.d. tutela del paesaggio per categorie legali che si caratterizza per avere ad oggetto non già, direttamente o indirettamente, i beni riconosciuti di interesse archeologico ma piuttosto il loro territorio (Cons. St., sez. IV, 10 dicembre 2003, n. 8145). Ne consegue che l’accertamento dell’inesistenza di reperti, se vale ad escludere il vincolo ex lege di zona archeologica, non può far venir meno il vincolo imposto per tutelare il paesaggio archeologico, posto che tale secondo regime protettivo si estende ad abbracciare anche il contesto ambientale in cui i reperti si collocano e riguarda reperti collocati in altre prossime porzioni territoriali (cfr. Cons. St., sez. IV, 2 febbraio 2016, n. 399).
Il piano paesaggistico persegue la finalità precipua e primaria di promuovere e salvaguardare le risorse paesaggistiche del territorio, recando un complesso di norme e previsioni, variamente articolate sotto forma di orientamenti, direttive e prescrizioni, tutte finalizzate alla tutela dei valori paesaggistici delle varie zone del territorio. Pertanto, nell’ambito delle sue disposizioni è possibile rinvenire sia la natura di atto normativo, che detta orientamenti previsioni e parametri cui la pianificazione sotto-ordinata deve uniformarsi, sia la natura di atto recante prescrizioni concrete in tema di regimi di tutela paesaggistica, di definizione delle aree dei vari ambiti territoriali da tutelarsi e di individuazione degli elementi dell’assetto ambientale e paesaggistico del territorio meritevoli di tutela (Cons. St., sez. IV, 6 agosto 2012, n. 4502).
Come affermato dalla giurisprudenza costituzionale «se la funzione del piano paesaggistico è quella di introdurre un organico sistema di regole, sottoponendo il territorio regionale a una specifica normativa d’uso in funzione dei valori tutelati, ne deriva che, con riferimento a determinate aree, e a prescindere dalla qualificazione dell’opera, il piano possa prevedere anche divieti assoluti di intervento. La possibilità di introdurre divieti assoluti di intervento e trasformazione del territorio appare, d’altronde, del tutto conforme al ruolo attribuito al piano paesaggistico dagli artt. 143, comma 9, e 145, comma 3, cod. beni culturali, secondo cui le previsioni del piano sono cogenti e inderogabili da parte degli strumenti urbanistici degli enti locali e degli atti di pianificazione previsti dalle normative di settore e vincolanti per i piani, i programmi e i progetti nazionale e regionali di sviluppo economico» (Corte cost., 23 luglio 2018, n. 172; in tal senso, anche Corte cost., 7 novembre 2007, n. 367).
Resta fermo l’orientamento giurisprudenziale che, in occasione dell’adozione di un nuovo strumento di pianificazione del territorio, esclude in capo all’Amministrazione competente la sussistenza di un obbligo puntuale di motivazione, non essendo necessaria l’analitica confutazione di ciascuna delle osservazioni pervenute, residuando tuttavia l’obbligo di esaminare le stesse (ex multis, da ultimo, Cons. St., sez. IV, 22 marzo 2021, n. 2415).
Cons. St., sez. V, 14 gennaio 2022, n. 261 - Pres. FF Franconiero, Est. Di Matteo - Sull’istituto della c.d. prelazione artistica e sulla peculiarità della relativa disciplina.
La disciplina dell’art. 12, comma 1-ter), del d.l. n. 98 del 2011 pone una limitazione legale all’ordinario esercizio della capacità negoziale delle amministrazioni territoriali (e degli altri enti destinatari), stabilendo che l’acquisto di beni immobili possa avvenire a condizione che ne sia provata documentalmente la “indispensabilità” e la “indizionabilità”; ne segue che, in ragione di tale prescrizione, la determinazione dell’amministrazione ad acquistare un bene immobile per l’esercizio delle proprie funzioni (manifestazione della voluntas adquirendi) è ora condizionata alla dimostrazione di averne necessità assoluta − tale, cioè, che non si possa far fronte al bisogno con altre risorse già nella disponibilità dell’ente − e, d’altra parte, di non poter rinviare l’acquisto ad altro momento. La limitazione legale è giustificata da ragioni di contenimento della spesa pubblica.
Così definito l’ambito d’applicazione dell’art. 12, comma 1-ter, del d.l. n. 98 del 2011, ne è esclusa l’attività autoritativa delle amministrazioni territoriali (e degli altri enti interessati), pure finalizzata all’acquisizione alla mano pubblica di beni immobili. Tale è, in particolare, il potere di acquisizione dei beni culturali mediante la c.d. prelazione artistica di cui agli artt. 60 e ss. del d.lg. n. 42 del 2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio); la giurisprudenza ha da tempo precisato che si tratta di un potere autoritativo, di natura ablatoria, cui consegue l’acquisto coattivo del bene culturale, al pari di quanto avviene (sempre in ambito di acquisizione dei beni culturali) con l’espropriazione (ex art. 95 e ss. del Codice dei beni culturali e paesaggistici) e l’acquisto coattivo all’esportazione (Corte cost., 20 giugno 1995, n. 269; Cass. Civ., Sez. Unite, 1° aprile 2020, n. 7643; Cons. St., sez. VI, 30 luglio 2018, n. 4667; Cons. St., sez. VI, 27 febbraio 2008, n. 713).
Nell’acquisizione dei beni culturali mediante la c.d. prelazione artistica non si realizza, infatti, il subentro nel rapporto negoziale, come accade nel meccanismo ordinario della prelazione (convenzionale, ma anche legale), ma l’acquisto diretto del bene alla mano pubblica per via di un provvedimento amministrativo, in correlazione del quale il privato vanta una situazione di interesse legittimo (di modo che il negozio traslativo può essere qualificato come “mero presupposto” con conseguente irrilevanza dell’eventuali vicende estintive o modificative del contratto a monte, cfr. Cons. St., sez. VI, 27 agosto 2014, n. 4337); ne è prova la previsione secondo cui le clausole del contratto di alienazione non vincolano lo Stato o gli altri enti pubblici territoriali, e, in caso di omessa o difettosa denuncia, si prevede la possibilità di esercitare il diritto di prelazione senza limiti temporali e senza che la parte privata possa eccepire l’intervenuta usucapione (Cons. St., sez. VI, 30 luglio 2018, n. 4667). La differenza rispetto alle altre modalità di acquisto coattivo del bene sta solo nel fatto che l’esercizio del potere qui non rimuove completamente la volontà del proprietario del bene, che è libero di decidere di vendere o meno, ma, nel caso in cui si determini per la vendita, si impone la preferenza in favore dello Stato e delle altre amministrazioni rispetto alla parte contrattuale acquirente.
Le due disposizioni - l’art. 12, comma 1-ter, del d.l. n. 98 del 2011 e gli artt. 60 e ss. del Codice dei beni culturali e del paesaggio - si riferiscono, insomma, a vicende pubblicistiche differenti, dettando per ognuna di esse, una propria ed autonoma disciplina. Di ciò non è possibile dubitare ove si consideri che l’art. 12, comma 1-ter, del d.l. n. 98 del 2011 ha evidentemente riguardo all’acquisizione da parte delle amministrazioni pubbliche di risorse materiali (tali sono, appunto, gli immobili cui è fatto riferimento) per lo svolgimento delle proprie funzioni; solo, per questi, d’altra parte, si può fondatamente predicare una valutazione di “indispensabilità” e di “indilazionabilità” nei termini precedentemente descritti.
La decisione dell’acquisizione in prelazione di un bene culturale mal si presta ad essere sottoposta, di sicuro, a verifica di indilazionabilità, giusta l’esistenza di un termine per l’esercizio del potere che rende impossibile il suo differimento ad altro tempo, ma anche di indispensabilità, poiché la prelazione artistica risponde all’interesse di garantire la migliore forma di tutela ai fini della fruizione pubblica del bene culturale secondo una gradazione di scelta che non si concilia con l’unicità propria di ciò che sia detto indispensabile e per la quale, peraltro, si spiega la prevista “facoltà” e non “obbligo” di esercizio della prelazione.
L’interpretazione accolta è confermata dall’adozione dell’art. 10-bis del d.l. 8 aprile 2013, n. 35, che, interpretando autenticamente l’art. 12, comma 1-quater, del d.l. n. 98 del 2011 - di estensione del divieto di cui al precedente comma 1-ter, in senso soggettivo, a tutte le amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione come individuate dall’ISTAT ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196 (nonché alle autorità indipendenti, ivi compresa la CONSOB) e, in senso oggettivo, fino a comprendere, oltre agli acquisiti di immobili a titolo oneroso, anche i contratti di locazione passiva - ha precisato che: «Nel rispetto del patto di stabilità interno, il divieto di acquistare immobili a titolo oneroso, di cui all’articolo 12, comma 1-quater, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, non si applica alle procedure relative all’acquisto a titolo oneroso di immobili o terreni effettuate per pubblica utilità ai sensi del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 [...]» (con l’aggiunta: «nonché alle permute a parità di prezzo e alle operazioni di acquisto programmate da delibere assunte prima del 31 dicembre 2012 dai competenti organi degli enti locali e che individuano con esattezza i compendi immobiliari oggetto delle operazioni e alle procedure relative a convenzioni urbanistiche previste dalle normative regionali e provinciali»). La specificazione fornita dal legislatore, seppur in norma di interpretazione autentica giustificata dal dubbio interpretativo insorto tra gli operatori in sede di applicazione della disposizione interpretata, fornisce precise indicazioni circa l’ambito di applicazione generale delle limitazioni e divieti introdotti, i quali, dunque, non hanno riguardo all’acquisizione di beni mediante esercizio di poteri autoritativi.
Cons. St., sez. VI, 22 marzo 2022, n. 2067 - Pres. FF Simonetti, Est. Mathà - Sul procedimento di valutazione della richiesta di rinnovo di un’autorizzazione paesaggistica.
L’art. 146, comma 4, del Codice dei beni culturali e del paesaggio prevede che l’autorizzazione è efficace per un periodo di cinque anni, scaduto il quale l’esecuzione dei lavori progettati deve essere sottoposta a nuova autorizzazione. La ragione legislativa del limite dei cinque anni è nell’esigenza di consentire all’autorità preposta la verifica paesaggistica, nel caso in cui l’interessato non abbia ancora concluso le opere progettate in quell’arco temporale, nel quale potrebbero essersi verificate sopravvenienze tali da giustificare una diversa valutazione paesaggistica. L’amministrazione, in sede di valutazione della suddetta richiesta, deve effettuare una nuova valutazione sulla compatibilità dell’opera non ancora ultimata, a permanente tutela degli interessi coinvolti e nella sua funzione immanente. Il riferimento alla circostanza che nel frattempo fosse mutata la disciplina non è poi di per sé solo idoneo a dimostrare che, per il principio tempus regit actum, il nuovo diritto sia applicabile alla fattispecie, in quanto dà per assodato ciò che è invece tutto da dimostrare.
Nel corso del nuovo procedimento di valutazione della richiesta di rinnovo di un’autorizzazione paesaggistica, l’Amministrazione deve tenere conto delle modificazioni fattuali e giuridiche medio tempore intervenute e può pervenire ad una diversa valutazione.
Non integra una motivazione sufficiente affermare che l’intervento oggetto del prescritto parere non rientri tra quelli espressamente indicati come “compatibili” dal P.R.P., dovendo invece la Soprintendenza effettuare, ai sensi dell’art. 146 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, una concreta ed effettiva valutazione della compatibilità del medesimo intervento con i valori paesaggistici tutelati; la compatibilità di alcuni interventi non implica che gli usi diversi siano automaticamente incompatibili con i suddetti valori. Al fine di confermare o escludere la compatibilità di un intervento con i valori tutelati non può ritenersi sufficiente il generico richiamo all’esistenza del vincolo, essendo al contrario necessario un apprezzamento di compatibilità da condurre sulla base di rilevazioni e di giudizi puntuali (Cons. St., sez. VI, 4 febbraio 2019, n. 853).
Il parere negativo deve specificare le effettive ragioni di contrasto tra l’intervento proposto e i valori paesaggistici tutelati, non essendo sufficiente una valutazione apodittica o stereotipata, ma deve illustrare i reali ed effettivi motivi del presunto contrasto tra le opere in esame e le ragioni di tutela dell’area interessata; è precluso all’amministrazione ridurre la sua valutazione al mero riferimento ad un pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione, con il ricorso ad espressioni generiche e formule standardizzate (Cons. St., sez. VI, 1° febbraio 2019, n. 802).
Cons. St., sez. VI, 17 marzo 2022, n. 1932 - Pres. Volpe, Est. Ravasio - Sui concetti di volumetria e superficie utile in ambito paesaggistico: il rinvio alle nozioni tecniche della normativa urbanistico-edilizia.
Il rinvio ai concetti di volumetria e superficie utile, previsto dall’art. 167, comma 4, del d.lg.n. 42 del 2004, per cui l’autorità preposta alla gestione del vincolo nei casi indicati accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 5, non può che interpretarsi nel senso di un rinvio al significato tecnico-giuridico che tali concetti assumono in materia urbanistico-edilizia, trattandosi di nozioni tecniche specificate dalla normativa urbanistico-edilizia e non dal Codice dei beni culturali e del paesaggio (Cons. St., sez. VI, 6 aprile 2020, n. 2250): non può quindi ammettersi, anche ai fini di certezza del diritto, che il concetto di superficie utile in ambito paesaggistico possa avere un significato differente e più ampio rispetto a quello utilizzato nella materia urbanistica ed edilizia, e tale da ricomprendervi sempre, ed in ogni caso, superfici calpestabili esterne.
Nell’ambito dell’edilizia ed urbanistica, la qualificazione della superficie di un balcone in termini di “superficie utile” viene solitamente collegata alla realizzazione di opere di tamponamento del balcone, finalizzate a trasformarlo in veranda o a utilizzarlo quale ampliamento di un locale interno preesistente, il che si spiega con il fatto che una superficie esterna del tutto aperta ed esposta alle intemperie non può certo considerarsi quale superficie “agibile”, cioè quale superficie in cui sia consentito di esplicare le normali azioni della vita quotidiana.
È quindi evidente che la realizzazione di un balcone scoperto, collocato sulla facciata di un edificio, non crea una “superficie utile” ai fini edilizi, urbanistici o paesaggistici, fatta salva la dimostrazione dell’esistenza di una specifica norma locale che imponga di computarla ai fini del rispetto di parametri edilizi ed urbanistici. In assenza di una norma in tal senso, l’unico aspetto su cui la Soprintendenza è effettivamente gravata dall’onere di dare una motivazione, venendo in considerazione aspetti non immediatamente disciplinati da norme, riguarda l’impatto estetico del manufatto e, con riferimento a tale aspetto, la Soprintendenza nel caso di specie ha ritenuto di poter esprimere «parere favorevole in quanto paesaggisticamente compatibile ben inserendosi il balcone nell’architettura locale». Tale motivazione, benché sintetica, fa intendere che il balcone e le aperture realizzate per accedervi sono state realizzate in uno stile conforme a quello delle costruzioni circostanti: si tratta di un giudizio ampiamente discrezionale, sindacabile in sede giurisdizionale solo in presenza di evidente travisamento o macroscopica illogicità.
Pur potendosi condividere, in linea di principio, l’affermazione secondo cui in materia paesaggistica debbono essere motivati sia i provvedimenti sfavorevoli che quelli favorevoli all’interessato, tuttavia, non si può ritenere che l’onere di motivazione del provvedimento favorevole debba spingersi al punto tale di obbligare sempre l’autorità preposta alla valutazione del vincolo ad una minuziosa indicazione delle ragioni della ritenuta compatibilità paesaggistica; in particolare quando (come nel caso di specie) non siano chiaramente individuati i criteri in base ai quali deve essere espressa la valutazione, che perciò finisce per essere ampiamente discrezionale.
Cons. St., sez. VI, 17 marzo 2022, n. 1959 - Pres. FF Simonetti, Est. Mathà - In tema di effetti dell’istanza di sanatoria.
L’orientamento più recente, al quale il Collegio ritiene di aderire, riconosce all’istanza di sanatoria il solo effetto di impedire temporaneamente che la misura repressiva venga portata ad esecuzione. La definizione del procedimento in senso sfavorevole determinerà la “riespansione” dell’originario ordine di demolizione che riacquisterà efficacia senza necessità di ricorrere all’adozione di ulteriori provvedimenti. Tale posizione è da ritenersi maggiormente coerente con il principio di certezza delle situazioni giuridiche che subirebbe un vulnus qualora si riconoscesse al privato sanzionato la possibilità, mediante la semplice reiterazione di istanze di sanatoria, di precludere il dispiegamento degli effetti propri della misura impugnata innescando un procedimento ricorsivo senza fine, perché il soggetto sanzionato potrebbe rinnovare (senza limitazioni di alcun genere) la domanda a seguito della riadozione di quel provvedimento (Cons. St., sez. VI, 16 febbraio 2021, n. 1432).
Il mero decorso del tempo e la mancata precedente contestazione non possono da soli radicare un affidamento di carattere legittimo in capo al proprietario dell’abuso, non essendo concepibile l’idea di connettere al decorso del tempo e all’inerzia dell’amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare il grave fenomeno dell’abusivismo edilizio (Cons. St., Ad. Plen., 17 ottobre 2017, n. 9).
La possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria va valutata dalla P.A. nella fase esecutiva della demolizione, successiva ed autonoma rispetto all’ordine di demolizione in sé.
Cons. St., sez. VI, 21 febbraio 2022, n. 1221 - Pres. Montedoro, Est. Pascuzzi - In tema di diniego di autorizzazione paesaggistica.
Il diniego di autorizzazione paesaggistica non può limitarsi ad esprimere valutazioni apodittiche e stereotipate, dovendo specificare le ragioni del rigetto dell’istanza con riferimento concreto alla fattispecie coinvolta (sia in relazione al vincolo che ai caratteri del manufatto) ovvero esplicitare i motivi del contrasto tra le opere da realizzarsi e le ragioni di tutela dell’area interessata dall’apposizione del vincolo (Cons. St., sez. VI, 4 febbraio 2019, n. 853). Pertanto, non risulta sufficiente la motivazione di diniego fondata su una generica incompatibilità, non potendo l’Amministrazione limitare la sua valutazione al mero riferimento ad un pregiudizio ambientale, utilizzando espressioni vaghe e formule stereotipate (Cons. St., sez. VI, 29 maggio 2018, n. 3207).
Nello specifico settore delle autorizzazioni paesaggistiche, la motivazione può ritenersi adeguata quando risponde a un modello che contempli, in modo dettagliato, la descrizione: I) dell’edificio mediante indicazione delle dimensioni, delle forme, dei colori e dei materiali impiegati; II) del contesto paesaggistico in cui esso si colloca, anche mediante l’indicazione di eventuali altri immobili esistenti, della loro posizione e dimensioni; III) del rapporto tra edificio e contesto, anche mediante l’indicazione dell’impatto visivo al fine di stabilire se esso si inserisca in maniera armonica nel paesaggio (Cons. St., sez. VI, 6 marzo 2018, n. 1424).
Cons. St., sez. VI, 21 febbraio 2022, n. 1213 - Pres. Montedoro, Est. Pascuzzi - Sulla disciplina edilizia del soppalco.
In base ad un rilievo logico, prima che giuridico, la disciplina edilizia del soppalco, ovvero dello spazio aggiuntivo che si ricava all’interno di un locale, interponendovi un solaio, non è definita in modo univoco, ma va apprezzata caso per caso, in relazione alle caratteristiche del manufatto.
In linea di principio, sarà necessario il permesso di costruire quando il soppalco sia di dimensioni non modeste e comporti una sostanziale ristrutturazione dell’immobile preesistente, ai sensi dell’art. 3, comma 1, del d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380, con incremento delle superfici dell’immobile e in prospettiva ulteriore carico urbanistico. Si rientrerà invece nell’ambito degli interventi edilizi minori, per i quali comunque il permesso di costruire non è richiesto, ove il soppalco sia tale da non incrementare la superficie dell’immobile (Cons. St., sez. VI, 2 marzo 2017, n. 985; Cons. St., sez. IV, 3 settembre 2014, n. 4468).
In ordine alla distinzione tra soppalco “modesto” e soppalco “non modesto”, è stato ulteriormente specificato che la realizzazione di un soppalco rientra nell’ambito degli interventi edilizi minori solo qualora abbia caratteristiche tali da non incrementare la superficie dell’immobile, ipotesi che si verifica solo nel caso in cui lo spazio realizzato col soppalco consista in un vano chiuso, senza finestre o luci, di altezza interna modesta, tale da renderlo assolutamente non fruibile alle persone (Cons. St., sez. IV, 8 luglio 2019, n. 4780).
Cons. St., sez. IV, 17 febbraio 2022, n. 1177 - Pres. Maruotti, Est. Rotondo - In tema di autorizzazione paesaggistica.
Il fatto che sia stata consentita la realizzazione di un villaggio turistico in una zona vincolata, di particolare pregio, non sottrae alla autorità preposta alla tutela del vincolo, né rende di per sé contraddittorio rispetto a precedenti autorizzazioni, il potere di intervenire − in un determinato momento storico, tenuto conto dello stato complessivo raggiunto dal compendio immobiliare e delle ricadute paesaggistiche − al fine di impedire, all’esito di una valutazione di merito, ulteriori aggravi paesaggistici, quand’anche di modesto aumento volumetrico e magari assentibili sul piano urbanistico, per far sì che quella zona non resti esposta a singoli interventi, decontestualizzati, veicolati dalla sola finalità di una specifica valorizzazione di tipo turistico, imprenditoriale, occupativo. È ben possibile che l’autorità competente, quindi, limiti tali interventi per contenere l’impatto ambientale accordando prevalenza, come modalità più congeniale di valorizzazione del bene (tutela di competenza statale), alla visione di insieme dell’insediamento e complessiva dell’impatto paesaggistico, operando una scelta di merito che di per sé sfugge a censure di illegittimità ove assistita da congruente motivazione.
È ragionevole che la Soprintendenza, alla luce del lungo tempo trascorso dalla realizzazione dell’opera, valuti gli interventi con un approccio che può anche tenere conto delle mutate sensibilità e che sia comunque finalizzato ad apportare un miglioramento qualitativo dei manufatti considerati nel loro insieme unitario e complessivo, secondo criteri di giudizio riferiti all’attualità, tenuto conto delle normative sopravvenute (id est, Piano paesaggistico regionale).
Cons. St., sez. IV, 28 gennaio 2022, n. 624 - Pres. Greco, Est. Verrico - Sulla nozione di paesaggio ai fini della sua tutela e sulla sua distinzione dalla nozione di ambiente.
La Convenzione europea del paesaggio, stipulata dagli Stati membri del Consiglio d’Europa a Firenze il 20 ottobre 2000 e ratificata dall’Italia con la legge 9 gennaio 2006, n. 14, introduce un concetto certamente ampio di “paesaggio”, non più riconducibile al solo ambiente naturale statico, ma concepibile quale frutto dell’interazione tra uomo e ambiente, valorizzando anche gli aspetti identitari e culturali. Secondo tale prospettiva, è pertanto la sintesi dell’azione di fattori naturali, umani e delle loro interrelazioni a contribuire a delineare la nozione, complessa e plurivoca, di “paesaggio” (cfr. art. 131 del d.lg.n. 42 del 2004, che riprende la formulazione della Convenzione europea del 2000). Tale approccio, tuttavia, non giustifica l’affermazione di una concezione “olistica” del paesaggio, dovendo restare ferma la distinzione tra questo e le altre materie, correndosi altrimenti il rischio di cadere in inevitabili confusioni, ad esempio arrivando ad affermare la validità della macro categoria del governo del territorio ovvero una nozione onnicomprensiva di “ambiente”. Invero, l’arricchimento in senso contenutistico voluto dalla Convenzione non può intaccare il nucleo essenziale di carattere estetico, in senso gnoseologico, del “paesaggio”, al quale è inevitabilmente attribuibile un carattere soggettivo (e non oggettivo), dal quale discende l’importanza da attribuire alla fruibilità da parte della popolazione.
Resta netta la distinzione tra paesaggio e ambiente, implicando − il primo − la percezione (per lo più qualitativa) e l’interpretazione da un punto di vista soggettivo e − il secondo − prevalentemente l’apprezzamento delle quantità fisico-chimiche e dei loro effetti biologici sull’ecosistema da un punto di vista oggettivo (approccio, quest’ultimo, implicito nella nozione − centrale nella legislazione ambientale − di inquinamento, cfr. art. 5, lett. i-ter, del d.lg. n. 152 del 2006).
Ai fini dell’applicazione delle norme in materia di tutela del paesaggio, l’interesse pubblico cui questa è funzionale va bilanciato − oltre che con altri e non necessariamente coincidenti interessi pubblici − anche con corrispondenti interessi privati, in primis quelli relativi al diritto di proprietà che viene inevitabilmente limitato dalle prescrizioni di tutela dei beni paesaggistici, il che è costituzionalmente legittimo nei limiti di cui all’articolo 42 della Costituzione.
Cons. St., sez. VI, 20 gennaio 2022, n. 359 - Pres. Montedoro, Est. D’Alessandri - In tema di non sanabilità di un capannone industriale realizzato in un parco.
L’interpretazione dell’art. 13 della legge 6 dicembre 1991, n. 394 (legge quadro sulle aree protette) sull’ammissibilità di sanatorie urbanistico edilizie in aree perimetrate a parco è nel senso di non ammettere sanatoria di opere abusive, realizzate in assenza del nulla osta dell’Ente di tutela del relativo parco (Cons. St., sez. VI, 6 luglio 2021, n. 5152).
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, nella sentenza 27 luglio 2016, n. 17, ha evidenziato che il nulla osta dell’art. 13 della legge n. 394 del 1991 ha ad oggetto la previa verifica di conformità dell’intervento con le disposizioni del piano per il parco (che− a norma dell’art. 12 − persegue la tutela dei valori naturali ed ambientali affidata all’Ente parco) e del regolamento del parco (che − a norma dell’art. 11− disciplina l’esercizio delle attività consentite entro il territorio del parco). Quegli atti generali rappresentano gli strumenti essenziali e indefettibili della cura dell’interesse naturalistico e ambientale in ragione della quale è istituito il parco con il suo «speciale regime di tutela e di gestione». Essi disciplinano in dettaglio e per tutto il territorio del parco gli interventi e le attività vietati e quelli solo parzialmente consentiti, le loro ubicazioni, destinazioni, modalità di esplicazione e così via, secondo un disegno organico inteso a «la conservazione e la valorizzazione del patrimonio naturale».
A differenza di una valutazione di compatibilità, inoltre, la verifica di conformità− che solo accerta la conformità degli interventi concretamente prospettati alle figure astrattamente consentite − non comporta un giudizio tecnico-discrezionale autonomo e distinto da quello già dettagliatamente fatto e reso noto, seppure in via generale, mediante gli strumenti del Piano per il parco e del Regolamento del parco.
Il Piano per il parco e il Regolamento del parco, dettando i parametri di riferimento per la valutazione dei vari interventi, inverano l’indispensabile e doverosa cura degli interessi naturalistico-ambientali.
I limiti in questione sono del resto intesi essenzialmente alla preservazione del dato naturalistico e si esplicano per lo più in valutazioni generali di tipo negativo con l’indicazione di opere reputate comunque incompatibili con quella salvaguardia. Sicché detti strumenti assorbono in sé le valutazioni possibili e le traducono in precetti per lo più negativi (divieti o restrizioni quantitative), rispetto ai quali resta in concreto da compiere una mera verifica di conformità senza residui margini di apprezzamento. Il che è reso ontologicamente possibile dall’assenza, rispetto all’interesse naturalistico, di spazi per valutazioni di tipo qualitativo circa l’intervento immaginato: si tratta qui, infatti, secondo una distinzione di base ripetutamente presente in dottrina a proposito delle varie declinazioni della tutela ambientale, di salvaguardare l’“ambiente-quantità”, il che tecnicamente consente questo assorbimento, negli atti generali e pianificatori, della cura dell’interesse generale. Questi strumenti così definiscono ex ante le inaccettabilità o limiti di accettabilità delle trasformazioni che altrimenti caratterizzerebbero un congruo giudizio di compatibilità rispetto a quella salvaguardia.
L’art. 13 della legge quadro sulle aree protette subordina il rilascio di concessioni o autorizzazioni relative ad interventi, impianti od opere al nulla-osta dell’Ente parco, che ne verifica la compatibilità con la tutela dell’area naturale protetta (art. 13, comma 1), ma non riguarda opere in sanatoria. Si tratta infatti di evitare che l’antropizzazione del Parco segua una logica casuale e connotata dalla creazione di stati di fatto quale quella che connota talvolta inevitabilmente lo sviluppo urbano, una volta introdotta la regola generale di ammissibilità delle valutazioni postume (art. 36 del T.U. edilizia).
Il nulla osta in questione è un atto diverso dall’autorizzazione paesaggistica agli interventi, agli impianti e alle opere da realizzare, in quanto atto endoprocedimentale prodromico rispetto al rilascio dell’autorizzazione stessa (Corte cost., 29 dicembre 2004, n. 429), dotato di una sua autonomia essendo l’interesse naturalistico ambientale diverso da quello paesaggistico.
L’art. 167, comma 4, del Codice dei beni culturali e del paesaggio prevede che l’autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 5, nei casi ivi espressamente indicati. Nulla di analogo è prescritto per il nulla osta ad interventi nell’ambito dei parchi. Se ne deve desumere la radicale inammissibilità dei pareri postumi dell’Ente Parco e la natura preventiva dell’autorizzazione di cui all’art. 13 della legge quadro sulle aree protette.
Il nulla-osta si inserisce, nella trama normativa della legge quadro, come punto terminale di contatto, come elemento di congiunzione tra le esigenze superiori della protezione naturalistica e le attività economiche e sociali e va letto coordinandolo con le altre previsioni di meccanismi operativo-funzionali. In un’area integralmente protetta, infatti, sono vietate tutte quelle attività che non siano espressamente consentite dal piano e dettagliatamente disciplinate nel relativo regolamento.
Ne deriva che il legislatore, stante la prioritaria esigenza di salvaguardia e tutela di valori costituzionalmente rilevanti quali l’ambiente e la natura oggetto di protezione integrale nell’ambito delimitato dal Parco, ha costruito il nulla-osta come atto necessariamente destinato a precedere il rilascio di provvedimenti abilitativi puntuali che riguardino un singolo, specifico intervento da valutarsi preventivamente. La differenza tra immobili o aree oggetto di puntuale tutela paesaggistica e le aree integralmente protette, rimesse alla tutela tramite specifici Enti Parco, e le finalità di tutela, in funzione all’antropizzazione del territorio, non consentono quindi un’applicazione della sanatoria prevista nell’art. 36 del d.p.r. n. 380 del 2001 (Cons. St., sez. VI, 6 luglio 2021, n. 5152).
In sostanza, pertanto, ai sensi dell’art. 13 della legge sulle aree protette, possono essere ammessi solo nulla osta preventivi.
Cons. St., sez. VI, 24 gennaio 2022, n. 467 - Pres. Montedoro, Est. Ravasio - In tema di opere realizzate in assenza del necessario titolo edilizio.
Solo gli interventi c.d. di “edilizia libera” possono essere realizzati in assenza di qualsivoglia titolo edilizio, e fra tali interventi −individuati dall’art. 6 del d.p.r. n. 380 del 2001 nonché dall’art. 3, lett. e.5) − non sono riconducibili quelli che si compendiano nella trasformazione di finestre in porte-finestre. Un simile intervento, invece, comportando una modifica dei prospetti, è sussumibile tra gli interventi di manutenzione straordinaria di cui all’art. 3, comma 1, lett. b), del d.p.r. n. 380 del 2001 e deve essere segnalato con SCIA (art. 22, lett. b, del d.p.r. 380 del 2001).
La nozione di volume tecnico corrisponde a un’opera priva di qualsiasi autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché destinata solo a contenere, senza possibilità di alternative e, comunque, per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali di essa; i volumi tecnici degli edifici sono esclusi dal calcolo della volumetria a condizione che non assumano le caratteristiche di vano chiuso, utilizzabile e suscettibile di abitabilità; ne consegue che nel caso in cui un intervento edilizio sia di altezza e volume tale da poter essere destinato a locale abitabile, ancorché designato in progetto come volume tecnico, deve essere computato a ogni effetto, sia ai fini della cubatura autorizzabile, sia ai fini del calcolo dell’altezza e delle distanze ragguagliate all’altezza (Cons. St., sez. II, 27 dicembre 2019, n. 8835).
Le opere abusive, in quanto non assistite da titolo edilizio, anche se astrattamente assentibili, fintanto che non siano regolarizzate mediante sanatoria devono essere considerate abusive.
Se è vero che gli interventi volti all’eliminazione delle barriere architettoniche (come la realizzazione di ascensori interni, montacarichi, servoscala e rampe) rientrano tra i lavori di edilizia libera − come specificato anche nel Glossario unico per le opere di edilizia libera di cui d.m. 2 marzo 2018, emanato in attuazione dalla disciplina sulla SCIA recata dal d.lg. n. 222 del 2016 − è peraltro evidente che tale normativa va raccordata con quella che disciplina gli interventi edilizi in zona sismica: a tale proposito vengono in considerazione gli artt. 94 e segg. del d.p.r. n. 380 del 2001 che impongono, a prescindere dal titolo edilizio necessario, che gli interventi da realizzarsi in zona sismica siano sempre preventivamente autorizzati dal competente ufficio tecnico della regione.
[*] Con la collaborazione della dott.ssa Vania Talienti.