Editoriale
"Valore cultura" e strumenti: obiettivi chiari, strumenti a rischio
"Valore cultura" and Instruments: Clear Objectives, Instruments at Risk
The Director of this Journal highlights the imbalance between the objectives and legal instruments proposed by most recent legislative. Waiting for another reform of the Code...
Dopo un lungo periodo di silenzio, durante il quale il centro del sistema del patrimonio culturale nazionale ha impiegato la maggior parte delle proprie energie a contrastare, non sempre con successo ma sempre in situazioni difficilissime, le erosioni o i veri e propri espropri di risorse e talvolta anche di ruolo posti in essere da altre autorità centrali, e in particolare dal Mef, il varo del Governo Letta e l'insediamento del ministro Bray registrano un inequivocabile cambio di passo.
L'esplicita attenzione riservata al settore nel programma del nuovo esecutivo e del suo Presidente hanno portato già ad alcuni provvedimenti ormai definitivi, come il d.l. 91/2013 convertito con la legge 112/2013 (c.d. "valore cultura"), mentre altri e di ben maggiore portata, come il riordino organizzativo del Mibact e la revisione del codice dei beni culturali, sono in avanzata (a quanto si dice) fase di elaborazione.
Il tutto, lungo le linee direttrici tracciate dalla commissione speciale presieduta da Marco D'Alberti, la cui relazione finale è stata presentata il 31 ottobre 2013.
La Rivista in questo numero offre una prima lettura del decreto "valore cultura", peraltro neppure completa trattandosi di 16 articoli molto eterogenei tra loro per oggetto e per ampiezza dell'intervento, dei quali si esamineranno solo alcune parti, ma il lettore è avvertito che si tratta del primo tratto di una strada al quale, se non interverranno fatti imprevedibili, in tempo ravvicinato potrebbero seguirne altri assai più significativi.
Si tratta dunque di segnali di un indirizzo che nelle condizioni attuali, tuttora molto difficili, va valutato positivamente, prima e anche oltre i profili di merito e gli aspetti problematici di volta in volta segnalati.
Qui preme rilevare che la scelta dei singoli elementi più urgenti e critici su cui operare (da Pompei e dall'inventariazione del patrimonio culturale al sostegno materiale e fiscale delle imprese operanti nel settore culturale, alla semplificazione di procedure e adempimenti amministrativi) e il carattere per lo più specifico dell'intervento richiedono valutazioni circostanziate alle quali qui è doveroso rinviare. Senza omettere l'apprezzamento per la misura, amaramente resasi necessaria, del trasferimento alle direzioni regionali per i beni culturali e paesaggistici della regolazione e degli interventi di tutela del decoro dei complessi monumentali da attività anche ambulanti improprie (chi non è inorridito ogni volta per i centurioni al Foro o la baracchina di chincaglieria da decenni davanti al Pantheon!) quasi mai contrastati dagli enti locali competenti.
Per venire a qualche impressione di insieme ed escluso l'atteggiamento di ridurre il tutto a prevalenti motivazioni di "immagine", non solo perché così non è ma perché anche il segnale di un atteggiamento diverso e più attivo è rilevante, sempre e in particolare in questo settore. E' indubbio però che le riserve evidenziate dall'analisi di Girolamo Sciullo e dalla testimonianza di Giuseppe Gherpelli su Pompei e sulla congruità delle soluzioni adottate non sono trascurabili, o quelle di Carla Barbati sullo spettacolo, così come l'interpretazione nello stesso tempo riduttiva (come mezzi) e frantumata su più ambiti (come fuoco di azione) del progetto sulla inventariazione sollevano molti dubbi (e, ahimé, qualche certezza). Peraltro puntualmente confermati, dopo il plauso generale al momento della adozione del decreto, già dai primi passi operativi, come avvenuto con il dibattito che ha preceduto e accompagnato la nomina come DG del generale dei carabinieri Giovanni Nistri (peraltro già titolare del Comando per la Tutela del patrimonio culturale) o le preoccupate reazioni della stampa più avvertita (Gramellini) sulla evidente inadeguatezza delle condizioni di ingaggio dei "500 giovani per la cultura", o la preoccupazione per il governo delle liberalità dei privati in arrivo in questo settore.
Tre delle derive più critiche, vale a dire la continua ricentralizzazione di funzioni, la marginale attenzione riservata alle relazioni con il privato cui corrisponde in senso opposto il sovraccarico di cautela riservato al rispetto dello stato di fatto e delle aspettative (più o meno legittime) dei diversi apparati interni e dei loro vertici, mostrano ancora una volta il loro peso. Un peso che l'approccio degli estensori di questi provvedimenti rischia di enfatizzare.
Da questo, la rilevanza che merita un profilo cui da ultimo vorremmo accennare e che di per sé potrebbe essere scambiato per mera preoccupazione formale.
Quale è lo stato dell'arte dei provvedimenti in corso e quale la loro legittimazione?
Il testo della Commissione D'Alberti, un lavoro serio con molti spunti interessanti e molti problemi, è di fatto conosciuto perché presentato alla stampa e perché ormai nelle mani di tutti, ma non risulta ancora "licenziato" dal Ministro, o dal Ministero o che altro.
Niente di male, si dirà, trattandosi come si è detto di un testo di valore assai utile sia per la documentazione allegata che per il dibattito che merita.
Ma non è così, perché avvalendosi di qualcosa di più di una sorta di delegificazione urbi et orbi operata in sede di c.d. spending review (art. 2, comma 5, d.l. 95/2012), di più perché oltre alla legge si è anche evitata la forma del d.p.r. legittimando quella più fluida - e meno controllata - del Dpcm, si sta ponendo mano alla quinta riforma del ministero per linee interne usando quale principale parametro proprio quello delle sintetiche indicazioni fornite dalla Commissione D'Alberti (peraltro, come si è detto, ancora nel limbo di un lavoro licenziato dal gruppo di lavoro ma non fatto proprio dal committente istituzionale).
Il discorso finisce qui, non perché non ci sia altro (che c'è: un gruppo di lavoro che sta lavorando alla revisione del Codice dei Beni culturali), ma perché di questa ultima attività si sa ancor meno salvo l'idea che sembra coltivata da qualcuno di appoggiare il prodotto finito ad una qualche mini-delega conferita con scadenza ad horas in modo da raccogliere quanto nel frattempo predisposto nella forma del decreto delegato.
E' vero che viviamo in tempi difficili e in condizioni di straordinaria precarietà. Ma chi ha concepito o anche semplicemente sfiorato queste ipotesi sottovaluta la portata del vulnus inferto alle basi dell'ordinamento e al sistema delle fonti, con tutte le implicazioni sul piano della legittimità di quanto prodotto e del deficit di legittimazione in termini di trasparenza e di consenso che finirebbe per prodursi.
Ma c'è di più: non si rende conto che per questa strada si rischia di scivolare dalla sindrome dell'accerchiamento ai camminamenti sotterranei, ove i meno nobili di coloro che questi interventi dovrebbero innovare o che addirittura dovrebbero assicurarne l'attuazione da sempre hanno trasformato le migliori intenzioni dei riformatori di turno nelle micro dinamiche della più totale conservazione dello status quo.
Ma sono solo voci, ne siamo sicuri. E certamente saranno smentite dai fatti.