Sulla nozione di patrimonio culturale
La libera disponibilità dei segni e il marchio di colore
Sommario: 1. Premessa. - 2. L'introduzione dei marchi di colore nell'ordinamento italiano. - 3. I requisiti per la valida registrazione del marchio di colore. - 4. Un caso di non facile distinzione tra marchio di colore e marchio di forma. - 5. La recente introduzione del divieto di registrazione come marchio di impresa dei segni costituiti da "altre caratteristiche" funzionali, necessitate o sostanziali del prodotto e qualche riflessione conclusiva.
The free availability of signs and the color trademark
The free
availability of signs and the color trademark In the IT
globalization's era, messages, and especially advertising ones, must be created
in such a way as to capture the attention of subjects to whom they are
addressed in the shortest possible time. Color has
a strong attractive value and is usually used as an effective marketing tool
for the promotion of goods and services on the market.In this context, laws and
regulations concerning distinctive signs, and trademarks in particular, plays a
fundamental role, because they offer indications on the methods with which and
on the limits within which it is allowed to exploit colors on an exclusive base
through, precisely, their registration as trademarks.
Keywords: Colour; Trademark;
Distinctive Character.
Nell'era della globalizzazione informatica, la comunicazione è molto più veloce e immediata rispetto al passato. Questo fa sì che i messaggi, e in particolar modo quelli di carattere commerciale, devono essere costruiti in modo da catturare nel più breve tempo possibile l'attenzione dei soggetti verso i quali sono rivolti.
Non è un caso che nell'ultimo decennio si siano sviluppate nuove scienze, che uniscono tra loro discipline economiche e mediche e che si pongono l'obiettivo di individuare i meccanismi attraverso i quali il cervello umano reagisce agli stimoli esterni. Attraverso lo studio di queste reazioni si cerca di costruire ad hoc una comunicazione diretta ed efficace, utilizzando canali comunicativi non solo razionali, ma anche e soprattutto emozionali, in modo da suscitare l'interesse dei destinatari e di convincerli ad operare determinate scelte di acquisto o semplicemente ad esprimere le proprie preferenze (si pensi solo alla funzione "like" dei social network, attraverso la quale gli operatori della Rete possono profilare gli utenti in base ai loro interessi per poi offrire in modo mirato beni e servizi).
Ecco quindi che dal semplice marketing e dalle indagini di mercato si è passati al neuromarketing [1] e all'eye tracking (sistema in grado di individuare i punti in cui si sofferma l'occhio umano posto davanti ad un'immagine complessa) e agli altri strumenti tecnologici per individuare le reazioni dei consumatori.
In questo contesto il diritto dei segni distintivi, e dei marchi in particolare, gioca un ruolo fondamentale.
Il marchio è infatti il segno che contraddistingue e differenzia sul mercato i prodotti o i servizi di un dato imprenditore da quelli dei concorrenti e grazie al quale il consumatore può (più o meno) consapevolmente proseguire o interrompere le proprie esperienze di acquisto, in tal modo premiando gli operatori più meritevoli e, in ultima analisi, partecipando al corretto funzionamento del mercato.
Il marchio inoltre può possedere un valore aggiuntivo, un potenziale collegato alla capacità attrattiva che gli può derivare sia dalla buona reputazione che hanno raggiunto i beni o i servizi che lo stesso contraddistingue sul mercato, sia soprattutto dagli investimenti pubblicitari effettuati per promuoverli tra il pubblico dei consumatori.
Rispetto al mercato di qualche decennio fa, caratterizzato dai tradizionali marchi denominativi, hanno assunto sempre più importanza i marchi figurativi e tridimensionali e con essi ha acquisito un ruolo sempre più centrale l'elemento cromatico, sapientemente scelto dagli esperti di comunicazione per creare marchi attrattivi, curiosi, provocatori o semplicemente belli.
Attraverso il colore, infatti, si può catturare l'attenzione del consumatore, dirottare lo sguardo verso punti prestabiliti del messaggio promozionale e suscitare emozioni diverse a seconda della tonalità prescelta.
Il valore attrattivo dei colori inserito in un segno distintivo costituisce pertanto un punto di forza su cui le imprese possono fare leva per posizionarsi al meglio sul mercato.
Per questa ragione occorre chiedersi secondo quali modalità ed entro quali limiti è consentito sfruttare i colori in regime di esclusiva.
2. L'introduzione dei marchi di colore nell'ordinamento italiano
Prima della riforma del diritto dei marchi del 1992, poteva essere "brevettata" (così si chiamava allora la procedura di registrazione dei marchi) come marchio d'impresa "ogni nuova parola, figura o segno atto a contraddistinguere prodotti o merci".
Allora la brevettazione di marchi costituiti da colori, così come da lettere o da numeri, era largamente osteggiata dalla giurisprudenza e dalla dottrina maggioritarie, per il timore che, attraverso la durata potenzialmente illimitata del marchio, si potessero creare dei monopoli su segni di uso comune che invece, come tali, dovevano rimanere nella libera disponibilità di tutti gli operatori del mercato.
Facevano tuttavia già allora eccezione i casi in cui le lettere o i numeri erano rappresentati con una forma grafica particolare, tale da conferire al segno un carattere individuante, come ad esempio nei casi della lettera "F" per i prodotti della casa di moda Fendi o del monogramma "LV" per Luis Vuitton [2].
In questi casi l'oggetto della privativa non era infatti costituito dalle lettere di per sé, ma esclusivamente dalla loro particolare rappresentazione, che, allo stesso tempo, costituiva anche il limite entro cui la tutela del marchio poteva essere accordata, lasciando quindi libero l'uso delle lettere da parte delle altre imprese operanti sul mercato.
La prospettiva mutò a seguito della Direttiva comunitaria n. 89/104 del 21 dicembre 1988 sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi di impresa, attuata in Italia con il d.lg. 4 dicembre 1992, n. 480, quando l'elenco dei segni che potevano costituire un valido marchio venne ampliato notevolmente, con la previsione secondo la quale potevano formare oggetto di registrazione tutti i segni suscettibili di essere "rappresentati graficamente", tra i quali vennero inseriti a titolo esemplificativo le lettere, le cifre, la forma del prodotto o il suo confezionamento e, per quanto riguarda l'ordinamento italiano, anche "le combinazioni o le tonalità cromatiche".
Veniva quindi espressamente consentita la registrazione dei colori quali marchi di impresa, sempre a condizione che gli stessi non fossero di uso comune nel linguaggio corrente o impiegati comunemente nel commercio e sempre che fossero idonei a distinguere i prodotti o i servizi di un'impresa da quelli offerti dalle imprese concorrenti e salva la necessità di poterli riprodurre graficamente.
A tal proposito è stato rilevato [3] come la riforma abbia operato un rovesciamento della precedente impostazione: mentre prima vigeva una presunzione iuris et de iure circa l'appartenenza delle lettere e dei numeri (e dei colori) alla categoria dei segni di uso comune, ora lettere e numeri (e colori) possono essere validamente registrati, salvo nei casi - da accertare di volta in volta - in cui i marchi coincidano effettivamente con segni di uso comune, nel qual caso si può sempre vincere la presunzione di validità, offrendo la prova contraria (come ad esempio per il caso del colore argento, comunemente utilizzato per le confezioni di prodotti alimentari e, nella specie, per pacchetti di patatine [4]).
3. I requisiti per la valida registrazione del marchio di colore
Aperta quindi la strada alla registrazione dei colori non di uso comune, rimaneva comunque da rispettare il requisito della rappresentabilità grafica e della capacità distintiva, intesa come idoneità del segno - ab origine o successivamente acquisita attraverso l'uso - di ricondurre un determinato bene o servizio alla sfera di appartenenza e di controllo di una data impresa.
Ancor prima dell'analisi di tali requisiti, occorre però tenere in considerazione un altro fattore, ovvero che, a differenza delle lettere o dei numeri - i quali possono essere espressi e combinati secondo molteplici stili, di modo che l'uso come marchio da parte di un soggetto non ne pregiudica l'utilizzo, da parte di altri soggetti, purché in forma grafica diversa - i colori registrabili come marchi, non essendo di per sé caratterizzati da alcun contorno o figura, sono necessariamente un numero piuttosto ridotto e ciò a causa della percezione che ne può avere il consumatore medio. Nonostante il fatto che il numero delle possibili sfumature di un dato colore può essere molto elevato, tuttavia queste sfumature possono essere individuate con facilità solo attraverso l'impiego di apparecchiature tecniche, mentre il consumatore di media avvedutezza non è in grado a occhio nudo di distinguerle tutte, così che i colori effettivamente disponibili per essere registrati come marchi e per fungere da elemento distintivo di beni o servizi, si limitano a un numero ristretto. Se si considera che le tonalità del cerchio cromatico sono convenzionalmente 12, ben si comprende come la loro registrazione potrebbe creare dei monopoli contrari al normale funzionamento del gioco concorrenziale, avvantaggiando alcuni soggetti a discapito di tutti gli altri operatori del settore di riferimento.
In linea con questa preoccupazione antimonopolista, è stato rilevato come "nell'ambito del diritto comunitario dei marchi deve essere riconosciuto l'interesse generale a non restringere indebitamente la disponibilità di colori per gli altri operatori che offrono prodotti o servizi del genere di quelli oggetto della domanda di registrazione" [5].
La registrazione come marchio di un colore, o, utilizzando le parole del codice, di una "tonalità o combinazione cromatica" dovrebbe quindi trovare già un primo ostacolo nel principio dell'imperativo di disponibilità dei segni [6].
Un secondo ostacolo sembra essere stato eliminato dalla novella del '92, la quale, come visto, nell'esplicitare quali sono i "segni" che possono costituire un valido marchio, indica espressamente [7], accanto a "parole, compresi i nomi di persone, i disegni, le lettere, le cifre, i suoni, la forma dei prodotti o del loro confezionamento", anche "le combinazioni o le tonalità cromatiche".
Non è quindi più revocabile in dubbio che il colore in sé sia un segno, seppur non convenzionale, idoneo a costituire un marchio di impresa.
Stabilito che un colore o la combinazione di due o più colori rappresentano dei segni, il legislatore ha indicato un ulteriore requisito, per così dire preliminare, per la loro valida registrazione, che risponde al principio di determinatezza del diritto dei marchi e, in generale, al principio di certezza del diritto.
Si tratta della idoneità del segno ad "essere rappresentato nel registro in modo tale da consentire alle autorità competenti ed al pubblico di determinare con chiarezza e precisione l'oggetto della protezione conferita al titolare", così come stabilito all'attuale formulazione dell'art. 7, lett. b) c.p.i.
Questa disposizione costituisce una novità, introdotta d.lg. 20 febbraio 2019, n. 15, "Attuazione della direttiva (UE) 2015/2436 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 2015, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d'impresa", che ha recepito le indicazioni già espresse dalla giurisprudenza comunitaria a partire dai casi Sieckmann e Bauchemie [8], e ha sostituito il requisito della rappresentabilità grafica con la possibilità di utilizzare altre modalità e altri strumenti per indicare l'oggetto della privativa, purché idonee a consentire agli uffici esaminatori di adempiere i propri obblighi relativi all'esame preliminare delle domande di registrazione, alla pubblicazione e alla tenuta di un registro dei marchi e purché capaci di mettere gli operatori economici nelle condizioni di accertare con chiarezza e precisione i diritti dei loro concorrenti attuali o potenziali.
Non è quindi sufficiente, ai fini della registrazione, presentare una domanda rivendicando la protezione, per certe classi merceologiche, di un determinato colore, sia per il fatto che del medesimo colore esistono diverse sfumature e diversi gradi di brillantezza o di intensità, sia perché ciascuno di noi avverte i colori in modo differente. Allo stesso modo, il deposito di un campione di colore potrebbe subire dei mutamenti, dovuti al trascorrere del tempo e alle modalità di conservazione del campione stesso.
La questione è stata da tempo risolta prevedendo di indicare nella domanda anche il riferimento a un codice cromatico generalmente riconosciuto (come ad esempio il codice "Pantone" o il codice "RAL"), che sia in grado di conservare in modo duraturo e preciso l'indicazione della tonalità e, quindi, l'oggetto su cui cade la privativa.
L'indicazione di un codice cromatico internazionalmente riconosciuto non esaurisce tuttavia da sola l'esigenza di garantire al segno costituito da un colore il grado di determinatezza richiesto.
Il Regolamento di esecuzione (UE) 2018/626 recante modalità di applicazione di talune disposizioni del Regolamento (UE) 2017/1001 [9], stabilisce, infatti, che il marchio deve essere "riprodotto nel registro in modo chiaro, preciso, autonomo, facilmente accessibile, intelligibile, durevole e obiettivo" [10] e, per il caso delle combinazioni cromatiche senza contorni, specifica che il marchio deve essere rappresentato attraverso una riproduzione che mostri la "disposizione sistematica della combinazione di colori - sempre identificati con un codice riconosciuto - in modo costante e predeterminato", dovendosi evidentemente ritenere che tali costanza e predeterminatezza si riferiscano alle modalità concrete di utilizzo del marchio.
Con specifico riguardo ai marchi costituiti da due o più colori, pertanto, la domanda di registrazione deve indicare con chiarezza, oltre ai codici cromatici, anche la proporzione che ciascun colore occupa rispetto all'altro, nonché la precisa disposizione con la quale i colori sono posizionati sui prodotti a cui si riferiscono, sulle loro confezioni o sul materiale promozionale relativo ai servizi offerti.
Ci si potrebbe allora interrogare se il deposito di un segno costituito ad esempio da due colori disegnati in modo obliquo con un'inclinazione di 90 gradi, dal basso a sinistra verso l'alto a destra, tuteli il registrante solo entro i limiti di quella precisa raffigurazione o se gli sia consentito utilizzare in modo esclusivo il marchio anche apponendolo sui prodotti ad esempio in senso verticale o in orizzontale.
In una fattispecie che riguardava la nullità di un marchio, costituito dai colori blu e argento, applicati in proporzioni uguali e giustapposti e registrato a seguito di una raggiunta capacità distintiva sul mercato, il Tribunale UE [11] ha avuto modo di riaffermare il principio dell'imperativo di disponibilità dei colori, rilevando come nelle combinazioni cromatiche, l'unico modo per collocare nello spazio il segno, privo di per sé di contorni, è rappresentato dalla giustapposizione dei colori stessi. In mancanza dell'indicazione della precisa combinazione con la quale i colori vengono accostati, la tutela che deriverebbe dalla registrazione del segno come marchio sarebbe troppo ampia, perché i marchi di colore, a differenza dei marchi figurativi, possono essere apposti su tutta la superficie dei prodotti che contraddistinguono, "indipendentemente dalla loro forma o dal loro confezionamento".
In effetti, se dall'un lato il marchio di colore si caratterizza proprio per "colorare" i prodotti o i servizi che vuole contraddistinguere, dall'altro lato le classi merceologiche alle quali il marchio si riferisce - pur non essendo più consentito indicare genericamente nella domanda di registrazione una data classe, ma vigendo oggi l'obbligo di indicare specificamente i beni e i servizi all'interno di una data categoria, in relazione ai quali effettivamente si voglia utilizzare il marchio - riguardano pur sempre beni e servizi che possono essere fabbricati, commercializzati e promossi in molteplici modi.
E proprio in questo sembra insidiarsi il rischio che il marchio di colore accordi una protezione troppo ampia al suo titolare, perché egli potrebbe astrattamente rivendicare una tutela sulla colorazione di tutti i prodotti o servizi compresi tra quelli indicati nella domanda di registrazione, qualunque ne sia la forma, in tal modo limitando oltremodo le iniziative imprenditoriali dei concorrenti.
A questo proposito la giurisprudenza, come visto, ha da subito precisato che per valutare l'idoneità di segno di colore a costituire un marchio di impresa occorre tenere in considerazione l'interesse generale a non restringere indebitamente la disponibilità dei colori per gli altri operatori.
Tornando al caso deciso dal Tribunale, a ben vedere, il richiedente aveva sì depositato una riproduzione dei colori che li raffigurava secondo una determinata proporzione e con una precisa disposizione nello spazio (verticale), ma tale disposizione non coincideva con quella con cui i colori erano stati presentati al pubblico. Il Tribunale ha quindi respinto il ricorso motivando sulla base del fatto che il richiedente mirava ad ottenere una protezione più ampia di quella raggiunta attraverso l'uso del segno, così appropriandosi di una combinazione di colori diversa da quella già percepita e memorizzata dai consumatori.
Il Tribunale ha ritenuto che la differenza tra la collocazione dei colori presentata al pubblico rispetto a quella oggetto della domanda di registrazione non fosse trascurabile e non consentisse pertanto di allargare l'ambito di tutela del marchio fino a ricomprendere anche la raffigurazione in senso verticale, così aderendo all'insegnamento sul rispetto dell'imperativo di disponibilità dei segni.
Rimarrebbe da chiedersi come avrebbe deciso il Tribunale se il ricorrente avesse dato prova della raggiunta capacità distintiva anche della combinazione verticale dei colori o se, diversamente, avesse depositato una raffigurazione coincidente con una di quelle già percepite dal pubblico come marchio della sua impresa.
La decisione peraltro è stata impugnata davanti alla Corte di Giustizia, di modo che forse si avranno altre indicazioni sull'argomento.
L'idoneità generale di un segno a costituire un marchio e ad essere rappresentato in modo chiaro e preciso non implica che tale segno possieda necessariamente un carattere distintivo.
Occorre infatti verificare se il consumatore medio, la cui percezione costituisce il metro di riferimento per valutare tale requisito, sia in grado di collegare direttamente determinati prodotti o servizi a una certa impresa solo in forza dell'utilizzo di una certa tonalità cromatica a questi riferibile.
Il consumatore, in assenza di elementi denominativi o figurativi, difficilmente è portato a distinguere l'origine imprenditoriale di un determinato bene o servizio unicamente sulla base di un colore, il quale viene invece generalmente avvertito come un elemento decorativo o funzionale del prodotto stesso con il quale finisce per confondersi e non come indicatore di un messaggio sulla sua specifica provenienza.
In ragione di ciò, un segno rappresentato da un colore potrebbe essere oggetto di una valida registrazione solo in circostanze eccezionali, mentre potrebbe acquisire carattere distintivo grazie al suo prolungato utilizzo sul mercato e alla consuetudine raggiunta dal pubblico di riconoscere in quel colore il segno distintivo di una data impresa e potrebbe quindi, in forza della c.d. riabilitazione del segno o secondary meaning [12], ottenere successivamente la registrazione come marchio, sempre che una siffatta riabilitazione non determinasse di fatto un regime di esclusiva ingiustificato e troppo frustrante per i concorrenti.
4. Un caso di non facile distinzione tra marchio di colore e marchio di forma
Il colore ha una valenza funzionale ed estetica che lo assimila alla forma del prodotto rispetto alla quale, peraltro, può essere non facilmente distinguibile.
Questa difficoltà è ad esempio testimoniata dalla domanda pregiudiziale di cui è stata recentemente investita la Corte di Giustizia, in composizione di Grande Sezione, chiamata a pronunciarsi dal Tribunale dell'Aia in relazione a un marchio di titolarità della famosa casa di moda Louboutin [13].
Il quesito posto dal giudice del rinvio chiedeva se nella nozione di forma, ai sensi dell'articolo 3, paragrafo 1, lett. e), iii), della Direttiva 2008/95/CE [14] fossero ricomprese solo le caratteristiche tridimensionali del prodotto come contorni, dimensioni e volume (che possono essere espressi in tre dimensioni), o anche altre caratteristiche (non tridimensionali) del prodotto, come il colore.
L'impresa aveva registrato presso l'Ufficio della proprietà intellettuale del Benelux un marchio per calzature con tacco alto consistente "nel colore Pantone 18-1663TP, applicato alla suola di una scarpa come rappresentata [in figura]". Nella descrizione del segno, il registrante aveva inoltre precisato che "il contorno della scarpa non fa parte del marchio, ma ha lo scopo di evidenziare la posizione del marchio".
Proprio sulla base di questa precisazione la Corte sembra aver fondato il proprio giudizio.
La Corte ritiene, infatti, che un marchio di colore applicato su una parte specifica del prodotto da contraddistinguere non può essere considerato un marchio di forma quando il richiedente abbia indicato espressamente che il contorno della scarpa non fa parte del marchio stesso, ma serve solo a indicare su quale parte del prodotto il colore deve essere collocato (cfr. par 24 della sentenza).
La Corte giunge a una soluzione opposta rispetto a quanto suggerito dall'Avvocato Generale Maciej Szpunar nelle Conclusioni presentate in data 22 giugno 2017 e successivamente ribadite in data 6 febbraio 2018, il quale aveva invece posto in risalto il fatto che la tutela del colore "non è rivendicata in astratto, ma per l'applicazione del colore alla suola di una scarpa con tacco alto", in modo tale che il colore finisce per confondersi con un preciso elemento del prodotto, rientrando perciò il marchio in esame preferibilmente nella categoria dei marchi costituiti dalla forma del prodotto che rivendicano la tutela per un determinato colore in relazione a quella forma (cfr. parr. da 28 a 42).
Al contrario, la Corte nega a priori che il segno in esame possa essere considerato un marchio di forma, in tal modo evitando di prendere in considerazione il problema dell'imperativo di disponibilità che si pone in relazione ai segni costituiti esclusivamente dalle particolari forme del prodotto di cui all'art. 3, par. 1, lett. e) della Direttiva e di condurre l'analisi per verificare l'eventuale esistenza di un impedimento alla registrazione.
5. La recente introduzione del divieto di registrazione come marchio di impresa dei segni costituiti da "altre caratteristiche" funzionali, necessitate o sostanziali del prodotto e qualche riflessione conclusiva
Ci si potrebbe chiedere che decisione avrebbe assunto la Corte nel caso sopra citato, se all'epoca fosse stata già in vigore la Direttiva 2015/2436.
Quest'ultima è intervenuta infatti sulle disposizioni relative agli impedimenti di registrazione, stabilendo che non possono essere registrati e, se registrati, possono essere dichiarati nulli, non solo, come precedentemente previsto, i segni costituiti esclusivamente dalla forma che sia imposta dalla natura stessa del prodotto o necessaria per ottenere un risultato tecnico o che dia valore sostanziale al prodotto, ma, oltre a questi, anche i segni costituiti esclusivamente da "altra caratteristica del prodotto" che sia imposta, necessaria o sostanziale.
Se per "altra caratteristica" si intendesse - come sembra doversi intendere - anche uno solo degli elementi che costituiscono l'aspetto esteriore complessivo del prodotto, anche il colore apposto serialmente sul prodotto potrebbe ricadere nel divieto, sempre se funzionale, necessitato o sostanziale.
Con l'introduzione di tale disposizione sembra quindi che l'imperativo di disponibilità dei colori risulti rafforzato: viene infatti riconosciuta anche all'elemento cromatico la sua molteplice natura di segno non solo distintivo, ma, forse prima ancora, anche potenzialmente utile o attrattivo.
Da questo ultimo punto di vista, l'evoluzione legislativa in materia sembra aver seguito quella delle moderne tecniche comunicative: mentre un tempo c'era ritrosia e si discuteva sulla opportunità di registrare marchi costituiti da singole cifre o lettere perché non c'era l'abitudine a identificare un bene o un servizio con questi segni, ora che le campagne pubblicitarie si caratterizzano per le reazioni emozionali del pubblico, benché, come ricordato, sussistano comunque differenze di tipo ontologico tra i segni in questione, ci si interroga sul carattere distintivo di forme e colori e, ora come allora, sulla necessità di non creare sugli stessi dei monopoli esclusivi.
V'è da dire, banalizzando i termini della questione, che la possibilità astrattamente riconosciuta, anche per i segni costituiti dalla forma o dal colore del prodotto privi ab origine dei requisiti per una valida registrazione, di poter essere "riabilitati" grazie all'uso, potrebbe creare negli operatori economici il convincimento e l'aspettativa di poter ottenere l'esclusiva anche su segni fortemente attrattivi e quindi sostanziali nell'accezione dell'art. 9, lett. c) c.p.i., semplicemente attraverso il loro impiego prolungato nel tempo e, presumibilmente, attraverso grossi investimenti pubblicitari.
Questa aspettativa, viceversa, forse non si creerebbe se la possibilità di far acquistare con il tempo carattere distintivo a un dato segno fosse preclusa in partenza. Tuttavia, in questo modo si impedirebbe anche ai più meritevoli di poter esser premiati e si porrebbe forse un ostacolo ingiustificato al normale sviluppo e all'accrescimento del mercato.
Da quanto detto, emerge la difficoltà a mantenere in equilibrio due opposte esigenze: quella di garantire la libera disponibilità di determinati segni, che, secondo il concetto "dinamico" del marchio, variano a seconda del momento storico e delle condizioni sociali, economiche e politiche presenti in un dato contesto, e quella, opposta, di vedere riconosciuti gli sforzi imprenditoriali di chi abbia proficuamente investito energie e risorse nella promozione di un dato marchio.
Il bilanciamento non può che passare dalla applicazione delle disposizioni vigenti in materia, alle singole fattispecie concrete. In questo senso è auspicabile che sia le autorità competenti, sia gli operatori del mercato abbiano a mente e tengano presente quali sono le ragioni sottostanti alle singole norme, e quali sono le esigenze di carattere generale, prima fra tutte quella della libera disponibilità dei segni, che caratterizzano il sistema delle privative sui segni distintivi e sui marchi in particolare, cercando, allo stesso modo, di non voler ostinatamente traslare da un sistema all'altro concetti e rationes che forse sarebbe opportuno tenere invece separati.
Ci si riferisce al crescente fenomeno che vede le imprese impegnate a cercare di ottenere una tutela sempre più intensa e prolungata dei propri diritti di esclusiva sull'aspetto esteriore dei prodotti, ad esempio attraverso la registrazione come marchi di segni coincidenti con propri disegni e modelli scaduti o in procinto di scadere (la protezione del design registrato ha infatti una durata massima di 25 anni), o invocando la protezione degli stessi in base alla legge sul diritto d'autore (che ha una durata fino al settantesimo dopo la morte dell'autore), e ciò anche quando non ne sussistano i presupposti.
In questo senso, occorrerebbe forse interrogarsi nuovamente e riaffermare con maggior forza la diversa portata delle disposizioni poste a tutela dell'aspetto esteriore dei prodotti, cercando di applicare e coordinare fra loro in modo più organico e ragionato le norme in materia di marchio con quelle che disciplinano i disegni e i modelli, il diritto d'autore e la correttezza professionale, così da rendere persuasi gli operatori del mercato della possibilità di salvaguardare con successo i propri interessi utilizzando gli strumenti a ciò predisposti dall'ordinamento, nel rispetto dell'imperativo di disponibilità dei segni e dei limiti stabiliti per un corretto funzionamento del mercato.
Note
[1] Sul tema si veda "Applications of neuroscience: Breakthroughs in research and practice", a cura di Information Resources Management Association, 2018, IGI Global, soprattutto nella parte dedicata a Marketimg e Managment, pag. 286 ss.
[2] Corte cass, sez. civ., 7 maggio 1983, n. 3109, in Giur. ann. dir. ind., 1983.
[3] Vanzetti, Marchi di numeri e lettere dell'alfabeto, in Riv. dir. ind. 2002, I, pag. 640 ss. e ivi, 2018, I, pag. 291 ss.
[4] In tal senso cfr. Trib. Milano, 15 novembre 1994, in Giur. ann. dir. ind., 1995, (3269).
[5] Corte di Giustizia, 6 maggio 2003, C- 104/01, "Libertel", par. 55.
[7] Cfr. art. 7 d.lg. n. 30/2005, cd. Codice della proprietà industriale.
[8] Corte Giustizia, 12 dicembre 2002, C- 273/00 e 24 giugno 2004, C- 49/02.
[9] In GU L 104 del 24 aprile 2018, pag. 37.
[10] Cfr. art. 3, Reg. (UE) 2018/626.
[11] Trib. Ue, 30 novembre 2017, T- 101/15 e T-102/15, "Red Bull", ora pendente davanti alla Corte di Giustizia, Causa C-124/18 P. Nello stesso senso vedi anche Corte Giustizia, 24 giugno 2004, C-49/02 "Heidelberger Bauchemie".
[12] L'art. 13, comma 2 e 3, c.p.i. stabiliscono che "in deroga al comma 1, possono costituire oggetto di registrazione come marchio di impresa i segni che prima della domanda di registrazione, a seguito dell'uso che ne sia stato fatto, abbiano acquistato carattere distintivo" e che "Il marchio non può essere dichiarato o considerato nullo se prima della domanda o dell'eccezione di nullità, il segno che ne forma oggetto, a seguito dell'uso che ne è stato fatto, ha acquistato carattere distintivo".
[13] Corte Giustizia (UE), 12 giugno 2018, C- 163/16.
[14] In GU L 336 del 23 dicembre 2015, pag. 1.
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