Cultura e Europa
Disciplina comunitaria degli aiuti di stato e politica culturale europea. Le incoerenza di un sistema fortemente burocratizzato [*]
Sommario: 1. La nozione di aiuto di Stato nel diritto europeo. - 2. Il preteso carattere di aiuto di Stato dei finanziamenti alla cultura. - 3. La gestione di un museo come attività economica in concorrenza. - 4. La ricaduta delle attività culturali sulle altre attività economiche. - 5. Gli orientamenti della politica culturale europea. - 6. L'equivoco del nuovo Regolamento generale di esenzione per categoria.
European Legislation on State Aid and European Cultural Policy. The Inconsistencies of a System Heavily Bureaucratized
The case-law of the Community Courts
considers economic any activity that is substantial in supplying goods or
services on the market; regardless of the legal nature of the subject
conducting it, of its public or private nature, and with or without a
profit-making purpose. As a result of this, the new
European policy approach to competition regards cultural activities as
economic, including those significant in the creating and managing of cultural
infrastructure: such as museums, monuments and archaeological sites. For this reason, the public funding
of cultural activities is considered State Aid and must be subject to the rules
laid down by The European Commission with the legislation recently entered into
force. This will not just give rise to problems of funding as much as to
unnecessary administrative work on the part of central and local government
authorities (including small local authorities). All in the name of a
misconception regarding the market and economic activity. This is an
unrealistic concept that, in addition, is in contradiction with the papers,
also recent, of the Commission itself as regards to European cultural policy.
Papers that regard culture of the utmost importance for development precisely
because of its effects on local economy and that crusaders of competition
consider distort the normal market mechanisms.
Keywords: Culture; Competition; State
Aid; EU; Museums.
1. La nozione di aiuto di Stato nel diritto europeo
Obiettivo del trattato di Roma istitutivo della Cee era la realizzazione di un mercato comune; era cioè la creazione di un'area nella quale fosse garantita la libera circolazione dei "fattori della produzione": le merci, le persone, i capitali, i servizi. Limitandoci alle merci, si trattava non solo di realizzare un'unica area doganale, ma anche di eliminare tutti gli ostacoli derivanti da norme o prassi esistenti nei sistemi statali, originati da scelte protezioniste degli Stati membri o semplicemente da tradizioni, da prassi o sensibilità legislative diverse, da esigenze più o meno sentite di tutela del consumatore e così via.
In questo contesto, era anche necessario evitare che gli Stati sostenessero le proprie imprese con aiuti che potessero falsare la concorrenza e gli scambi, senza essere giustificati da obiettivi di interesse comune. Furono così inserite nel trattato disposizioni volte a disciplinare gli aiuti di Stato; disposizioni che ritroviamo sostanzialmente invariate nei trattati attualmente vigenti, anche se la loro applicazione è stata adeguata alle mutate circostanze.
La materia è disciplinata oggi dagli articoli 107-109 del trattato sul funzionamento dell'Unione europea. Il primo comma dell'art. 107 sancisce l'incompatibilità in principio degli aiuti di Stato, statuendo che "...sono incompatibili con il mercato interno, nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza".
Perché si realizzi l'ipotesi contemplata da questa norma occorre dunque che si verifichino quattro precise condizioni: che la fonte delle risorse sia pubblica, che da esse derivi un vantaggio per delle imprese o comunque per dei soggetti che svolgano attività economica, che l'aiuto falsi la concorrenza e che inoltre distorca gli scambi tra Stati membri. Qualora anche una sola di queste condizioni non sia presente, non si realizza la fattispecie dell'aiuto di Stato disciplinata dal trattato e quindi l'intervento pubblico non è soggetto alle regole comunitarie della materia ed al conseguente controllo della Commissione.
Il terzo comma dell'art. 107 ammette deroghe al divieto generale, consentendo la concessione di aiuti di Stato quando questi siano giustificati da un obiettivo di interesse comune, attribuendo alla Commissione competenza esclusiva quanto alla valutazione di compatibilità degli aiuti che uno Stato membro intenda istituire. Il ruolo dell'esecutivo europeo è dunque fondamentale nella definizione dell'ammissibilità di un aiuto di Stato e, prima ancora, nel tracciare il confine fra aiuto e non aiuto.
2. Il preteso carattere di aiuto di Stato dei finanziamenti alla cultura
Nell'ambito della cosiddetta "modernizzazione" degli aiuti di Stato, la Commissione ha introdotto nel nuovo regolamento di esenzione [1] disposizioni specifiche che regolamentano l'intervento pubblico a favore degli investimenti e delle attività culturali.
I regolamenti di esenzione hanno lo scopo di evitare, per una serie di aiuti, le notifiche previste dal trattato, stabilendo le condizioni al verificarsi delle quali tali aiuti sono compatibili con il mercato interno. Non si tratta dunque di un'esenzione dall'applicazione delle regole della concorrenza, ma semplicemente dell'esclusione dell'obbligo di notifica preventiva: restano tutte le conseguenze del fatto che comunque si tratta di aiuti di Stato, con i limiti che questo status impone ed i pesanti oneri di carattere gestionale che esso comporta.
Il nuovo approccio della Commissione alla problematica del finanziamento della cultura riguarda in particolare gli aiuti alle infrastrutture culturali. Se il primo decennio del secolo aveva visto la DG Concorrenza impegnata in sporadici casi di aiuti a piccoli musei, conclusisi normalmente con una valutazione di compatibilità complessiva dell'intervento pubblico, la più recente visione degli aiuti alle infrastrutture, intese come attività economiche o funzionali ad esse, rischia di coinvolgere l'intero sistema del finanziamento pubblico del settore, notoriamente essenziale per la sopravvivenza di musei, siti archeologici, monumenti.
In un documento con il quale ha segnalato la possibile presenza di aiuti di Stato nei progetti infrastrutturali cofinanziati dai fondi europei [2], la Commissione ha affermato tra l'altro: "per musei e monumenti storici più piccoli che si rapportano ad una domanda strettamente locale e non attirano visitatori a livello internazionale, l'effetto esercitato sugli scambi potrebbe essere non necessariamente evidente. La dimensione ed il bilancio limitati di progetti relativi a musei possono anche consentire di escludere un effetto sugli scambi tra Stati Membri, dal momento che le persone provenienti da altri Stati Membri tendono a non attraversare i confini allo scopo primario di visitare tali musei. Per musei e monumenti storici più grandi che godono di fama internazionale, tuttavia, non è possibile escludere un effetto sulla concorrenza e sugli scambi tra Stati Membri. La valutazione dipende dall'effettiva/potenziale capacità di attrarre visitatori stranieri".
La Commissione non esclude peraltro la possibilità che lo Stato finanzi la realizzazione di infrastrutture culturali o gestisca tali infrastrutture, anche quando queste non siano infrastrutture di rilevanza squisitamente locale, ma lo deve fare nel rispetto del principio dell'investitore privato operante in un'economia di mercato. Essa invita dunque a domandarsi: "un investitore commerciale avrebbe fornito i fondi necessari per il progetto negli stessi termini e alle medesime condizioni? In tal caso gli aiuti di Stato non saranno contemplati nel progetto. Ciò deve essere dimostrato dagli ingenti co-investimenti tra operatori commerciali ed autorità pubbliche e/o dalla presenza di un solido business plan che dimostri che gli investimenti forniscono un adeguato tasso di rendimento per gli investitori - in linea col tasso di rendimento atteso dagli operatori commerciali per progetti simili".
La Commissione ritiene in sostanza che le attività culturali, ivi comprese quelle relative alla realizzazione e gestione delle cosiddette infrastrutture culturali, siano attività d'impresa e come tali siano soggette all'applicazione delle norme in materia di concorrenza. La loro qualificazione come attività economiche deriva da una acritica applicazione della definizione di impresa affermatasi nella giurisprudenza della Corte, secondo la quale è appunto tale qualsiasi soggetto che eserciti un'attività di natura economica e che offra beni o servizi in concorrenza (attuale o potenziale) con altri operatori attivi sul mercato.
Nei casi esaminati essenzialmente nell'ultimo decennio, la Commissione, pur partendo dall'assunto che l'attività di un museo costituisce attività economica e deve dunque essere applicata nei suoi confronti la disciplina degli aiuti di Stato, ha sempre ritenuto che, data l'importanza marginale delle strutture coinvolte e/o dei territori interessati [3], l'eventuale distorsione sugli scambi non fosse sensibile e, in ogni caso, fosse compensata dai vantaggi correlati alla tutela del patrimonio culturale: dunque l'aiuto proposto o contestato risultava compatibile.
Nelle sue valutazioni, peraltro, più che considerare l'eventuale impatto dell'aiuto sulla concorrenza fra la struttura beneficiaria ed eventuali altri musei in altri Stati membri, essa ha preso in esame le ricadute dell'aiuto sulle attività economiche del territorio. L'esito positivo delle procedure - stando alle argomentazioni contenute nelle diverse decisioni - è dovuto essenzialmente al fatto che i casi oggetto delle sue valutazioni erano marginali. Non è dato sapere che esito avrebbe avuto l'applicazione della medesima metodologia a casi di portata più significativa. E l'incertezza è fatto tutt'altro che irrilevante, se si considera che il sostegno pubblico ai siti culturali di ogni livello - come si documenterà più avanti - è prassi costante e generalizzata in tutti i paesi, europei e non.
La cosa che lascia in particolare perplessi è il fatto che, nel considerare i pochi casi che le sono stati sottoposti, la Commissione si sia comportata come se, pur consapevole del meccanismo di finanziamento dei musei, lo ignorasse, limitandosi a valutare i contributi oggetto di notifica o di denuncia.
Le problematiche in ballo sono dunque essenzialmente due: quella della qualificazione dell'attività museale come attività economica, con la conseguente applicazione ad essa del principio dell'investitore privato e quella dell'ulteriore valutazione della compatibilità degli aiuti in funzione delle ricadute che lo sviluppo delle attività culturali conseguente all'intervento pubblico possa avere sulle "altre" attività economiche del territorio.
3. La gestione di un museo come attività economica in concorrenza
Sotto il primo profilo, facciamo notare che la definizione di impresa che si evince dalla giurisprudenza della Corte non può essere applicata in maniera acritica alle attività culturali - e, in particolare, a quelle museali - ma deve essere interpretata alla luce di tutte le circostanze pertinenti. Per stabilire se un'attività di tipo culturale sia qualificabile come attività imprenditoriale, si deve verificare innanzi tutto se effettivamente essa, per sua natura, consista nell'offrire beni o servizi sul mercato, potendone ricevere una remunerazione adeguata. Il biglietto di ingresso di un museo non è mai in grado di compensare i costi inerenti la gestione del museo stesso (men che meno gli eventuali ammortamenti dell'investimento iniziale o le spese di manutenzione); in molti casi (spesso per i musei, quasi sempre per i monumenti), o per determinate categorie di utenti (pensionati, giovani, appartenenti ad associazioni, ecc.), poi, l'ingresso è addirittura gratuito o scontato.
Per essere attività di mercato, essa deve inoltre essere svolta in concorrenza con altri operatori: deve cioè consistere in un'offerta alternativa rispetto ai concorrenti, tale per cui l'acquisto di un bene o di un servizio da un operatore del settore comporti la rinuncia ad un acquisto analogo da un altro operatore. In sostanza, si registra concorrenza solo tra beni o servizi comparabili e tra loro sostituibili: fra due automobili della stessa gamma (o due case automobilistiche che si rivolgano alla medesima fascia di mercato), fra due salotti imbottiti (e le imprese che li producono), fra due imprese di costruzione, fra due architetti. Non c'è concorrenza tra due musei o tra due monumenti.
Certo, non si può escludere che possa esistere competizione tra musei, ma il concetto di competizione è sostanzialmente diverso da quello di concorrenza, che attiene essenzialmente al mercato. L'Autorità Garante della concorrenza e del mercato ha affermato in un suo parere che due alberghi (che offrono indiscutibilmente servizi tra loro alternativi) sono in concorrenza se si trovano nello stesso bacino d'utenza, precisando che due strutture ubicate in quartieri diversi di Bologna sono in concorrenza, mentre non lo sono l'albergo di Bologna e quello di Modena [4]. E' dunque difficilmente immaginabile che due musei (che non offrono servizi alternativi), per di più collocati in differenti Stati membri (diversamente non si porrebbe il problema della distorsione degli scambi, condizione essenziale perché si abbia un aiuto di Stato), siano tra loro in concorrenza.
E in effetti i musei non hanno questa percezione (anche se tra loro può esistere competizione): fatto questo normalmente rilevante nella valutazione dell'effetto distorsivo del sostegno pubblico. Ciò è tra l'altro dimostrato dai frequenti scambi di opere che avvengono tra musei anche di paesi diversi, in occasione di esposizioni tematiche o monografiche. Un esempio per tutti: in concomitanza con la chiusura per restauri del museo Picasso di Parigi [5], le opere più significative dell'artista (250) sono state prestate per una esposizione di grande richiamo tenutasi a Palazzo reale a Milano [6]. Se il museo Picasso si sentisse in concorrenza sul mercato eviterebbe di consentire la fruizione delle sue opere a potenziali visitatori in una sede diversa dalla propria e sufficientemente vicina da poter essere considerata in concorrenza, se concorrenza ci fosse. E gli esempi potrebbero essere infiniti.
Come afferma la stessa Commissione in una decisione relativa, peraltro, ad un aiuto concesso a studi cinematografici per la realizzazione di film [7] - settore nel quale operano imprese ed in cui la concorrenza è ben più presente che nel settore museale - "... si ritiene si verifichi un fallimento di mercato quando il mercato non porta a risultati migliori in termini di benessere sociale generale. Può verificarsi nel caso dei cosiddetti beni pubblici o beni meritori. Tali beni generano effetti esterni positivi quando il beneficio sociale supera il beneficio privato". Tale situazione giustifica il sostegno pubblico.
A dire della Commissione, si è in presenza di beni pubblici, ad esempio, "nei casi in cui non vi è rivalità nel consumo": quale rivalità ci può essere in relazione a beni che prima di essere di "proprietà" di un museo costituiscono il patrimonio dell'intera umanità?
I beni di interesse generale o beni meritori sono invece "quei beni e servizi che, secondo l'amministrazione pubblica, potrebbero essere consumati in misura insufficiente e che pertanto devono essere sovvenzionati o forniti gratuitamente (quali l'istruzione, le biblioteche pubbliche)". E non è il caso dei musei? Quale sarebbe la frequentazione delle collezioni d'arte, soprattutto da parte dei giovani, se la tariffazione fosse rapportata al costo richiesto per garantire il servizio? E quale sarebbe la sorte del patrimonio culturale europeo se gli Stati membri si comportassero nella sua gestione secondo il criterio dell'investitore privato?
Del resto, il valore del patrimonio culturale come bene comune da salvaguardare è chiaramente riconosciuto dalla Costituzione repubblicana che, all'art. 9, recita: "La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione".
Come ebbe a dire il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi il 5 maggio 2003, in occasione della consegna delle medaglie d'oro ai benemeriti della cultura e dell'arte, "... La Costituzione ha espresso come principio giuridico quello che è scolpito nella coscienza di ogni Italiano. La stessa connessione tra i due commi dell'articolo 9 è un tratto peculiare: sviluppo, ricerca, cultura, patrimonio formano un tutto inscindibile. Anche la tutela, dunque, deve essere concepita non in senso di passiva protezione, ma in senso attivo, e cioè in funzione della cultura dei cittadini, deve rendere questo patrimonio fruibile da tutti".
Da tale impostazione, dal riconoscimento fra i principi fondamentali della Costituzione dell'esigenza di salvaguardare il patrimonio storico e artistico nazionale per renderlo fruibile a tutti, discendono l'organizzazione e le modalità di gestione del sistema museale italiano.
L'Italia è il secondo paese in Europa, dopo la Germania, per numero di siti museali e archeologici e per numero di visitatori. Si tratta in gran parte di siti di piccole dimensioni, come dimostra il dato relativo al numero medio annuo di visitatori, che vede l'Italia in quarta posizione, con un numero medio per struttura (21.000) inferiore alla metà di quello registrato nei musei francesi [8]. E' un patrimonio disperso su tutto il territorio nazionale; ed infatti la prima regione assorbe il 20% delle visite effettuate in tutti i siti del paese, contro il 60% della regione parigina e l'80% di Londra.
La classifica internazionale dei musei compilata annualmente da The Art Newspaper vede, nel 2012, il primo museo italiano (la Galleria degli Uffizi) al ventunesimo posto, con 1.769.217 visitatori, contro i quasi 10 milioni del Louvre, gli oltre 6 del Metropolitan museum, gli oltre 5 del British museum e della National gallery e così via. In Italia solo sei musei (compresi i musei vaticani) hanno superato nel 2008 il milione di visitatori e solo altri 9 ne hanno contati più di 500.000. Gli scavi di Ercolano, classificati al trentesimo posto, hanno registrato solo 264.036 visite [9].
Il sistema museale italiano fa capo per il 45% ai Comuni, per il 16% appartiene a privati, per il 14% allo Stato, per il 14% ad Enti Ecclesiastici, per il 5% a Regioni e Province, per il 6% fa capo ad altri soggetti.
I musei statali e la stragrande maggioranza di quelli appartenenti agli enti locali si caratterizzano come "musei-ufficio", articolazione organizzativa, di servizi più ampi. Essi sono cioè parte integrante di una struttura statale, priva di statuto proprio, con un ordinamento interno che rimanda all'Ente di riferimento (sovrintendenza, università, regione, comune), cui compete, tra l'altro, la politica del personale. Non esiste dunque un bilancio proprio: le entrate dai biglietti, dai diritti, dal merchandising, ecc. confluiscono nell'ente e sono a carico di questo le spese di funzionamento.
Nel caso, ad esempio, di un museo statale, le spese di funzionamento, di manutenzione e per le utenze sono a carico del ministero dei Beni culturali; quelle relative al personale competono allo stesso ministero o al ministero delle Finanze e sono a carico della fiscalità pubblica. Gli introiti da biglietteria e servizi vengono interamente versati al ministero dell'Economia e in quota parte riassegnati al ministero dei Beni culturali che, a sua volta, li ridistribuisce alle sovrintendenze territoriali, ma solo in minima parte: nel 2011 sono stati riassegnati a tali sovrintendenze solo 3 milioni di euro sul totale degli introiti dei musei da esse dipendenti, pari a 16.769.705,68 euro, (il 17,8%). Con riferimento a singole strutture museali, la riassegnazione alla galleria d'Arte moderna di Roma è stata del 42,8% rispetto agli incassi della galleria stessa; il ritorno per il Cenacolo vinciano di Milano è stato del 25,4%, per la galleria nazionale di Urbino del 7,3%, per il castello di Miramare del 6,2%, per la reggia di Caserta del 5,8% [10].
Si tratta peraltro di introiti che, anche se versati interamente nelle casse dei rispettivi musei, non sarebbero in grado di coprire se non in minima parte anche i soli costi di gestione (a prescindere dalla manutenzione straordinaria, dai restauri, dalle acquisizioni, ecc.: tutte spese normali per un museo). Per dare un ordine di grandezza, il totale degli introiti di biglietteria dei musei statali, per il 2011, è stato di 94.388.890,69 euro, cui si aggiungono 6.124.994,87 euro da servizi in concessione (al netto delle royalties dovute ai concessionari). Le spese di funzionamento del museo di Brera (che non figura nella graduatoria dei primi trenta siti visitati) sono ammontate, nel 2010, a circa 1,5 milioni di euro, cui vanno aggiunti 6,3 milioni di spese per il personale [11]. Quanto alla manutenzione straordinaria dei siti culturali, si pensi che il programma di investimenti della reggia di Versailles per il periodo 2012-2017 è quantificato in 171 milioni di euro, di cui 10 milioni solo per la messa a norma dell'impianto elettrico [12]: importi in alcun modo compatibili con la capacità di autofinanziamento della reggia stessa.
In ossequio al dettato costituzionale, la gestione dei musei italiani non è improntata al criterio dell'investitore privato, essendo privilegiata la funzione di servizio pubblico e sociale rispetto alla gestione economica del "servizio". Nel 2011 la percentuale degli ingressi gratuiti registrati nei siti di competenza del ministero per i Beni culturali ha superato il 35% del totale [13]; a questi vanno aggiunti gli ingressi a tariffa ridotta, che rappresentano una percentuale elevata dei paganti.
In sostanza, il principio dell'investitore privato nella gestione delle attività museali può essere ed è auspicabile sia applicato in termini di oculata gestione delle risorse, per evitare, cioè, gli sprechi ed ottenere dai fondi disponibili - sempre insufficienti - il miglior risultato possibile. E' invece improponibile se inteso - come va inteso quando si tratta dell'intervento pubblico nelle attività di mercato - come condizione e limite all'intervento dello Stato. Non lo è, in particolare nel sistema italiano, in quanto, per dettato costituzionale, la tutela del patrimonio culturale ha lo scopo, come si è detto, di renderlo fruibile a tutti, essendo secondario l'aspetto economico e del tutto assente la finalità imprenditoriale; ma non lo è anche in considerazione dell'impossibilità oggettiva, sotto il profilo economico e finanziario, di gestire un museo alla stregua di un'impresa, pretendendo di perseguire se non un utile, almeno un pareggio di bilancio, in assenza del finanziamento pubblico; un pareggio non raggiungibile nemmeno prendendo in considerazione unicamente le spese correnti, senza considerare gli investimenti e gli ammortamenti, come sarebbe per un'impresa.
Ma la situazione non è diversa negli altri paesi europei dove, mediamente, le entrate da biglietteria sono sempre inferiori al 10% dei costi (intesi essenzialmente come costi ordinari), che sono pertanto coperti per la massima parte dal sostegno pubblico, sotto forma di trasferimenti di risorse o di assunzione dei costi stessi da parte dell'amministrazione di riferimento [14].
Situazione che accomuna tutte le strutture museali. La tabella che segue riporta i dati relativi all'annualità 2012 di tre dei più importanti musei a livello mondiale e mostra come anch'essi, senza il sostegno pubblico diretto o senza attingere a cospicui fondi di dotazione, non sarebbero in grado di raggiungere il pareggio di bilancio.
Tate Gallery |
MOMA |
Metropolitan N.Y. |
|
Fondo di dotazione |
909,8 milioni di Sterline, di cui 841 restricted |
337,5 milioni di $, di cui 243,7 permanently restricted, 65,8 temporarily restricted, 27,9 unrestricted |
2,18 miliardi di $, di cui 820,8 permanently restricted, 753,4 temporarily restricted, 738,8 unrestricted |
Proventi Totali |
113 milioni di Sterline |
173 milioni di $ |
239 milioni di $ |
Proventi da attività |
67,4 milioni di Sterline |
162 milioni di $ |
239 milioni di $ |
Contributi pubblici |
45,1 milioni di Sterline |
25 milioni di $ |
|
Surplus |
14,5 milioni |
Deficit 17,4 M$ |
153.000 $ |
Fonte: Pirrelli, Marchesoni, cit., Il Sole 24 Ore. |
Ma anche il Louvre, che pure registrava (dati 2007) un surplus di bilancio considerevole (211,3 milioni di euro), anche in virtù del corrispettivo per la licenza di marchio (150 milioni) e la donazione elargita dagli Emirati Arabi Uniti (25 milioni) e che è in grado di programmare un piano di investimenti a medio-lungo termine grazie alla rendita derivante dall'accordo stipulato con Abu Dhabi (250 milioni, a rate quinquennali, dal 2012 al 2027) [15], non può prescindere da un cospicuo contributo statale.
La stessa situazione si registra in Austria, dove la stessa Commissione riporta il fatto che gli otto musei federali di Vienna, che nel 2004 hanno registrato 3.5 milioni di visitatori, ricevevano nello stesso anno 89 milioni di euro di contributi pubblici, a copertura del 75% dei loro costi [16].
Risulta dunque evidente che il principio dell'investitore privato alla gestione delle "infrastrutture culturali", quali musei, siti archeologici, monumenti, biblioteche, ecc., non è applicabile, se non a condizione di lasciar deperire e distogliere dalla fruizione pubblica un patrimonio inestimabile del quale gli Stati membri sono responsabili di fronte a tutta l'umanità.
D'altra parte, lo stesso trattato dispone all'art. 3, par. 3 che l'Unione europea "vigila sulla salvaguardia e sullo sviluppo del patrimonio culturale europeo" e riserva un trattamento particolare alle opere d'arte nell'ambito del Titolo II "Libera circolazione delle merci". In particolare, l'art. 36 prevede una deroga al divieto di restrizioni quantitative all'esportazione e di qualsiasi misura di effetto equivalente stabilita dall'art. 34, quando tale divieto sia giustificato da motivi "di protezione del patrimonio artistico, storico o archeologico nazionale".
Si tratta di una deroga, in nome del supremo interesse di ciascuno Stato a tutelare il proprio patrimonio culturale, ad uno dei principi fondamentali del trattato, su cui si basa la realizzazione stessa del mercato interno. Sarebbe illogico che la disciplina degli aiuti di Stato - che di quei principi costituisce un semplice corollario - ponesse limiti e condizioni alla possibilità degli Stati di tutelare e valorizzare il proprio patrimonio. Sarebbe illogico e contraddittorio che lo Stato potesse garantire la permanenza sul suo territorio di opere d'arte (in deroga ai principi del mercato unico) dovendo poi sottostare a limiti quanto alla loro conservazione.
4. La ricaduta delle attività culturali sulle altre attività economiche
Il secondo approccio della Commissione al problema riguarda le ricadute che il finanziamento pubblico di un'infrastruttura culturale può avere sulle altre attività del territorio. E' innegabile che una ricaduta ci sia: c'è nel caso di un'utenza che sceglie una destinazione in funzione della presenza di un determinato museo; c'è - seppure in misura inferiore - nel caso di un'utenza che privilegia altri aspetti, ma per la quale la presenza di un museo o di uno scavo archeologico (o di un complesso monumentale e/o museale) può comunque costituire un'attrattiva.
Le decisioni della Commissione relative al sostegno pubblico alla realizzazione di siti o di attività museali, riguardando generalmente iniziative di portata ridotta (il museo delle conchiglie, la ricostruzione di un vascello del XVII secolo, l'ecomuseo, il museo dell'artigianato locale, ecc.) [17], hanno sempre riconosciuto la probabile assenza di effetto distorsivo sugli scambi per quanto riguarda la potenziale concorrenza con altre strutture analoghe, soffermandosi invece sulle ricadute che la creazione di un'attrattiva culturale può avere sulle attività economiche del territorio interessato (in particolare il turismo e il commercio). Trattandosi - come si è detto - di casi di limitato richiamo, la valutazione si è peraltro sempre conclusa con un giudizio di compatibilità dell'aiuto. Quale sarebbe stata se si fosse trattato di siti di maggiore importanza?
Per fare un esempio particolarmente significativo delle ricadute che può avere un investimento pubblico sullo sviluppo di una regione, si consideri il caso di Bilbao. Nell'ambito della riqualificazione della città, nel 1997 è stato inaugurato il museo Guggenheim che, "oltre ad essere 'contenitore' di opere, diventa opera sontuosa e scenografica in sé, in grado di attrarre flussi economici autonomamente ed innescare un processo propulsivo di riqualificazione del contesto urbano" [18].
Nel 2011 il museo ha generato 274,3 milioni di euro in termini di PIL, pari allo 0,42% del PIL dei Paesi Baschi e ha mantenuto 5.885 posti di lavoro indiretti (lo 0,57% della forza lavoro della regione), producendo 42,2 milioni di entrate per l'erario basco (lo 0,39%). La spesa complessiva dei visitatori è stata di 311 milioni, di cui 27,9 all'interno del museo e 283,2 all'esterno (principalmente in alberghi e ristoranti), con una spesa giornaliera media per visitatore di 353 euro. L'83% dei visitatori (quasi un milione) dichiara che il museo è il motivo principale della scelta di Bilbao come meta del viaggio [19].
Ora, a prescindere dal fatto che la struttura museale in sé sia in grado di autofinanziarsi - ipotesi non verificabile, ma del tutto improbabile se, nell'ottica dell'investitore privato, si dovessero considerare gli ammortamenti - per quale ragione l'amministrazione spagnola avrebbe dovuto astenersi dal realizzare investimenti capaci di generare un volano così imponente? Non si tratta forse della stessa motivazione che sta alla base della competizione che si svolge a livello mondiale tra città e Paesi per assicurarsi la sede dei Giochi olimpici, dei Campionati mondiali o europei di football, dell'Esposizione Universale, delle regate dell'America's Cup, o dello spirito con cui le municipalità anche di piccoli centri investono per ospitare traguardi di tappa del Tour de France o del Giro d'Italia? Ciascuna di queste manifestazioni, che non riveste un interesse economico di per se stessa, produce una ricaduta sulle attività economiche del territorio più o meno vasto che viene coinvolto.
I musei del Piemonte hanno visto nel 2006 un aumento di 443.033 visitatori rispetto al 2005 (+ 63%, con un + 93,8% del museo di antichità egizie di Torino), a fronte di un calo generalizzato in tutti gli altri musei italiani [20]; ciò come ricaduta dei Giochi olimpici invernali. In questo caso la capacità di attrazione dell'offerta culturale è stata decisamente surclassata da quella dell'avvenimento sportivo. Dovremmo applicare il principio dell'investitore privato ai singoli investimenti realizzati in funzione delle Olimpiadi?
E, d'altra parte, gli Emirati Arabi Uniti stanno effettuando enormi investimenti ad Abu Dhabi incentrati sul museo Guggenheim con lo scopo di farlo diventare uno dei maggiori poli di attrazione culturale e, di conseguenza, turistica, mondiali. Le amministrazioni europee dovrebbero rinunciare a valorizzare il proprio patrimonio in nome di un malinteso principio del libero mercato?
Se vogliamo applicare il principio dell'investitore privato agli interventi pubblici in questo settore - e probabilmente ad altre infrastrutture - il caso degli Emirati Arabi è significativo. Gli investimenti della famiglia dell'Emiro e del gruppo economico che gestisce le risorse del paese - che coincidono con il potere pubblico - vengono effettuati in un'ottica di redditività globale. L'investimento di per sé probabilmente "diseconomico" nel settore culturale viene utilizzato come volano di sviluppo, che porterà enormi vantaggi economici (e occupazionali) nel settore commerciale, turistico, immobiliare: tutti settori nei quali hanno interessi enormi gli stessi investitori. Da un punto di vista anche esclusivamente imprenditoriale globale, dunque, anche l'investimento culturale ha un ritorno: il principio dell'investitore privato (in quel caso privato e pubblico si confondono) è quindi rispettato.
Se spostiamo il ragionamento ad un paese europeo, dove il potere pubblico deve amministrare nell'interesse dei cittadini, l'investimento dello Stato nel campo culturale deve essere visto nel contesto globale delle ricadute che esso ha sul territorio, esattamente come nel caso degli Emirati, con la sola differenza che là sono pochi a beneficiarne, mentre in Europa il vantaggio è diffuso.
E' evidente, dunque, che le valutazioni di un'amministrazione devono travalicare il mero interesse economico relativo alla singola iniziativa e al singolo investimento, avendo come obiettivo l'interesse generale dei cittadini e del territorio. E' in questo spirito che vengono realizzati tanti investimenti di per sé "improduttivi" (fra l'altro di tipo infrastrutturale), che non solo arrecano un miglioramento alla vita quotidiana dei residenti, ma favoriscono lo sviluppo di attività turistiche e commerciali. Il miglioramento della viabilità, un adeguato sistema di parcheggi con facilitazioni (ascensori, scale mobili) per l'accesso ai centri urbani di rilevanza artistica favoriscono la fruizione delle attrattive del territorio, con un'evidente ed auspicabile ricaduta sull'economia locale. Dobbiamo considerare tutto ciò nell'ottica della disciplina degli aiuti di Stato?
Ma dalla cultura il discorso potrebbe spostarsi facilmente all'ambiente e al paesaggio. Come una città d'arte rappresenta un richiamo per il patrimonio culturale che racchiude, così un lago, una baia, una valle alpina, le miniere di sale costituiscono un'attrazione per gli amanti della natura. Favorirne la fruizione a carico del bilancio pubblico, mediante la realizzazione di infrastrutture adeguate (il miglioramento della viabilità, la realizzazione di piazzali di sosta per picnic o per l'osservazione degli animali), l'abbellimento dei siti caratteristici, la salvaguardia del paesaggio al di là di finalità meramente ambientali, potrebbe essere visto con sospetto, per le inevitabili e volute ricadute sul sistema economico.
Non è questa la finalità delle regole del trattato che disciplinano gli aiuti di Stato. Si tratta di norme che hanno lo scopo di impedire che gli Stati membri falsino il libero gioco del mercato, intervenendo con un sostegno ingiustificato alle proprie imprese. Non devono essere interpretate ossessivamente, demonizzando qualsiasi iniziativa che abbia il merito di valorizzare le potenzialità di un territorio - quello europeo - che nella sua storia e nelle sue tradizioni può trovare occasioni di sviluppo e di competitività con il mondo esterno.
Tutto ciò per argomentare la nostra più ferma convinzione che non si possa parlare di aiuti di Stato a proposito del finanziamento delle cosiddette infrastrutture culturali - e, più in generale, della maggior parte delle attività culturali - ed il nostro totale disaccordo rispetto all'approccio della Commissione in materia.
5. Gli orientamenti della politica culturale europea
In effetti, la stessa Commissione considera la cultura ed il patrimonio culturale come un volano di sviluppo per l'economia europea. Nella Comunicazione alle altre Istituzioni europee, adottata in paradossale coincidenza temporale con il regolamento che sancisce il carattere di aiuto di Stato dei finanziamenti alla cultura [21], si sottolinea il fondamentale apporto che può portare il patrimonio culturale all'economia dell'intera Unione. Si riportano dati a dimostrazione delle ricadute su altri settori economici, a cominciare dal turismo; si fa presente che per il 27% dei viaggiatori dell'UE il patrimonio culturale è un fattore essenziale nella scelta di una destinazione: nel 2013 il 52% dei cittadini dell'Unione ha visitato almeno un monumento o un sito storico; il 37% nel proprio paese e il 19% in un paese diverso dal proprio. Secondo la Commissione, "il patrimonio culturale può quindi contribuire a promuovere città e regioni, attraendo talenti e turismo".
Non si vede dunque come un fatto negativo la ricaduta che gli investimenti pubblici in campo culturale possono avere sulle altre attività economiche, ma anzi si suggerisce "un approccio più integrato alla conservazione, alla promozione e alla valorizzazione del patrimonio culturale ... al fine di tener conto ... del suo impatto su altre politiche pubbliche".
Il documento sottolinea l'importanza della digitalizzazione del patrimonio culturale, in quanto ciò moltiplica le possibilità di accesso ad esso e ricorda che la piattaforma culturale Europeana (www.europeana.eu) fornisce attualmente l'accesso a 30 milioni di beni culturali, messi a disposizione da oltre 2.500 organizzazioni. Siamo ben lontani dall'approccio della Direzione generale Concorrenza che porta, tra l'altro, ad affermare, a proposito delle biblioteche pubbliche, che, anche se a prima vista sembra che esse non operino in concorrenza, in realtà "there are other private operators, notably bookshops, which arguably offer similar, substitutable goods" [22]: un'affermazione decisamente surreale.
Si annuncia inoltre che il nuovo programma "Europa creativa" sosterrà la cooperazione transfrontaliera per promuovere la modernizzazione del settore del patrimonio culturale, potenziando ogni attività a livello transnazionale, laddove i censori della Concorrenza paventano gli effetti sul piano transnazionale del sostegno pubblico alle attività culturali, considerando distorsivi degli scambi gli aiuti anche a piccole attività ubicate nelle vicinanze dei confini nazionali, proprio a causa di tale vicinanza.
Si sottolinea la forte ricaduta di ogni iniziativa in campo culturale sul territorio, ricordando che è stato riscontrato un rendimento massimo di 8 euro per ogni euro speso dalle città designate capitali europee della cultura. Quella ricaduta che la Direzione Concorrenza considera perniciosa sul piano della salvaguardia del libero mercato.
E il documento conclude con l'invito ad avvalersi maggiormente del potenziale economico del patrimonio culturale quale catalizzatore per la creatività e la crescita economica, auspicando l'utilizzo del Fondo europeo di sviluppo regionale per stimolare gli investimenti nella cultura e nel patrimonio culturale, "come parte integrante delle strategie di sviluppo economico integrato e sostenibile".
E' difficile riconoscere nei due approcci la medesima Istituzione. Da un lato, correttamente, si sottolinea l'importanza della cultura non solo in termini di conservazione del patrimonio culturale, ma anche come volano di sviluppo; dall'altro si considerano gli investimenti pubblici finalizzati alla sua salvaguarda ed a favorirne la più ampia fruizione come potenziale fonte di distorsione del mercato. Poco importa che, in ultima analisi, gli aiuti siano consentiti, seppure a costo di adempimenti burocratici totalmente inutili quanto pesanti e difficilmente compatibili con il nostro sistema museale. Ciò che resta incomprensibile è la mancanza di un approccio coerente ad un tema così importante. E' l'effetto della latitanza della politica che ha lasciato campo libero ad un sistema tecnocratico che risponde solo a sé stesso. Ci auguriamo che il nuovo Commissario alla concorrenza possa correggere le esasperazioni cui si è giunti con il suo predecessore.
6. L'equivoco del nuovo Regolamento generale di esenzione per categoria
Per la verità, la traduzione in regole concrete, nel regolamento di esenzione per categoria, del principio generale della riferibilità del finanziamento della cultura alla disciplina degli aiuti di Stato ha visto un significativo ridimensionamento rispetto all'impostazione sopra richiamata dei documenti del 2012. Si tratta tuttavia di un approccio contraddittorio, che sarà fonte di inevitabili dubbi interpretativi e di inutili appesantimenti procedurali.
Il 72° considerando del regolamento 651/2014 ammette innanzi tutto che "nel settore della cultura e della conservazione del patrimonio, determinate misure adottate dagli Stati membri possono non costituire aiuti di Stato in quanto non soddisfano tutti i criteri di cui all'articolo 107, paragrafo 1, del trattato, per esempio perché l'attività svolta non è economica o non incide sugli scambi tra Stati membri", aggiungendo poi che, quand'anche siano aiuti di Stato, "non danno generalmente luogo ad una distorsione significativa della concorrenza" e, come mostra la prassi, "hanno effetti limitati sugli scambi". In considerazione dell'importanza che l'art. 167 del trattato riconosce alla promozione della cultura ed alla conservazione del patrimonio artistico, culturale e naturale, determinati aiuti devono dunque essere esentati dall'obbligo di notifica. Sono invece escluse dal regolamento le attività che hanno un carattere prevalentemente commerciale, come la stampa e i periodici, la moda, il design o i videogiochi.
In sostanza - sembra affermare la Commissione - al di fuori dei settori espressamente citati in cui l'aspetto commerciale è prevalente, il finanziamento della cultura non costituisce aiuto di Stato, in quanto non si tratta di attività economica e non viene falsata la concorrenza; nella misura in cui può essere considerato aiuto, il ridotto impatto su un ipotetico mercato è giustificato largamente dall'obiettivo, riconosciuto dal trattato, della salvaguardia del patrimonio e della diversità culturale europea.
Non si tratterebbe dunque di individuare eccezioni all'applicabilità delle regole della concorrenza, ma, al contrario, rispetto ad un'esclusione di fondo, dovrebbero essere individuati casi, peraltro di scarso rilievo, eccezionalmente soggetti alle regole in materia di aiuti di Stato: solo questi dovrebbero essere disciplinati dal regolamento di esenzione, o quanto meno dovrebbero essere individuati criteri idonei a stabilire quando il finanziamento di attività culturali costituisca aiuto di Stato o meno.
E invece l'art. 53 del regolamento 651/2014, che stabilisce le condizioni alle quali un aiuto alla cultura è compatibile (e dunque è aiuto di Stato), riporta un lungo elenco di attività ammissibili, che riproduciamo integralmente, a dimostrazione del fatto che qualsiasi intervento nel settore, agli occhi della Commissione, è potenzialmente aiuto di Stato:
"a) musei, archivi, biblioteche, centri o spazi culturali e artistici, teatri, teatri lirici, sale da concerto, altre organizzazioni del settore dello spettacolo dal vivo, cineteche e altre analoghe infrastrutture, organizzazioni e istituzioni culturali e artistiche;
b) il patrimonio materiale comprendente il patrimonio culturale mobile e immobile e siti archeologici, monumenti, siti ed edifici storici; il patrimonio naturale collegato direttamente al patrimonio culturale o riconosciuto formalmente come patrimonio naturale o culturale dalle autorità pubbliche competenti di uno Stato membro;
c) il patrimonio immateriale in tutte le sue forme, compresi i costumi e l'artigianato del folclore tradizionale;
d) eventi artistici o culturali, spettacoli, festival, mostre e altre attività culturali analoghe;
e) attività di educazione culturale e artistica e sensibilizzazione sull'importanza della tutela e promozione della diversità delle espressioni culturali tramite programmi educativi e di sensibilizzazione del pubblico, compreso mediante l'uso delle nuove tecnologie;
f) scrittura, editing, produzione, distribuzione, digitalizzazione e pubblicazione di musica e opere letterarie, comprese le traduzioni."
Non manca nulla. Tutto è potenzialmente aiuto di Stato, senza distinzione tra infrastruttura ed evento, fra contenitore e contenuto, fra iniziativa di portata internazionale ed evento locale, fra mostra a fini commerciali ed educazione culturale. Sembra che, non sapendo - o non volendo - distinguere l'aiuto dal non aiuto, si sia preferito lasciare alle Autorità nazionali il compito e la responsabilità di stabilire di volta in volta se si tratti o meno di aiuti di Stato. Fosse per noi il criterio sarebbe semplice: non è mai aiuto di Stato, salvo dimostrazione contraria; ma sappiamo che la Commissione è propensa a ritenere il contrario e per questa ragione, in linea generale, è portata a preferire l'aiuto compatibile al non aiuto.
Questa generalizzazione potrebbe apparire, peraltro, un'apertura. Dato che - come vedremo - viene consentita la copertura totale dei costi ammissibili, la differenza tra aiuto compatibile e non aiuto sembrerebbe, nella sostanza, inesistente. In realtà non è così. Innanzi tutto è una questione di principio; in secondo luogo, non va sottovalutato il rischio che, una volta qualificati gli interventi in campo culturale come aiuti di Stato, si possano poi applicare criteri più restrittivi per la quantificazione del finanziamento ammissibile; in terzo luogo, la mancanza di criteri distintivi tra le due categorie di intervento mette le autorità nazionali a rischio di contestazione delle proprie scelte (con inevitabile cautela da parte delle amministrazioni); infine - ed è l'aspetto probabilmente più rilevante - un aiuto compatibile impone comunque il rispetto di condizioni non sempre conciliabili con la natura dell'attività ed adempimenti procedurali inutilmente pesanti per un settore in cui gli interventi riguardano di frequente attività di piccolissimo respiro ed il sostegno alla loro realizzazione proviene da fonti diverse e spesso occasionali.
Ci limiteremo qui ad alcune considerazioni che sottolineano gli inutili problemi che solleva una concezione distorta del mercato ed una visione miope del ruolo dell'autorità pubblica nel campo della cultura.
La compatibilità di un aiuto non esime, come abbiamo ricordato, dalla verifica dell'esistenza di determinate condizioni. Una fra queste è che l'impresa beneficiaria degli aiuti non sia "in difficoltà". Ora, la definizione di stato di difficoltà, essendo pensata in funzione di un'impresa "tradizionale", è difficilmente adattabile alla maggior parte dei soggetti che svolgono attività in campo culturale, in particolare quelle prese in considerazione dall'art. 53. E' inutile, in questa sede, entrare in dettagli tecnici, ma il problema, sotto il profilo gestionale, è tutt'altro che irrilevante.
Inoltre, il regolamento considera costi ammissibili sia le spese d'investimento che quelle di funzionamento, autorizzando anche la totale copertura di tali costi, a condizione che siano evitate sovracompensazioni. Ciò può essere garantito, nel primo caso deducendo preventivamente il risultato operativo dalle spese ammissibili; nel secondo, coprendo le perdite d'esercizio, calcolate ex ante, sulla base di proiezioni ragionevoli o mediante un meccanismo di recupero.
In alternativa, per importi che non superano un milione di euro, l'aiuto può coprire l'80% dei costi ammissibili. Si ammette, in sostanza, che nell'ambito della cultura un autofinanziamento del 20% rispetto non solo alle spese di investimento, ma anche ai costi di gestione (compresi, naturalmente, personale, utenze e tutte le spese di funzionamento), può essere ritenuto un risultato economico adeguato. Quale imprenditore prenderebbe in considerazione un investimento che esclude a priori qualsiasi possibilità di avvicinarsi, anche nel tempo, al pareggio di bilancio? Come si può pensare di applicare il principio dell'investitore privato ad investimenti di questo tipo?
Ma, tornando al criterio standard, se si autorizza la copertura degli interi costi, per quale ragione imporre meccanismi di valutazione non compatibili con la struttura e l'organizzazione del sistema museale italiano (ma anche di altri paesi), o con le modalità di finanziamento di gran parte delle attività culturali sia di grande respiro che di interesse locale, che si basano sul finanziamento da parte di una pluralità di soggetti pubblici e di sponsor privati, che accordano il loro sostegno, rendendone nota l'entità, in momenti diversi e al di fuori di una reale programmazione?
E come si calcolerà l'ammortamento degli investimenti? Come verrà ripartito il costo fra gli esercizi di vita utile del bene? Come si determina la vita utile del Colosseo restaurato (in anni, secoli, o più)? Si devono considerare, ricorrendo all'analogia, il padiglione che racchiude l'Ara Pacis come un edificio industriale e un'opera d'arte come un macchinario? Tutti problemi originati dall'esigenza di evitare sovracompensazioni secondo il metodo indicato nel regolamento.
Ma poi, sovracompensazione rispetto a cosa? Se un museo ricevesse un finanziamento pubblico superiore a quanto risultasse dal metodo di calcolo sopra schematizzato, si presume che l'importo "in eccedenza" verrebbe utilizzato per aumentare l'appetibilità del museo stesso o migliorarne la fruizione: per coprire cioè spese comunque ammissibili. Ma allora dove starebbe la sovracompensazione?
Del resto, il fatto stesso che non si pongano limiti all'ammissibilità delle spese, che si possa finanziare totalmente la realizzazione di un museo, l'acquisto di opere d'arte che lo rendano più interessante, il loro restauro, un migliore allestimento, una più efficace dotazione tecnologica, denota un approccio di per sé sostanzialmente diverso - per non dire opposto - rispetto a quello che caratterizza la valutazione degli aiuti ad un'impresa. Ma allora perché voler applicare principi che si riferiscono al mercato ad un settore al quale tali principi, per implicita ammissione della Commissione, non si adattano [23], al punto di doverne annullare gli effetti con regole che contraddicono l'enunciato di partenza, ottenendo come unico risultato un inutile appesantimento dell'attività dell'amministrazione?
Note
[*] Il presente contributo riprende in parte le riflessioni del terzo capitolo del volume C.E. Baldi, Se questo è mercato. Gli aiuti di Stato in un'Europa tecnocratica, Napoli, 2014.
[1] Regolamento (Ue) n. 651/2014 della Commissione del 17 giugno 2014 che dichiara alcune categorie di aiuti compatibili con il mercato interno in applicazione degli articoli 107 e 108 del trattato (G.U. L 187 del 26.6.2014, pag. 1).
[2] Ares (2012) 834142-01/08/2012.
[3] Paradossalmente tutti i casi notificati riguardavano musei di rilevanza squisitamente locale. Nessuno Stato membro ha mai notificato singoli finanziamenti dispensati a grandi musei, non ritenendo - a nostro avviso correttamente - che si tratti di aiuti di Stato. Le notifiche sono state proposte, generalmente, da autorità locali timorose o dai funzionari responsabili degli interventi, desiderosi di essere sollevati da ogni responsabilità. Notifiche del sistema nazionale di finanziamento delle attività culturali sono state inoltrate recentemente da Lettonia e Germania, per anticipare ed evitare gli inconvenienti che sarebbero derivati dall'imminente adozione del regolamento di esenzione. Precauzione che non ha avuto l'Italia.
[4] Provv. n. 14659 del 25 agosto 2005, C 7221 - Michele Amari/CIGA, in Boll. N. 32-23-34/05.
[5] Museo che registra circa un milione di visitatori l'anno: non molti meno della Galleria degli Uffizi.
[6] Picasso. Capolavori dal Museo Nazionale Picasso di Parigi. Milano Palazzo Reale dal 20 settembre 2012 al 27 gennaio 2013. La mostra ha registrato oltre 500.000 visitatori: numero analogo a quello dei visitatori annuali del Museo Egizio di Torino, o del Cenacolo Vinciano di Milano, o della Galleria Borghese a Roma; la metà di quelli del Museo Picasso a Parigi.
[7] Decisione della Commissione dell'8 maggio 2012 relativa all'aiuto di Stato SA.22668 (GUUE L 85 del 23.3.2013, pag. 1 ss.).
[8] Fonte: Banca d'Italia.
[9] Fonte: Centro Studi Touring Club Italiano - Dossier Musei 2009.
[10] Fonte: M. Pirrelli e M.A. Marchesini (ArtEconomy24- Il Sole 24 Ore), Turismo e patrimonio artistico, XIII Conferenza Ciset-Banca d'Italia, Venezia 17/04/2013.
[11] Idem.
[12] Fonte: Le Figaro, samedi 15 - dimanche 16 septembre 2012.
[13] Fonte: Ministero per i Beni e le Attività culturali.
[14] Fonte: EGMUS - European group on museum statistics, a guide to european museum statistics, Berlin, december 2004.
[15] I dati sono tratti da M. Pirrelli, M.A. Marchesoni, cit.
[16] State aid NN50/2007 (ex CP206/2005) - Austria indemnity scheme for federal museums. Decisione del 10 ottobre 2007.
[17] Si vedano, tra gli altri, I casi: N 216/2005 - Geocenter Møns Klint (Denmark), adopted on 26.08.2005, OJ C/307/2005 of 05.12.2005, pag. 4; N 471/2008 - Lipica Horses (Slovenia), adopted on 11.02.2009, OJ C 25 of 02.02.2010, pag. 7; N 377/2007.
[18] E.G. Trafiletti, I Grandi Eventi: il caso spagnolo - Laboratorio TeMA - territorio mobilità e ambiente dipartimento di Pianificazione e Scienza del Territorio università degli studi di Napoli Federico II.
[19] Fonte: M. Pirrelli, M.A. Marchesoni, cit.
[20] Fonte: Centro studi Touring club italiano - Dossier musei 2009.
[21] Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni: Verso un approccio integrato al patrimonio culturale per l'Europa - COM(2014) 477 final del 22.7.2014.
[22] State aid No N 293/2008 - Hungary. Aid for multifunctional community cultural centres, museums, public libraries.
[23] Si pensi, per fare un ultimo esempio, al caso del Museo archeologico di Reggio Calabria che ospita i Bronzi di Riace: a fronte di un investimento di 32 milioni, nei primi quattro mesi dalla riapertura si sono incassati mediamente 840 euro al giorno (P. Conti, Il Corriere della Sera del 1° agosto 2014).