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Editoriale

L'avvio della riforma del Mibact: echi dalla periferia

di Marco Cammelli

The Start of the Reform of Mibact: Echoes from the Periphery
The director of journal, for introducing the comments published in this number about the last corrections to the Franceschini’s reform, analyzes some of its most controversial issues emerged also during the seminar organized by this journal with some officials of ministry.

Keywords: Reform; Center, Peripheral Structures of the Ministry; Staff; Spending Review.

Questo numero della Rivista esce nel pieno della fase attuativa della riforma organizzativa del Mibact avviata dal d.p.c.m. n. 171/2014 e accompagnata da alcuni decreti ministeriali applicativi, e anche correttivi, fino agli ultimi pubblicati nella G.U. dell'11 marzo 2016.

Siamo già intervenuti nei numeri scorsi, a partire dal 2/2014 e dalla parte monografica dell'1/2015 e nei successivi, e proseguiamo in questo, con il commento al d.m. adottato ex art. 1 comma 327 della legge 208/2015 così come continueremo a farlo nei prossimi.

Il perché è semplice. È vero che il ministero in vent'anni ha subito tra le quattro e le cinque riforme amministrative a seconda dei criteri che si utilizzano, ma da tutti (contrari compresi) è riconosciuto che in questo caso siamo di fronte ad un processo che per la continuità degli indirizzi, il ritmo e l'incisività degli interventi e l'estensione dei profili affrontati sembra ormai avere varcato il punto di non ritorno.

Certo, l'organizzazione non è mai solo la ricaduta in termini strutturali del binomio obbiettivi perseguiti/funzioni e attività per realizzarli, ma è innegabile che questo rappresenta il primo riferimento per darne una lettura adeguata, specie quando sono in atto processi di riforma.

L'obbiettivo in questo caso è chiaro, molto alto e in grande sintesi è costituito, per quanto riguarda le articolazioni periferiche del Mibact, da una doppia sfida: dare alla valorizzazione basi e strumenti per crescere ed esprimersi nelle sue diverse accezioni facendo perno su una rete di soggetti pubblici (sistema museale e parchi archeologici) e d'altro lato concentrare i compiti di tutela in un'unica sede, facendo della soprintendenza unica e della integrazione tra i diversi profili disciplinari la premessa per una ricomposizione altrettanto cruciale e urgente specie per un Paese come il nostro, quella tra i beni culturali e il paesaggio. Un binomio tra integrazione disciplinare e ricomposizione territoriale che il saggio di Girolamo Sciullo sottolinea con particolare incisività.

Si può certo discutere di ogni singola soluzione come pure degli strumenti utilizzati, a cominciare dalle fonti, ma è doveroso riconoscere che l'entità dei problemi da cui si parte e l'importanza delle esigenze alle quali ci si sforza di dare una risposta sono del rilievo e del profilo più alto. Tanto basta per distinguere decisamente questa dalle riforme precedenti.

Dunque il disegno è ben riconoscibile nei suoi obbiettivi e nelle sue premesse e il suo impianto largamente condivisibile. Ma anche per coloro che avessero opinioni diverse è ragionevole chiedersi se oggi il punto non sia tanto immaginare scenari possibili o disegni diversi ma sorvegliare con la massima attenzione l'attuazione della riforma in modo da verificarne l'andamento, le conferme, le difficoltà. Perché se è vero che qualunque scelta, a maggior ragione se di questa portata, può essere legittimamente discussa, ancora più certo è che al punto in cui siamo è indispensabile proseguire e raggiungere la sponda attesa, perché a quella lasciata è assai dubbio che sia possibile (oltre che opportuno) tornare, mentre fermarsi a metà sarebbe davvero esiziale.

Stando così le cose, allora avere il polso di quanto sta avvenendo soprattutto sul fronte più direttamente investito dalle innovazioni, quello cioè dei luoghi e degli istituti che costituiscono le articolazioni periferiche del Mibact, è importante. Non solo perché è qui che si stanno producendo le trasformazioni più profonde ma perché è guardando da qui, cioè dal basso e nella dimensione operativa, che è possibile cogliere uno dei profili decisivi del processo di riforma.

Si è appena detto che si tratta di una vera riforma, e dunque di innovazioni profonde. Ma le "innovazioni percepite" sono se possibile ancora più accentuate.

Se si sceglie questa prospettiva, parziale ma significativa, non è difficile comprendere innanzitutto l'enormità della trasformazione agli occhi di coloro che nei decenni scorsi hanno visto tutto trasformarsi nel contesto e poco o niente modificarsi nel proprio specifico terreno ove si è anzi registrata la caduta di molte e varie proposte di innovazione: da quelle istituzionali, come il decentramento e la temuta "regionalizzazione" degli anni '90, della quale furono respinte anche modeste ipotesi di reciproco coordinamento (commissione regionale paritetica), a quelle operative come il progetto (lungimirante e rapidamente messo in soffitta) di un procedimento razionale di rilevazione preventiva della consistenza e del possibile interesse storico artistico del patrimonio immobiliare pubblico (qualcuno ricorda il programma varato con il d.p.r. n. 283/2000?), ai suggestivi scenari (normativamente vasti ma ancora poco praticati) offerti alla collaborazione tra soggetti pubblici e tra pubblico e privato dagli artt. 112 e 115 del Codice.

Ebbene questa volta, dall'angolo di osservazione che si è scelto, tutto si rovescia: l'innovazione (per quanto largamente ispirata alle indicazioni della Commissione D'Alberti, e dunque da tempo conosciuta) è operata in tempo reale rispetto al suo annuncio, cade all'interno e non all'esterno degli apparati e della loro tradizionale organizzazione, incide fortemente sul perimetro più delicato (tutto il personale) e riposto (le discipline e i saperi professionali) degli organi periferici, avvia un processo di trasformazione anche in termini di diversa dislocazione di risorse certo non breve durante il quale tutti i problemi accumulatisi (e aggravatisi) nel corso del tempo all'interno degli apparati sono destinati a venire in superficie e ad aggiungersi a quelli che inevitabilmente accompagnano il cambiamento.

L'intento è condiviso, il progetto riconoscibile ed anzi le sue linee costituiscono anche la premessa di una maggiore disponibilità di risorse in prospettiva, ma le dinamiche in atto e il modo con cui vi si rapportano i responsabili della amministrazione periferica sono un aspetto altrettanto importante.

Convinti di questo, e soprattutto mossi dal desiderio di superare il consueto fronteggiarsi di schieramenti nei quali spesso il pathos prevale sulla argomentazione e di verificare in concreto per quanto possibile l'andamento delle cose dando voce a chi ne ha conoscenza diretta, abbiamo promosso un incontro della direzione della Rivista con alcuni autorevoli titolari delle tre articolazioni periferiche oggi in discussione (soprintendenze, poli museali, segretariati regionali) proponendo una traccia, in termini di metodo e di merito, intorno alla quale raccogliere le esperienze e la discussione.

Non è necessario precisare che quanto pubblichiamo in questo numero relativamente all'incontro con i dirigenti del Ministero costituisce non già il resoconto di opinioni espresse in quella occasione, peraltro ricca di interventi e valutazioni differenziate, ma l'elenco dei punti che come Rivista riteniamo di sottolineare. Né aggiungere che si tratta di aspetti parziali, in quanto tali non confondibili con valutazioni della riforma nel suo insieme. Il che, posto che fosse stato possibile, avrebbe richiesto un esame ben più ampio come quello ad esempio compiuto da Lorenzo Casini nel recentissimo Ereditare il futuro (Il Mulino, 2016) al quale rinviamo anche per questi aspetti.

Detto questo, in questa sede ci limitiamo ad alcuni aspetti che secondo una lettura ovviamente riferibile solo alla Rivista ci sembrano più significativi e che se non sono tutta la realtà, certo ne sono una parte.

Intanto, è significativo l'approccio: condivisione in linea di massima del disegno e semmai necessità di alcuni passi per rafforzare i punti meno solidi. In ogni caso, la riforma c'è, ed è interesse di tutti farla funzionare al meglio.

È un cruciale punto di partenza, quest'ultimo non meno dell'altro, che molto probabilmente non può essere esteso a tutti i quadri e i vertici del ministero ma è importante anche perché sembra segnalare una generazione di dirigenti più giovane e più aperta rispetto alle chiusure di una parte dei dirigenti o ex dirigenti tuttora non consapevole dell'entità dei problemi che la cristallizzazione della situazione esistente ha lasciato crescere e aggravare pur in un contesto ormai radicalmente e visibilmente mutato.

Il che non riguarda solo le grandi scelte riservate al legislatore ma anche le virtù della gestione ordinaria, dalla cura dei dati e delle informazioni, essenziali per l'operare oltre che per lo studio e l'approfondimento scientifico, alla disponibilità al coordinamento con i soggetti esterni (pubblici o privati) e al proprio interno tra apparati di settore e sedi orizzontali, tra soprintendenze della stessa natura (ma di ambiti territoriali diversi), o addirittura tra titolari diversi dello stesso istituto.

Gli aspetti emersi o intravisti sono molti e non possono essere tutti ripresi. In ogni caso, i problemi maggiori non riguardano tanto il disegno della riforma, che pure in qualche aspetto mostra la necessità di una messa a punto come ad esempio il rafforzamento del segretariato regionale in modo da liberarlo dalle funzioni eterogenee ereditate dalle direzioni regionali e farne lo snodo privilegiato delle dinamiche più importanti da e per il centro.

Le difficoltà riguardano l'avvio operativo e l'applicazione della riforma e il mancato governo di azioni atte a garantire la dotazione sia pure minima delle nuove strutture che proprio per la mancanza di mezzi aggiuntivi (le famose riforme a costo zero) può essere affrontata solo affidandosi in larga parte ad un deciso (perché inevitabilmente complesso) intervento di razionalizzazione dell'esistente.

È vero che tutto ciò è inevitabilmente destinato a incrociare il tema, che vedremo subito dopo, di mentalità e posizioni sedimentate nelle strutture come è vero che un sostegno avrebbe dovuto e potuto arrivare dal coordinamento che spetta ai segretariati regionali (sia pure appena avviati) o semplicemente dal buon senso, ma il fattore più determinante sembra consistere nella evanescenza delle direzioni generali competenti, con il risultato ad esempio che i processi di allocazione del personale nelle nuove strutture si sono tradotti in vere e proprie migrazioni incontrollate e sostanzialmente autogestite dagli interessati, con gli immaginabili squilibri che ne sono derivati.

Ancora, e sullo sfondo, elementi di quadro generale (come la riforma costituzionale o i provvedimenti c.d. "Madia") destinati ad incidere in modo significativo ben al di là del ruolo del rappresentante unico nella conferenza di servizi (v. il reclutamento e i comparti contrattuali) e anche esigenze più minute ma di altrettanto rilievo, come la necessità di introdurre nel bagaglio professionale di chi è chiamato a reggere le articolazioni periferiche del ministero sensibilità e strumenti per gestire la comunicazione in sede locale o la necessità di raccogliere per tempo, con le modalità più varie compresa (perché no?) la sperimentazione di contratti di "staffetta generazionale", dati e informazioni in mano a personale che per anzianità uscirà nei prossimi anni senza sostituti, interrompendo così traumaticamente il passaggio di una "memoria" amministrativa finora assicurata per vie interne da relazioni dirette con i nuovi quadri.

Ma come si diceva c'è un profilo che appare cruciale e sul quale, nel concludere, è necessario soffermarsi. Si tratta della profondità e pervasività dell'influenza che su ogni aspetto dell'organizzazione e del funzionamento del ministero hanno generato non solo le ben note dinamiche settoriali, ma la vera e propria "cultura" amministrativa sezionale che ne è derivata: è un vincolo fortissimo perché è nel settore, di cui centralizzazione e gerarchia sono i necessari corollari organizzativi, che si inscrivono rigidamente i saperi disciplinari e professionali (che dal settore, anzi, sono protetti), le prospettive di avanzamento, la ripartizione di risorse.

Si tratta di un profilo dall'andamento per certi aspetti carsico e che emerge nelle forme più diverse, ma è unitario nelle sue ragioni e determinante nella capacità di influenzare anche gli aspetti apparentemente più riposti.

Riprendiamo per un momento il segretariato regionale, snodo come si è detto cruciale ma che secondo l'opinione corrente è debole perché il titolare è un dirigente di seconda fascia. Ora, è vero che ci sono evidenti problemi di "peso" e di "status" nel coordinamento di altri dirigenti egualmente di seconda fascia e dunque "pari grado", per non parlare della situazione che si viene a creare tra responsabile del polo museale e direttore di museo ad autonomia speciale (di grado addirittura superiore) il quale certo si relaziona direttamente con il centro ma opera pur sempre nello stesso territorio e a stretto contatto con il sistema museale nel quale territorialmente è inscritto.

Ma il vero problema non è (solo) questo, anzi è un altro.

Se si esclude una parte più aperta ma probabilmente non maggioritaria di dirigenti, che è quella che abbiamo incontrato, nell'insieme il problema maggiore consiste nella tradizionale separatezza verso qualunque altra realtà che non sia la propria e il proprio referente centrale, come dimostrano sia le difficoltà incontrate a suo tempo dai direttori regionali, per i quali problemi di grado certo non si ponevano, che l'esile cooperazione (non personale, ma) istituzionale rispetto alle altre strutture periferiche del Mibact. Questo spiega, insieme ad alcune forti e innegabili resistenze opposte all'applicazione della riforma, perché ancora oggi risultino quasi sconosciuti nella pratica e forse anche nella teoria e comunque non praticati istituti come il coordinamento paritario, la cooperazione funzionale, le strutture di staff, lo stesso avvalimento di uffici che nel resto delle amministrazioni pubbliche, e più in generale delle organizzazioni complesse, sono ormai acquisiti.

È un dato di cui si possono comprendere le ragioni, se si pensa alle storiche condizioni di partenza che per lungo tempo hanno fatto del Soprintendente una autorità operante in partibus infidelium e dunque interamente affidato al legame con il centro e insieme protetto dalla (necessaria) separatezza rispetto ad un contesto estraneo se non ostile, ma è proprio su questo fronte che le condizioni sono largamente cambiate ed è proprio questo il ribaltamento di prospettive e di categorie che la riforma introduce e richiede.

È una sfida in più tra le tante, che oggi si è avuto il coraggio di affrontare e va tempestivamente raccolta per evitare che alle (inevitabili) difficoltà della fase transitoria e dei primi passi si aggiunga il rischio dello smarrimento di chi, chiuso nel proprio isolamento, non riesce a leggere le ragioni e il disegno complessivo della riforma mentre percepisce abbandonato e superato il proprio ruolo e ciò che gli era consueto.

Un motivo in più per auspicare tempestive e capillari iniziative di incontro, di formazione, di aggiornamento, di confronto ove come tutti sanno metà del valore aggiunto non è dato dalla qualità del docente o dell'oratore ma dal fatto di trovarsi tra colleghi, di conoscersi, di scambiare esperienze e impressioni.

Non si tratta di supporto psicologico o di semplice garbo, la cui diffusa sottovalutazione è forse uno dei costi che la nostra amministrazione pubblica potrebbe evitare senza alcuna spending review, ma dell'essere aiutati a capire e a interpretare la propria esperienza con chiavi di lettura più ampie.

Il che, tra l'altro, non è detto che non la renda un possibile e utile elemento di riscontro anche per chi decide.

 

 



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