Intorno ai beni comuni
La via italiana ai beni comuni
Sommario: 1. Il "vizio d'origine". - 2. Definizioni. - 3. Due "grandi dicotomie". - 3.1. Diritto pubblico/diritto privato. - 3.2. Sato/mercato. - 4. "Omnia tempus habent". - 5. Più pubblici che privati: comuni.
The Italian Way to Common Goods
The
Italian debate focusing upon common goods has been strongly influenced by the
crisis of public finance. In the age of globalization and of the crisis of
national states, the so-called new category of common goods in the italian
civil law may undermine the legal status of public property. It is, therefore,
very importance start from the protection of fundamental rights which should be
implemented independently from market rules and as well as from the effective
accomplishment of the social function of public goods.
In un aureo libretto pubblicato più di dieci anni fa, Salvatore Settis, allora rientrato in Italia dopo una lunga esperienza all'estero, espresse tutto il proprio disappunto per una legislazione sui beni culturali che gli sembrava completamente avulsa dalla realtà. Quel libro s'intitolava Italia S.p.A. L'assalto al patrimonio culturale e rivolgeva i suoi strali contro il d.l. 15 aprile 2002, n. 63 dell'allora ministro dell'economia Giulio Tremonti, convertito con legge 15 giugno 2002, n. 112.
Quel decreto prevedeva, tra l'altro, la costituzione di due società: Patrimonio dello Stato S.p.A. e Infrastrutture S.p.A. La prima aveva come scopo "la valorizzazione, gestione ed alienazione del patrimonio dello Stato" e ad essa potevano essere trasferiti tutti "i beni immobili facenti parte del patrimonio disponibile e indisponibile dello Stato" oltre a tutti i beni del demanio; la seconda aveva invece lo scopo di finanziare sotto qualsiasi forma le infrastrutture e le grandi opere pubbliche e concedere finanziamenti finalizzati ad investimenti per lo sviluppo economico. "L'interazione fra le due S.p.A. - scriveva Settis - è pensata come un gigantesco fondo immobiliare, che potrà essere controllato mediante pacchetti azionari, ma anche venduto o dato in affitto". I beni che fanno parte del patrimonio culturale del Paese sono soggetti allo stesso regime, "con la sola differenza che il trasferimento della proprietà in questo caso avverrebbe 'd'intesa con il ministro per i Beni e le attività culturali'" [1]. Settis rilevava al tempo che la semplice esistenza di una norma che consentisse la vendita del patrimonio culturale era un fatto estremamente allarmante: "Si è aperta, anzi spalancata, una porta che prima non c'era; è diventato possibile immaginare ciò che fino a ieri era impensabile, con tutte le conseguenze che i passaggi di proprietà hanno sempre avuto sulla 'tenuta' del patrimonio" [2].
Quello stesso governo appena qualche mese prima aveva varato un'altra norma, l'art. 35 della finanziaria per il 2002 (l. 448/2001), che prevedeva la definitiva e completa privatizzazione dei servizi pubblici locali e la cancellazione dall'ordinamento giuridico italiano dei soggetti di natura pubblica destinati a gestire servizi industriali cioè delle aziende già municipalizzate divenute "speciali" con la riforma degli enti locali del 1990.
L'inizio degli anni 2000 segna, dunque, una svolta nel processo di privatizzazione che era iniziato in Italia sul finire degli anni Ottanta e che aveva riguardato il sistema bancario e la maggior parte del patrimonio industriale pubblico controllato per lo più dall'Iri e dagli altri enti statali che svolgevano il ruolo di holding per i soggetti pubblici impegnati nei settori di rilievo industriale. Si passa, infatti, dalle privatizzazioni di "prima generazione" che avevano riguardato assets "che, in un'economia di tipo capitalistico, sono naturalmente destinati ai privati (banche, imprese, società)" alle privatizzazioni "di seconda generazione" che hanno ad oggetto i beni comuni e che "rappresentano un fenomeno qualitativamente diverso da quelle precedenti perché segnano il passaggio sotto la sovranità del mercato di beni che, tradizionalmente venivano in considerazione più per il loro valore d'uso che per il loro valore di scambio" [3].
Dunque il dibattito sui beni comuni è nato in Italia con un "vizio d'origine" perché piuttosto che il frutto di una riflessione teorica matura e consapevole, è stato una delle conseguenze della necessità di rimettere in ordine i conti dello Stato. Svanita l'illusione di poter abbattere il debito pubblico privatizzando le banche e l'intero apparato industriale dello Stato, si è passati alla dismissione del patrimonio immobiliare pubblico e alla privatizzazione dei servizi pubblici locali. Senza che vi fosse un'approfondita valutazione sui risultati e sulle modalità delle privatizzazioni già realizzate e incalzati dalla crisi economica globale, i governi degli ultimi dieci anni non hanno saputo dare altra risposta se non quella di continuare a privatizzare i beni pubblici.
Così da una parte andava consolidandosi una corrente di pensiero che aveva come obiettivo quello di bloccare i processi di privatizzazione in corso, dall'altra, andava sempre più chiudendosi in se stessa un'opposta riflessione sorda a qualsiasi tentativo di rimettere anche solo in discussione i fondamenti di politica economica che avevano guidato per anni le strategie di governi sostenuti da diverse e opposte maggioranze politiche.
L'"assalto" al patrimonio culturale e la privatizzazione dei servizi pubblici locali e la resistenza che questi eventi hanno generato nella società italiana contribuiscono a spiegare - oltre naturalmente alla natura di tali beni - perché il dibattito sui beni comuni coinvolge in maniera trasversale giuristi, storici dell'arte, economisti, sociologi, filosofi accanto ad associazioni, movimenti e semplici cittadini, in quella che solo apparentemente può sembrare una confusione di ruoli e di strumenti di indagine e di partecipazione, ma che costituisce, al contrario, un elemento positivo per la ricchezza dei contenuti.
Sulla nozione di beni comuni non si è ancora trovata una definizione condivisa. Per evitare il rischio che la locuzione possa adattarsi ai significati più svariati, e che diventi così un'espressione di moda ma svuotata di senso, saranno utilizzate in questo scritto due definizioni di riferimento: quella del premio Nobel per l'Economia del 2009, Elinor Ostrom, e quella elaborata dalla Commissione Rodotà [4].
Secondo la Ostrom un bene comune è "una risorsa condivisa da un gruppo di persone e soggetta a dilemmi ossia interrogativi, controversie, dubbi, dispute sociali" [5]. Definire un bene comune come risorsa significa innanzitutto collocarlo nella sfera economica, dal momento che si lega il concetto di bene comune ai potenziali vantaggi che possono derivare dal suo utilizzo. Significa, inoltre, darne una descrizione in termini relazionali piuttosto che legati alla morfologia dei beni stessi che, nelle ricerche empiriche del premio Nobel sono della natura più varia, dai banchi di pesca alla gestione dell'acqua, dalle infrastrutture di irrigazione all'uso della montagna o delle foreste comuni.
Il fatto che una risorsa sia oggetto di discussione intorno al suo uso rientra sicuramente nella sfera politica ovvero quella in cui dovrebbero trovare soluzione gli interrogativi, le controversie, i dubbi, le dispute sociali e in cui l'utilizzazione considerata preferibile non è detto che sia quella economicamente più conveniente.
Diventa, dunque, necessario pensare a uno statuto giuridico che possa essere condiviso dalla totalità o almeno dalla maggioranza degli effettivi utilizzatori dei beni e in cui possa rientrare la più larga parte dei diversi beni comuni in modo da risolvere le questioni poste in evidenza dalla Ostrom relative, in sostanza, all'equità, all'efficienza e alla sostenibilità dell'uso.
Secondo la Commissione presieduta da Stefano Rodotà, i beni comuni sono "le cose che esprimono utilità funzionali all'esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona" e che, per questo, "devono essere tutelati e salvaguardati dall'ordinamento giuridico, anche a beneficio delle generazioni future". Si tratta di una definizione che identifica i beni comuni con il loro essere funzionalmente strumentali rispetto ai diritti che una collettività, intesa come comunità politica, definisce fondamentali. Quanto vi sia di un residuale diritto naturale in tale definizione non sarà oggetto di analisi in questa sede. Tuttavia è chiaro che la successiva indicazione da parte della stessa Commissione Rodotà di "beni pubblici ad appartenenza pubblica necessaria" che soddisfano interessi generali fondamentali e di "beni pubblici sociali" che soddisfano diritti civili e sociali della persona inducono a una riflessione in tal senso.
I beni comuni, secondo la Commissione Rodotà, possono essere nella titolarità di persone giuridiche pubbliche o di privati e, solo quando appartengono a persone giuridiche pubbliche, sono res extra commercium necessariamente gestite da soggetti pubblici. Relativamente ad essi il valore è quello d'uso e non di scambio, mentre l'efficienza economica è subordinata al giudizio di valore intorno alla fondamentalità dei diritti. Detto più semplicemente i diritti che si giudicano fondamentali vanno realizzati indipendentemente dal loro costo economico e senza tener conto delle regole del mercato. Sono beni comuni, secondo l'articolato proposto dalla Commissione: "i fiumi, i torrenti e le loro sorgenti; i laghi e le altre acque; l'aria; i parchi come definiti dalla legge, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i lidi e i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; i beni archeologici, culturali, ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate". Beni, cioè, che già rientrano nell'attuale categoria di beni demaniali.
Nella definizione tipica degli economisti l'efficienza nell'uso ha la precedenza rispetto allo statuto giuridico e lo condiziona, al contrario la definizione giuridica attiene, per un verso, alle caratteristiche oggettive dei beni e, per l'altro, alla politicità della decisione intorno all'individuazione dei diritti fondamentali.
Nello statuto giuridico dei beni comuni la dimensione politica appare ancora prevalente su quella economica secondo una logica non proprietaria. Ecco che emerge nel dibattito il problema dell'istituto giuridico della proprietà e di una sua possibile riforma e, cioè, il fine precipuo in vista del quale la Commissione Rodotà era stata costituita nel 2007.
Anche Elinor Ostrom, dal canto suo, tiene a precisare che è necessario distinguere "il bene comune come risorsa o sistema di risorse dal bene comune come regime di diritti di proprietà. Le risorse comuni (common-pool resources) sono tipi di beni economici indipendenti da diritti di proprietà particolari. La proprietà comune (common property), d'altro canto, è un regime giuridico: un insieme di diritti legali il cui possesso è condiviso" [6].
Le due definizioni, quella giuridica e quella economica, trovano alcuni punti d'incontro se si passa a esaminare l'elenco dei principi che caratterizzano la gestione ottimale dei beni comuni secondo la Ostrom. La studiosa, infatti, esponente della corrente neoistituzionalistica, tira fuori dai risultati delle sue ricerche empiriche un catalogo di otto principi base la cui presenza è stata riscontrata nella maggior parte dei casi di successo nella gestione di una risorsa collettiva e che, viceversa, risultano assenti nei casi di fallimento nella gestione. Tra questi spicca la possibilità per tutti coloro che rispettano le regole di utilizzo del bene comune di poter contribuire a stabilire le regole e di poter partecipare alla modifica delle stesse senza interferenze di altre autorità esterne, l'esistenza di un sistema di automonitoraggio del comportamento dei membri e l'esistenza di un sistema di sanzioni progressive [7]. Sono principi che si riferiscono all'utilizzazione ottimale e a casi di successo nella conservazione della risorsa comune che alla luce della distinzione tra diritto pubblico e diritto privato appartengono più al diritto pubblico come diritto politico che non al diritto privato inteso come diritto sociale [8].
Tutto ciò fa pensare al problema della gestione che nello statuto giuridico disegnato dalla Commissione Rodotà, dovrebbe essere garantita dai soggetti pubblici destinati a gestire i beni comuni di proprietà pubblica e dai soggetti privati che non possono sottrarre tali beni all'utilizzazione da parte della collettività.
Nell'affrontare il tema dei beni comuni, le questioni principali riguardano ancora oggi la natura del bene, la titolarità formale dei diritti su di esso, la comunità di riferimento, le possibili forme di gestione e, dunque, un possibile statuto giuridico condiviso.
La necessità di trovare nuove forme di governance che in qualche modo sostituiscano le vecchie formule dello Stato e del diritto pubblico, ma anche dell'impresa e del diritto privato trovano la loro motivazione di fondo nella constatazione che tali istituzioni non sarebbero più sufficienti ad assicurare l'utilizzazione ottimale dei beni. Ciò riguarda i beni comuni tradizionali acqua, mare, litorale, beni del patrimonio storico artistico archeologico, ecc. In sostanza la teoria dei beni comuni si è sviluppata - almeno in Italia - in un contesto caratterizzato dalla forte critica verso l'inefficienza dell'amministrazione pubblica burocraticamente organizzata e in un momento che vede un fortissimo indebolimento degli Stati nazionali dovuto soprattutto a fenomeni esterni quali la globalizzazione non solo dei rapporti giuridici, ma anche - e soprattutto - dei sistemi economici e dei mercati.
La questione, sul piano teorico, consiste in sostanza nella risposta alla domanda quale sia la forma di governance o di istituzione che corrisponda alle nuove esigenze di una società in una fase di forte trasformazione. Finora le due grandi dicotomie sono state diritto pubblico/diritto privato e Stato/ mercato.
3.1. Diritto pubblico/diritto privato
La prima dicotomia che viene messa in discussione nel dibattito sui beni comuni è quella tra diritto pubblico e diritto privato.
Che si tratti di una dicotomia l'aveva chiarito Norberto Bobbio negli anni Settanta quando andavano affermandosi in Italia le teorie funzionaliste del diritto per lo più ispirate al pensiero di Talcott Parsons e di Niklas Luhmann. Il filosofo torinese sosteneva che da un punto di vista logico non vi fosse alcuna possibilità di una terza via tra diritto pubblico e diritto privato affermando che "in una concezione privatistica del diritto i rapporti di diritto pubblico vengono espulsi dalla sfera giuridica come rapporti di potere o di forza, che si sottraggono in quanto tali alle regole valide per i rapporti di diritto privato; in una concezione pubblicistica, i rapporti di diritto privato vengono estromessi come rapporti di mera convenienza o di opportunità, come rapporti sociali generici non protetti dal sistema normativo statale" [9].
Il fatto che oggi proprio in relazione alla questione dei beni comuni si torni a mettere in discussione la dicotomia diritto pubblico/diritto privato non deve sorprendere. Tale distinzione, infatti, almeno dal punto di vista della teoria generale, comincia a vacillare anche all'interno delle facoltà di giurisprudenza soprattutto a causa dell'espandersi dello studio del sistema giuridico nella prospettiva delle scienze sociali ed entra definitivamente in crisi con l'arrivo in Europa della più importante delle teorie postmoderne del diritto [10] e, cioè, dell'analisi economica del diritto proveniente dagli ordinamenti di common law e applicata in un primo momento al solo diritto privato per poi passare anche al diritto pubblico [11].
D'altronde la distinzione tra diritto pubblico e diritto privato dal punto di vista sociologico era basata sulla considerazione che il diritto privato riguardasse i rapporti tra soggetti posti su un piano paritario di perfetta uguaglianza, mentre il diritto pubblico riguardasse i rapporti tra soggetti diseguali in quanto l'uno rappresentava la collettività, l'altro soltanto il singolo individuo.
Sul piano storico già nella fase fondativa del diritto pubblico dello Stato moderno si era avanzata una riflessione che partiva proprio dal rapporto tra l'individuo e le cose. Tale rapporto veniva allora analizzato e risolto attraverso il concetto di interesse.
In particolare nella riflessione di Jellinek occorreva fondare una teoria dei diritti pubblici subiettivi che avesse come elemento caratterizzante l'utilità: "Le cose di cui trattasi, sono quelle che servono a realizzare gli scopi individuali considerati necessari dall'ordinamento giuridico, ovvero da essi semplicemente riconosciuti. In altri termini, essi costituiscono beni. Tutto ciò che, considerato obbiettivamente, appare come un bene, subiettivamente diventa un interesse. Interesse è l'apprezzamento subiettivo di ciò che, per i fini dell'uomo, costituisce un bene. Tutto lo scopo del diritto consiste nella tutela dei beni o degli interessi" [12].
Ciò che viene tutelato dal diritto pubblico è l'interesse generale nel quale l'interesse privato riconosciuto come prevalente è ricompreso al pari dell'interesse minoritario e soccombente. "L'interesse generale è piuttosto un interesse composto, risultante dal contrasto degli interessi individuali sulla base delle idee dominanti in un determinato periodo di tempo e delle condizioni speciali di ogni singolo Stato; un interesse che può presentarsi magari come estraneo all'interesse individuale o come contraddittore di esso, e che spesso deve necessariamente presentarsi come tale" [13].
La costruzione classica di Jellinek si regge, dunque, su una rigida gerarchia che riconosce la preminenza all'interesse generale sull'interesse particolare che finisce per ritrovare la sua tutela esclusivamente all'interno delle procedure. Per Jellinek "innanzitutto l'interesse generale va oltre l'interesse degli uomini che in un determinato momento formano lo Stato, esso abbraccia del pari l'interesse delle generazioni future; esso si estende nel più lontano avvenire. L'interesse generale richiede spesso perciò prestazioni individuali, il cui risultato né giova a coloro che le forniscono, né è necessario che profitti agli altri consociati esistenti nello stesso periodo di tempo" [14].
È, dunque, evidente che quello inteso da Jellinek come interesse generale e lo stesso interesse individuale non possono identificarsi con il solo interesse economico e anche l'utilità che hanno le cose per gli scopi individuali è un'utilità evidentemente funzionale alla realizzazione di un determinato scopo che non può ridursi a quello della produzione del profitto.
D'altronde nella stessa dottrina giuspubblicistica italiana della prima metà del Novecento vi è sempre stata la consapevolezza che il diritto "rappresenta non solo una quantità di morale, ma anche di economia, di costume, di tecnica ecc. E questa quantità, che non può circoscriversi e misurarsi a priori, non è detto che sia un minimum" [15].
Sulla storicità della distinzione tra diritto pubblico e diritto privato aveva insistito anche Umberto Cerroni all'inizio degli anni Sessanta sottolineando come "il diritto pubblico (nella sua accezione più specifica) è possibile proprio soltanto là dove il diritto privato ha esteso e universalizzato per tutti le sfere della autonomia individuale, ovvero che un'autorità realmente e interamente pubblica o politica (sciolta dunque da ogni determinazione sociale immediata) è possibile soltanto là dove l'individuo è realmente un individuo privato (autonomo, indipendente) [...]" [16].
Che da un punto di vista politico vi fosse un processo di privatizzazione del pubblico e di pubblicizzazione del privato l'aveva sostenuto alla metà degli anni Ottanta Norberto Bobbio che non a caso aveva affermato che "i due processi, di pubblicizzazione del privato e di privatizzazione del pubblico, non sono affatto incompatibili, e di fatto si compenetrano l'uno nell'altro. Il primo riflette il processo di subordinazione degl'interessi del privato agl'interessi della collettività rappresentata dallo Stato che invade e ingloba progressivamente la società civile; il secondo rappresenta la rivincita degli interessi privati attraverso la formazione dei grandi gruppi organizzati che si servono dei pubblici apparati per il raggiungimento dei propri scopi" [17].
Si può dire che la fine del processo sia avvenuta con la definitiva liquidazione del concetto di interesse generale che, da un lato, porta a compimento la crisi della dicotomia diritto pubblico/diritto privato e, dall'altro, fa riemergere il più generico concetto di bene comune, sicuramente di origine teologica [18], che è astrattamente riconducibile a una comunità non ancora politicamente organizzata.
Con l'odierno affermarsi della teoria delle "costituzioni civili" di Gunther Teubner, poi, è in corso una vera e propria inversione semantica dei concetti di privato e pubblico come ben pone in rilievo Pierpaolo Donati nell'introduzione all'edizione italiana di alcuni saggi di Teubner. Afferma Donati: "le nuove distinzioni non annullano la distinzione pubblico/privato, ma cambiano la semantica di ciò che è pubblico e ciò che è privato. Con la semantica, mutano anche le istituzioni sociali e normative fondamentali in cui l'uno e l'altro possono concretizzarsi 'costitutivamente'" [19].
Non deve sorprendere, infine, come ancora una volta a cogliere gli effetti sociali dell'inversione della gerarchia pubblico/privato sia uno storico dell'arte come Settis e non un giurista: "l'inversione della gerarchia pubblico privato non ha prodotto solo privatizzazioni selvagge, ma anche un trasferimento massiccio di ricchezza verso grandi banche e imprese a svantaggio delle classi meno agiate e dei giovani; ha prodotto disoccupazione e sotto-occupazione; ha fragilizzato la società nel suo complesso, contro lo stesso principio di 'promozione della coesione sociale e territoriale' affermato dal Trattato di istituzione della Comunità art. 16" [20].
3.2. Stato/mercato
La dicotomia Stato/mercato è stata anch'essa riportata in auge dalla questione dei beni comuni.
È proprio il premio Nobel Elinor Ostrom che, analizzando nel corso delle sue cinquantennali ricerche i casi di gestione di risorse comuni in ogni parte del mondo, ci porta a riflettere sul fatto che le forme istituzionali più diffuse per organizzarne la gestione sono quelle dello Stato e dell'impresa privata.
La Ostrom ammette però di non aver quasi mai riscontrato nel corso delle sue ricerche empiriche forme "pure" di organizzazione ispirate allo Stato o al mercato: "Le istituzioni sono raramente interamente private o interamente pubbliche, 'il mercato' o 'lo stato'. Molte delle istituzioni (che operano in contesti in cui vengono utilizzate risorse collettive) che hanno avuto successo sono articolate combinazioni di istituzioni 'di natura privata' e 'di natura pubblica' che non possono essere classificate in una sterile dicotomia" [21].
Il premio Nobel per l'Economia, inoltre, mette in rilievo la possibilità che proprio nello Stato vi sia la tentazione da parte delle classi dirigenti di tenere per sé il surplus prodotto nella gestione dei beni comuni, infatti, "Non c'è un meccanismo, come in un mercato competitivo, che spinga il governante a predisporre istituzioni efficienti. Il governante può però trovarsi ad affrontare una ribellione se i provvedimenti presi sono troppo repressivi, o una sconfitta militare se il paese non è adeguatamente organizzato per vincere un conflitto" [22].
In realtà la dicotomia Stato/mercato è stata messa in discussione ben prima di quella tra diritto pubblico e diritto privato. Essa è stata superata da quando lo Stato ha cominciato "una funzione di servizio nei confronti del processo economico-industriale" [23]. La progressiva espansione dei compiti dello Stato che ha segnato la storia del Novecento con il definitivo affermarsi del Welfare State non è altro che la trasformazione dello Stato che assume "i tratti di un Sovrano bonario, che tollera la contestazione ed è pronto a rispondere a tutte le aspettative e a porre rimedio a ogni male" [24].
Il "grande decostruttore" [25] di quel che rimane dello Stato è il processo di globalizzazione.
Gli studi di Saskia Sassen hanno dimostrato a sufficienza che in realtà gli Stati nazionali piuttosto che scomparire dalla scena aderiscono "al progetto globale della riduzione del proprio ruolo in materia di regolazione delle transazioni economiche" fino a ridursi a fungere da rappresentanti "di una capacità tecnica amministrativa che, al momento, non può essere svolta da nessun altro dispositivo istituzionale" [26]. In altre parole lo Stato si è posto al servizio del mercato che si sta sviluppando su un piano globale utilizzando anche ciò che resta del potere e dell'organizzazione tecnico-burocratica degli Stati nazionali.
La tendenza degli stati nazionali a farsi strumento di politiche economiche decise al di fuori degli Stati stessi dai mercati globalizzati reca "in sé i germi del pensiero totalitario, che riduce il Diritto a un mero strumento di attuazione di leggi sovrumane da imporre a tutti" [27].
Il discorso sui beni comuni tende a mettere in crisi la dicotomia Stato/mercato perché cerca di individuare forme di gestione di beni che pur non rientrando negli schemi classici delle istituzioni politiche riescono meglio degli altri a preservare la risorsa e a redistribuire la ricchezza prodotta.
Diversi sono stati gli studi di storia del diritto utilizzati nell'ambito dell'elaborazione di una teoria dei beni comuni. Il contributo più rilevante è indiscutibilmente quello di Paolo Grossi che con le sue ricerche ha riportato l'attenzione degli studiosi sul significato dell'istituto della proprietà in altre epoche storiche e soprattutto all'interno dell'ordine giuridico medievale.
Se è vero che "nessun ordine giuridico possiede un significato in sé, indipendentemente da una narrazione che glielo fornisca" e che ciò "vale anche per il diritto di proprietà: il suo senso cambia radicalmente a seconda che sia inserito in una narrazione che gli dia legittimità e validità universale (appunto una narrazione proprietaria) o che invece sia interpretato a partire da un racconto che lo rappresenti come violento e ingiusto" [28], è pur vero che l'intento di elaborare una teoria dei beni comuni passa anche attraverso l'individuazione di soluzioni giuridiche adottate in epoche storiche che abbiano caratteristiche simili a quella attuale. L'elemento principale di somiglianza tra l'epoca attuale e l'età medievale può essere identificato da un punto di vista giuridico nell'assenza dello Stato come unica fonte del diritto. È lo stesso Paolo Grossi a chiarire che: "Se vogliamo evitare genericismi indebiti con una greve eredità di fraintendimenti, il rimedio è semplice: riconoscere che l'esperienza medievale si snoda e si sviluppa in un vuoto statuale e che lo Stato è il grande assente" [29].
L'assenza dello Stato in età medievale fa sì che la proprietà sia considerata, anche sotto il profilo del suo statuto giuridico, tutta all'interno della società e dell'organizzazione della produzione dei beni, dal quale la proprietà moderna, quella tratteggiata dal Codice Napoleone e dai codici borghesi, l'aveva tirata fuori: "La proprietà non può - in una esperienza aliena da individualismi - modellarsi sul soggetto, ma deve corrispondere alla complessità della realtà fattuale scomposta e ricomposta sub specie oeconomiae prima ancora che sub specie juris" [30].
Il mondo medievale aveva trovato e applicato soluzioni opposte rispetto a quelle della modernità relativamente ai regimi proprietari: "Il mondo moderno ha soluzioni assolutistiche ed esclusivistiche: un solo Stato e un solo ordinamento giuridico per un solo territorio; un solo soggetto proprietario e una sola proprietà unitaria per un solo patrimonio. Il mondo medievale, anche a livello patrimoniale, compie scelte esattamente opposte: come il diritto in un territorio è intuito e risolto quale pluralità di ordinamenti conviventi, così, con un parallelismo esemplare e coerente su uno stesso bene sono pensabili più proprietà, ciascuna delle quali non ha certo il contenuto assolutistico della futura proprietà borghese ma uno specifico contenuto di autonomia, contenuto relativo e relativizzante com'è proprio di questa nozione" [31].
È significativo, tuttavia, che lo stesso Paolo Grossi avverta la necessità di mettere in guardia gli studiosi rispetto a una qualsivoglia ipotesi di ritorno a modelli ormai appartenenti alla storia passata [32].
L'accostamento dell'epoca della globalizzazione con l'età medievale è anche la conseguenza dell'affermarsi di una nuova cultura del contratto che sostituisce la legge generale e astratta di origine statale come fonte del diritto e che non ha nulla a che vedere con il contratto sociale della teoria politica classica. Nell'epoca attuale, quella della globalizzazione e della crisi finanziaria, si tende a criticare l'idea della legge generale e astratta e sostituirla con una generica forma di amministrazione per contratto considerata più adatta a corrispondere agli interessi dei cittadini e che si afferma in tutti i settori dell'azione pubblica [33]. In tale contesto "anziché essere finalizzato allo scambio di quantità, il contratto si 'pubblicizza', prendendo parte alla definizione di un bene comune. Ciò si ripercuote sull'autonomia della volontà delle parti: esse restano libere di volere ma a condizione di perseguire obiettivi che vanno oltre il loro interesse personale" [34].
Si potrebbe dire che una nuova costruzione dal basso di una comunità che ritrovi un suo legame esclusivamente all'interno di una forma giuridica che abbia come unico obiettivo quello di descriverla nel modo più adeguato non crea alcun legame sociale stabile, ma estenda alle altre sfere sociali quella che Max Weber designava come la caratteristica principale della sfera giuridica privata che "può essere designata a potiori precisamente come 'comunità di contratto'" [35]. E lo stesso Max Weber accosta tale tipo di comunità a quella feudale: "L'investitura feudale è, nella sua essenza intima, fondata su contratti" [36].
Stefano Rodotà ammonisce che "l'accento posto sui beni comuni è più simile a un cambio di paradigma che a una riscoperta di qualcosa che mai ha cessato d'essere presente nei sistemi giuridici - una proprietà collettiva ora contemplata come reliquia, ora intesa come potenzialità inespressa" [37].
Se si vogliono identificare dei precedenti storici che possano in qualche modo anticipare una teoria dei beni comuni si deve guardare, secondo Rodotà, agli anni Settanta, cioè alla stagione di quelle che definisce come "nazionalizzazioni rovesciate", cioè la possibilità data ad esempio dall'art. 43 della Costituzione italiana del 1948 che le imprese passino nelle mani di comunità di lavoratori o di utenti [38].
Secondo Rodotà, la logica non proprietaria dei beni comuni non può essere ricondotta a forme medievali nell'organizzazione dell'utilizzo dei beni. Del resto l'unico "cedimento" a una qualche forma di organizzazione della proprietà collettiva precedente alla codificazione napoleonica è il riferimento agli "usi civici" che si trova nel disegno di legge delega elaborato dalla Commissione Rodotà: "La disciplina dei beni comuni deve essere coordinata con quella degli usi civici". Mentre il riferimento alla possibilità che la tutela giuridica dei beni comuni sia posta in capo ad ogni singolo cittadino si pone senza dubbio all'interno della tradizione moderna.
5. Più pubblici che privati: comuni
Fino a oggi i beni comuni sono stati ricompresi, nella maggior parte dei casi, nella categoria dei beni pubblici. Le caratteristiche dei vincoli alla proprietà privata, pur presenti nel nostro ordinamento, non sono tali da poter soddisfare alle caratteristiche tipiche dei beni comuni.
Ciò produce un'evidente contraddizione nel tentativo di costruzione della categoria giuridica dei beni comuni: la categoria dei beni comuni viene create "a spese" della proprietà pubblica - e in particolare di quella demaniale - piuttosto che di quella privata. Appare, dunque, quanto meno riduttivo che la lotta per il diritto dei beni comuni si riduca a una proposta di riforma della proprietà pubblica che per certi versi finisce per provocarne un oggettivo indebolimento rispetto alla solidità dell'impianto statutario della proprietà privata.
Non a caso alcune caratteristiche attribuite ai beni comuni tendono a partire non tanto dall'esclusione a priori dal mercato, quanto piuttosto da una più limitata "sottrazione al mercato concorrenziale e alle sue regole, prima di tutto quella del profitto" [39]. Tale modalità di costruzione dello statuto giuridico dei beni comuni non fa altro che accogliere alcune suggestioni provenienti da una ben determinata teoria del "comune", quella di Negri e Hardt che ritiene che "la valorizzazione economica è possibile solo sulla base dell'appropriazione sociale dei beni comuni" [40]. Ciò significa che anche i beni comuni andrebbero considerati sotto il profilo patrimoniale cosa che invece doveva considerarsi esclusa per i beni che fossero destinati al servizio delle funzioni pubbliche fondamentali [41].
Il dibattito sui beni comuni finisce per rappresentare il riflesso del rapido mutamento in corso nella società italiana nel modo di intendere la proprietà pubblica indotto in primo luogo dalla crisi della finanza pubblica. I primi effetti di questo fenomeno sono, da un lato, l'inasprirsi della critica verso la pubblica amministrazione incapace di tutelare e conservare adeguatamente i beni pubblici ma anche di valorizzarli e utilizzarli al meglio [42], dall'altro, quello di ricondurre ciascun bene di proprietà pubblica a una precisa collettività di riferimento identificata non più con un pubblico indefinito e lontano, ma con una comunità determinata di persone che di quel bene si occupano o intendono occuparsi.
All'inizio degli anni Sessanta, Massimo Severo Giannini aveva denunciato la possibilità che la proprietà pubblica dei beni arrivi a spezzare il legame con la comunità di riferimento dei beni stessi e anche la gestione dei beni di proprietà collettiva da parte degli enti territoriali costituisse una gestione "non già negoziale, o volontaria, ma legale e necessaria". Ciò significa che una disciplina troppo rigida della proprietà pubblica "al limite, può rompere il legame tra beni e collettività, ed invertire le parti, attribuendo all'ente territoriale la proprietà individuale del bene ed ai componenti la collettività un diritto reale parziario di uso o di utilizzazione sul bene altrui che è poi il bene dell'ente rappresentativo della collettività stessa" [43].
A ben vedere, dunque, le recenti tensioni sociali relative alla gestione di alcuni beni pubblici come l'acqua - e l'esperimento di una loro possibile trasformazione in beni comuni - sono in primo luogo una conseguenza della crisi di credibilità delle istituzioni pubbliche. Così, mentre sembra esserci una larga convergenza sull'idea che la proprietà pubblica non costituisca più un'efficiente allocazione per i beni pubblici, da un lato, c'è chi pensa a una loro privatizzazione e, dall'altro, chi pensa a una forma di gestione che, pur mantenendo tali beni nell'ambito della proprietà pubblica, possa essere scelta unicamente dalla comunità di riferimento dei singoli beni.
La categoria dei beni comuni trova, altresì, un possibile spazio solo se si ritiene come fa Stefano Rodotà che "la proprietà pubblica o privata che sia, non può comprendere e esaurire la complessità del rapporto persona/beni. Un insieme di relazioni viene ormai affidato a logiche non proprietarie" [44].
Tuttavia mettere sullo stesso piano Stato e corporations e condannare senza appello lo Stato moderno in quanto anch'esso caratterizzato dall'unico scopo di estrarre profitti dalla proprietà pubblica [45]; paragonare la proprietà pubblica alla proprietà assenteista premoderna o affermare che "in effetti la teoria politica della modernità conferma lo strettissimo rapporto strutturale fra proprietà privata e sovranità statuale ai danni dei beni comuni" [46] rischia di costituire una affermazione in grado soltanto di indebolire la tutela dei beni pubblici in un periodo di forte crisi delle istituzioni pubbliche.
Anche se Massimo Severo Giannini sosteneva che "storicamente la sovranità è nata da una delle forme di proprietà divisa dell'evo medio" [47], ciò non significa che si possa liquidare l'intera storia del diritto pubblico moderno giunta con fatica all'affermazione e alla progressiva realizzazione del concetto di sovranità popolare tuttora considerato fondamentale anche se non ancora pienamente attuato. Certo, se è vero che "la logica del 'comune' obbliga a progettazioni istituzionali adeguate alle caratteristiche del bene considerato, e ribadisce un nesso evidente con la necessità di politiche adatte alla realtà di un mondo in cui le interdipendenze crescenti individuano spazi ormai concretamente comuni, che attendono istituzioni che li sottraggano a imprese variamente distruttive" [48], tali considerazioni devono indurre a un profondo ripensamento della proprietà pubblica basato innanzitutto sull'effettivo recupero della sua funzione sociale.
Ma ciò non è possibile che si realizzi sotto la spada di Damocle del possibile default dello Stato italiano e sotto la spinta dei mercati finanziari diretta a modificare gli strumenti di contabilità pubblica. "La contabilità pubblica non ha bilancio; essa si articola in una sezione di funzionamento e una sezione di investimento. La questione del valore di un patrimonio e del suo mantenimento, dunque, non emerge spontaneamente. Ciò che implicito in questo modo di tenere i conti sembra affermare: dal momento che questi beni sono di tutti (beni pubblici), perché vi si dovrebbe introdurre una logica dell'attore autonomo che conta e misura ciò che possiede?" [49].
Note
[1] S. Settis, Italia S.p.A. L'assalto al patrimonio culturale, Einaudi, Torino, 2002, pag. 121.
[2] Ivi, pag. 123.
[3] L. Nivarra, Alcune riflessioni sul rapporto fra pubblico e comune, in Oltre il privato e il pubblico. Per un diritto dei beni comuni, in a cura di M.R. Marella, Ombre Corte, Verona, 2012, pag. 71 s.
[4] Commissione Rodotà - elaborazione dei principi e criteri direttivi di uno schema di disegno di legge delega al Governo per la novellazione del Capo II del Titolo I del Libro III del Codice Civile nonché di altre parti dello stesso Libro ad esso collegate per le quali si presentino simili necessità di recupero della funzione ordinante del diritto della proprietà e dei beni (14 giugno 2007). Si può trovare sul sito del Ministero della Giustizia.
[5] C. Hess e E. Ostrom, Panoramica sui beni comuni della conoscenza, in La conoscenza come bene comune. Dalla teoria alla pratica, a cura di C. Hess e E. Ostrom, Bruno Mondadori, Milano, 2009, pag. 3.
[6] Ivi, pag. 6.
[7] Cfr. ivi, pag. 8 s.
[8] Mi riferisco qui alla lettura di Giorgio Berti secondo il quale "Nell'ottica dei giuristi, politico e sociale sono fatti corrispondere a diritto pubblico e a diritto privato, che però non sono altro che sottosistemi rispetto ad un sistema unitario, e che possono così fondersi senza gran danno" (G. Berti, Diritto e Stato. Riflessioni sul cambiamento, Padova, Cedam, 1986, pag. 31).
[9] N. Bobbio, Dalla struttura alla funzione. Nuovi studi di teoria del diritto, Edizioni di Comunità, Milano, 1977, pag. 155.
[10] Vedi G. Minda, Teorie postmoderne del diritto, Il Mulino, Bologna, 2001.
[11] Vedi G. Napolitano e M. Abbrescia, Analisi economica del diritto pubblico, Il Mulino, Bologna, 2009.
[12] G. Jellinek, Sistema dei diritti pubblici subbiettivi, trad. it. riveduta dall'autore sulla seconda edizione tedesca con note dell'avv. G. Vitagliano e prefazione del prof. Vittorio Emanuele Orlando, Società Editrice Libraria, Milano, 1912, pag. 47 (Ed. or.: System der subjektiven öffentlichen Rechte, Tubingen, 1905).
[13] Ivi, pag. 79.
[14] Ivi, pag. 78.
[15] S. Romano, L'ordinamento giuridico, Seconda ed. con aggiunte, Sansoni, Firenze, 1945, pag. 37.
[16] U. Cerroni, Sulla storicità della distinzione tra diritto privato e diritto pubblico, in Rivista internazionale di filosofia del diritto, Anno XXXVII - Serie III, 1960, pag. 357 s.
[17] N. Bobbio, Stato, governo, società. Per una teoria generale della politica, Torino, Einaudi, 1985, pag. 17.
[18] Cfr. U. Pomarici, Beni comuni, in Atlante di filosofia del diritto, a cura di U. Pomarici, Giappichelli, Torino, 2012, pag. 10 ss.
[19] P. Donati, Il farsi del civile come norma sociale, in La cultura del diritto nell'epoca della globalizzazione. L'emergere delle costituzioni civili, a cura di G. Teubner, Armando Editore, Roma, 2005, pag. 9.
[20] S. Settis, Azione popolare. Cittadini per il bene comune, Einaudi, Torino, 2012, pag. 125.
[21] E. Ostrom, Governare i beni collettivi, Marsilio, Venezia, 2006, pag. 29.
[22] Ivi, p. 67.
[23] E.-W. Böckenförde, Diritto e secolarizzazione. Dallo Stato moderno all'Europa unita, a cura di G. Preterossi, Laterza, Roma-Bari, 2007, pag. 111.
[24] A. Supiot, Homo juridicus. Saggio sulla funzione antropologica del diritto, Bruno Mondadori, Milano, 2006, pag. 184.
[25] G. Teubner, Diritto policontesturale. Prospettive giuridiche della pluralizzazione dei mondi sociali, a cura di A. Rufino, La Città del Sole, Napoli, 1999, pag. 81.
[26] S. Sassen, Una sociologia della globalizzazione, Einaudi, Torino, 2008, pag. 37.
[27] A. Supiot, Homo juridicus, cit., pag. 183.
[28] L. Coccoli, Idee del comune, Oltre il privato e il pubblico. Per un diritto dei beni comuni, cit., pag. 32.
[29] P. Grossi, Dalla società di società alla insularità dello Stato fra Medioevo ed età moderna, Istituto Universitario Suor Orsola Benincasa, Napoli, 2003, pag. 19.
[30] P. Grossi, L'inaugurazione della proprietà moderna, Napoli, Guida, 1980, pag. 27.
[31] Cfr. P. Grossi, Dalla società di società alla insularità dello Stato fra Medioevo ed età moderna, cit., pag. 17 s.
[32] Cfr. ivi, pag. 17 s.
[33] Vedi P. Lescoumes e P. Le Galès (a cura di), Gli strumenti per governare, Bruno Mondadori, Milano, 2009.
[34] A. Supiot, Homo juridicus cit., pag. 198.
[35] M. Weber, Economia e società, Edizioni di comunità, 1995, vol. III, pag. 20.
[36] Ivi, pag. 22.
[37] S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari, 2012, pag. 120.
[38] Ibidem.
[39] M.R. Marella (a cura di), Oltre il privato e il pubblico. Per un diritto dei beni comuni, cit., pag. 21.
[40] M. Hardt-A. Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Mondadori, Milano, 2010, pag. 131.
[41] Secondo Giovanna Colombini "la incommerciabilità e l'uso governativo vengono in buona sostanza a tradursi in una vera e propria negazione della rilevanza giuridica del bene sotto il profilo patrimoniale" (G. Colombini, Demanio e patrimonio dello Stato e degli enti pubblici, in Dig. Disc. Pubbl., vol. V, Utet, Torino, 1990, pag. 2).
[42] Secondo Ugo Mattei anche la proprietà pubblica a causa del riformismo liberale degli ultimi trent'anni sarebbe dominata da una deriva "estrattiva", cioè da uno sfruttamento dettato dall'esclusivo intento di produrre profitto. Vd. U. Mattei, Contro riforme, Einaudi, Torino, 2013.
[43] M.S. Giannini, I beni pubblici, Bulzoni Editore, Roma, 1963, pag. 54.
[44] S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, cit., pag. 110.
[45] Come fa ad esempio Ugo Mattei nel suo Beni comuni. Un manifesto, Laterza, Roma-Bari, 2012.
[46] U. Mattei, Beni comuni, cit., pag. 42.
[47] M.S. Giannini, I beni pubblici, cit., pag. 9.
[48] Ivi, pag. 125.
[49] D. Lorrain, I piloti invisibili dell'azione pubblica. Lo smarrimento della politica?, in Gli strumenti per governare, cit., pag. 92.