Ai confini del patrimonio culturale e dintorni
Il Codice della Protezione Civile (d.lg. 2 gennaio 2018, n. 1)
Sommario: 1. Un codice per il riordino complessivo della legislazione in tema di protezione civile. - 2. Funzioni di protezione civile: le finalità della protezione (i beni da proteggere). - 3. Ancora le funzioni: il rischio e le attività. - 4. Centralità dei procedimenti pianificatori per le funzioni di protezione civile. - 5. Protezione civile versus ricostruzione. - 6. L'organizzazone del Servizio nazionale della protezione civile. - 7. Ruolo della società: partecipazione pubblica e volontariato. - 8. Alcune significative continuità e innovazioni.
The Civil Protection Code (decree No. 1 of Jannuary, 2018)
The recent approval of the complex decree No 1 of 2 January, 2018 (Codice della Protezione Civile) is a complete substitution of the very confused Italian legislation on Civil Protection. The code rules the tasks and functions of the "National Service of Civil Protection" by establishing aims, activities (prediction and forecasting, preparedness, management of emergency, risk mitigation and recovery) and the structure of the central, local and society organization. Some considerations about the merits and some deficiencies of this important and valuable reform are drawed herein.
Keywords: National Service of Civil Protection; Management of Emergency; Risk Mitigation; Prevention.
1. Un codice per il riordino complessivo della legislazione in tema di protezione civile
Al decreto legislativo 2 gennaio 2018, n. 1, primo del nuovo anno, emanato, sulla base della legge 16 marzo 2017, n. 30, con l'impegnativo nome di "Codice della Protezione Civile", va riconosciuto il merito di dare al Paese una disciplina tendenzialmente completa e organica di una materia che è ormai venuta subendo, nell'esperienza italiana come in quella di altri paesi, un'importanza elevatissima e un ruolo oltremodo delicato. Con questo decreto, attraverso 50 articoli raggruppati in 7 capi, viene rinnovata nel suo complesso una normativa che aveva finora il suo asse principale nella pregevole legge n. 225/1992, che però aveva subito nei trascorsi decenni innumerevoli modifiche e prassi interpretative spesso assai problematiche e che viene ora espressamente abrogata.
È sicuro che molti approdi della disciplina precedente, come pure molte risultanze del faticoso dibattito (greve per effetto non solo della drammatica pratica delle catastrofi recenti ma anche delle discussioni da esse sollevate) vengono incorporati nel codice. Tuttavia non mancano i punti innovati, che migliorano quanto risultava dal precedente ordinamento o dalla sua applicazione, con l'attenzione a dimensionare con esattezza i compiti di protezione civile, differenziandoli da altri che sono stati in passato a loro assimilati. Tali sono quelli di ricostruzione di ciò che le calamità hanno distrutto o alterato, e tanto più quelli di trattazione dei cosiddetti "grandi eventi" che di tempo in tempo mobilitano Stato e società e coinvolgono o si teme coinvolgano la sicurezza o altri interessi pubblici; i quali rimangono, gli uni e gli altri, oggetto di altre pubbliche funzioni. Allo stesso tempo sarebbe stato troppo chiedere allo stato attuale non solo della politica ma anche della consapevolezza sociale del Paese che non venissero ancora lasciati aperti rilevanti problemi e loro soluzioni presentatisi nel campo indicato.
In attesa che la pratica, oltre che una matura interpretazione, renda più certi i significati concreti di non pochi aspetti del codice, si faranno qui le osservazioni che a una prima lettura paiono giustificate a chi ha avuto già occasione di misurarsi con le asperità della materia [1].
2. Funzioni di protezione civile: le finalità della protezione (i beni da proteggere)
Il carattere per primo evidente del codice è che esso mantiene l'impianto maturato a partire dalla normativa del 1992, e conferma a questa complessa configurazione di una tipica mescolanza di un'organizzazione e di un'attività di diritto amministrativo e di diritto costituzionale la veste di un "Servizio nazionale" (o di un "sistema"). Come e più accentuatamente che in altri settori afferenti ai compiti della Repubblica, quel che viene costruito in questo campo è un unitario e articolato complesso organico comprendente una molteplicità di soggetti, quali i vari livelli dell'organizzazione istituzionale e altri soggetti della società stessa, che incrociano i loro apparati e le loro attività, sommandole tra loro in un intreccio inusitato.
Entro questo sistema, come già avveniva in precedenza, la dimensione organizzativa occupa grande spazio (art. 3 ss.) e costituisce il tessuto portante dell'intera normativa, maggiormente delineato nei capi II e V ma presente anche nelle altre parti del codice; e le attività, oltre a farsi ripetutamente luce nei singoli articoli relativi ai vari soggetti, sono affrontate con definizioni articolate del rispettivo contenuto ed ambito nel fondamentale art. 2, senza però che, per la loro intrinseca natura, queste possano essere di grado adeguato alla corposità e sottigliezza insieme delle varie azioni.
Ma, come avviene o dovrebbe avvenire (questa è almeno la prospettiva secondo noi naturale), la individuazione delle funzioni precede in via logica la costruzione dell'organizzazione, e perciò ogni esposizione ordinata del sistema deve cominciare con l'analisi delle funzioni.
L'ordine delle disposizioni del codice, del resto, è consapevole di quest'approccio e nei primi articoli (1 e 2) definisce le funzioni di protezione civile, mentre è dall'art. 3 che comincia la trattazione dell'organizzazione. Ma, per una sistemazione logica della comprensione corretta delle funzioni, occorre analizzare queste secondo una ricomposizione analitica che si basa certamente sulle disposizioni del codice ma le ripensa alla luce della distinzione tra finalità perseguite, attività attraverso le quali esse vengono realizzate e procedure con le quali le attività si pongono in essere.
Le finalità di protezione civile (art. 1) sono le stesse della legislazione precedente, arricchite non tutte esplicitamente con qualche ulteriore specificazione scaturente dall'esperienza. Esse sono costituite dalla tutela della vita, dell'integrità fisica, dei beni, degli insediamenti e dell'ambiente, degli animali e, si potrebbe aggiungere, della flora, dei boschi, dell'assetto fisico del territorio, per esempio pregiudicato dalle frane, dall'erosione + e dalle esondazioni dei fiumi. Si pensi all'importanza che la conservazione in vita di questi elementi della natura ha rivelato per il benessere delle zone agricole e di allevamento dell'Italia centrale colpita dai terremoti del 2016-2017, o a quella dei boschi delle zone in frana o fluviali, e riflettere non solo sui valori compromessi di molti beni materiali, ma anche sui valori morali, storici e sociali di interi territori di cui la società viene, anche attraverso lo spopolamento, privata [2]. In questo senso può valere la latina triade vitruviana, enunciata per l'architettura ma non abusivamente estensibile all'ambiente complessivo (si pensi al valore grandissimo di parti anche meno note delle regioni appenniniche) in cui l'uomo vive: firmitas, utilitas, venustas.
Ciò permette di considerare questa triade come una prima basilare formula a cui dovrebbe ispirarsi la funzione di tutti coloro (istituzioni e società) che intervengono sul territorio. Infatti, sebbene la firmitas (stabilità) del territorio, degli edifici, dei manufatti, delle infrastrutture e dei servizi (facilities, per usare la sintetica parola inglese) rappresenti di fronte a ogni calamità la finalità primaria dell'attività di difesa, è evidente che l'utilitas, intesa come razionalità pratica, che comprende, oltre alla funzionalità e l'efficienza dell'intero sistema, anche la tutela della continuità del lavoro e della produzione o la predisposizione di nuove attività produttive, sia altrettanto essenziale. Per quanto meno considerata, ugualmente vitale e filosoficamente giustificabile [3] dovrebbe essere anche la venustas, cioè il rispetto del bello, inteso nel senso più generale della gradevolezza dell'ambiente, dell'architettura e dei modi di vita, che, specialmente nel modello italiano, è realmente fondamentale, date le caratteristiche della nostra storia e della nostra cultura.
3. Ancora le funzioni: il rischio e le attività
Il codice (art. 2) prosegue elencando le attività attraverso le quali si svolge la protezione dei beni indicati, che è cosa diversa dalla loro ordinaria amministrazione. Si tratta della protezione dai rischi, e il concetto di rischio così implicato è definito da questa seconda nota formula simbolica: R = P (H) x V x E, dove R è il rischio, P (H dall'inglese hazard) è la pericolosità dovuta ad energie latenti nel territorio ed E simboleggia il valore del danno per i vari beni implicati [4].
Tutte queste quantità sono largamente variabili. Ad esempio, la pericolosità di un greto o una riva di corso d'acqua e quella di una spiaggia o d'una costa sono assai diverse da un luogo a un altro; e tale è la pericolosità sismica, sia in relazione alla natura geologica delle varie zone, che alla presenza in essa di faglie, sia, anche, in relazione non solo alla consistenza dei terreni (argille, sabbie, limi o invece rocce e secondo la natura di queste), sia in relazione alla morfologia del singolo sito (valle, pendio, cresta, ecc.). Ma, oltre all'elemento quantitativo, vi è ovviamente una grande diversità della qualità degli eventi, tra cui quella, enunciata come di tradizione dal codice all'art. 1, degli eventi di origine naturale (in particolare sismica, vulcanica, idrologica, idrogeologica, marina) e quella derivante dall'attività dell'uomo (industrie chimiche varie, inquinamento atmosferico ecc.); ovviamente, i due tipi possono anche combinarsi.
Mutuando la nomenclatura dalla legislazione precedente ma a volte mutandola o precisandola, le attività di protezione civile sono le seguenti (art. 2): previsione, prevenzione e mitigazione dei rischi, gestione delle emergenze e loro superamento.
Il legislatore mostra quindi di condividere l'approccio scientifico alla possibilità della previsione degli eventi di danno, o meglio degli "scenari di rischio" probabili, talora negata nella pratica, anche amministrativa e giudiziaria, ma possibile entro certi limiti con l'uso di metodologie idonee.
Ad esempio, in uno dei campi più delicati e drammatici, quello dei terremoti, in base alla storia sismica italiana, il "se" sia attendibile che questi si verifichino in futuro con caratteristiche simili a quelle presentate in passato, non è in dubbio (circa il 70% del nostro territorio vi è variamente esposto e di ogni centro abitato è stata ricostruita con grande precisione la storia sismica). Invece la loro occorrenza in termini di luogo, di tempo e di grado di intensità (il dove, il quando e il quanto gravemente), contiene più elementi di incertezza, ma è anch'essa prevedibile, seppure approssimativamente, per le singole zone del paese sia in termini probabilistici sia attraverso l'impiego di adeguati strumenti di rilevazione. Ne consegue che attività quali la previsione sulla base della storia sismica, la vigilanza, il monitoraggio e l'eventuale preannuncio alla popolazione di un rischio imminente divengono compito doveroso del Servizio. Naturalmente essa resta affidata anche all'avanzamento della scienza e della tecnologia e quindi coinvolge, oltre il Dipartimento della Protezione Civile e le sue strutture, la comunità scientifica (v. art. 19).
La prevenzione, conseguenza anche della previsione, e comprendente le azioni per la mitigazione dei rischi, dopo lunghe incertezze sulle possibilità tecniche ed economiche e dovute anche ad insensibilità politica e della stessa società, comprese le parti di essa più esposte al rischio, è oggi passata, almeno teoricamente - le difficoltà pratiche son lungi dall'esser superate -, al rango di massima rilevanza e di massima necessità e, si può dire, urgenza. La composizione di azioni di cui consta è oltremodo complessa e, come già nella legislazione precedente, muove dalla summa divisio tra azioni strutturali e non strutturali, che l'art. 2 tratta con qualche dettaglio. Per esse si rinvia poi agli artt. 15 e 22 per la loro specificazione ed attuazione da parte del Dipartimento della Protezione Civile (prevedendo anche apposite direttive del Presidente del Consiglio dei Ministri), non bastando i già collaudati strumenti della zonazione del territorio nazionale e della normazione tecnica sulle costruzioni (ricordate nell'art. 8 lett. i).
La gestione dell'emergenza comprende il soccorso e l'assistenza delle popolazioni colpite e la riduzione dell'impatto degli eventi; mentre il superamento dell'emergenza consiste nell'attuazione delle misure rivolte a rimuovere gli ostacoli alla ripresa delle normali condizioni di vita e di lavoro (v. sempre l'art. 2).
4. Centralità dei procedimenti pianificatori per le funzioni di protezione civile
Le attività sopra configurate si traducono tutte in azioni concrete: azioni di studio, di ricerca, operazioni materiali varie e delicate (soccorso, puntellamento, demolizioni, rimozione macerie, sistemazione delle tende per il ricovero immediato dei colpiti, realizzazione dei moduli abitativi provvisori, ecc.). Ma esse hanno la loro guida in una tipica categoria amministrativa e pratica che è la pianificazione. Infatti il codice contiene la parola e l'idea di piano e di pianificazione un numero altissimo di volte, e in particolare alla pianificazione è intitolato l'art. 18. Le attività di previsione, di prevenzione, di gestione dell'emergenza, di mitigazione del rischio e di superamento dell'emergenza non possono adeguatamente venire poste in essere se non con una razionalizzazione che identifichi e coordini le componenti di ciascuna di esse. Fra tutto emerge l'attività di pianificazione come basilare dell'attività di prevenzione in vista della predisposizione di strategie di azione. Il codice però parla anche di piani per la gestione dell'emergenza e per il recupero, che naturalmente ricorrono anche - ma qui siamo già oltre le funzioni dirette di protezione civile - per la ricostruzione.
Tutti i soggetti implicati nell'organizzazione della protezione civile di cui si dirà dopo sono chiamati a compiti collaborativi nelle procedure di pianificazione. Tuttavia c'è nel codice, a proposito della pianificazione, una lacuna assai pregiudizievole e, dopo la menzione fin dal 2009 nella legislazione dopo L'Aquila, che addirittura ne generalizzava l'impiego, davvero inspiegabile. Infatti viene omessa la menzione dell'uso della tecnica della microzonazione sismica come strumento di prevenzione che deve precedere la pianificazione in quanto individua a scala locale le zone a più elevata pericolosità a causa delle condizioni geologiche e geotecniche. E ciò nonostante si tratti di una tecnica, basilare per la pianificazione urbanistica e in vista dell'emergenza, ormai ben studiata e sperimentata con successo in varie situazioni (terremoti del Friuli del 1976, dell'Umbria e Marche del 1997 ecc.) [5].
Nella pianificazione hanno a loro volta un ruolo centrale la parola e l'idea di scenario usate infatti dal codice, in particolare, per rendere necessaria l'elaborazione di scenari di rischio ai fini della prevenzione (art. 8.1, lett. d) e dell'allertamento (art. 17.1).
5. Protezione civile versus ricostruzione
Come si vede, il codice conferma autorevolmente quello che molti di noi sono andati dicendo, soprattutto dopo gli scempi perpetrati a L'Aquila a seguito del sisma del 2009: la ricostruzione degli insediamenti non rientra tra gli obiettivi e i compiti del sistema di protezione civile in sé considerato. Esso è invece l'oggetto - e deve restarlo, anche dopo le catastrofi - di una funzione differenziata, alta e responsabile, che trova negli organi, nelle competenze e nell'attività normali della pianificazione territoriale il suo luogo di esercizio. Perciò l'assenza della ricostruzione nell'elenco e nella regolazione delle attività di protezione civile dell'art. 2 è encomiabile; del resto allo stesso modo si comportava la legislazione precedente il codice, a partire dall'art. 3 della legge n. 225 del 1992.
Fu la pratica ad andare in casi importanti in senso contrario e assai criticabile, ma ora la cosa è ancora più chiara. Tra esiti delle catastrofi e ricostruzione c'è solo una questione di coordinamento o, se si vuol dir meglio, di implicazione reciproca. È certo che è necessario che la pianificazione urbanistica in tutti i suoi gradi si misuri, come raramente fa, con la dimensione della lotta alle catastrofi, sismiche, idrogeologiche o altro che siano. Infatti l'art. 2.4, lett. i) impone tra le attività di prevenzione dette non strutturali le attività di raccordo tra l'opera di protezione civile e la pianificazione territoriale. E l'art. 18.3 ribadisce che i piani territoriali devono essere coordinati con i piani di protezione civile al fine di assicurarne la coerenza con gli scenari di rischio e le strategie operative contenute nei secondi.
È ovvio, poi, dopo tutte le cattive esperienze di ormai circa un decennio fa, che il codice non poteva che ribadire il diniego di una serie di operazioni estranee alla materia ma ritenute politicamente sensibili che, nel periodo impersonato da Berlusconi alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e da Bertolaso alla direzione del Dipartimento di Protezione Civile, venivano abitrariamente svolte nell'ambito di essa [6].
6. L'organizzazione del Servizio nazionale di protezione civile
L'organizzazione delle funzioni di protezione civile, come già accennato, nasce da un intreccio di molti e diversi soggetti. Al vertice, sta il Presidente del Consiglio dei Ministri, da tempo, dopo molti cambiamenti storici, dichiarato "autorità nazionale di protezione civile e titolare delle politiche in materia" (art. 3.1, lett. a; in dettaglio, art. 5 e altri), che si avvale essenzialmente del Dipartimento della Protezione Civile (art. 8), che col suo vertice - il Capo del Dipartimento - e molte strutture peculiari costituisce il cuore del sistema. Nei territori, sono al primo posto le Regioni (art. 3, lett. b e altri articoli); poi (art. 3, lett. c) i Comuni, incluse le città metropolitane e agenti anche in forma associata, la cui funzione in materia è detta dall'art. 12 loro "funzione fondamentale"; nell'ambito di essi il codice specifica i ruoli delle loro autorità di vertice, presidenti e sindaci. Resta anche, nell'ambito della circoscrizione provinciale, un robusto compito di coordinamento e di azione, seppur per lo più immediata e in qualche misura provvisoria, del prefetto, retaggio di antiche tradizioni e forse ancora giustificato dal ruolo operativo svolto dal Corpo nazionale dei vigili del fuoco, dipendente dal Ministero dell'interno, la cui capacità ed efficienza sono sommamente pregevoli e il suo ruolo "fondamentale" (art. 10, ribadito dall'art. 13 nel suo inizio) e in verità di fatto capitale, nella gestione dell'emergenza e anche nel suo superamento.
Il codice, nel riordinare la distribuzione delle funzioni non allontanandosi dal modello della legge del 1992, introduce poi delle modalità che intendono particolarmente tener conto della specifica difficoltà di azione degli enti territoriali di far fronte alle calamità con riferimento ai loro ambiti spesso non coincidenti con quelli amministrativi normali. Ciò anche nelle situazioni in cui gli eventi si manifestano a cavallo dei confini tra diverse Regioni e in qualche caso, come in quello della serie sismica del 2016-2017, coinvolgendo vaste zone di ciascuna. Una tale ipotesi viene affrontata stabilendo in linea generale (v l'art. 18.4, con rinvio alle direttive presidenziali dell'art. 15) modalità di integrazione tra i sistemi di protezione civile dei vari territori e addossando specificamente alle Regioni il compito di individuare il livello di ambito ottimale per l'esercizio delle funzioni (art. 11.3) e altresì gli ambiti eventualmente differenziati di azione delle diverse strutture operative della stessa Regione (art. 13.3).
Accanto all'organizzazione politica e amministrativa è inerente alla materia - oltre a compiti, anch'essi tradizionali, delle Forze armate e di quelle di polizia e di altri servizi, come i sanitari e i metereologici - la presenza di soggetti tecnici, dei quali i più importanti sono l'Istituto nazionale di geofisica e vulcanogia, INGV, e il Consiglio nazionale delle ricerche, CNR. Ma lo è anche il ruolo di un gruppo di attori non inquadrati di per sé nella pubblica amministrazione. Prima è in generale la "comunità scientifica", a proposito della quale l'art. 19 implica, nell'esporne i compiti anch'essi fondamentali, intensi rapporti col Servizio, che possono essere altresì di carattere operativo, ma che insieme deve godere dell'autonomia necessaria della ricerca. Nel quadro di essa, possono con atto del Capo del Dipartimento essere riconosciuti particolari "Centri di competenza" formati da o nell'ambito di istituti di ricerca, di consorzi e strutture universitarie, magari titolari di accordi e convenzioni col Servizio nazionale (art. 21), che già sono ad esempio in campo sismico attivi sebbene talora discussi o discutibili, anche perché, come a L'Aquila dopo il grave sisma del 2009, possono essere criticabili nelle impostazioni e nei risultati.
7. Ruolo della società: partecipazione pubblica e volontariato
La struttura del Servizio nazionale della protezione civile non si conclude però con il quadro dell'organizzazione pubblica che ne sostiene il funzionamento. La società ne fa parte, superando la contrapposizione Stato-società e pubblico-privato tanto cara al diritto dell'epoca moderna. Se questo tende oggi ad avvenire sempre, in questo campo il tipo di funzione svolta, il rapporto tra artificiale e naturale, tra umano e materiale che è inevitabilmente coinvolto da ogni calamità comportano che la società sia direttamente implicata nell'organizzazione così come nell'attività di protezione civile. Che ruolo hanno nella protezione civile i segmenti della società in tale campo? Gli aggregati sociali, dunque, e i singoli cittadini?
Il codice sa che un ruolo c'è, eccome!, e lo riconosce e regola nei limiti del possibile. L'art. 18.2 assicura la partecipazione dei cittadini, singoli o associati, all'elaborazione della pianificazione di protezione civile, e un intero e fin troppo nutrito capitolo, il V, tra i più dettagliati della legge, è dedicato, oltre e più che alla partecipazione in genere (che pure figura anch'essa nell'intitolazione), particolarmente alla disciplina del "volontariato organizzato", forma vistosa più di altre dell'aggregazione dei cittadini nell'esercizio associato della partecipazione civica e celebratamente attiva in Italia almeno fin dall'alluvione di Firenze del 1966.
Non bisogna però far confusione tra le diverse modalità di partecipazione sociale alla lotta contro le calamità come a ogni altra presenza di attivismo civico, né men che meno ridurre, come non di rado si fa, la considerazione della partecipazione pubblica a tale lotta al pur pregevolissimo e perfino indispensabile intervento delle organizzazioni di volontariato. Un ruolo importante va, o andrebbe, riconosciuto anche alla partecipazione, singola e associata, svolta in altre forme, e particolarmente a quella dei cittadini vittime dirette della calamità.
In questo il codice, seguendo una prassi frequente e anche ben giustificabile, si limita ad enunciare per la partecipazione civica, diciamo, aspecifica un principio, quello appunto dell'art. 18 appena citato, rinviando per le forme, che innegabilmente devono essere creative e anche autoorganizzate, a una delle molte direttive del Presidente del Consiglio dei Ministri, previste dall'art. 15, alla quale anche questa materia è rimessa dallo stesso secondo comma dell'articolo in questione. La scelta della legge, come accennato, può essere ben fondata, ma non è sufficientemente atta ad assicurare l'effettiva traduzione in atto del principio. A parte il fatto che è assai frequente la scarsezza di disponiblità delle amministrazioni pubbliche ad ammettere nelle proprie procedure un forte coefficiente di partecipazione, proprio osservando le esperienze compiute in occasione delle varie catastrofi che hanno caratterizzato questo più che mezzo secolo di vita repubblicana, si ha la prova tangibile del fatto che spesso la partecipazione civica delle vittime non è stata contemplata o si è espressa con pregiudizievoli ritardi, o addirittura ha dovuto farsi largo, come a L'Aquila, tra molte ostilità e comunque in un clima non favorevole. Vi sono anzi casi, come gli eventi sismici del Belice e dell'lrpinia, in cui l'agire organizzato della società è pressoché mancato, mentre in altri (terremoti del Friuli del 1976, dell'Umbria e Marche del 1997) si è sviluppato non solo in misura notevole ma con effetti assai apprezzabili per la capacità di apporto dato dalle popolazioni colpite alla soluzione dei vari problemi. Nel caso recente del terremoto dell'Italia centrale, è stata la legge a indicare varie forme di partecipazione, che non pare tuttavia abbiano avuto manifestazioni pratiche abbastanza rilevanti.
Quanto al volontariato specifico di protezione civile, esso si è mostrato spesso assai attivo, anche provenendo da regioni lontane da quelle colpite, e il pericolo, se vi è, è semmai quello che le norme del codice siano troppo dettagliate e indulgano a modalità burocratiche di inquadramento delle associazioni alquanto rigide.
8. Alcune significative continuità, innovazioni e lacune
Altri punti del codice riprendono istituti già prima previsti, talora apportando loro modifiche di un certo peso. Tale può dirsi in generale la normativa sui poteri di ordinanza, ora in linea di massima attribuiti direttamente al Presidente del Consiglio dei Ministri, naturalmente "per il tramite del Capo del Dipartimento della protezione civile" (art. 5.1), e che sembrano tuttora spettare con atti subordinati anche all'eventuale commissario delegato. Quest'ultimo appare nel codice una figura non solo puramente eventuale (anche prima lo era, ma in realtà fu praticamente sempre usata), ma se ne sottolinea la funzione di mero coordinatore dell'attuazione delle ordinanze (art. 25.7), riflettendo in qualche modo l'appannamento che per più versi essa ha subito nelle esperienze recenti.
Con giusto puntiglio, di fronte a tendenze pratiche in altro senso, si torna a sottolineare inoltre che i "soggetti attuatori" degli interventi previsti vanno normalmente identificati nei soggetti pubblici odinariamente competenti per il singolo tipo di intervento (art. 25.6) - il caso più tipico è quello del Ministro dei Beni culturali - e anche altre disposizioni sono rivolte a seguire un tale indirizzo, di fronte a tentazioni di avocare a soggetti e a procedimenti diversi le operazioni politicamente ritenute più delicate o più redditizie (l'insegnamento più allarmante è venuto dalla costruzione dei complessi di abitazioni detti C.A.S.E. che hanno completamente svisato il caratteristico panorama de L'Aquila e della sua valle). Forse sarebbe stato bene sottolineare di più, soprattutto nel caso dei beni culturali e dei meravigliosi paesaggi storici dei borghi appenninici recentemente colpiti dai sismi, la salvaguardia e il doveroso intervento dei poteri normali dei ministri e delle altre amministrazioni competenti e dei procedimenti di pianificazione e azione ordinaria.
Sul piano del merito - a parte la grave omissione dello strumento della microzonazione sismica, della quale si è già detto -, invano si cercherebbero nel codice norme rivolte alla conservazione maggiore possibile dei caratteri storici, artistici, paesistici e di lavoro (quest'ultimo, forse, è un po' maggiormente considerato) della nostra antica vicenda umana e culturale, anche se qualche traccia di quest'orientamento compare qua e là. Il che appare particolarmente grave, e anche sorprendente, se si guarda ai guasti che i terremoti degli ultimi decenni, dopo quelli storici, hanno arrecato, per stare al campo dei beni culturali più classici, a chiese, monasteri e altri edifici significativi. Non si vuol con questo tornare a una confusione, sopra scartata, tra le attività di protezione civile e quelle attinenti alla ricostruzione e quanto possibile allo sviluppo dei territori disastrati; ma, tenuto conto che le attività di ricostruzione e più in generale di ripresa della vita si intrecciano e si sovrappongono a quelle di protezione civile fin dal primo momento di una catastrofe e ancor più nelle azioni che la seguono, è certo, per esprimersi sulla linea dell'antropologo V.Teti (ma non è il solo) [7], che l'idea di salvaguardare "l'Italia che resta" è quella da perseguire mettendola in risalto nella stessa legislazione sulla protezione civile, ad impedire deformazioni a cui amministrazioni e società non raramente si prestano (per esempi positivi si pensi al principio di massima seguito in Friuli di ricostruire "com'era e dov'era", e alla cura per i beni culturali praticata dopo il 1997 in Umbria e nelle Marche).
Note
[1] U. Allegretti, Una rinnovata Protezione Civile, in Astrid Rassegna, 2017, 5; Id., The Italian Civil Protection System. Present situation and prospects of reform, in Forum di Quaderni Costituzionali online, giugno 2017.
[2] V. ad es. T. Crespellani, Il terremoto, "evento naturale"ed "evento sociale", Cagliari, Festival Scienza. L'alfabeto della scienza, 2012.
[3] Per l'importanza della bellezza per l'equilibrio della vita umana, v. J.Hillman, Politica della bellezza, Bergamo, Moretti e Vitali, 2005.[4] V. per tutti S. Peppoloni, Convivere con i rischi naturali, Bologna, Il Mulino, 2014, pag. 21 ss.
[5] Fra altri, v. T. Crespellani, Microzonazione sismica: obiettivi e principi fondamentali, in Microzonazione sismica: uno strumento consolidato per la riduzione del rischio. L'esperienza della Regione Emilia-Romagna, (a cura di) J. Facciorusso, Bologna, Regione Emilia-Romagna, 2012, pagg. 13-23; S. Aversa - T. Crespellani, Seismic microzonation: an essential tool for urban planning in seismic areas, in Upland. Journal of Urban Planning, Landscape and environmental Design, 2016, pagg. 121-152.
[6] V. T. Crespellani, La "resistibile ascesa" della Protezione Civile, in Democrazia e diritto, 2009, pagg. 143-158. Cfr. anche U. Allegretti, Una rinnovata Protezione Civile, cit.; Id., The Italian Civil Protection System. Present situation and prospects of reform, cit.
[7] V. Teti, Quel che resta. L'Italia dei Paesi tra abbandoni e ritorni, Roma, Donzelli, 2017.