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Fondazioni bancarie e sviluppo economico [*]
di Alessandro Crociata e Pier Luigi Sacco
Sommario: 1. Introduzione. - 2. Anatomia e semantica delle fondazioni bancarie. - 2.1. L'anatomia. - 2.2. La semantica. - 3. Una nuova stagione di sviluppo economico locale. - 4. Quale ruolo per le fondazioni nei modelli di distretto culturale evoluto.
Le fondazioni (ex) bancarie rappresentano degli attori potenzialmente importanti per lo sviluppo sociale, culturale ed economico del territorio nel quale operano. Questi istituti, di fatto, possono giocare un ruolo chiave nella definizione delle traiettorie di sviluppo di un sistema locale in quanto, liberi dalle pressioni di un mandato politico, hanno la possibilità di pianificare i propri interventi all'interno di un orizzonte temporale di medio-lungo periodo e di gestire un volume di risorse significativo. L'anatomia e la semantica delle fondazioni bancarie derivano da un percorso storico, economico e normativo lungo e molto dibattuto. Se la razionalità di tali istituti è insita nel loro mandato ed è inscritta nella promozione di utilità sociale e sviluppo economico, tale mandato deve essere perseguito all'interno di un'economia postindustriale che modifica la sostanza del processo di creazione del valore e la forma della competitività del sistema. In questo scenario che interseca la dimensione ed il contesto socio-produttivo locale, nuovi paradigmi di sviluppo si affacciano all'orizzonte, e pertanto risulta cogente calibrare il modus operandi in virtù dell'evoluzione complessiva del sistema economico.
Negli ultimi anni le fondazioni (ex) bancarie hanno conosciuto un periodo di crescita sia in termini quantitativi, misurati dalla crescita dimensionale del patrimonio e degli interventi effettuati, sia in termini di visibilità ed affermazione nella società civile. La presenza di tali istituti si inscrive nelle trasformazioni degli assetti proprietari e della proiezione verso il sistema privatistico di tali enti e nelle traiettorie disegnate dal processo politico-culturale di sussidiarietà orizzontale e verticale. All'interno di questo scenario la risultante combinazione di fattori multidimensionali - culturali, politici ed economici - si riverbera sulle peculiarità che caratterizzano tali istituti e sull'importanza del ruolo che essi vengono ad assumere. Le linee interpretative di questo stato del mondo compongono un quadro non semplice da definire. Per questo si è scelto di distinguere quattro aspetti che facilitano la riflessione inerente l'agire delle fondazioni bancarie sulle traiettorie di sviluppo di un sistema locale. La prima questione specifica riguarda l'osservazione dell'anatomia delle fondazioni bancarie che è inscritta all'interno di un continuum storico, economico e normativo che ne ha designato la fisionomia indirizzandone, in buona parte, l'intervento. La seconda riguarda lo spettro semantico, ossia le implicazioni relative al significato delle fondazioni bancarie al fine di restituire un quadro concettuale in grado di definirne i fondamenti ed i discendenti ambiti di operatività. La terza riguarda la contestualizzazione delle considerazioni precedentemente svolte nell'ambito dei fondamenti dell'economia post industriale. In tal senso, l'implicazione economica dell'agire delle fondazioni va necessariamente collocata all'interno dei nuovi paradigmi per lo sviluppo locale. L'ultima riguarda una chiave di lettura del binomio fondazioni bancarie-sviluppo economico che raccolga e sintetizzi gli esiti della discussione sviluppata nelle pagine precedenti.
2. Anatomia e semantica delle fondazioni bancarie
Le Casse di Risparmio, dalle quali derivano le fondazioni bancarie, sono enti che nascono in seguito alla dotazione di capitale apportato prevalentemente da risorse di origine privata. La ricchezza dell'istituto è finalizzata a sostenere lo sviluppo della collettività anche mediante interventi a carattere filantropico di utilità sociale. All'interno dell'istituto è presente l'esercizio dell'attività creditizia che, per altro, si afferma e si consolida nel tempo. La progressiva affermazione di uno spirito imprenditoriale alimentato da un accresciuto livello dei depositi non sottrae le Casse di Risparmio, che mantengono sempre una forte aderenza con la comunità locale in cui sono sorte, ad una coerente adesione alle loro funzioni originarie.
2.1. L'anatomia
L'anatomia delle fondazioni bancarie è inscritta all'interno di un continuum storico, economico e normativo che ne ha designato la fisionomia indirizzandone, in buona parte, l'intervento. Un'estesa ricostruzione storica dell'attività delle Casse di Risparmio è ovviamente al di là della portata di questo scritto. Qui ci limitiamo a porre l'accento sulla radicale trasformazione avvenuta negli anni Novanta, anni che segnano la nascita dei dispositivi giuridico-istituzionali e dell'assetto strutturale-operativo delle relative fondazioni. Si parte, dunque, dalla legge 31 maggio 1990, n. 218 (legge Amato-Carli) e dal decreto legislativo attuativo 20 novembre 1990, n. 356 che costituiscono un momento formale chiave per definire l'identità dell'istituto fondazione. Tale dispositivo si colloca all'interno di un orientamento normativo che ha interessato gli assetti proprietari del sistema bancario italiano. Con l'intento di conformarsi ai dettami comunitari, il nostro Paese recepisce il processo di modernizzazione del sistema creditizio che muove verso la privatizzazione delle banche. Si privilegia, di fatto, la trasformazione in società per azioni di quelle banche che avevano la forma di fondazioni o di enti associativi. La voluntas legis prevede una partizione della attività bancaria creditizia dalla proprietà dell'attività stessa. L'azienda bancaria viene attribuita ad un nuovo soggetto costruito in forma di società per azioni, mentre la proprietà del suo pacchetto azionario viene attribuita alle nascenti fondazioni bancarie o enti conferenti. Tuttavia, i provvedimenti adottati nel corso dei primi anni lasciano spazio a situazioni ambigue e confuse, che danno adito a notevoli controversie sugli aspetti civili e fiscali dell'istituto, del quale, si sa, manca una specifica definizione legislativa. In effetti, la legge 218/1990 avvia il processo di separazione giuridica tra gli enti conferenti e le conferitarie, ma sul piano societario la legge stessa obbliga le fondazioni (gli enti conferenti) a mantenere il controllo delle Banche (enti conferitari) creando, de facto, una sorta di vincolo genetico e funzionale tra i due enti. A dirimere (parzialmente) la questione interviene, nel 1994, la legge 30 luglio 1994, n. 474 e la risposta tecnica alla legge, la cosiddetta "Direttiva Dini" che prevede incentivi fiscali per quegli enti che, nei cinque anni successivi (1994/99) all'entrata in vigore della legge, avessero ceduto le partecipazioni bancarie, diversificando così il loro patrimonio, distraendolo dall'assetto societario delle Banche conferitarie. Ad una compiuta definizione dell'assetto giuridico si perviene mediante il plesso normativo costituente la c.d. legge "Ciampi" (legge 23 dicembre 1998, n. 461 e decreto legislativo 17 maggio 1999, n. 153). Il passaggio fondamentale della riforma è senza dubbio costituito dal riconoscimento della natura giuridica privata e della piena autonomia statutaria e gestionale alle fondazioni che avessero adeguato il proprio statuto alle previsioni della nuova disciplina. La legge, inoltre, implica la destinazione di almeno la metà del reddito netto della fondazione ai settori rilevanti ed istituisce distinti organi di indirizzo, amministrazione e controllo. Gli ambiti normativi di questa legge delega sono oggetto, tuttavia, di una profonda revisione e motivo di scontro istituzionale. I principi della legge "Ciampi" vengono, de jure, rivisti nella legge finanziaria per l'anno 2002. Il dispositivo in essa contenuto, infatti, prevede una prevalenza dei rappresentanti degli enti locali nell'organo di indirizzo e conferisce un significativo ampliamento dei poteri di controllo dell'Autorità di vigilanza, nella fattispecie attraverso il potere di esercitare, mediante regolamento, una modifica dei settori di intervento e di emanare atti di carattere generale, vincolanti per le fondazioni. Il successivo ricorso al Tar del Lazio esercitato da diverse fondazioni rimette, con l'ordinanza n. 803/2003, alla Corte costituzionale il parere circa la legittimità della legge suddetta. Le sentenze n. 300 e n. 301 accolgono le istanze delle fondazioni, ribadendo la loro personalità giuridica privata e collocandole a pieno titolo tra i "soggetti dell'organizzazione delle libertà sociali". Le sentenze della Corte e lo stato dell'arte del quadro normativo di riferimento sollevano le fondazioni dal loro limbo giuridico, conferendo loro lo status di enti privati non profit con finalità sociali e riconoscendone piena autonomia statutaria e gestionale.
L'insieme di questi rivolgimenti ha di fatto vincolato l'operatività e la progettualità delle fondazioni, e di conseguenza le evidenze disponibili sulle ricadute positive per lo sviluppo di un territorio non offrono ancora risultati facilmente interpretabili (Guzzetti, 2005). Ad oggi, le fondazioni bancarie sono istituti dalla peculiare origine che si collocano in una terra di mezzo [1], riconosciuti come enti privati non profit. In tal senso perseguono nell'ufficio istituzionale fini filantropici al di fuori di, o in via complementare all'intervento dello Stato e degli enti locali, operando in virtù di una sostanziale autodeterminazione nell'impiego dei fondi e nei processi decisionali che informano le scelte relative alle modalità ed alla misura dell'intervento.
2.2. La semantica
L'aspetto semantico, e in particolare le implicazioni relative al significato delle fondazioni bancarie, ha alimentato, nel corso degli anni, un'estesa letteratura volta a collocare l'istituto all'interno di un quadro concettuale in grado di definirne i fondamenti ontologici ed i discendenti ambiti di operatività. In primis viene evidenziata la proiezione spiccatamente localistica dell'attività programmatica ed erogatrice delle fondazioni, fortemente radicata sul territorio in virtù di una continuità storica con i luoghi delle comunità da cui hanno avuto origine e che ne configurano l'identità. Da tale proiezione discende la definizione della razionalità economica delle fondazioni bancarie, insita nel mandato a promuovere e a sostenere la produzione di beni pubblici locali di indubbia utilità sociale (Scandizzo, 1999). La locuzione "patrimonio finalizzato ad uno scopo" identifica tali istituti come un'organizzazione patrimonializzata e autogovernata le cui modalità di intervento principali risiedono nella erogazione di pubbliche utilità (Demarie, 2003). Il mainstream colloca le fondazioni tra gli organismi del terzo settore. Secondo questa linea interpretativa, esperienze come quella delle fondazioni bancarie mostrano come ci sia spazio per organismi del terzo settore e come sia compenetrato il loro ruolo in una sorta di welfare mix (Cabasino, 2005). La presenza di organizzazioni operanti nel terzo settore viene spesso evocata ricorrendo alla teoria del fallimento dello Stato (Weisbrod, 1980, 1988) ed alla teoria del fallimento del contratto (Hansmann, 1980, 1996) [2].
In entrambi i casi si parte dal riconoscimento dell'esistenza di disequilibri nella produzione di beni pubblici, che giustificherebbero la presenza di un terzo agente in grado di soddisfare i bisogni di una domanda eterogenea (nel modello di Weisbrod) e di inviare un segnale di affidabilità e trasparenza sul mercato in virtù del non distribution constraint (modello di Hansmann) [3]. In tal senso l'operatività delle fondazioni, nei settori di intervento definiti dalla legge, è caratterizzata dalla presenza di trust goods (beni culturali, ricerca scientifica e sanità per citarne alcuni). L'assenza di fini di lucro, non in antitesi con una logica di ottimizzazione dell'intervento, costituisce un segnale di fiducia (trust signal) che le fondazioni inviano al mercato nell'esercizio dell'attività istituzionale (Scandizzo, 1999).
Se è vero che le fondazioni hanno ormai completato la loro trasformazioni in enti non profit diventando una infrastruttura molto importante del terzo settore (Zamagni, 2007) altre configurazioni, non antitetiche a questa sono presenti nell'inquadramento concettuale delle fondazioni tra le istituzioni intermedie. Con tale espressione si fa riferimento a quei corpi istituzionali che forniscono ai sistemi locali beni pubblici specifici (Arrighetti e Serravalli, 1999) collocandosi, come ci suggerisce la locuzione stessa, ad un livello intermedio tra l'azione esercitata dallo Stato e gli individui. L'importanza esercitata da tali corpi intermedi è , peraltro, enfatizzata dalla particolarità del modello economico italiano di sviluppo riconducibile ai distretti industriali.
In ogni modo è possibile affermare che le istituzioni intermedie (organizzazioni settoriali, banche locali, fondazioni bancarie, organizzazioni consortili ed associative non temporanee, agenzie locali ecc...) concorrono e provvedono alla progettazione ed alla realizzazione di un insieme di beni pubblici selettivi. Tale categoria di beni è selettiva in quanto riguarda specifici soggetti destinatari e specifiche aree territoriali beneficiarie. "A tali soggetti, dunque, è demandata l'offerta localmente differenziata di beni pubblici, con l'effetto di condizionare la scarsità relativa di risorse locali specifiche" (Arrighetti e Serravalli, 1999). Seguendo questa linea interpretativa, l'agire delle fondazioni bancarie si colloca ad un livello meso-istituzionale come risposta allo stretto dualismo micro-macro e come fattore determinante dei differenziali territoriali di sviluppo economico. Da ciò deriva una fondamentale implicazione: l'attributo intermedio assume peso e significato se definito in termini relazionali (Lanzalaco, 1999), da ciò discende che anche le fondazioni bancarie, secondo tale implicazione, sottendono un insieme specifico e territorialmente limitato di relazioni istituzionali con altri agenti locali (siano essi individui, enti locali, organizzazioni ed associazioni di varia natura). La questione rilevante è , dunque, qualificare l'insieme di tali relazioni per orientare il capitale relazionale delle fondazioni verso traiettorie di sviluppo sostenibile in un sistema economico dinamico in transizione post industriale.
3. Una nuova stagione di sviluppo economico locale
Nei modelli di sviluppo economico intervengono fattori sempre più complessi ed articolati che sono la diretta conseguenza delle nuove forme competitive presenti nelle economie avanzate. I fondamenti dell'economia post industriale sono costituiti soprattutto da grandezze prevalentemente immateriali come l'investimento in ricerca, la produzione di nuovi brevetti e la diffusione delle competenze nell'uso evoluto delle nuove tecnologie, e più fondamentalmente da tutti quei fattori che favoriscono l'orientamento all'innovazione, la produzione e la circolazione sociale delle conoscenze. Ma non emerge ancora con sufficiente chiarezza l'idea che per costruire tali processi evolutivi bisogna necessariamente attivare le condizioni contestuali che favoriscono la capacità individuale e sociale di pensare in termini innovativi. Ciò richiede un'estensione del concetto stesso di competitività: essere competitivi, oggi, significa creare forme socialmente sostenibili di motivazione individuale all'efficienza nell'uso delle risorse non soltanto materiali, ma anche e soprattutto informative e cognitive (Sacco, 2003). I nuovi paradigmi di sviluppo economico si fondano, dunque, sulla riformulazione di sistemi socio-produttivi orientati all'innovazione, nei quali gli agenti siano intrinsecamente motivati ad acquisire nuove conoscenze, sperimentare, mettere in atto progetti cooperativi complessi, sviluppare forme di integrazione creative che alimentano la creazione del valore economico. Tali paradigmi si innestano su precedenti programmi di ricerca ed evidenze empiriche maturate intorno al ruolo esercitato da fattori come la struttura sociale d'origine, il tessuto istituzionale locale, il sistema di valori, la cultura locale (Bagnasco, 1977, Becattini, 1999, Bonomi, 1997).
Il fil rouge che accompagna questi studi risiede nel trasferire l'attenzione dall'impresa, come unità di analisi a se stante, al luogo del quale essa fa parte, cioé all'ambiente socio-territoriale nel quale il processo produttivo si svolge. Secondo tale approccio, la pressione ambientale esercitata imprime in maniera unica e significativa delle connessioni tra le relazioni economico-produttive le relazioni socio culturali. L'organizzazione di un tale sistema produttivo trova applicazione nell'unità d'analisi nota come il distretto industriale che ha caratterizzato il modello di sviluppo economico italiano e che è stato descritto da vari sociologi come modello organizzativo caratteristico del fenomeno della "Terza Italia" (Bagnasco, 1977).
Spinto dalle economie di localizzazione inerenti la concentrazione territoriale, tale modello di sviluppo economico si regge non soltanto sul capitale materiale ma anche (come sempre più accade nelle economie post-industriali avanzate) su vari tipi di capitale immateriale, molti dei quali (ed è questa la caratteristica più tipica del modello distrettuale) altamente specifici del contesto locale, e che vengono generalmente definiti "capitale marshalliano" (Sacco e Ferilli, 2006). La presenza di una comunità coesa, di valori pro-sociali e pro-attivi radicati nel contesto locale e negli individui, nelle imprese e nelle istituzioni si riflettono "nell'atmosfera industriale" che si viene a creare. Tale contesto favorisce la circolazione e la formazione della conoscenza attraverso i canali comunicativi socialmente codificati, sotto forma di informazioni esplicite, accessibili a tutti, ma anche, e soprattutto, attraverso modalità non tradizionali quali i canali della conoscenza tacita e dell'interazione diretta, dove le informazioni sono veicolate e interpretate in modo non formalizzato. Nella dinamica del distretto, questa modalità di scambio diviene talmente importante da poter essere considerata un "bene pubblico" parzialmente escludibile, non mediato dal mercato ma accessibile soltanto a chi ne conosce i codici sociali di accesso (Sacco e Pedrini, 2003). Tutto ciò si traduce in un processo di apprendimento collettivo e interattivo (Camagni, 1991; Calafati, 2002) che secondo il paradigma economico-cognitivo favorisce i processi di acquisizione di conoscenza dinamica ai fini del vantaggio competitivo, grazie alla prossimità geografica e relazionale tra gli attori (Camagni e Capello, 2002).
L'agglomerazione spaziale delle attività produttive e il suo rapporto con i processi di sviluppo locale ha prodotto modelli di riferimento significativi anche nel contesto specifico dell'organizzazione territoriale della produzione e della fruizione culturale, dando vita a terminologie derivate come quella dei cultural cluster e dei distretti culturali (si veda Sacco e Pedrini, 2003 per una rassegna critica). La letteratura del settore è estesa ed è riconducibile ai primi interventi strategici di politica culturale urbana del Greater London Council degli anni Settanta. La prospettiva del distretto culturale, che inizialmente viene proposta come trasposizione relativamente acritica e banale del modello distrettuale al contesto culturale, si è sviluppata negli anni sino a definire un modello distrettuale evoluto nel quale il genius loci si manifesta non nella specializzazione mono-filiera ma nell'integrazione creativa di molte filiere differenti, e in cui la cultura non produce valore in quanto capace di produrre profitto (cosa che comunque accade, e in modo sempre più impressionante, nelle industrie culturali e creative delle economie post-industriali) ma perché aiuta la società ad orientarsi verso nuovi modelli di uso del tempo e delle risorse particolarmente favorevoli alla generazione di capacità competitiva intangibile. In uno scenario nel quale quest'ultima si lega sempre di più all'orientamento all'innovazione, il ruolo della cultura diviene quello di operare come agente sinergico che fornisce agli altri settori del sistema produttivo contenuti, strumenti, pratiche creative, valore simbolico ed identitario, e quindi in ultima analisi costituisce un canale diretto e importante di creazione di valore aggiunto (Sacco e Dragone, 2006).
I modelli evoluti di distretto culturale possono essere considerati come una sintesi originale di tre distinti approcci teorici: quello che riconduce lo sviluppo post-industriale alla localizzazione dei professionisti, del talento, della nuova classe creativa (Florida, 2002), quello che fa riferimento all'orientamento all'innovazione all'interno di una competizione globale tra imprese localizzate (Porter, 1998, 2003-2004) e quello che si concentra sul ruolo determinante della capacitazione e riorientamento motivazionale degli individui e delle comunità (Sen, 1994, 2002).
Secondo Richard Florida lo sviluppo economico si concentra dove sono presenti quelle che lui definisce le tre T: talento, tecnologia e tolleranza. A tali fattori è opportuno affiancare il ruolo di un orientamento strategico all'innovazione e lo sviluppo dei cluster analizzati da Michael Porter nella sua teoria del vantaggio competitivo localizzato. I cluster influiscono in diversi modi sulla competitività: favorendo lo sviluppo, la produttività e la flessibilità delle imprese esistenti sul territorio e stimolandone la capacità innovativa. Tuttavia la premessa vera di ogni sviluppo è costituita da una vasta diffusione sociale di "capacitazione", ovvero dell'espansione delle libertà reali di cui godono gli esseri umani attraverso lo sviluppo di capacità cognitive e motivazionali individuali che permettono l'elaborazione di stili di vita qualificanti e funzionali alla realizzazione di sé. La teoria delle capacitazioni può essere considerata una rivoluzione nel campo dell'economia, perché riesce ad inquadrare meglio lo scopo cui tendono tutte le attività economiche, che non è tanto quello di aumentare il reddito in sé, quanto quello di migliorare la qualità della vita tramite l'acquisizione di nuove risorse, non solo materiali ma anche immateriali, necessarie alle corretta definizione e al perseguimento di obbiettivi individualmente e socialmente significativi. In tale contesto, il fattore reddituale assume un valore puramente strumentale e va quindi valutato in base alla sua capacità di tradursi o meno in benessere.
Per sintetizzare questo insieme complesso di fattori che stanno caratterizzando le nuove dinamiche di sviluppo locale centrate sulla cultura, occorre isolare le dimensioni strategiche che divengono rilevanti nel determinare il successo o il fallimento di uno specifico modello. Il distretto culturale, perciò, è caratterizzato da una qualche forma di combinazione creativa dei tre canali descritti, da cui è possibile identificare dodici azioni di policy che intervengono sui capitali che costituiscono il sistema locale. Le azioni di policy possono essere viste come strumenti di intervento per lo sviluppo del territorio, oppure come chiavi di lettura di un territorio per comprendere se in esso sono identificabili azioni in essere, e per orientare il sistema alla realizzazione del distretto culturale evoluto. Ciò al fine di poter fornire uno strumento interpretativo e di intervento omogeneo sull'intero territorio e, al tempo stesso, articolato nelle possibili forme di azione che nel loro insieme accompagnano lo sviluppo post industriale del territorio tenendo conto di tutti gli aspetti che lo caratterizzano.
Le dodici policy sono:
- Qualità dell'offerta culturale: ossia la capacità di mettere in atto un'offerta culturale che coinvolge un contesto nazionale e internazionale e si conforma ai suoi standard qualitativi (QOC);
- Capacitazione e formazione della comunità: offerta sociale di opportunità di apprendimento e di costruzione delle competenze (CFC);
- Sviluppo imprenditoriale: processi di incubazione, avviamento e sviluppo di nuova imprenditorialità (SIM);
- Attrazione delle imprese e degli investimenti esterni: ovvero di risorse che permettono al sistema di fare affidamento su una base di risorse materiali ed immateriali sempre più ampia (AIE);
- Attrazione del talento: ovvero attrazione di asset di capitale intangibile (soprattutto umano) altamente qualificati e specifici (ATE);
- Gestione delle criticità sociali e dell'emarginazione: capacità di utilizzare la cultura come fattore di coesione sociale e di mediazione dei conflitti (GCS);
- Sviluppo del talento locale: capacità del territorio di creare opportunità sulla base del talento (STL);
- Partecipazione dei cittadini e della comunità locale: esistenza di meccanismi sociali di rafforzamento della motivazione all'accesso alle opportunità culturali e formative (PAC);
- Qualità della governance locale: capacità di pensare strategicamente e di organizzare/facilitare il processo di sviluppo locale da parte della pubblica amministrazione (QGL);
- Qualità della produzione di conoscenza: presenza dio attività di formazione e ricerca di alto profilo nei campi della ricerca di base, applicata e del trasferimento tecnologico (QPC);
- Networking interno (locale): capacità di costruire e stabilizzare reti locali attive e coese di operatori del territorio (NI);
- Networking esterno: capacità di costruire e stabilizzare reti sovralocali, nazionali ed internazionali di operatori e territori (CNE).
Ognuna di queste azioni può essere raggruppata in sottoinsiemi, che ne sintetizzano le specificità:
- la qualità QOC, QGL, QPC
- lo sviluppo SIM, STL
- l'attrazione AIE, ATE
- la socialità GCS, CFC, PAC
- il networking NI, NE
Una attenta riflessione mostra come questa griglia strategica caratterizzi l'insieme dei fattori critici che permettono lo sviluppo dei distretti culturali evoluti e generalizzano le forme elementari di distretto prima descritte in un quadro concettuale più ampio e comprensivo. Nel nuovo contesto che si va definendo, una vera politica di sviluppo fondata sulla cultura, la creatività e la conoscenza deve arrivare a presidiare strategicamente ciascuna delle dodici dimensioni, soprattutto in un'ottica di medio-lungo termine. I risultati di queste politiche devono poi tradursi nella produzione/accumulazione di una specifica forma di capitale, di natura tangibile o intangibile, che costituisce a tutti gli effetti il deposito del valore prodotto dal territorio.
4. Quale ruolo per le fondazioni nei modelli di distretto culturale evoluto
All'interno del quadro appena tracciato, è possibile sviluppare una riflessione sul ruolo delle fondazioni bancarie all'interno dei nuovi modelli di sviluppo locale. La tradizionale vocazione filantropica e attenta anche alle micro-necessità del territorio ha portato in molti casi a modelli di intervento fortemente parcellizzati e caratterizzati più da un atteggiamento di risposta alle sollecitazioni provenienti dal territorio che da una visione strategica compiuta e organizzata per obiettivi. Se questo modello poteva avere una sua ragione di essere in una fase nella quale la cultura costituiva un settore relativamente marginale per lo sviluppo competitivo del territorio, all'interno del nuovo contesto esso rischia di produrre forti criticità.
Nel nuovo contesto, per le fondazioni si aprono infatti nuove possibilità, sia in termini di facilitazione e coordinamento dell'azione degli altri operatori locali, sia in termini di vera e propria leadership nell'individuazione e nell'implementazione di azioni e progetti dalla particolare rilevanza strategica alla luce della griglia concettuale delle dodici dimensioni sopra discusse (e quindi in primis con riferimento alla QGL che interessa il modus operandi vero e proprio delle fondazioni). Di fronte alle crescenti difficoltà delle pubbliche amministrazioni e alla relativa frammentazione di un sistema produttivo caratterizzato dalla piccola-media impresa e quindi relativamente poco capace di mettere in atto processi di coordinamento sistemico e di investimento strategico a lungo termine, la peculiarità storico-istituzionale delle fondazioni bancarie nel contesto italiano costituisce uno dei nostri asset più rilevanti e preziosi nell'affrontare le nuove sfide competitive.
Uno degli aspetti più critici in questo senso è la necessità di interpretare l'azione delle fondazioni in campo culturale in termini di qualità dell'offerta culturale (QOC), della ricerca e della produzione di conoscenza (QPC) intese come superamento di una visione di sostegno localistico fine a se stesso a favore di un confronto con i più alti standard di eccellenza nazionali ed internazionali, e con una conseguente presa d'atto della necessità di costruire un pubblico culturale e più in generale una società della conoscenza sempre più inclusiva, socialmente diversificata e solida. Di conseguenza si richiede un'attenzione sempre maggiore ai criteri di verifica ex post dell'impatto sociale e culturale delle iniziative messe in atto e finanziate negli esercizi precedenti, anche sulla base di stringenti benchmark con istituzioni analoghe e comparabili. Troppo spesso infatti il sostegno e la promozione delle attività culturali da parte delle fondazioni bancarie finisce per supportare sì il genius loci, ma senza che ciò produca degli effetti durevoli e delle trasformazioni strutturali profonde del sistema culturale - e quindi del sistema produttivo - locale.
Diviene in particolare necessario elaborare delle strategie precise dal punto di vista della valorizzazione reale ma anche rigorosa del talento e dell'imprenditoria culturale e creativa locale, come dell'attrazione del talento e delle risorse esterne. Bisogna superare le vecchie e sterili barriere mentali tra il culturale e il sociale, per capire che nel nuovo scenario i due aspetti sono facce della stessa medaglia: sempre più il disagio è il riflesso di una mancanza di opportunità di sviluppo umano, e sempre di più il sottosviluppo culturale è a sua volta il riflesso di criticità sociali mal comprese e male affrontate. E pertanto c'é bisogno, anche da parte delle fondazioni, di una strategia di intervento basata soprattutto sulla capacità di cogliere le interdipendenze critiche tra le due dimensioni e di affrontarle in modo incisivo con azioni fortemente innovative.
C'é bisogno, infine, di lavorare, al di là di ogni retorica, sullo sviluppo delle reti cooperative locali e internazionali che permettono il coordinamento strategico egli attori all'interno del territorio e la loro capacità di dare vita a processi di cooperazione con attori e territori caratterizzati da dinamiche socio-economio-culturali simili o complementari: un aspetto centrale nelle politiche culturali europee, e in particolare nella logica di allocazione dei fondi strutturali, ma ancora mal compreso, o comunque interpretato in senso fortemente strumentale e opportunistico da molti territori. Le fondazioni possono divenire, prima ancora che un soggetto erogatore, un luogo di elaborazione di quel pensiero strategico che è indispensabile per tradurre questa complessità, ormai ineludibile, in un progetto coerente di sviluppo del territorio, non in maniera competitiva ed esclusiva rispetto alle istituzioni pubbliche e agli altri soggetti privati, ma al contrario come elemento pro-attivo di cooperazione su larga scala. Questo ruolo è , di fatto, iscritto nella missione istituzionale delle fondazioni così come si va riconfigurando ed attualizzando nei nuovi scenari, e rappresenta un'opportunità che non va elusa, nell'interesse della sostenibilità economica e sociale del nostro sistema paese, che continua a presentare elementi di criticità da non sottovalutare.
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Note
[*] Testo della relazione discussa nel seminario Acri sulle Attività museali, tenutosi a Roma il 21 marzo 2007.
[1] Alcuni (Costi, 2000; Amorosino, 2003; Gatti, 2005) considerano le fondazioni bancarie come persone giuridiche private di diritto speciale, soggette in parte a norme di diritto comune e assoggettate in parte a norme speciali in considerazione dei loro ingenti patrimoni e della necessità del potere esecutivo di mantenere un certo controllo sulla destinazione degli stessi (Gatti, 2005). Una sorta di sospensione tra dirigismo amministrativo, controllo politico ed autonomia privata (Amorosino, 2003).
[2] Nel modello di Weisbrod lo Stato non produce un volume ottimale di beni pubblici capace di soddisfare le necessità di tutte le fasce di cittadini. Tale carenza va ricondotta alla calibrazione delle politiche pubbliche sulle esigenze dell'elettore mediano, il che porta alla convergenza "verso il centro" dei programmi di governo dei candidati elettorali, convergenza che determina una conseguente parziale copertura delle esigenze espresse dai cittadini portatori delle posizioni più estreme. Nel modello di Hansmann, l'aspetto rilevante è quello dei fallimenti del contratto dovuti a specifiche asimmetrie informative tra produttori e consumatori di determinati beni. Ciò determina una struttura di incentivi tale per cui la massimizzazione del profitto induce un fornitore a ridurre i costi di produzione dei beni e dei servizi offerti, riducendone di conseguenza la qualità.
[3] Entrambi gli approcci sono comunque oggetto di osservazioni critiche (Weiss, 1985, Bonetti e Mellano, 2004, Sacco e Zarri, 2006).