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Sul Mibact, riforme e dintorni

Il cavallo e la soma

di Luigi Covatta

The Horse and the Load
The Author traces the history of the companies "in house providing" of Mibact, Ales s.p.a. and Arcus s.p.a., analyzing some of the reasons of their institution (firstly the need to consolidate the budget of the public partners and solve employment problems of the late '90) and of their decline.

Keywords: In House Providing; Ales s.p.a.; Arcus s.p.a.; Bureaucracy.

Nel 1974 il ministero per i Beni culturali e ambientali venne costituito assemblando (o forse soltanto giustapponendo) uffici di diverse amministrazioni. Alla direzione generale delle antichità e belle arti (Pubblica istruzione) si affiancarono quella degli archivi (Interno) e quella delle biblioteche (Presidenza del Consiglio): mentre, ad onta del riferimento ai beni "ambientali", non essendovi all'epoca un ministero dell'Ambiente da amputare di qualche competenza, la relativa casella restò vuota [1].

Nato com'era dal trapianto di organi precedentemente funzionanti in seno ad amministrazioni comunque attive e vitali, il ministero fondato da Spadolini cercò di evitare la crisi di rigetto guardandosi da eventuali contaminazioni e coltivando una vocazione all'esclusione, piuttosto che all'inclusione. In particolare, come scriverà Andreina Ricci, fu portato ad escludere dal proprio orizzonte il rapporto col presente - inteso solo per "garantire preesistenze considerate concluse nel loro ciclo trasformativo" - e col futuro, vissuto come "estraneo, astratto, mai localizzabile né compatibile coi resti materiali del passato" [2].

Anche per questo, probabilmente, restò irrisolto il problema del rapporto con l'utenza cui la nuova amministrazione si sarebbe dovuta rivolgere. Restò oscura, addirittura, la natura dell'utenza stessa: se avesse dovuto essere composta dall'intera cittadinanza o solo dagli studiosi, dai soli archeologi e storici dell'arte o anche da sociologi, linguisti, filosofi e ingegneri, dall'intera umanità o solo da italiani orgogliosi della propria identità nazionale. Ed essendo imprecisata la funzione, anche l'organo che essa avrebbe dovuto creare risultò imperfetto. Si ebbe anzi un rovesciamento delle leggi dell'evoluzionismo, per cui fu l'organo a creare la funzione: o almeno i funzionari, selezionati - per citare ancora la Ricci - attraverso "una separazione netta, radicale, tra gli specialisti (detentori e depositari di particolari saperi) e i comuni cittadini" [3]: fra i quali, peraltro, andavano annoverati non solo i passanti, ma anche gli uomini di cultura non direttamente coinvolti nel funzionamento dell'organo stesso.

D'altra parte l'esito era inevitabile, dal momento che - come aveva denunciato Giovanni Urbani fin dal 1981 - l'organo altro non era che "un buco nero capace di inghiottire tutto, e tutto nullificare in vuote forme verbali: beni artistici, storici, archeologici, architettonici, ambientali, archivistici, librari, demoantropologici, linguistici, audiovisivi, e chi più ne ha più ne metta" [4]: ed è noto che di "vuote forme verbali" si nutre innanzitutto il linguaggio burocratico.

Il rischio della burocratizzazione, del resto, all'atto della costituzione del nuovo ministero non era sfuggito a Massimo Severo Giannini, che avrebbe preferito un'agenzia (il termine Authority non era ancora di moda), cioè "una struttura molto agile, come un grandissimo ufficio per l'organizzazione e il controllo della tutela, che per l'azione avrebbe potuto utilizzare strumenti di diritto privato, cioè applicare il Codice civile" [5]: e se all'epoca, date le dimensioni ristrette dell'utenza, si trattava di un rischio relativamente sostenibile, già a partire dagli anni '80, quando l'utenza era cresciuta esponenzialmente, tanto sostenibile non fu più.

Si trattava infatti di adattare ad uno Stato democratico e decentrato, e ad una società affluente ed aperta, istituti e principi pensati in presenza di uno Stato centralistico ed autoritario e di una società povera e chiusa. Si trattava, in altri termini, di ricollocare la memoria del passato in un presente in cui da un lato cresceva la domanda di consumi culturali (e d'altra parte se ne moltiplicavano le forme dell'offerta), e dall'altro diventava inevitabile la manipolazione del territorio (diretta, attraverso l'urbanizzazione e le infrastrutture, e indiretta, a seguito dei cambiamenti climatici indotti dall'industrializzazione). La funzione creata dall'organo, insomma, non era più sufficiente, ed era anzi auspicabile che si ristabilissero le leggi della natura e fossero finalmente le funzioni a creare gli organi.

Per la verità il primo impatto dell'amministrazione dei Beni culturali col nuovo contesto socio-economico fu tale da poter essere effettivamente regolato col Codice civile anche senza ricorrere all'agenzia auspicata da Giannini. Nel 1982 le vacche erano grasse, l'economia era "mista", e lo Stato, dopo la crisi petrolifera degli anni '70, voleva incentivare la ripresa [6]. Venne istituito il Fondo per gli investimenti e l'occupazione (Fio), fra le cui finalità figurava anche il recupero del patrimonio culturale, e fra le cui modalità d'intervento era previsto anche l'istituto della concessione. Al resto pensò Italstat, la società dell'Iri dedicata alle opere pubbliche, che colse l'opportunità di business legata alla nuova sensibilità per la tutela di complessi monumentali, e che d'altra parte era la concessionaria ideale per un ministero più a suo agio con la legge Bottai che col codice Napoleone.

La crisi di rigetto si ebbe quando, con l'articolo 15 della legge finanziaria del 1986, si pensò di estendere l'istituto della concessione dalla manutenzione dell'hardware a quella del software. Tale era infatti l'obiettivo di un provvedimento poi disgraziatamente passato alla storia con richiami non sempre appropriati al petrolio ed ai "giacimenti culturali" [7]. I "detentori e titolari di particolari saperi", infatti, se potevano tollerare che una società pubblica restituisse alle loro cure torri e palazzi chiavi in mano, trovarono intollerabile, per esempio, che Costantino Dardi ricollocasse quelle torri e quei palazzi nel contesto delle piazze storiche in cui sorgevano, che Ibm riscoprisse la dimensione urbana di Pompei, o infine che Fiat Engineering desse un senso alle preesistenze archeologiche dell'area flegrea al di là del modesto allestimento del Castello di Baia. E trovarono soprattutto intollerabile la contaminazione fra "le mura e gli archi" e quelle che allora venivano genericamente definite "nuove tecnologie": nel timore - non infondato - che la lettura del patrimonio nel linguaggio oggi universale dei new media mandasse in soffitta i geroglifici con cui da sempre le caste sacerdotali difendono il proprio ruolo [8].

Da allora sorte migliore non ebbero i diversi tentativi di esternalizzazione di servizi che pure vennero operati per adeguare gli organi alle funzioni. La legge 88/90, redatta tenendo rigoroso conto delle critiche rivolte al famigerato articolo 15, finì con un decreto attuativo che la Corte dei conti si rifiutò di registrare perché troppo dispersivo nella distribuzione delle risorse. La legge Ronchey, che originariamente constava di soli quattro secchi articoli, uscì dal Parlamento moltiplicata per quattro, e soprattutto appesantita da un regolamento che di articoli ne mise insieme un centinaio, col risultato di creare un mercato chiuso in cui un ristretto gruppo di concessionari si contendeva un ancora più ristretto capitolato di servizi. La Sibec, immaginata da Veltroni per il finanziamento del sistema, non vide mai la luce. Né videro la luce le fondazioni alle quali Giuliano Urbani voleva affidare la gestione dei principali musei (e quando la videro, come nel caso del Museo egizio, rischiarono di finire strozzate nella culla ad opera degli inflessibili titolari della tutela).

Ora, in attesa di verificare gli esiti della riforma Franceschini, non resta che constatare lo stato preagonico in cui versano le due società strumentali rimaste in capo al Mibact (Arcus ed Ales), alle quali, dopo l'aggiunta della lettera t all'acronimo, ora si affianca probabilmente l'Enit (non a caso riesumato dall'Art Bonus), che nacquero entrambe da un matrimonio celebrato con tutti i crismi, e sopravvivono entrambe ad un divorzio consumato senza clamori. La Ales s.p.a. nacque dal matrimonio, officiato dal ministro Treu, fra il ministero ed Italia Lavoro s.p.a. (la società che il primo governo Prodi aveva scorporato dalla Gepi per occuparsi di politiche attive del lavoro). La Arcus s.p.a., invece, dalle nozze fra il Mibac e il ministero delle Infrastrutture, celebrate addirittura dal ministero dell'Economia, nei cui forzieri è tuttora custodito il capitale della società [9].

Come talvolta capita, si trattò di matrimoni di necessità. Nel caso della Ales, i figli della colpa erano addirittura un paio di migliaia. Tanti erano infatti i lavoratori in cassa integrazione che nel 1991 la Gepi aveva messo a disposizione del ministero, con la retta intenzione di sperimentare forme di workfare sostitutive di un welfare in cui già allora troppi pasti erano gratis, ma senza considerare che nel welfare all'italiana nulla si crea e nulla si distrugge: per cui quelli che in origine erano cassintegrati vennero poi messi in "mobilità lunga", e finalmente addetti a "lavori socialmente utili" ed identificati con l'acronimo Lsu.

Anche quello col ministero delle Infrastrutture era stato un matrimonio riparatore. Si dovevano innanzitutto sanare i dissesti che l'esecuzione delle grandi opere pubbliche provocava nel patrimonio dell'uno e nei bilanci dell'altro [10]: questione che forse avrebbe potuto essere risolta con un'intesa interistituzionale, ma che allora si preferì delegare a un soggetto terzo, forse con l'idea di sperimentare una unitaria politica del territorio prescindendo dalla rispettive burocrazie [11]. Senza dire che si colse anche l'occasione per affidare ad un soggetto terzo la selezione delle "mance" con le quali ciascun parlamentare tradizionalmente provvedeva ai bisogni "culturali" del proprio collegio elettorale.

Nei matrimoni di convenienza, peraltro, conta anche l'entità della dote: e non si può dire che i nubendi si presentassero a mani vuote. Il Mit, per esempio, portava quel 3% delle risorse destinate alle grandi opere pubbliche che le relative leggi di finanziamento finalizzavano esplicitamente alla conservazione ed alla valorizzazione del patrimonio culturale. Ma portava anche qualche idea. Per esempio Costanza Pera, allora dirigente del Mit, proponeva non solo di "valorizzare le aderenze fisiche tra infrastrutture e patrimonio storico", ma di "aggiornare la nozione di infrastruttura, superandone la segregazione rispetto al contesto territoriale", e di "migliorare la qualità dei progetti sollecitando le categorie coinvolte a compiere un salto culturale e organizzativo dagli effetti permanenti" [12]: parole che avrebbero probabilmente entusiasmato Giovanni Urbani, ma che commossero pochissimo le burocrazie del Collegio romano, tradizionalmente animate da una auri sacra fames il cui aspetto esecrando viene tuttavia riscattato dalla finalità "culturale" di cui solo esse sono garanti [13].

Neanche la Gepi, ad essere onesti, a suo tempo aveva portato solo bocche da sfamare. Fra i cassintegrati non mancavano, soprattutto al Nord, quadri tecnici ed amministrativi che avrebbero potuto colmare i vuoti di organico perennemente lamentati dalle sovrintendenze settentrionali. In questo caso, però, la selezione era stata operata a monte nel 1991, quando i dirigenti del ministero per i Beni culturali scartarono le professionalità più alte e furono invece singolarmente ed evangelicamente generosi nel provvedere ai bisogni degli ultimi [14].

Gli incentivi materiali, però, non incrinarono la vocazione a un orgoglioso celibato tenacemente coltivata nelle stanze del Collegio romano. Era del resto difficile immaginare che la casta che le occupa fosse disponibile a confrontarsi, se non con le ipotesi progettuali di Costanza Pera, almeno con le modeste proposte di razionalizzazione nell'organizzazione del lavoro timidamente avanzate dai vertici di Ales. Da questo punto di vista le società strumentali più "strumentali" di così non potevano essere; e quando finalmente una sentenza della Corte europea enunciò la nozione di "società in house", al Collegio romano salirono al settimo cielo e congedarono volentieri i partner.

Questi, d'altra parte, a loro volta non erano esenti da pecche. Quella principale del ministero delle Infrastrutture fu di essere guidato da un parmigiano geneticamente sensibile alle esigenze del teatro lirico, ed in particolare di quello verdiano [15]. Capitò così che la Arcus s.p.a., concepita per accompagnare l'esecuzione delle grandi opere pubbliche, finì per finanziare l'esecuzione di grandi opere liriche. E pazienza se il vulnus al patto matrimoniale venne inferto dal coniuge istituzionalmente più interessato alle prime che alle seconde: non a caso il fenomeno dell'eterogenesi dei fini venne descritto per primo dal genio italiano di Giambattista Vico.

Anche Ales portava con sé una tara genetica. Era una delle tante "società miste" che, a cavallo fra prima e seconda Repubblica, vennero inventate per consentire alle amministrazioni pubbliche di esternalizzare la fornitura di servizi senza l'impaccio di gare ed appalti, funzione peraltro nobilitata all'insegna della job creation [16]: con l'intesa che per gli Lsu il job doveva essere almeno parapubblico, tant'è vero che ad un bando ad essi riservato della società per l'imprenditoria giovanile risposero solo una ventina di persone.

Ma non sono stati i difetti di cui erano oggettivamente portatori i partner a spingere i funzionari dei Beni culturali a rinchiudersi nuovamente nel loro ostinato zitellaggio. E' stata invece, paradossalmente, la loro pretesa di arricchire la partnership con qualche valore aggiunto.

La Ales, per esempio, avrebbe potuto favorire qualche innovazione nell'organizzazione del lavoro in seno ad un'amministrazione che più di altre offriva anche nei rami bassi spazi interstiziali da coprire: per esempio costituendo squadre di operai specializzati a disposizione degli uffici centrali (o delle direzioni regionali, quando vennero istituite) per la costante e programmata manutenzione del patrimonio; oppure fornendo agli uffici che ne erano privi le competenze necessarie per la gestione di gare ed appalti. Invece, per non alterare i complessi equilibri vigenti negli interna corporis dell'amministrazione, la Ales fu costretta a stipulare tanti contratti quanti erano gli uffici centrali e periferici destinatari delle risorse aggiuntive (possibilmente, per giunta, senza mutarne la collocazione) [17]. In queste condizioni l'ipotesi su cui si reggeva la manovra Treu (limitare la partecipazione di Italia Lavoro nelle società miste alla fase di start up per poi cederla al mercato), forse già velleitaria in partenza, si rivelò una missione impossibile [18]: tanto che Italia Lavoro fu "costretta" (vis grata quant'altre mai, peraltro) a cedere le proprie azioni al ministero.

C'era quanto bastava per giustificare la liquidazione della società, che infatti il governo Monti aveva previsto per la fine del 2012, ma che poi venne differita dal solito emendamento parlamentare. Fu così che il fiume poté risalire alla sorgente: nel caso, tornando indietro di quasi quarant'anni, fino alle "società scatola" con le quali alla fine degli anni '70 la Gepi gestiva gli esuberi delle aziende in crisi. Ed infatti nella scatola vuota della Ales negli ultimi due anni sono stati inzeppati esuberi di ogni genere e specie, dagli ex Lsu messi in libertà dalle concessionarie presso cui erano stati parcheggiati agli orchestrali messi in libertà dagli enti lirici [19].

Anche la Arcus, secondo il governo Monti, avrebbe dovuto essere liquidata entro il 2012, ed anch'essa ha trovato il suo salvatore in Parlamento [20]. Quando si era trasformata in una specie di bancomat a disposizione di chiunque volesse finanziare eventi culturali o ristrutturazioni di edifici storici era stata oggetto di non ingiustificata curiosità da parte della Corte dei conti [21]. Ma la mutazione genetica prodotta dall'intervento della magistratura contabile (che trasformò Arcus in una specie di sportello del ministero dei Beni culturali finanziato dal ministero delle Infrastrutture) intervenne su una creatura che in realtà non era mai nata. Infatti la missione principale della società, cioè la progettazione di interventi di manutenzione e di valorizzazione del patrimonio, dovette subito misurarsi con l'ostruzionismo dei funzionari ministeriali, che in quanto "detentori e depositari di particolari saperi" non potevano tollerare che spettasse ad altri di intervenire in materia "tecnico-scientifica" (mantra per proteggersi dagli estranei alla propria casta): per cui svuotarono lestamente i cassetti che da anni custodivano progetti non finanziati, e subito dopo tirarono giù la saracinesca [22].

Concluderei citando il Machiavelli che diceva che non si può far fare all'asino la corsa del cavallo. Anzi, per non offendere nessuno, preciserei che non si può neanche far fare al cavallo la corsa dell'asino. E se il monumento equestre del ministero dei Beni culturali si è finora dimostrato inadatto a trasportare le some dell'utenza di massa, della moltiplicazione dei linguaggi e delle politiche del territorio, qualcuno ne dovrebbe prendere atto.

 

Note

[1] Solo nel IV governo Rumor (luglio 1973 - marzo 1974) figurava un ministro senza portafoglio con delega all'ambiente (Achille Corona). Il ministero dell'Ambiente venne poi istituito dal II governo Craxi nel 1986.

[2] A. Ricci, Attorno alla nuda pietra, Donzelli, Roma 2006, pag. 56. Secondo la Ricci questo atteggiamento deriva anche dalla cattiva coscienza di chi non ha fatto i conti col passato prossimo (quello dell'uso politico della storia da parte del regime fascista): un passato "più facile da cancellare, rifiutandolo in blocco, che da pensare". La conferma a contrario di questa renitenza a "pensare" il passato prossimo può essere testimoniata anche dall'adesione acritica ai principi della legge di tutela del 1939, accettata invece "in blocco" proprio perché decontestualizzata rispetto al regime politico-istituzionale (e all'era economico-sociale) in cui venne concepita.

[3] A. Ricci, cit., pag. 80. Non a caso, del resto, Daniele Manacorda ha recentemente intitolato L'Italia agli italiani (cioè ai "comuni cittadini") un suo pamphlet polemico nei confronti delle retoriche iperconservazioniste di Tommaso Montanari (Edipuglia, Bari 2014).

[4] Ora in Intorno al restauro, (a cura di) B. Zanardi, Skira, Milano 2000, pag. 43.

[5] Ora in B. Zanardi, Conservazione, restauro e tutela. 24 dialoghi, Skira, Milano 1999. Un'ipotesi analoga venne più recentemente formulata da Marco Cammelli (in Economia della cultura, n. 3 del 1996).

[6] Le vacche, in realtà, erano grasse soprattutto grazie all'anabolizzante del debito pubblico, come avremmo constatato dieci anni dopo.

[7] Un richiamo meno improprio a questi concetti, peraltro, lo si può trovare nei saggi di Umberto Eco, Federico Zeri, Augusto Graziani e Renzo Piano in Le isole del tesoro, Electa per Ibm Italia, Milano 1988. Tuttavia, a testimonianza della damnatio memoriae applicata a quel provvedimento, il volume non è più reperibile neanche presso l'editore.

[8] Il plotone d'esecuzione che pose fine prima del tempo a quell'esperimento, tuttavia, non venne allestito dai "detentori di particolari saperi", ma dai detentori del potere legislativo, i quali nel 1987 dirottarono la seconda annualità del finanziamento previsto dall'articolo 15 a favore di un provvedimento "d'urgenza" fortemente sostenuto da Italstat per evitare imminenti catastrofi adeguatamente enfatizzate. Inutile dire che alla fine del 1989 quei fondi rischiarono di finire in perenzione perché Italstat e sovrintendenze avevano avuto la bocca più grande dello stomaco. Utile invece ricordare che il Parlamento ritenne di salvaguardare le finalità "sociali" dell'art. 15 aggiungendo alle legge finanziaria per il 1989 un articolo 28 che autorizzava i sindaci a retribuire con 800.000 lire al mese giovani (da loro selezionati) da adibire alla valorizzazione del patrimonio culturale; ed anche che, in alcune regioni, del variegato mondo del precariato pubblico fanno parte ancora gli "articolisti".

[9] La precisazione potrebbe sembrare superflua, dal momento che il Mef è il titolare del capitale pubblico di tutte le società partecipate dallo Stato (anche se poi delega l'esercizio dei diritti dell'azionista alle amministrazioni competenti): ma non lo è, dal momento che della quota pubblica del capitale della Ales è invece titolare in prima persona il Mibact, come prescrive l'art. 20 della legge 196/97 ("Pacchetto Treu"), La costituzione della Arcus s.p.a. venne autorizzata dall'art. 10 della legge 291/03, che novellava quanto previsto (ma mai attuato) nella legge 352/97 (costituzione della Sibec s.p.a.).

[10] Solo i costi per le ricerche archeologiche in corso d'opera provocavano nei bilanci della Tav voragini facilmente evitabili in fase di progettazione.

[11] In una delle ultime sedute dell'XI legislatura del Senato, il 4 novembre 1993, il gruppo dei Verdi presentò un emendamento alla legge finanziaria che a più di vent'anni di distanza mantiene intera la sua attualità. Prevedeva l'istituzione di un unico ministero del Territorio, sottraendo competenze all'amministrazione dei Beni culturali ed abolendo il ministero dell'Ambiente. L'emendamento venne poi ritirato, con l'intenzione, condivisa dalla maggioranza, di trasformarlo in disegno di legge: ma il Senato fu sciolto, la prima Repubblica pure, e la seconda non ha trovato il modo di occuparsene.

[12] Progetto&Pubblico, rivista ufficiale dell'Oice, aprile 2005.

[13] Qualche concetto del genere si trova nella precettistica cattolica a proposito della "pia frode". Ma già per Vespasiano i denari non puzzavano mai.

[14] Chi scrive era sottosegretario al Mibca (così si chiamava allora) nel 1991, e presidente di Italia Lavoro nel 2000, quando fu costituita la Ales s.p.a. Ha avuto quindi il privilegio di essere testimone di tutta la vicenda, dall'inizio alla fine. Per la culpa in vigilando commessa nel 1991 (oltre che per altre innumerevoli colpe) è stato sanzionato dagli elettori. Ma non ha potuto a sua volta sanzionare nessuno quando, nel 2000, ha dovuto constatare, per esempio, che presso la Biblioteca nazionale di Cosenza venivano utilizzati come "addetti all'accoglienza" una ventina di Lsu, oppure che negli uffici ministeriali preposti alla sicurezza (di nuova istituzione) si era persa la memoria della "Carta del rischio" realizzata negli anni '90 (del XX secolo, non del XIX).

[15] Pietro Lunardi è stato ministro delle Infrastrutture dal 2001 al 2006. Nel 2005, dopo la controversa conclusione della sua esperienza al Teatro alla Scala, Riccardo Muti era approdato a Parma, dove si sperava di rianimare col suo aiuto il Festival Verdi e le sorti del Teatro Regio.

[16] In realtà questa tipologia di "società miste" venne inventata dal primo governo Prodi per eludere la pretesa di Rifondazione comunista, che chiedeva l'assunzione in massa degli Lsu (quasi 200.000) da parte dell'Iri, peraltro appena messa in liquidazione. Visti i risultati dello spezzatino che venne invece messo in tavola con le centinaia di società miste costituite in seguito a quella scelta, tuttavia, non si può escludere che avesse ragione Bertinotti.

[17] Vennero respinte al mittente tutte le proposte volte a razionalizzare l'impiego della manodopera, mentre solo nel 2005 venne stipulata una convenzione che autorizzava gli uffici ministeriali a servirsi delle risorse della Ales per fruire di assistenza tecnica in materia di appalti (convenzione poi sabotata, per la verità, dagli stessi vertici della Ales per discutibili valutazioni relative alle prospettive della società). Senza dire che la distribuzione della manodopera fra i diversi siti fu addirittura oggetto di un processo penale davanti al Tribunale di Torre Annunziata (ma questo episodio, probabilmente, va riferito a certa bulimia della magistratura inquirente). Quanto alle carenze di organico degli uffici ministeriali (specialmente nei ruoli intermedi), è bene ricordare che fin dai primi anni '90 i sindacati interni avevano respinto ogni ipotesi di revisione dell'organico, nel timore di vedere ridimensionata la componente dei custodi, sulla quale si fondava e si fonda il loro cospicuo potere.

[18] In alcuni casi, tuttavia, l'ipotesi ebbe successo.

[19] Ales, quindi, è una scatola vuota di strategie e di management, non certo di personale.

[20] Ne parla diffusamente Sergio Rizzo sul Corriere della Sera del 28 dicembre 2014.

[21] Nel caso del "restauro" del palazzo di Propaganda fide la curiosità si estese anche alla magistratura penale.

[22] Di almeno uno (quello di Luni) si era cominciato a parlare nel 1990.

 

 



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