testata

Patrimonio culturale e terzo settore

Il patrimonio degli enti del terzo settore: dalla politica del non profit a quella del privato sociale

di Francesco Macioce

Sommario: 1. Introduzione. - 2. Le specifiche finalità degli enti del terzo settore. - 3. Gli enti del terzo settore: l'epilogo di un processo, dalla personalità giuridica alla soggettività. - 4. La tipologia degli enti del terzo settore. - 5. Segue: gli enti del codice civile e quelli del codice del terzo settore a confronto. - 6. L’autonomia patrimoniale degli enti codicistici e di quelli solidaristici: modelli di responsabilità patrimoniale e tecniche di controllo dell’impiego delle risorse. - 7. Patrimoni separati e "attività diverse". - 8. Conclusioni: il terzo settore, avanposto di una nuova concezione d'impresa: dalla logica mercantile alla logica della solidarietà.

The asset of third sector organizations: from non-profit policy to policy of social private
The essay investigates the various structures and purposes of the third sector organizations through the problem of both mere subjectivity and legal personality. The legislation of Civil Code regarding bodies and companies is compared with the one contained in the mosat recent and sectorial Third Sector Code in order to discover analogies and differences. At the same time the author examines the problem of the financial liability of this new kind of specific organizations and the related asset control techniques. An other involved aspect is the one of the relationship with the rules concerning the assets earmarked for a specific business. The conclusion of the autor is about the necessity to adequate the positive rules to a new conception of the organization, above all for their specific purpose of solidarity, not yet of business.

Keywords: Third Sector Organizations; Third Sector Code; Cultural Heritage; Company’s Asset.

1. Introduzione

C'è chi definisce una "favola" l'affermazione secondo la quale l'Italia detiene il 50% del patrimonio artistico mondiale. Forse è così; forse è difficile stendere una lista del patrimonio artistico mondiale. È però certo che nel nostro Paese il patrimonio culturale (non soltanto quello prettamente artistico) ha una consistenza, mi sia permesso una "qualità", davvero significativa, cosicché alla dilagante e multiforme estensione e varietà dei diversi beni (dal più ampio paesaggio naturale al più piccolo reperto archeologico) fa riscontro un proporzionale e dunque ingente bisogno di risorse per custodirlo, difenderlo e valorizzarlo. Gli enti del terzo settore rispondono a queste esigenze, assolvono a questi compiti, assicurati dal conseguimento di specifiche finalità solidaristiche e dal divieto di distribuzione degli utili.

La crescente importanza degli enti del terzo settore è certo da ricollegare alla funzione di supplenza che essi sono in grado di svolgere rispetto ai poteri pubblici, erosi da un massiccio ricorso alle frequenti privatizzazioni di molte attività di interesse generale e fiaccati dalla crisi economica; ma la loro fortuna si ascrive anche ad una maggiore e più intensa capacità progettuale che tali organismi sono in grado di esprimere, proprio in quanto affrancati dagli angusti limiti di una prospettiva chiusa nello scopo di lucro e nel profitto, e impegnati nella "missione" di costruire una società solidale. Le attività di tali enti non si limitano peraltro alla assistenza e al volontariato ma si estendono al settore, che qui precipuamente interessa, della conservazione e in particolare della valorizzazione del nostro patrimonio artistico e culturale.

La loro capacità d'impresa è peraltro necessariamente ridotta, l'attività economica svolta opportunamente controllata e forse allo stato della normativa i nuovi enti non risultano adeguatamente inseriti nel mercato, in posizione paritetica con gli altri soggetti economici; il che forse ne penalizza le capacità di produrre reddito, si intende da destinare alla realizzazione delle specifiche finalità istituzionali-statutarie, e dunque anche alla cura e valorizzazione del patrimonio artistico.

Il saggio evidenzia la vocazione degli enti del terzo settore a costituire, in senso lato, impresa sociale, ne segnala i limiti e le opportunità: limiti specifici e contingenti derivanti dalla previsione del duplice carattere della strumentalità e della secondarietà delle attività "diverse" rispetto a quelle "istituzionali"; ma anche opportunità più generali e assai preziose, nella direzione di una correzione della logica mercantile con il valore della solidarietà, seme fecondo e fruttifero per una nuova futura concezione dello Statuto della stessa impresa commerciale.

2. Le specifiche finalità degli enti del terzo settore

Il Codice del terzo settore giunge, come noto, a mettere ordine tra le numerose figure di organismi collettivi che negli ultimi decenni si erano moltiplicate e che pur nella diversità delle finalità perseguite presentavano un tratto comune, l'assenza di uno scopo di lucro e di qui la denominazione di enti no profit.

Le numerose leggi speciali che avevano cercato di porre rimedio alla povertà delle forme civilistiche (quelle previste nel titolo II del libro I del codice) avevano introdotto una varietà di figure eterogenee creando spesso sovrapposizioni e ingenerando una qualche confusione. Il nuovo Codice ha cercato di ricondurre ad unità queste figure valorizzando le strutture degli enti previsti dal codice civile, prevedendone di nuove e diversificandone le finalità; in altre parole sforzandosi di dare unità normativa e disciplinare a tutte quelle organizzazioni superindividuali che - per contrapposizione alle società, enti lucrativi per eccellenza - non hanno come finalità il conseguimento di un profitto.

Sono oggi quindi enti del terzo settore, per espressa previsione del nuovo Codice, non solo quelli previsti nel titolo II del codice civile ma anche gli altri enti che hanno una disciplina particolare ai sensi dell'art. 4 del decreto legislativo 117 del 2017, ai quali sono applicabili le norme del codice del 1942 in virtù dell'espresso rinvio operato dall'art. 3: organizzazioni di volontariato, organizzazioni di promozione sociale, enti filantropici, imprese sociali, rete associative, società di mutuo soccorso, associazioni riconosciute o non riconosciute, fondazioni nonché "gli altri enti di carattere privato diversi dalla società" e che perseguono finalità civiche, solidaristiche o di utilità sociale. Permane una differenza non trascurabile, sulla quale torneremo, che costituisce il tratto specifico degli enti del terzo settore contemplati dal nuovo codice, e che investe l'elemento teleologico cioè le finalità perseguite. Se infatti lo scopo, non lucrativo delle persone giuridiche previste dal titolo II del codice civile è sufficiente che sia uno scopo possibile e lecito, gli enti del terzo settore sono caratterizzati da una finalità specifica, diretta a perseguire obiettivi civici, solidaristici e di utilità sociale. E per il vero, come è a tutti noto, il termine terzo settore costituisce in fondo la risposta - come prima ricordato - che l'ordinamento cerca di dare alla ormai evidente incapacità dello Stato di assolvere a tutti i nuovi compiti che la Società del benessere vorrebbe assegnargli e alla difficoltà del mercato di emanciparsi dalla logica del profitto che, nel selezionare gli obiettivi da perseguire, trascura - sia pure legittimamente - quelli socialmente più rilevanti e spesso meno remunerativi. Accanto al privato per cosi dire "economico" nasce secondo una formula invalsa fra i sociologi e cioè il "privato sociale".

Due sono pertanto le caratteristiche degli enti del terzo settore: una negativa, l'assenza di uno scopo di lucro che essi condividono con gli enti civilistici, e l'altra positiva, il perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, che finisce per rappresentare il novum e l'unicum della nuova categoria.

Si tratta di profili diversi ma connessi, che descrivono lo stesso vincolo di destinazione, due lati, per così dire, della stessa moneta.

È bene precisare che l'indicato limite negativo non investe il conseguimento di un profitto né esclude il ricavo di un utile di gestione, semplicemente ne preclude l'attribuzione alle persone fisiche; mentre l'altro, che finalizza le risorse al perseguimento di un determinato scopo, ne vieta la destinazione a fini diversi da quelli solidaristici propri dell'ente. Questa puntualizzazione è decisiva perché se rende incompatibile struttura e funzione degli enti del terzo settore con lo schema societario consente invece di affermare l'assoluta compatibilità di tali enti con l'attività di impresa e con il conseguimento di profitti economici.

È noto invero che l'attività d'impresa, e cioè la produzione di beni o servizi destinati al mercato è preordinata al conseguimento di un utile di gestione. Se nelle società commerciali l'attività d'impresa è essenziale ed indirizzata alla distribuzione degli utili (art. 2247 cod. civ.) negli enti diversi dalle società l'esercizio di una attività economica è soltanto eventuale e non è mai preordinata alla divisione degli utili.

Da questo punto di vista le potenzialità offerte dagli enti non profit sembrano più ampie di quelle rappresentate dalle Società, pur nei molteplici tipi in cui queste si articolano e pur nelle relative capacità di ospitare e manovrare le grandi risorse, e tuttavia confinate nella dimensione segnata dalla normativa. Gli enti non profit muovono invero dalla disponibilità di un patrimonio, dal suo utilizzo nell'ambito di un'attività di impresa, realizzano una varietà di scopi determinati e perseguono una molteplicità di fini, con la sola preclusione della distribuzione degli utili e del vincolo di destinazione.

3. Gli enti del terzo settore: l'epilogo di un processo, dalla personalità giuridica alla soggettività

La valorizzazione degli enti intermedi e la loro successiva evoluzione verso forme in senso lato solidaristiche, prende avvio dalla iniziale e graduale erosione del requisito della personalità giuridica che progressivamente perde centralità e smarrisce la sua potenzialità discriminatoria nell'ambito della categoria del soggetto di diritto. Indicativo di questo processo è in primo luogo la ormai risalente assegnazione agli enti di fatto previsti dal codice civile, segnatamente alle associazioni, della soggettività giuridica. È invero noto che dottrina e giurisprudenza hanno progressivamente attenuato le differenze tra enti dotati di personalità giuridica ed enti che ne sono sprovvisti, riconoscendo anche a questi ultimi la qualifica di soggetti di diritto, distinti dai singoli componenti dell'ente. Il legislatore ha assecondato questo processo di unificazione della soggettività giuridica, per es. con la riforma dell'art. 2659 n. 1 cod. civ. (ad opera dell'art. 1 della legge 27 febbraio 1985, n. 52) che ha previsto la possibilità di intestare direttamente alle associazioni non riconosciute la proprietà di beni immobili. Si è in tal modo approdati ad una concezione più ampia della soggettività giuridica che non si risolve nella personalità giuridica ma la ricomprende e la supera. La nuova sistematica introdotta dal Codice del settore che prevede l'iscrizione nel Registro Unico di enti aventi le specifiche finalità indicate all'art. 4, indipendentemente dal possesso del requisito formale della personalità giuridica. Se invero il codice civile aveva riservato la qualifica di soggetti di diritto alle sole organizzazioni personificate dotate di personalità giuridica, confinando le associazioni non riconosciute e i comitati in mere comunioni di interessi, l'art. 2 della Costituzione (non a caso richiamato dall'art. 1 del Codice del terzo settore) indica nelle formazioni sociali il luogo in cui perseguire finalità di sviluppo e di promozione della personalità, senza richiedere per questo alcun riconoscimento formale e senza declinare le mille modalità individuali e sociali in cui in una comunità persegue il fine della valorizzazione e della promozione della personalità umana.

Il collegamento fra gli enti del terzo settore e l'art. 2 Cost. - come prima osservato - è esplicito e dichiarato: l'art. 1 del Codice, che indica le finalità e l'oggetto del progetto di riordino organico del settore, segnala infatti tra i valori perseguiti il "pieno sviluppo della persona" in attuazione dell'art. 2 Cost. L'assenza di qualsiasi scopo di lucro, che penetra imperiosamente nel requisito causale degli statuti associativi e negli atti di fondazione degli enti, è stigmatizzata nella "pratica del dono" che ispira partecipazione, solidarietà e pluralismo e che richiama tecnicamente la categoria della gratuità (no profit) ma si ammanta di una scelta linguistica e culturale tipicamente valoriale.

L'assenza di scopo di lucro investe, per espressa disposizione dell'art. 4, sia i c.d. enti tipici del terzo settore elencati dalla norma, sia tutti gli altri enti diversi dalla società e che perseguono finalità solidaristiche. Si tratta di enti atipici solo dal punto di vista della denominazione e della disciplina specifica, non della struttura se si considera che gli enti del terzo settore assumono necessariamente la forma di associazioni o di fondazioni. E tutte le tipologie di enti del terzo settore, tipici o atipici, possono orientare la loro azione a mera attività volontaria ed erogazione di beni o servizi, ovvero ad attività d'impresa diretta cioè alla produzione o allo scambio di beni o servizi, ferma restando la preclusione di qualsiasi profitto per le persone che operano nell'ambito dell'ente medesimo.

La distanza tra enti dotati di personalità giuridica ed enti che ne sono sprovvisti si è poi ulteriormente ridotta con la novella dell'art. 2659 cod. civ. che ha previsto la trascrizione degli acquisti immobiliari a favore di associazioni non riconosciute con l'indicazione delle persone fisiche che rappresentano l'ente (legge n. 52 del 1985); e con l'abrogazione degli articoli 600 e 786 cod. civ. che ha avuto l'effetto di rimuovere il limite all'acquisto di eredità e donazioni in favore di enti non riconosciuti, che le norme abrogate condizionavano alla istanza per ottenere il riconoscimento (legge n. 192 del 2000). Nella stessa direzione va la semplificazione del procedimento diretto ad ottenere il riconoscimento, non più affidato all'atto discrezionale del Presidente della Repubblica o del Prefetto, ma ad un sistema normativo analogo a quello stabilito per le società e fondato su un riconoscimento conseguente alla iscrizione in un Registro dedicato presso le Prefetture (d.p.r. n. 361 del 2000) per gli enti civilistici, e sulla semplice iscrizione nel Registro Unico Nazionale per gli enti del terzo settore (art. 45) purché in possesso dei requisiti minimi stabiliti per ottenere detto riconoscimento: uno scopo lecito ed un patrimonio adeguato a raggiungerlo.

Questo orientamento che tende a valorizzare la soggettività giuridica di tutti gli enti si manifesta chiaramente nel nuovo codice del terzo settore che elenca i diversi enti che perseguono finalità solidaristiche e non distribuiscono profitti, e ne detta una disciplina sostanzialmente unitaria, indipendentemente dal possesso della c.d. personalità giuridica.

In questo quadro, che già prima del d.lg. 117 del 2017 aveva visto nascere organizzazioni di volontariato, associazioni di promozione sociale, fondazioni bancarie, imprese e cooperative sociali, enti lirici, onlus ecc., dotati di statuti privilegiati rispetto agli enti disciplinati dal codice civile, il codice del terzo settore rappresenta una svolta: innova la tecnica della qualificazione normativa, individua strutture operative, indica finalità specifiche, predispone il formalismo della registrazione per ogni tipo di ente, anche in funzione della soggezione del terzo settore ai necessari controlli e alle opportune verifiche relative alla osservanza delle regole (art. 11).

4. La tipologia degli enti del terzo settore

Le categorie di enti indicati nell'art. 4 prima ricordati, tenuti ad esercitare un'attività di interesse generale di tipo solidaristico ai sensi dell'art. 5, assumono necessariamente la forma di associazione non riconosciuta, di associazione riconosciuta o di fondazione. Nelle norme del titolo V si afferma espressamente che le organizzazioni di volontariato, le organizzazioni di promozione sociale, le reti associative, sono costituite in forma di associazione riconosciuta o non riconosciuta; e che gli enti filantropici possono costituirsi in forma di associazione riconosciuta e anche di fondazione.

Tali disposizioni concorrono insieme a quelle prime ricordate a segnare un ulteriore avanzamento nella direzione di una attenuazione del requisito della personalità giuridica in funzione discriminatoria dei soggetti di diritto diversi dalle persone fisiche, assecondando il processo di unificazione della soggettività giuridica. Invero le associazioni e le fondazioni, siano o meno riconosciute, costituiscono enti del terzo settore; e l'acquisto della personalità giuridica in deroga al d.p.r. n. 361 del 2000 può avvenire mediante la semplice iscrizione nel Registro Unico Nazionale (art. 22 n. 1), purché gli enti siano titolari del patrimonio minimo fissato nel n. 4 del citato articolo del Codice.

Quanto alle imprese sociali, alle cooperative sociali e alle società di mutuo soccorso, gli articoli 40 e 42 rinviano alla legislazione speciale.

Per l'impresa sociale provvede oggi il d.lg. n. 112 del 2017 il quale in attuazione della legge delega n. 106 del 2016 stabilisce che la qualifica di impresa sociale spetta a tutti gli enti privati che esercitano in via stabile e principale un'attività d'impresa di interesse generale, senza scopo di lucro e per finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale. L'art. 3 del decreto, nel disciplinare il requisito dell'assenza di scopo di lucro, vieta la distribuzione anche indiretta di utili di gestione. La legge prevede tuttavia delle eccezioni: in base al comma 3 dello stesso art. 3 l'impresa sociale può destinare una quota inferiore al 50% degli utili e degli avanzi di gestione ad aumento gratuito del capitale sociale nei limiti degli indici nazionali Istat relativi all'anno sociale in cui gli utili sono prodotti, ovvero ad aumento gratuito del capitale sociale, o l'emissione di strumenti finanziari di dividendi ai soci, in misura comunque non superiore all'interesse più alto dei buoni postali fruttiferi aumentati di due punti e mezzo rispetto al capitale versato; ovvero ancora a erogazioni gratuite in favore di enti del terzo settore diversi dalle imprese sociali finalizzate alla promozione di specifici progetti di utilità sociale.

Inoltre in base all'art. 16 del predetto decreto legislativo le imprese sociali possono destinare una quota non superiore al tre per cento degli utili netti annuali a fondi istituiti dagli enti e dalle associazioni di cui all'articolo 15, comma 3, nonché dalla Fondazione Italia Sociale, specificamente ed esclusivamente destinati alla promozione e allo sviluppo delle imprese sociali attraverso azioni ed iniziative di varia natura nell'ambito del sociale.

In base ai commi 4 e 5 dell'art. 1 del citato d.lg. n. 112 del 2017 le cooperative sociali di cui alla legge n. 381 del 1991 acquisiscono di diritto la qualifica di imprese sociali e sono soggette alla medesima disciplina, ferma restando quella specifica sulle cooperative.

Infine le società di mutuo soccorso sono oggetto di un'antica previsione legislativa risalente addirittura al 1886 (legge n. 3818) e riordinata dal d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, che ha confermato la natura di persona giuridica, l'assenza di finalità di lucro e il perseguimento di finalità generali sulla base del principio costituzionale di sussidiarietà, attraverso l'esclusivo svolgimento in favore dei soci e dei loro familiari di determinate attività prevalentemente in materia di trattamenti, prestazioni e assistenza sanitaria: ai sensi dell'art. 3 lo statuto deve contenere le norme e le cautele per l'impiego e la conservazione del patrimonio sociale.

5. Segue: gli enti del codice civile e quelli del codice del terzo settore a confronto

Se terzo settore è oggi, come abbiamo detto, ogni ente che non persegue profitto ma finalità diverse e specifiche, previsto e disciplinato dal codice generale e da quello speciale, occorre verificare le affinità e le differenze fra gli enti del codice civile (associazioni riconosciute o meno e fondazioni) da un lato e quelli previsti dal codice del terzo settore dall'altro.

Sotto l'aspetto patrimoniale una indagine è prioritaria: può parlarsi di autonomia patrimoniale con riguardo al terzo settore?

Se con questo termine ci riferiamo alle modalità di impiego del patrimonio dell'ente, tenuto conto del vincolo di destinazione fissato nella legge o negli statuti e atti costitutivi, è certo che l'attività di entrambe le categorie di enti, sia quelli tradizionali sia quelli del terzo settore, è assoggettata al rilevato limite negativo (il divieto di perseguire un profitto) e al ricordato limite positivo (l'impiego delle risorse esclusivamente per il raggiungimento dello scopo proprio dell'ente). Tuttavia sotto questo profilo la normativa codicistica appare certamente più liberale ed elastica; la stessa genericità dello scopo assegnato agli enti del titolo II, che si risolve come osservato nella semplice liceità, rende più evanescente e meno penetrante il collegamento fra impiego delle risorse e rispetto dello scopo.

Nelle associazioni riconosciute del codice civile i controlli sull'impiego delle risorse sono affidati quasi esclusivamente alla tutela giudiziaria delle situazioni giuridiche di cui sono titolari gli associati, interessati all'osservanza delle regole di impiego delle risorse per il raggiungimento dei fini statutari; ovvero alla tutela della posizione dei terzi i quali possono restare pregiudicati da un loro diverso utilizzo in conseguenza della inefficacia del vincolo e della inopponibilità del negozio; tali controlli sono poi assicurati da norme che dispongono la devoluzione dei beni residui dopo la fase di liquidazione in conformità dell'atto costitutivo e dello statuto (art. 31).

Nelle associazioni non riconosciute una sola norma si occupa del destino dei beni in caso di insufficienza allo scopo o quando sia impossibile attuarlo o si abbia un residuo di fondi, stabilendo che l'autorità governativa dispone la devoluzione dei beni ove questa non sia stata disposta al momento della costituzione (art 42 cod. civ.).

Assai più penetrante il controllo sull'impiego delle risorse patrimoniali delle fondazioni: l'art. 25 stabilisce le modalità con cui l'autorità governativa esercita il controllo e la vigilanza sull'amministrazione; ove lo scopo sia raggiunto o divenuto impossibile o il patrimonio insufficiente, può estinguere la fondazione o provvedere alla sua trasformazione (art. 28); se, esaurita la fase di liquidazione, non si procede alla devoluzione dei beni in conformità dell'atto costitutivo, provvede l'autorità governativa attribuendo beni ad altri enti che hanno finalità analoghe (art. 31); stessa sorte spetta ai quei beni donati o lasciati alla fondazione con destinazione diversa da quella propria dell'ente, che saranno devoluti dall'autorità governativa a persone giuridiche cha abbiano fini analoghi (art. 32).

L'impiego delle risorse patrimoniali degli enti del terzo settore è invece assicurato, oltre che dalle norme di tutela, per così dire mediata, prima ricordate ed alle quali certamente gli interessati possono fare ricorso, anche da una serie rigorosa di misure che ne garantiscono la destinazione al raggiungimento dello scopo, impedendone distrazioni, in particolare la distribuzione di utili, di avanzi di gestione, di fondi, di riserve, anche residui in conseguenza dello scioglimento dell'ente; vietando e prevedendo in modo analitico fattispecie di distribuzione indiretta e infine devolvendo il patrimonio in caso di scioglimento ad altri enti del terzo settore, sanzionando infine la condotta dei rappresentanti legali e dei componenti dei consigli di amministrazione che abbiano distribuito anche indirettamente utili di gestione. Quanto allo scopo legislativamente fissato e dichiarato negli atti costitutivi dell'ente (art. 21), la normativa vigila che esso sia effettivamente perseguito, non solo attraverso il formalismo del Registro Unico e le disposizioni che ne regolano il contenuto e ne assicurano l'aggiornamento (art. 48), ma anche attraverso le attività di verifica e di accertamento contemplate nell'art. 90 che si estendono fino alla previsione di ispezioni periodiche da parte dell'Ufficio del registro.

Veniamo ora ad esaminare più da vicino quel vincolo di destinazione che costituisce una garanzia inalienabile dello scopo istituzionale degli enti in esame e che l'art. 8 del codice rubrica in modo perentorio ed assoluto come "destinazione del patrimonio e assenza dello scopo di lucro".

Il patrimonio nel suo complesso, in tutte le sue composizioni, qualunque ne siano le fonti di formazione, con riferimento ad ogni risorsa comunque acquisita, deve essere utilizzato per lo svolgimento dell'attività statutaria. Il presidio di questo vincolo è affidato ad un divieto: quello della distribuzione, attuale o successiva, totale o parziale, diretta o indiretta di qualsiasi utile di gestione, di qualsiasi profitto. Ma questo vincolo di destinazione non è più sufficiente da solo a giustificare l'attribuzione di ente del terzo settore; è necessario che l'ente dichiari e persegua finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale. Il criterio teleologico, come abbiamo avvertito in esordio, assume pertanto un rilievo decisivo nella riforma del terzo settore; e rappresenta una svolta rispetto al d.p.r. 10 febbraio 2000, n. 361 (c.d. riforma Bassanini) che per le associazioni riconosciute e le fondazioni riteneva sufficiente "ai fini del riconoscimento... che fossero state... soddisfatte le condizioni previste da norme di legge o di regolamento per la costituzione dell'ente, che lo scopo sia possibile e lecito e che il patrimonio risulti adeguato alla realizzazione dello scopo" (art. 1, n. 3).

Il divieto è esteso anche oltre la vita dell'ente, in epoca successiva al suo scioglimento, disponendo l'art. 9 che in questo caso il patrimonio residuo è devoluto ad altri enti del terzo settore in conformità del parere espresso dall'Ufficio regionale del Registro Unico Nazionale del terzo settore (art. 45); parere cogente dal momento che gli atti di devoluzione del patrimonio residuo compiuti in assenza o in difformità del suddetto parere sono colpiti da nullità.

Come abbiamo accennato ogni ente del terzo settore, sia tipico che atipico (nel senso sopra delineato) può limitarsi a svolgere un'attività di volontariato o di erogazione gratuita di beni o servizi ovvero perseguire le sue finalità proprie mediante l'esercizio di un'attività imprenditoriale (art. 4). Ne dà esplicita conferma l'art. 11 che, dopo averne previsto al n. 1 l'iscrizione nel Registro Unico Nazionale, specifica nel n. 2 che gli enti del terzo settore i quali esercitino la loro attività esclusivamente o principalmente in forma di impresa commerciale (e solo questi) sono soggetti anche all'obbligo di iscrizione nel registro delle imprese.

6. L'autonomia patrimoniale degli enti codicistici e di quelli solidaristici: modelli di responsabilità patrimoniale e tecniche di controllo dell'impiego delle risorse

Ma con il termine autonomia patrimoniale, nelle sue aggettivazioni di perfetta ed imperfetta, si intende anche il modello di responsabilità dell'ente per le obbligazioni assunte in conformità dell'attuazione dello scopo.

Da questo punto di vista non mi sembra che si possano registrare sensibili diversità fra la disciplina degli enti del codice civile e quelli del terzo settore: in entrambi i casi, ove l'ente del terzo settore sia dotato di personalità giuridica, il patrimonio dell'ente è del tutto distinto da quello dei suoi membri, con la nota conseguenza che esso risponderà soltanto delle obbligazioni contratte dall'ente e i suoi creditori potranno far valere i loro diritti solo sul patrimonio dell'ente stesso; analogamente ove l'ente del terzo settore non avrà personalità giuridica, l'autonomia patrimoniale dell'ente sarà imperfetta nel senso cioè che, oltre alla responsabilità del fondo comune, vi sarà la responsabilità personale e solidale di coloro che hanno agito in nome e per conto dell'associazione. D'altro canto il codice del terzo settore non contiene al riguardo norme specifiche mentre l'art. 3 n. 2 del codice del Terzo Settore sancisce l'applicabilità in quanto compatibili delle norme del Codice civile.

Dobbiamo però porci una domanda che investe tutti gli enti del terzo settore e che è fortemente sollecitata dalla natura di quelli di nuova generazione. La domanda investe l'efficacia o meno dei negozi posti in essere per il raggiungimento di scopi difformi da quello statutario, e la responsabilità delle obbligazioni assunte per scopi, anche in questo caso, difformi da quelli istituzionali. La pressione che su questo tema esercita la disciplina degli enti del terzo settore è evidente se si tiene conto della centralità dell'elemento teleologico introdotto dalla legge delega e dal codice che vi ha dato attuazione. Si tratta di una difformità che non sembra investire la valutazione della causa del negozio, né il titolo dell'obbligazione, che si presentano neutri rispetto a questo accertamento, né tanto meno i motivi che hanno ispirato il compimento del negozio o l'assunzione dell'obbligazione, piuttosto riguarda un giudizio di coerenza dell'operazione economica attuata a mezzo di quel particolare negozio e fondata sull'assunzione di quella determinata obbligazione con lo scopo istituzionale perseguito dall'ente.

Nel titolo II del primo libro del codice civile la conformità delle operazioni economiche allo scopo dell'ente non è oggetto di specifica valutazione; la ragione va forse ricercata nella semplice sufficienza di una attività lecita per il perseguimento del fine. Lo scopo lecito, idoneo a legittimare l'attività svolta dagli enti previsti dal codice civile, si specifica poi in diverse finalità indicate negli atti costitutivi o negli statuti o negli atti di fondazione. Pertanto, il controllo della coerenza delle operazioni economiche attuate con gli strumenti del contratto e dell'obbligazione, resta affidato nel codice civile alle tecniche di rilievo della responsabilità degli amministratori che non abbiano conformato il proprio operato all'interesse dell'ente, ovvero agli interventi giudiziali sulla validità delle deliberazioni assembleari contrarie all'atto costitutivo o allo statuto, con le conseguenze previste dalla legge anche in ordine alla validità degli atti che fossero stati posti in essere in base ad esse, risolta con la tecnica dell'annullamento, e dunque salvaguardando - ove ne sussistano i presupposti - la posizione dei terzi che abbiano acquistato diritti sulla base della deliberazione annullata. Per le fondazioni l'art. 25 consente espressamente all'autorità governativa di annullare le delibere contrarie a norme imperative, all'atto di fondazione, all'ordine pubblico e al buon costume e di commissariare l'ente quando gli amministratori non abbiano agito in conformità dello statuto e dello scopo della fondazione.

Anche per gli enti non riconosciuti la sorte dei negozi e delle obbligazioni assunte non in coerenza con lo scopo statutario si risolve in un controllo sulle delibere assembleari ovvero sul piano della responsabilità dei soggetti che abbiano agito nell'interesse dell'ente.

Il sistema disegnato dal codice del terzo settore suggerisce alcune riflessioni e forse consente di apprezzare un rafforzamento delle misure in materia di controllo dell'operazione economica con riguardo alle finalità perseguite.

Dobbiamo preliminarmente precisare che anche per questi enti il sistema della responsabilità degli amministratori e il controllo giudiziale delle delibere delle assemblee è senza dubbio applicabile in virtù del rinvio prima ricordato. Abbiamo anche visto come la più eversiva delle iniziative contrarie allo scopo, la distribuzione degli utili, sia oggetto di specifica previsione anche nella sua attuazione indiretta ed è sottoposta a rigorosi controlli e severe sanzioni nei confronti dei trasgressori del relativo divieto. In questo ambito peraltro la importanza dell'elemento teleologico, che si manifesta nell'espresso richiamo alle finalità civiche solidaristiche e di utilità sociale e nella dettagliata descrizione delle attività di interesse generale che tali enti devono espletare per essere accreditati come tali, ha indotto il legislatore ha manifestare segnali evidenti nella direzione di un rafforzamento dei controlli sull'attività dell'ente. Ed invero la distribuzione di utili, vera peste nera per la salute normativa degli enti, è rigorosamente "vietata" (così il n. 2 dell'art. 8); questa, come sappiamo, può essere sia diretta che indiretta e può avvenire non solo mediante atti materiali di disposizione come il pagamento ma anche a mezzo di atti negoziali, specie se attuata in modo indiretto, come l'acquisto di beni superiore al loro valore normale, o la cessione di beni o servizi a coloro che a qualsiasi titolo operino nella organizzazione, a condizioni migliori di quelle di mercato. È legittimo ritenere che tale divieto comporti la nullità dell'atto che sia compiuto in sua violazione perché contrario alla norma imperativa che, riservando l'impiego delle risorse al raggiungimento dell'inderogabile fine solidaristico, vieta la distribuzione di utili in qualsiasi forma realizzata; e la conclusione sembra trovare conforto nell'art. 9 che, in caso di scioglimento - come abbiamo visto - sanziona con la nullità gli atti di devoluzione del patrimonio residuo che siano posti in essere in difformità del parere reso a supporto della devoluzione in favore di altri enti del terzo settore, e dunque in violazione della inderogabile prescrizione di riserva e destinazione delle risorse. A questo punto è anche possibile teorizzare la nullità più in generale di tutti quei negozi, e per ricaduta l'invalidità delle obbligazioni che in quei negozi trovino fonte, ove ne sia accertata la mancanza di funzionalità rispetto allo scopo, avuto riguardo alla disfunzione dell'operazione economica rispetto alle finalità dell'ente; e ciò indipendentemente dalle fattispecie tipiche indicate dalla norma come per esempio il plusvalore commerciale dell'acquisto.

Maggiori libertà di mercato gli enti del terzo settore incontrano quando siano autorizzati all'esercizio di attività diverse rispetto a quelle istituzionali in conformità della previsione dell'art. 6, che tuttavia si affretta a sancirne il carattere strumentale e a confinarle in criteri e limiti ben circoscritti.

7. Patrimoni separati e "attività diverse"

Nel sistema del codice settoriale l'esercizio di attività diverse risulta in vario modo connesso con la disponibilità da parte degli enti del terzo settore di un patrimonio separato.

Occorre considerare che il codice, lo abbiamo visto, dopo aver indicato enti tipici e atipici e precisato quali formazioni sociali non possono rivestire la qualifica di enti del terzo settore (associazioni politiche, professionali, sindacali, amministrazioni pubbliche), riconosce tale natura agli enti religiosi limitatamente all'esercizio di attività di interesse generale e nei limiti dell'impiego di un patrimonio destinato. Tra questi patrimoni destinati di cui sono titolari gli enti religiosi e i patrimoni separati, che in base all'art. 10 del codice di settore gli enti dotati di personalità giuridica ed iscritti nel registro delle imprese possono costituire ai sensi degli articoli 2447-bis ss. cod. civ. (patrimoni destinati ad uno specifico affare), non vi è coincidenza. L'ente religioso invero non è ente del terzo settore in senso proprio: è ente al quale, allorché svolge un'attività determinata analoga a quella svolta dagli enti del terzo settore, e lo fa con un determinato patrimonio, si applicano le norme del codice speciale.

La norma che invece prevede i patrimoni separati (art. 10) ne giustifica la costituzione sulla base di un'attività eterogenea rispetto a quelle tipiche individuate nell'art. 5 (attività di interesse generale) che l'ente non potrebbe altrimenti svolgere, stante il vincolo di impiego delle risorse per il perseguimento delle sue finalità istituzionali (art. 8). Si tratta dunque di un impulso all'attività d'impresa, versata in un affare diverso dal sociale, per conseguire un profitto e volgerlo al soddisfacimento dello scopo generale, utilizzando risorse patrimoniali distinte dal patrimonio ordinario dell'ente. Sotto questo profilo l'art. 10 non è che una declinazione normativamente specifica dell'art. 6 che consente in generale agli enti del terzo settore di esercitare attività diverse da quelle istituzionali (art. 5), valendosi di un patrimonio a ciò destinato, purché secondarie e strumentali rispetto alle attività d'interesse generale indicate nella suddetta norma.

Il requisito della strumentalità si spiega facilmente e si traduce nella funzionalizzazione dell'attività diversa agli scopi perseguiti dall'attività principale; quello della secondarietà si specifica in base ad un parametro di proporzionalità, e viene ad indicare l'apprezzamento di una determinata misura tra le risorse in generale impiegate per l'attività di interesse generale che devono essere maggiori rispetto a quelle impiegate in attività secondarie.

Il carattere della secondarietà testimonia ancora una volta la prevalenza dello scopo riguardo al mezzo, ma finisce in questo ambito per rappresentare anche un limite rispetto ad altre realtà imprenditoriali, rischiando di confinare il terzo settore, dal punto di vista della sua capacità ed efficienza economica, in una posizione di subalternità rispetto agli altri operatori economici e ai soggetti del mercato. Infatti le attività diverse che potrebbero costituire un efficiente motore di sviluppo economico dell'ente verrebbero ad essere frenate e mortificate da questa relazione proporzionale.

8. Conclusioni: il terzo settore, avanposto di una nuova concezione d'impresa: dalla logica mercantile alla logica della solidarietà

Tale rischio sembrerebbe in contrasto con i principi enunciati dall'art. 2 comma 1 lettera b), della legge delega n. 106 del 2016, la quale espressamente riconosce e favorisce l'iniziativa economica privata che si svolge a mezzo del terzo settore.

Da questo punto di vista l'introduzione dell'indicato limite potrebbe rappresentare una occasione perduta per lubrificare con l'etica la sfera dell'economia, per correggere la logica mercantile con il valore della solidarietà; secondo un processo che muove ed opera dall'interno dell'impresa, per bonificarne le radici e istituzionalizzarne il profilo etico. Investire - è opportuno ricordarlo - non ha soltanto un significato economico ma anche morale.

Si tratta di prospettive ben presenti nella pregevole Lettera Enciclica di Benedetto XVI, Caritas in veritate, che ho già avuto occasione di ricordare in passato e che vedo spesso con piacere ricordata in buone recenti pagine sui temi dell'impresa.

I valori della cittadinanza, quelli della utilità sociale e della solidarietà, non sono più soltanto momenti che appartengono all'attività politica di distribuzione di una ricchezza separatamente e prioritariamente prodotta nella sfera economica; si tratta di valori che concorrono alla formazione dello stesso processo economico dal suo inizio e dunque governano la logica della produttività. Considerando le tematiche relative al rapporto fra impresa ed etica Benedetto XVI osservava, esattamente dieci anni or sono, che "la distinzione finora invalsa fra imprese finalizzate al profitto e organizzazioni non finalizzate al profitto non è più in grado di dar conto completo della realtà... è andata emergendo un'ampia area intermedia tra le due tipologie di imprese. Essa è costituita da imprese tradizionali... da fondazioni... da gruppi di imprese aventi scopi di utilità sociale... dal variegato mondo della c.d. economia civile e di comunione. Non si tratta solo di un "terzo settore", ma di una nuova ampia realtà composita, che coinvolge il privato e il pubblico e che non esclude il profitto, ma lo considera strumento per realizzare finalità umane e sociali. Il fatto che queste imprese distribuiscano o meno gli utili oppure che assumano l'una o l'altra delle configurazioni previste dalle norme giuridiche diventa secondario rispetto alla loro disponibilità a concepire il profitto come uno strumento per raggiungere finalità di umanizzazione del mercato e della società".

Se dunque oggi l'economia ha bisogno dell'etica per il suo corretto funzionamento, in campo economico, finanziario e aziendale; se oggi la democrazia economica si costruisce sul pluralismo di imprese che operando liberamente sul mercato perseguono fini istituzionali diversi; se dunque accanto all'impresa privata orientata al profitto, si esprimono quelle organizzazioni produttive che perseguono fini mutualistici o sociali, è proprio "dal loro reciproco confronto sul mercato che ci si può attendere una sorta di ibridazione dei comportamenti d'impresa e dunque un'attenzione sensibile alla civilizzazione dell'economia". Ecco allora che l'esperienza del terzo settore e la sua enfatica presenza nel mercato ha un valore che va oltre il dato normativo e, introducendo nuovi geni nel DNA dell'impresa tradizionale, si candida come imperdibile occasione di rinnovamento.

D'altro canto si sa, morale ed economia sono universi tutt'altro che distinti, anzi tradizionalmente legati da un intimo nesso. È questo nesso che a mio parere va oggi riscoperto e valorizzato, ed è il bene (presto per parlare già di eredità) più prezioso del nuovo codice del settore e di qualsiasi intervento normativo in questa materia.

Quanto affermato in questa enciclica non mi pare che abbia nulla di confessionale (e seppure lo avesse, al di là di ogni preconcetto pregiudizio, non ne farebbe venir certo meno il valore); mi sembra piuttosto che rappresenti una delle tante testimonianze della c.d. dottrina sociale della Chiesa: una sorta di religiosità laica che si sforza di collocare l'etica nei rapporti civili senza rivendicarne appartenenze, perché difficilmente la morale può vantare una appartenenza ideologica.

I pur solidi strumenti dell'ormai logora e stressata economia capitalistica di mercato, possono trovare nuova linfa in un nuovo modo di concepire l'impresa come attività che, pur senza negare il profitto, sappia andare oltre la logica dello scambio degli equivalenti e dell'utile fine a se stesso. È anzi possibile che la sopravvivenza dell'impresa come noi la conosciamo e la sopravvivenza dello stesso mercato liberale e dunque della società che questo sostiene, dipendano proprio dall'esito di questo processo, da questo impulso da contagio che la morale e le finalità solidaristiche che essa indica, possono innestare nella tradizionale logica d'impresa.

Bibliografia essenziale

La manualistica più recente nella sezione dedicata alle persone e ai soggetti di diritto non trascura di ricordare gli enti del terzo settore: tra i molti, A. Zoppini, in Manuale di diritto prvato, a cura di Salvatore Mazzamuto, Torino 2016, pag. 198 ss.; C.M. Bianca, Istituzioni di diritto privato, Seconda edizione Milano 2018, 132 pag. ss.; P. Perlingieri, Manuale di diritto civile, ottava edizione, Napoli 2017, pag. 168 ss.; P. Zatti, V. Colussi, Lineamenti di diritto privato, Padova, 2018, pag. 188 ss., pag. 348 ss. e pag. 379 ss.

Per la letteratura specifica può vedersi: G. Ponzanelli, Gli enti collettivi senza scopo di lucro, Torino 2000; G. Salantino, L'impresa sociale, in Contratto e impresa 2011, 2, pag. 394; G. Alpa, Responsabilità sociale dell'impresa, enti non profit, etica degli affari, in Ec. dir. terz., riv. quadr., 2011, 2, pag. 199; M.V. De Giorgi, Il nuovo diritto degli enti senza scopo di lucro: dalla povertà delle forme codicistiche al groviglio delle leggi speciali, in Riv. dir. civ., 1999, pag. 287; P. Consorti, L. Gori, E. Rossi, Diritto del Terzo settore, Il Mulino, 2018; S. Rodotà, Solidarietà. Un'utopia necessaria, Laterza, 2014; C. Gori (ed altri), Il welfare sociale in Italia. Realtà e prospettive, Carocci ed., 2014; G. Moro, Cittadinanza attiva e qualità della democrazia, Ed. Carocci, 2013; G. Arena, C. Iaione (a cura di), L'Italia dei beni comuni, Ed. Carocci, 2012.

Recentemente, anche per i profili fiscali, cfr. AA.VV., La riforma del c.d. terzo settore e l'imposizione fiscale delle liberalità indirette, Fondazione italiana del notariato, Milano 2017. Nel testo è richiamata l'Enciclica Caritas in veritate, del Sommo Pontefice Benedetto XVI, Città del Vaticano, 2009.

 

 

 

 



copyright 2019 by Società editrice il Mulino
Licenza d'uso


inizio pagina