testata

Editoriale

Cooperazioni difficili, separazioni perdenti

di Marco Cammelli

The difficult cooperations and the unsuccessful separations
The presentation of the articles published in this number is a way to explain some reasons of the difficulties of the cultural heritage management.

Keywords: Reforms; Cooperation; Complexity.

Con il 2017 comincia il ventesimo anno della Rivista, nata nel 1998. Non è il caso, né il momento, di fare bilanci ma può essere una buona ragione per riflettere guardando le cose da maggiore distanza, anche perché così facendo è possibile cogliere l'asse portante dei temi, apparentemente molto distanti, affrontati in questo numero. Vale a dire, la crescente e visibile interdipendenza tra le principali politiche che hanno per oggetto il patrimonio culturale e la forte domanda di cooperazione che ne consegue tra tutti gli attori pubblici e privati della filiera sovranazionale, centrale e locale che in vario modo ne fanno parte.

Su questo terreno, infatti, si incrociano dinamiche diverse e da direzioni quasi opposte:

- quella delle istituzioni sovranazionali e domestiche, che per la conoscenza e la valorizzazione del patrimonio culturale suggeriscono una maggiore apertura orizzontale alla società e alle altre politiche pubbliche di settore anche in una prospettiva più ampia di sviluppo socio-economico dei sistemi e delle comunità;

- quella degli studiosi e dei ricercatori più attenti che in grande maggioranza indicano nello studio e nell'approfondimento delle relazioni tra beni artistici e contesto naturale e ambientale gli elementi decisivi per la tutela, e in particolare la conservazione programmata, del patrimonio culturale.

La direzione solo apparentemente inversa di queste dinamiche, nelle quali i beni culturali sono di volta in volta punto di partenza o di arrivo, e la distinta qualificazione attribuita alle relative azioni (valorizzazione e tutela) costituiscono solo la controprova dell'intensità della reciproca interdipendenza. Un dato comprovato da due ulteriori e recenti elementi: uno positivo, costituito dai molti profili apprezzabili delle esperienze di piano paesaggistico avviate da Toscana e Puglia (note di Nicoletta Vettori e Paola Capriotti) e l'altro drammatico, evidenziato dagli enormi problemi messi in luce proprio su questi punti dagli eventi sismici degli ultimi mesi 2016.

Tutto questo, peraltro, non ha fatto che aggiungersi ai dati ben noti della questione cominciando da quello del patrimonio culturale italiano "diffuso", rafforzando l'esigenza di un centro forte nelle funzioni strategiche e regolative e di una ampia articolazione operativa affidata ad apparati ispirati, più che a moduli amministrativi chiusi e a un sistema piramidale, ad un altrettanto forte decentramento interno e a forme adeguate di apertura e relazione con i sistemi locali.

Se tutto ciò è chiaro, il problema allora è la disponibilità degli strumenti per farvi fronte e per dare vita a forme mature di integrazione di politiche pubbliche e di cooperazione tra i soggetti interessati, che resta invece molto limitata.

Per quanto le recenti riforme (non solo) organizzative si muovano nella direzione auspicata, come è agevole cogliere nell'autonomia del musei o nelle disposizioni del c.d. Art Bonus e nello stesso nuovo codice dei contratti pubblici (v. forme speciali di partenariato, art. 151 del d.lgs. 50/2016), o ne pongano le necessarie premesse, come nel riordino delle soprintendenze, sul punto il bilancio resta ancora negativo non solo per l'assenza di adeguati strumenti, ma per il venir meno nel corso degli anni di quelli che in varie occasioni erano stati previsti.

Segno evidente che in gioco non è la disponibilità di mezzi, ma la volontà di farne uso. Basti ricordare le commissioni miste stato-regioni del d.lgs. 112/1998 con cui si avviavano modalità stabili di cooperazione inter-istituzionale sul piano degli indirizzi e dei piani, poi ridimensionate dal Codice del 2004 e definitivamente cancellate nei decreti correttivi del 2006 e 2008. E aggiungere quanto accaduto sul piano della gestione e dei rapporti con i privati, ove la clausola lasciata aperta dall'art. 10 del decreto 368/1998, che apriva a possibilità di esternalizzazione della gestione mediante società miste, fondazioni o concessioni, prima è stata circoscritta ad eccezione rispetto alla gestione diretta ministeriale per essere poi abrogata (2006), con il risultato che da allora la disciplina della cooperazione con i privati in termini di valorizzazione e gestione si è frammentata in molti rivoli uniti dalla complicazione delle procedure e dalla generalizzata difficoltà della loro messa in opera.

Dunque, la forza delle cose spinge in direzione della cooperazione ma i fatti, malgrado le recenti innovazioni, vanno in senso opposto. Se cerchiamo di comprenderne la cause, le ragioni sembrano essenzialmente due.

La prima è di politica istituzionale: la ferma convinzione cioè che il dualismo, inteso nel senso più semplice e cioè che tutto il resto (le altre funzioni e gli altri soggetti pubblici e i privati) comincia dove finisce l'ambito della tutela riservata in esclusiva alla valutazione "tecnica" e agli effetti unilaterali delle determinazioni del Mibact, sia il modo migliore di svolgere il proprio ruolo in un sistema complesso come il nostro. Una opzione che, come si è detto in più occasioni, ha ragioni legate a difficoltà storiche e attuali (specie relative agli interlocutori regionali) non trascurabili, ma resta il dato innegabile della sua insostenibilità e di un dualismo, asimmetrico per estensione e incidenza, che ha retto la gestione amministrativa prima ancora che le politiche pubbliche del settore fino agli anni più recenti e che in ogni caso mette fuori gioco a priori larga parte delle possibilità di co-operare.

La seconda è un corollario della netta separazione appena vista, ma più sul versante tecnico-giuridico: il fatto cioè che l'unico (e a questo punto, certo, inevitabile) punto di contatto con ogni altro genere di interesse finisce per essere circoscritto al solo momento finale di ogni procedimento, vale a dire alla fase decisionale (conferenza di servizi). Il che, naturalmente, ne sovraccarica il peso e ne pregiudica il funzionamento perché tutto ciò che non è avvenuto prima si condensa dopo creando le difficoltà alla cui soluzione sono dedicati i frequenti interventi del legislatore (da ultimo, con la legge n. 124/2015). Senza grandi risultati, perché la maggior parte del problema si gioca prima.

Anzi, il ruolo oppositivo riconosciuto oggi alla amministrazione di tutela soccombente (non solo Mibact, ma ambiente, territorio e paesaggio, salute, incolumità pubblica) conferma e in qualche modo incoraggia un dualismo adialettico basato sull'autonomia del procedere, sulla contrapposizione delle valutazioni, sulla unilateralità degli effetti. Perciò il problema, contrariamente a quanto si continua a ritenere, non è solo chi ha l'ultima parola ma in che misura si è data una valutazione equilibrata delle ragioni dell'altro.

C'è solo da aggiungere che l'approccio dualistico di cui sono evidenti tutti i costi è smentito da ulteriori e specifiche considerazioni, oltre a quelle generali già effettuate.

La prima è offerta dal testo costituzionale vigente e cioè, in base all'esito referendario del dicembre 2016, il non modificato titolo V della riforma 2001 ove così forte è la percezione del necessario intreccio tra competenze centrali e locali e tanto chiara è la consapevolezza di quanto le esigenze di collaborazione non si limitino a raffronti al termine del procedimento che non ci si limita ad auspicare genericamente ipotesi di collaborazione tra Stato e Regione ma, solo in questo caso, si dispone che "la legge statale disciplina forme di intesa e di coordinamento nella materia della tutela dei beni culturali" (art. 118.3 Cost.): il che, ovviamente, non può che riguardare la disciplina legislativa di intese e coordinamento di natura "amministrativa" tra l'uno e l'altra aggiungendosi così, confermandole, alle perplessità sollevate da recenti decisioni della Corte Costituzionale in materia, su cui si vedano le puntuali considerazioni svolte da Girolamo Sciullo.

In ogni caso la legge prevista dalla disposizione costituzionale manca, come continuano a mancare da oltre un decennio importanti atti specificativi di concrete forme di cooperazione tra soggetti pubblici e con privati, basti pensare agli organismi misti indicati dall'art. 112.5 del Codice e al dovere (non soddisfatto) di procedere alla definizione delle "modalità e criteri in base ai quali il ministero costituisce i soggetti giuridici indicati al comma 5 o vi partecipa" (ivi, comma 7).

Ma la direzione da seguire e anche il livello privilegiato della collaborazione, quello dell'organizzazione e del funzionamento degli apparati, sono chiarissimi.

Per (non) concludere

La critica del dualismo e l'indicazione dei costi che ne derivano non può certo tradursi nella celebrazione trasfigurata della collaborazione. Se così fosse, si rischierebbe di porre le premesse per un ulteriore arretramento perché resta da verificare che cosa si condivide, dato che spartire con altri vizi o virtù non è la stessa cosa, e perché il coinvolgimento di più soggetti potrebbe addirittura rappresentare la via aggiornata per il più tradizionale dei vizi burocratici, quello di sottrarsi alle proprie responsabilità.

Perché questo non avvenga, è necessario lavorare sulla solidità dei presupposti organizzativi e funzionali evitando di scaricare tutto su procedure e procedimenti e puntando invece l'obbiettivo sulla qualità dei contenuti e sulla verifica dei requisiti preliminari, nella consapevolezza che non è possibile mettere in comune dati sulla cui solidità e completezza non si può contare pienamente (v. le difficoltà sottolineate dal significativo intervento di Laura Moro), né condividere saperi se le esperienze professionali indispensabili per il proprio ambito mancano o sono carenti, né infine considerare con equilibrio (cioè senza indebite estensioni ma anche senza ingiustificate cecità) la pluralità degli interessi in gioco se non si ha ben chiaro l'interesse pubblico specifico che è stato affidato e di conseguenza il proprio ruolo.

Da questo punto di vista, l'enfasi posta sul momento decisionale rischia di mettere in un cono d'ombra quanto avviene prima e intorno, cioè gli elementi (altrettanto) determinanti per il successo di ogni politica pubblica che non voglia ricorrere all'éscamotage, peraltro di breve respiro e ben poco praticabile in questa materia, della legge "auto-applicativa".

Disposizione legislative dettagliate o al contrario il vuoto, opposto nel segno ma convergente nel risultato, lasciato dalla omissione di elementi chiave quali piani, programmi, linee guida, indirizzi, spesso mancanti benché richiesti dalla legge, rappresentano probabilmente lo snodo cruciale: una delle ragioni principali dei problemi della nostra pubblica amministrazione (tutta, non solo quella in esame) ma anche il punto da cui partire per il loro superamento

La formulazione di piani e indirizzi, e più in generale di atti a contenuto generale e programmatico intermedi tra la generalità e astrattezza della legge e la specificità e concretezza delle singole decisioni, non solo rappresenta la sede naturale della prima e oggi più critica forma di collaborazione quella cioè tra apparati e propri titolari politici o amministratori ma, assicurando il necessario riferimento alle scelte successive, agevola la soddisfazione di alcune esigenze primarie anche sotto il profilo giuridico proprio della fase finale del processo decisionale, e in particolare:

- il raffronto e la considerazione dei diversi interessi in gioco e la disponibilità di adeguate conoscenze, e dunque un più solido fondamento dell'esercizio di discrezionalità richiesto nella adozione dei singoli provvedimenti e più agevole riconoscibilità delle relative motivazioni;

- la possibilità, quando se ne diano le condizioni, di prevedere forme di efficientamento organizzativo e di semplificazione normativa e procedurale legittimate dalla presenza di questi presupposti che ne rendono riconoscibile e controllabile la praticabilità.

Soluzioni di razionalizzazione e di sveltimento certamente attese ed auspicabili che tuttavia, in assenza di queste condizioni, rischierebbero di risultare incaute e in più di un caso del tutto inaccettabili.

Quanto al resto, non è necessario sottolineare il peso di elementi che non possiamo ostinarci a ritenere minori: cura della organizzazione quotidiana; incentivi al fare almeno pari ai frequenti disincentivi; adeguato reclutamento, formazione e gestione del personale anche tenendo conto di quanto notato tanti anni fa da M.S. Giannini, e cioè che il ministero è per il suo ruolo un fortissimo produttore di provvedimenti amministrativi e dunque necessita di un'ampia disponibilità di qualificate competenze giuridiche. Saperi che non si improvvisano strada facendo o con qualche corso breve di riqualificazione e che solo se acquisiti per davvero garantiscono il rispetto della legalità senza cedere all'approccio legalitario che ne rappresenta solo la patologica controfigura, dimenticando che il compito dell'amministrazione non è applicare la legge ma realizzare al meglio i compiti che le sono assegnati nel rispetto della legge.

Non sono cose nuove, lo sappiamo bene, ma oggi sono ancora più vere in un Paese che dagli ultimi eventi sismici è chiamato a prendere consapevolezza che porre mano, come è ormai indispensabile, a strategie globali di prevenzione del rischio sismico significa fare i conti ogni momento con uno straordinario patrimonio culturale diffuso di cui borghi e paesaggi sono parte costitutiva al pari dei monumenti, delle opere artistiche, delle città d'arte. Un insieme che è molto più della somma dei singoli elementi o beni da cui è composto perché è espressione di valori e di segni, di attività e di saperi, di storia e vita quotidiana il cui intreccio è unico al mondo.

L'ennesima conferma della strettissima correlazione tra politiche pubbliche e cura del patrimonio culturale e naturale, senza artificiose e perdenti contrapposizioni, nonché della centralità della disciplina e della amministrazione ordinaria, perché deroghe e interventi d'urgenza debbono restare limitati e perché gli interventi sistemici richiesti hanno necessità di tempi e piani di lunga durata, di memoria, di apparati in grado di conoscere, distinguere, scegliere, controllare e di indirizzi stabili ai quali i tanti altri interessi (pubblici e privati) coinvolti possano fare affidamento.

Forse così è più chiaro.

La cooperazione non è né una scelta né una virtù: è una necessità, che solo una amministrazione solida può affrontare.



copyright 2017 by Società editrice il Mulino
Licenza d'uso


inizio pagina