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Terremoto, beni culturali e paesaggio

Paesaggio culturale e sicurezza

di Enzo Siviero

Cultural landscape and safety
This paper is finalized to explain how Italy is not enough conscious about his cultural role. Many situations are shown were laws are not applied and as a result cultural heritage is not adequately preserved.On the other hand in the Universities very often decisions are taken in order to preserve individual "power" in spite of general attitude to more appropriate universal interest. Same for some governmental actions were clearly the strategy is less or even not present. The role of teaching for the future in terms of Cultural Landscape and General Safety is emphasized for the benefit of all.

È nota la vis polemica di Bruno Zanardi che coglie ogni occasione per spendersi a favore di una cultura del fare bene senza troppo dilungarsi sulle diatribe teoriche delle varie scuole di pensiero che tanti ritardi hanno prodotto (e continuano a produrre) a fronte di necessità impellenti di interventi "di somma urgenza" spesso impantanati tra i vari soggetti "decisori".

Ebbene, cogliendo i molti spunti che Zanardi ci consegna, sui quali io stesso sono in gran parte concorde, ho voluto raccogliere a mia volta talune provocazioni, e aggiungerne altre, per aprire un dialogo sul campo e trovare possibili convergenze se non ideologiche, almeno operative di minima. È vero che spesso veti incrociati impediscono il fare. Come è vero che non sempre i soggetti responsabili della tutela hanno (ma non per colpa loro sia chiaro) la competenza specifica per dialogare o far dialogare i vari attori.

Nelle riflessioni che seguono ho cercato di tratteggiare alcuni aspetti certo non edificanti che caratterizzano i bizantinismi del nostro paese. Ma resta un fatto ormai acclarato. Se non si opera cercando di comprendere le ragioni degli altri per far valere le proprie, non c'è scampo. La politica del rimandare ci sta portando al collasso! Solo lavorando insieme ciascuno per le proprie competenze saremo in grado di dare ai cittadini risposte adeguate! A ciò si aggiunge quanto tutti richiedono a gran voce: meglio prevenire che curare. Così come è necessario un ripensamento collettivo che superi i personalismi asfittici e faccia decollare la cultura della conoscenza finalizzata agli interventi, altrimenti ahimè continueremo solo a discutere del sesso degli angeli mentre il Paese va in rovina.

Da sempre l'Italia subisce una serie di eventi catastrofici "naturali" quali terremoti, esondazioni, eventi alluvionali, dissesti idrogeologici, e così via. A questi si sono aggiunti soprattutto negli ultimi decenni, ad opera dell'uomo, eventi "innaturali", cementificazioni selvagge, disboscamento delle aree montane, abbandono del suolo agricolo o di pratiche tradizionali non più redditizie, vere e proprie deturpazioni, esse stesse per di più generatrici di dissesti, in modo diretto e indiretto, che non hanno eguali nella storia del nostro Paese.

Eppure nel passato, anche recente, l'uomo, pur con scarsità di mezzi tecnologici, ha saputo ben governare il territorio con la sua intelligente lungimiranza. Di necessità virtù, la sua azione si è sviluppata saggiamente per preservare e prevenire i luoghi del proprio vivere e della propria storia ed identità. Ne sono esempi straordinari il Delta del Pò, le colline del Prosecco, le vallate del Chianti, i Muretti delle Cinqueterre, le Risaie del Vercellese, per non parlare delle varie bonifiche venete e laziali, ma anche di alcune meravigliose riserve naturali dell'Italia insulare e così via, in un elenco ben più ampio di quanto si possa immaginare. E non può sfuggire che tutto ciò si riferisce a trasformazioni di tipo agrario o ad esse collegabili. D'altro canto, le azioni odierne non sempre sono state condotte con la stessa consapevolezza frutto di sedimentata esperienza, ma anche di una capacità di leggere ed interpretare i luoghi con l'umiltà di chi usa ad un tempo ragione e cuore.

Le edificazioni improprie, spesso abusive, ma anche concesse in zone palesemente a rischio idrogeologico, o addirittura in frana, non sono state infrequenti. Per non dire degli sfregi paesaggistici che vanno dall'edilizia minore di bassissima qualità, ai ben noti ecomostri sui quali si sono scagliati, perlopiù inascoltati, moltissimi cittadini. Oppure del continuo e permanente mancato rispetto delle distanze minime di costruzione che oltre ad essere parametro di sopravvivenza e di buon senso è regola a livello di codice civile e penale sistematicamente disattesa. Ed ancora, la scarsa propensione, tutta italiana, a considerare il sottosuolo una risorsa disponibile ed una opportunità di miglioramento della qualità della vita. In effetti, ad ogni piè sospinto si alzano sistematicamente le lamentele e si reclamano interventi risolutori.

Ma più in generale, il concetto che è più conveniente prevenire che curare, non ha trovato quel riscontro politico che sembrerebbe più che logico, e anche capace di dare sicurezza anziché toglierla, separando il rischio dalla paura.

Eppure mai si dovrebbe dimenticare che viviamo in un insieme di luoghi che costituiscono il più importante baricentro culturale del mondo occidentale. In tal senso si dovrebbe operare con quella sensibilità, e delicatezza, che caratterizza chiunque abbia una formazione, benché minima, di storia dell'architettura e dell'arte (ma sono poi così disgiunte almeno sul piano ideale?). Appare utile ricordare che alcuni tentativi dell'ANISA - l'Associazione nazionale degli insegnanti di storia dell'arte - di far inserire questi insegnamenti anche negli istituti tecnici fallirono miseramente, come analoga sorte toccò d'altronde agli insegnamenti musicali sistematicamente negletti nel paese del bel canto!

Al di là di queste divagazioni che dovrebbero, peraltro, trovare orecchie sensibili tra i responsabili della formazione a livello ministeriale, e che certo non attengono a chi scrive, val la pena di soffermarsi sul più ampio tema che potremmo sintetizzare in uno slogan: "paesaggio culturale e sicurezza territoriale". Si tratta forse più di un atteggiamento di buon senso ex ante che certo neppure sembra sfiorare chi governa la cosa pubblica, se non per improbabili dichiarazioni di intenti ex post che mal si accompagnano alla realtà degli eventi. Memoria corta si dice fin troppo spesso! Più propriamente, insensibilità, quando non vera e propria incultura, colpevole insipienza, o addirittura malaffare. Di certo, azioni perseguite con poca lungimiranza e scarsissimo interesse per il bene pubblico e la nostra storia millenaria.

Qualche ulteriore considerazione tuttavia merita di essere espressa.

Parliamo innanzitutto di sismica! Nel 1908 Messina e Reggio Calabria subirono l'immane tragedia che tutti ricordano. Immediatamente seguirono fior di studi per orientare le nuove edificazioni verso criteri antisismici anche relativamente semplici e poco costosi. Ma non risulta che, salvo pochi casi, si sia andati al di là della enunciazione di principi. Bisogna attendere la legge 2/2/1974, n. 64, per disporre di uno strumento normativo specificamente orientato alla tematica delle costruzioni in zona sismica. È, questo, l'inizio di un nuovo percorso culturale che, dal terremoto del Friuli negli anni '70 ai più recenti luttuosi eventi delle Marche, dell'Abruzzo e dell'Emilia-Romagna, ahimè ripetutisi anche in molte altre parti tra nord, centro e sud, ha visto il fiorire di studi e ricerche sul tema che in pochi anni hanno portato l'Italia all'avanguardia nel mondo.

Tuttavia, ai risultati eccezionali raggiunti sul piano teorico, non hanno fatto riscontro interventi sistematici, in quanto poco diffusi e sentiti sul piano applicativo, se non per talune discutibili iniziative oserei dire mediatiche e comunque molto limitate rispetto alle vere necessità del Paese. Va ricordato che l'Italia è storicamente tutta sismica da sempre. La relativa documentazione archivistica tra cronaca e storia non è, né era, ignota agli studiosi. Ma ovviamente è stata per lo più ignorata dai soggetti decisori poco inclini all'ascolto di fastidiose cassandre. In effetti, proprio a causa di una evidenza ormai acclarata del susseguirsi dei disastri e delle relative tragedie con perdite di vite umane, finalmente la normativa sismica è stata estesa all'intero territorio nazionale. Interessante è notare che durante la classificazione delle varie zone a rischio, sembra che molti sindaci abbiano spinto affinché il loro Comune non fosse dichiarato sismico. Ciò per motivazioni di interesse causate dal timore di conseguenze negative sul piano dell'attrazione turistica. Sic!

Vediamo ora come hanno reagito le Università italiane, almeno per i corsi di laurea in ingegneria civile ed architettura. Sembrerebbe logico pensare che in un Paese come il nostro, chiunque sia abilitato a progettare e realizzare le costruzioni debba disporre della necessaria perizia e conoscenza.

Ma, purtroppo, così non è! Gli aspetti formali e le procedure prevalgono di gran lunga sugli aspetti sostanziali. L'esame di stato abilita alla professione in senso lato. Ciò basta e avanza! La competenza è acclarata ope legis! Addirittura 10 anni di iscrizione all'albo professionale sono il minimo richiesto per poter essere titolati a collaudare staticamente un'opera. Anzianità fa grado e competenza! No comment!

Ma torniamo a noi! I numerosi tentativi di rendere obbligatori gli insegnamenti di costruzioni in zona sismica sono andati pressoché a vuoto. In particolare, nelle scuole di architettura è stata vista con fastidio questa intrusione ingegneristica in un percorso progettuale monopolizzato da altre discipline. Peraltro, la conflittualità quasi permanente tra docenti di composizione architettonica e docenti di restauro, con questi ultimi pressoché sistematicamente perdenti data la loro esiguità numerica, per non dire della marginalizzazione delle tecniche e delle tecnologie, salvo poche lodevoli eccezioni, ha portato ad una pericolosa deriva beax arts con un evidente allontanamento dalla realtà del costruire. Eppure, storicamente costruire è sempre stata considerata un'Arte. Rondelet docet...

Né miglior sorte è toccata agli ingegneri strutturisti ai quali è stato talvolta addirittura negato il diritto di cittadinanza, se non come presenze ancillari, rispetto alle ben più nobili discipline del progetto architettonico. In questo tuttavia, molte colpe hanno anche taluni docenti di Scienza e Tecnica delle Costruzioni, i quali, poco inclini ad uscire dalla Turris Eburnea della loro scientificità, insistendo esageratamente sull'impianto teorico del loro sapere, non riescono a trasmettere agli allievi la realtà del cantiere e della pratica costruttiva. Certo dimenticando che oltre al sapere, nostro compito precipuo in questi corsi di laurea è orientare gli allievi anche verso il saper fare, e il saper far fare. Certo gli insegnamenti anche recenti di Torroja, Nervi, Salvadori, Giuffrè, Benvenuto, Di Pasquale, Pizzetti, giusto per citarne alcuni ahimè poco noti agli stessi ingegneri, sembrano essere caduti quasi nel vuoto... Come uscirne?

Rivisitando obbligatoriamente i percorsi formativi, imponendo la compresenza di un sapere costruttivo volto alla prevenzione del rischio sismico, sia per il nuovo, sia ancor di più per l'esistente da restaurare. Ben inteso, tutto ciò dovrebbe avvenire in una piena integrazione disciplinare in cui tutti possano dialogare con pari dignità! Ciò nell'interesse degli studenti e non per far bella mostra del proprio sapere, superando i personalismi ed evitando atteggiamenti da primedonne. Io spero ancora che ciò possa avvenire con quello spirito di servizio che ciascun cittadino, e a maggior ragione il docente universitario, dovrebbe dimostrare nel proprio agire quotidiano.

Analoghe considerazioni possono esprimersi anche per il settore della difesa idrogeologica e della salvaguardia dei corpi idrici. Alla evoluzione normativa del settore, avviata in Italia con le leggi 183/89 e 36/94 (c.d. legge Galli) in coerenza con gli indirizzi comunitari, non sono conseguite azioni risolutive tangibili per le aree maggiormente critiche, quelle del mezzogiorno. Le cosiddette regioni ad obiettivo convergenza bisognose di interventi di recupero paesaggistico (si pensi ai lungomare caratteristici oggi deturpati ed alle splendide coste oggi inquinate), spesso carenti dei servizi e delle infrastrutture essenziali (es. assenza di reti per lo smaltimento delle acque reflue e di depuratori) nonostante siano oggetto di specifiche linee di finanziamento pubblico da parte delle politiche di coesione nazionale. Fondi spesso inutilizzati o utilizzati (sprecati) senza raggiungere gli obiettivi prefissati, anche a causa di censurabili atteggiamenti di tipo ideologico e/o politico distanti da percorsi che hanno natura principalmente tecnica e che, spesso, necessitano, di una visione programmatoria di ampio respiro e dello sviluppo di idonei modelli di cooperazione tra i soggetti coinvolti.

Qui si apre un'altra questione. Il rapporto tra Università, Pubblica Amministrazione, mondo delle Imprese e mondo professionale. Dichiarato come necessario da molti nell'interesse reciproco e praticamente negato quando non addirittura impedito per una cattiva interpretazione dei dispositivi di legge riferibili alle regolamentazioni europee. Tant'è che oggigiorno stipulare una convenzione tra Enti Pubblici e Università è, nel mondo delle costruzioni, ma non solo, diventato un percorso ad ostacoli. Purtroppo ulteriormente contrastato dagli Ordini Professionali spinti a difendere posizioni, anacronistiche e spesso oggettivamente indifendibili, dei loro iscritti.

Una miopia, questa, tipicamente italiana che sembra incapace di guardare al di là del proprio orizzonte personale e saper vedere quanto il mondo richieda oggi una sana integrazione tra i vari soggetti coinvolti a vario titolo ove ciascuno può dare il proprio contributo di sapere e di esperienza. Questa dovrebbe essere la regola per un paese moderno anziché l'eccezione, a rischio di continui ricorsi alla Magistratura.

L'apporto disciplinare in questi campi dovrebbe essere ampliato a docenze esterne di varia provenienza (i cosiddetti docenti tecnico-professionali già presenti in varie forme, ad esempio, nel campo medico-infermieristico). In tal modo sarebbe facilitata la possibilità di agire proficuamente sul campo mediante apposite convenzioni tra gli enti interessati, con reciproco evidente vantaggio. Basti pensare alla crescita culturale dei funzionari, ad una migliore comprensione della realtà non accademica da parte dei docenti e alla possibilità per gli stessi studenti di toccare con mano gli esiti operativi dei loro studi. Tutto ciò dovrebbe essere facilitato o meglio ancora reso obbligatorio per le sinergie di sistema. Mentre l'efficienza complessiva sarebbe di ben altro livello, con notevoli risparmi in termini economici, temporali, e di avanzamento dello stesso sapere costruttivo.

Al contrario, negli ultimi anni il sistema è imploso. Non si può peraltro sottacere il fatto che l'emergenza sismica sembra avere esaltato un aspetto negativo già persistente e preesistente: l'eccessiva burocratizzazione delle competenze a scapito del processo decisionale ridotto al lumicino, stretto tra Sovrintendenze locali e Regionali non sempre all'altezza, Provveditorati alle Opere Pubbliche e potere dell'autorità amministrativa locale - comuni province e regioni - sempre esercitato al massimo da parte del singolo soggetto ma senza una vera e propria strategia.

A rendere l'insieme più complesso, ed in parte colpevole indiretto dello stato di trascuratezza del nostro patrimonio culturale anche l'interazione non semplice con le diocesi, sovente proprietarie di immobili di grande rilevanza ma gelose custodi della propria autonomia gestionale e poco inclini al dialogo con i soggetti preposti alla tutela. A puro titolo di esempio, a l'Aquila, pur in presenza di cospicui finanziamenti, ben poco si è potuto fare rispetto alle giuste attese e alle relative possibilità, anche a causa di pesanti condizionamenti procedurali per non parlare di gelosie politiche e/o professionali che hanno talvolta posto palesi veti eticamente inaccettabili in quanto contrari all'interesse dei cittadini. Un quadro desolante che tuttavia, a ben vedere, sembra dare oggi qualche timido segno di cambiamento, quanto meno per una diversa lungimiranza dei Consigli Nazionali degli Ingegneri e degli Architetti, e le pressanti istanze delle Università, e con diversa attenzione da parte degli enti pubblici.

Resta ancora, tuttavia irrisolto, il nodo procedurale per l'eccessivo frazionamento delle relative responsabilità. Della serie: è sempre colpa degli altri! Ecco un tema da affrontare politicamente in modo serio e determinato! Ma temo che ancora una volta gli ostacoli reali o supposti rendano molto difficile il raggiungimento di obbiettivi di interesse pubblico.

Anche nel settore idrico, miopie procedurali minano la concreta possibilità di utilizzare il cospicuo finanziamento stanziato per le aree del Sud (per alcune di esse il più corposo dell'ultimo ventennio), quale volàno ed incentivo per favorire il decollo di un sistema complesso volto a raggiungere la salvaguardia dei corpi idrici naturali, pregiudicando il percorso e le prospettive di sviluppo economico, turistico, sociale, culturale, imprenditoriale e di cresciuta occupazionale cui sarebbero coinvolte le aree oggetto di intervento e l'efficacia della spesa pubblica, con il concreto rischio di dover pagare pesanti sanzioni comunitarie derivanti dalla mancata risoluzione di gravi procedure di pre-contenzioso e contenzioso comunitario. Dopo il danno oggettivo, la beffa acclarata, con l'inutile ricerca dei colpevoli, e la (eventuale) punizione dei non colpevoli.

In analogia, anche i settori formativi universitari del design sono attraversati dalla stessa contraddizione sulla docenza già evidenziata per tutti quegli insegnamenti connessi alla progettazione. Da un lato, ai fini del computo dei requisiti della docenza necessari, così come definiti nel decreto ministeriale 26 luglio 2007 e successivi, impongono per l'attivazione dei corsi per le classi L-4 Disegno industriale e LM-12 Design una dotazione minima di docenti strutturati.

Tale limite, per corsi di studio che registrano i livelli più elevati di attrattività nazionale ed internazionale ed i livelli occupazionali più elevati, e che richiedono il contributo di qualificati docenti a contratto provenienti dal mondo delle professioni, al fine di assicurare il collegamento con il contesto produttivo e l'ingresso nella formazione delle esperienze più innovative, rischiano fortemente di essere cancellati dal panorama dell'offerta formativa universitaria nazionale.

E tutto ciò, in un settore qual è quello del design italiano la cui qualità ci è (chissà per quanto ancora) riconosciuta a livello internazionale e che, insieme al paesaggio, all'industria legata alla fruizione del patrimonio dei beni culturali e alla loro produzione nell'ambito delle arti performative e della cultura in generale, rappresenta per il nostro Paese il suo maggiore potenziale economico, una vocazione italiana dove capacità imprenditoriale e creatività hanno contribuito a costruire il successo internazionale del "made in Italy".

E cosa dire del settore del Restauro, dove l'assenza di una politica di programmazione che valorizzi le azioni sinergiche tra soggetti differenti, coordinate a livello territoriale, sta producendo una molteplicità di tipologie di soggetti erogatori della formazione (peraltro i corsi quinquennali in Restauro sono abilitanti) e un pericolosissimo parallelismo tra le offerte formative, ciascuna delle quali risulta spesso carente proprio negli ambiti in cui l'altra è forte e viceversa. Le Università ad esempio dopo averne rifiutato l'attivazione, lamentano l'assenza di un Settore Scientifico-Disciplinare di Restauro dei manufatti (Rest01) e si dimentica che le Accademie di Belle Arti ne hanno ben 10 al proprio interno, viceversa le Accademie reclutano autonomamente competenze scientifiche nei settori della chimica, della fisica, della diagnostica, della geologia in assenza di competenze interne riferibili a specifici settori Scientifico-Disciplinari. Mentre le Scuole di alta Formazione del MiBAC, vanto della tradizione italiana in questo campo, sono costrette a rincorrere assetti di docenza non perfettamente inquadrati. Il tutto "condito" dalla mancata definizione giuridico normativa della figura del Restauratore ben identificabile nella sostanza ma ancor oggi confinato nel limbo di una legislazione incompleta. Logica vorrebbe che i soggetti appartenenti al livello terziario della formazione collaborassero, o fossero costretti a farlo da una normativa cogente, nell'interesse di Sistema! Ma in nome dell'autonomia ognuno va per la propria strada, accettando di zoppicare, talvolta vistosamente, piuttosto che integrare la propria offerta formativa. Usque tandem?

Ma, ritornando all'argomento cardine, entriamo ora nel merito di "come" si dovrebbe intervenire quanto meno in termini concettuali, in presenza di un edificio esistente "non sismico".

Qui si apre una querelle atavica allorché la diatriba conservazione/consolidamento e restauro con la necessaria messa a norma coinvolge le diverse scuole di pensiero, soprattutto in presenza di edifici storici vincolati. Se da un lato, giustamente, si richiede il rispetto della fabbrica per il suo valore monumentale, dall'altra la richiesta di sicurezza e la necessità dell'adeguamento spesso, per non dire sempre, sono in palese rotta di collisione. Pur tuttavia, se le ragioni storicistiche hanno un preciso fondamento culturale per le identità dei luoghi, dall'altro il rispetto formale della norma richiede altrettanto spesso lo snaturamento dell'impianto costruttivo originale. Talché delle due l'una: o si subisce la violenza della garanzia formale di una adeguata sicurezza strutturale, oppure si accetta un livello di rischio più elevato.

Ma è proprio vero che "tertium non datur"? Il mio convincimento è che una terza via sia in effetti percorribile, ricorrendo ad una interpretazione meno restrittiva della norma. Tuttavia ricordiamo che, diversamente da altri paesi, in Italia le normative sulle costruzioni hanno carattere cogente ed è innegabile che questo aspetto ormai anacronistico, andrebbe riconsiderato. Tuttavia, è ben vero che con una maggior consapevolezza delle risorse intrinseche all'impianto originario, si potrebbero utilizzare modelli di interpretazione del comportamento meno convenzionali, più colti e sofisticati. In effetti oggi se ne può disporre con relativa facilità e a costi contenuti, purché si lavori di concerto tra i vari attori all'insegna della triade ricerca, didattica e professione. Non è questo il luogo per entrare nel dettaglio, ci basta dare un segnale di orientamento che si può fare come in effetti più volte si è già fatto con risultati più che soddisfacenti nel giusto compromesso tra tradizione e innovazione. Certo, per questa inclinazione ben più colta è necessaria una profonda conoscenza anche della Storia, ma qui si riaprirebbe l'antica dicotomia tra le due culture. Invero, se si rileggesse e si metabolizzasse Snow, almeno a livello di linguaggio, si potrebbe trovare ben altro terreno in comune tra ingegneri, architetti e storici, a vantaggio di tutti.

Ma veniamo al tema, forse ancor più ampio, almeno per l'impatto concreto che determina nella quotidianità di ciascuno di noi, ovvero quello del paesaggio. In Italia disponiamo di un complesso normativo tra i più avanzati in assoluto.

A partire dal 1939 con leggi specifiche, con la stessa Costituzione che ne fa esplicita menzione, e il più recente Codice Urbani che ne sancisce l'importanza, il contesto italiano è, forse, unico al mondo. Qui la chiarezza è d'obbligo. Nel Bel Paese sono in molti ad occuparsi di paesaggio, con l'evidente rischio, fin troppo palese, di una pericolosa deriva dilettantistica ormai abbastanza diffusa. Ecco una prima lista di soggetti definibili paesaggisti sul campo: architetti, ingegneri, agronomi, geologi, geografi, storici dell'arte, biologi, ecc. ciascuno certamente esperto nella propria disciplina, ma con scarsa propensione alla integrazione dei reciproci saperi.

In Francia ed in Svizzera, ma non solo, la professione di paesaggista è perfettamente identificata con specifiche competenze e percorsi formativi autonomi. A livello internazionale IFLA - International Federation of Landscape Architects - rappresenta l'insieme del landscape nel mondo.

In Italia il titolo paesaggista è inserito nell'albo degli architetti, ma dagli stessi realisticamente considerato, assieme a quello di conservatore e pianificatore, del tutto marginale rispetto alla supposta unità della professione classica. D'altronde questa stessa attività viene praticata, e con ben ampia dimensione, anche dagli agronomi i quali, intervenendo sul paesaggio agrario, ne regolano le trasformazioni su basi economico produttive spesso sotto l'egida della comunità europea.

Ma vi è di più! Tutta la tematica dei dissesti idrogeologici, della sicurezza dei pendii, della realizzazione delle infrastrutture, della coltivazione delle cave, della pianificazione delle discariche, e chi più ne ha più ne metta, non è né può essere disgiunta dal paesaggio in senso lato. Non commento, per carità di patria, gli scempi determinati da una incultura diffusa e dalla latitanza di una committenza a dir poco inadeguata, per non dire dall'incapacità quando non vera e propria impossibilità di contrastare siffatti vandalismi.

Potrei riferirmi, come esempio, forse tra i più eclatanti quanto a palese negazione della cultura paesaggistica, all'alta velocità ferroviaria. Una straordinaria occasione per riqualificare i luoghi tradottasi, ahimè, in mera applicazione delle geometrie strutturali necessarie e strettamente sufficienti all'esercizio in termini vitruviani di "firmitas" e "utilitas" dimenticando, anzi irridendo e vilipendendo la "venustas". Ciò, non dimentichiamolo, nel paese di Palladio che già dichiarava che i ponti dovevano essere "commodi e belli" e in effetti così furono fino agli anni '70 del secolo scorso. In tale contesto, i ponti e i viadotti, ancor oggi dichiarati nei capitolati d'appalto opere d'arte e, nel passato anche recente, vanto della tradizione italiana, sono diventati il "non luogo" per antonomasia. Vere e proprie vittime della serialità più trita, di improbabili accostamenti geometrici e materici privi di qualsiasi riferimento al contesto, frutto di una insensibilità culturale, palesemente difficile da accettare nel nostro Paese.

Né mi soffermo sui disastri che ad ogni piè sospinto distruggono vite umane desertificando in termini culturali e di sicurezza i nostri borghi. Un vero e proprio bollettino di guerra che distrugge ricchezza e offende la nostra storia. Del resto l'Italia è il Paese delle contraddizioni e della provvisorietà permanente, delle "gride" di manzoniana memoria delle dichiarazioni inutili e del fare distorto a beneficio delle lobby piuttosto che del buon senso e della ragione.

Un paio di esempi possono essere utilizzati in proposito. In campo stradale si sono spesi miliardi di euro per barriere anti rumore e improbabili guard rail, anziché investire in modo sistematico sull'adeguamento sismico dei manufatti, ponti e viadotti. Nelle Scuole e negli Ospedali si è privilegiata la prevenzione antincendio anziché ancora una volta l'adeguamento sismico per la sicurezza strutturale! Che fare dunque?

È mio preciso convincimento che sia giunto, e da tempo, il momento di rivisitare completamente i percorsi formativi che, direttamente o indirettamente, trattano il tema del paesaggio portandoli ad una unità culturale in cui far convergere i diversi saperi che ivi confluiscono.

Ma ciò, a mio avviso, può avvenire solo con un percorso a ciclo unico quinquennale. Ovvero con la stretta continuità e flessibilità del tre più due, anche per consentire con minore difficoltà accessi differenziati da percorsi paralleli. Corsi di nuova e più moderna ideazione, possibilmente interateneo e distribuiti in pochissime sedi, da gestire in piena sinergia con i Ministeri competenti, e gli altri Enti Pubblici a ciò preposti, d'intesa con gli ordini professionali e le associazioni di riferimento. In tal modo gli allievi, accanto alla classica impostazione teorica per i necessari fondamenti culturali, potranno coltivare le esperienze dirette di chi opera sul campo. Siano essi progettisti o valutatori, operatori economici o gestionali, o altro ancora, funzionali ad una virtuosa sistematica, e non episodica, chiusura del cerchio.

Non intendo qui entrare nel merito specifico di tale proposta, peraltro già in gran parte sviluppata negli ultimi tre anni in ambito del Consiglio Universitario Nazionale - e ripresa anche dai vari tavoli tecnici che si sono susseguiti nel contesto di un apposito gruppo di lavoro CUN/CNAM costituito dal Ministro MIUR che (grazie soprattutto alla competenza e all'impegno profusi da Giuseppe Gaeta e Roberto Morese, componenti del gruppo) ha elaborato proposte fattive nei settori del design, della musicologia, del restauro e del paesaggio - e ampiamente discussa con i diversi attori esterni al Sistema Universitario. Basta qui ricordare che la stessa proposta ha trovato quasi unanimi consensi ai vari livelli, con una esplicita mozione di plauso da parte di IFLA e di UNESCO Italia e di taluni ministeri.

Si tratta ora di passare dalla fase di proposta alla sua approvazione e successiva realizzazione. Alcune sedi universitarie hanno già attivato o si accingono ad attivare in via sperimentale iniziative interclasse e interateneo su questa linea. Certo sarebbe paradossale se il processo innovativo in atto, fosse rallentato da personalismi asfittici a scapito dell'interesse generale di sistema. Un percorso lento e faticoso irto di insidie e ostacoli frapposti da chi nulla vuole modificare temendo di perdere "potere". Ma quale reale potere?

Nei prossimi mesi si misurerà anche in questo la capacità di guardare avanti verso una maggiore efficienza operativa con l'obiettivo di regolare meglio le trasformazioni territoriali alle varie scale, ovvero se resteremo a combattere l'un contro l'altro armati per il nulla producendo il nulla.

Ma siamo in molti a crederci e, ne sono pienamente convinto, con un po' di pazienza, molta buona volontà, un pizzico di abnegazione e massima propensione al dialogo, ci riusciremo anche in tempi brevi, perché è la nostra storia che ce lo chiede e, per una volta, non dovremmo mancare a tale appuntamento.

 

 

 



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