La elaborazione del "diritto dei beni culturali" nella giurisprudenza costituzionale
Parte seconda - La giurisprudenza costituzionale in materia
di beni culturali
dai suoi esordi alla riforma del Titolo V della Costituzione
Sommario: 1. La Corte contribuisce ad integrare la disciplina del regime giuridico. - 2. La Corte contribuisce ad integrare la disciplina sulla distribuzione delle competenze legislative ed amministrative.
1. La Corte contribuisce ad integrare la disciplina del regime giuridico
L'esposizione non può non prendere le mosse dalla interpretazione dell'art. 9 Cost. offerta dalla Corte.
Secondo il giudice delle leggi, la norma costituzionale «impegna la Repubblica ad assicurare, tra l'altro, la promozione e lo sviluppo della cultura nonché la tutela del patrimonio storico ed artistico della Nazione, quale testimonianza materiale della civiltà e della cultura del Paese. Anche per quanto si desume da altri precetti costituzionali, lo Stato deve curare la formazione culturale dei consociati alla quale concorre ogni valore idoneo a sollecitare e ad arricchire la loro sensibilità come persone, nonché il perfezionamento della loro personalità ed il progresso anche spirituale oltre che materiale. In particolare, lo Stato, nel porsi gli obiettivi della promozione e dello sviluppo della cultura, deve provvedere alla tutela dei beni che sono testimonianza materiale di essa ed assumono rilievo strumentale per il raggiungimento dei suddetti obiettivi sia per il loro valore culturale intrinseco sia per il riferimento alla storia della civiltà e del costume anche locale; deve, inoltre, assicurare alla collettività il godimento dei valori culturali espressi da essa» [1].
Passando all'esame del contributo della Corte relativo specificamente ai quattro sistemi in cui si articola la disciplina giuridica dei beni culturali meritano di essere segnalate le seguenti sentenze.
a) con riguardo alla identificazione
Nel dichiarare infondata, in riferimento all'art. 9 Cost., la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge 1089/1939, nella parte in cui non prevedono la possibilità di tutelare attività culturalmente rilevanti, caratterizzanti una zona del territorio cittadino, ed in particolare i centri storici [2], la Corte ha affermato che, allorché il valore culturale dei beni sia «dato dal collegamento del loro uso e della loro utilizzazione pregressi con accadimenti della storia, della civiltà o del costume anche locale (...) detta utilizzazione non assume rilievo autonomo, separato e distinto, ma si compenetra nelle cose che ne costituiscono il supporto materiale e, quindi, non può essere protetta separatamente dal bene». Pertanto, il «vincolo di destinazione che agisce sulla proprietà del bene e può trovare giustificazione, per i profili costituzionali, nella funzione sociale che la proprietà privata deve svolgere (art. 42 della Costituzione (...) non può assolutamente riguardare l'attività culturale in sé e per sé, cioè, considerata separatamente dal bene», che, «invece, deve essere libera secondo i precetti costituzionali (artt. 2, 9 e 33)».
b) con riguardo alla conservazione
Prima di entrare nel merito dell'analisi delle pronunce della Corte aventi ad oggetto questioni relative alla conservazione, è opportuno precisare che il sistema ad essa relativo dettato dalla legge va articolato - come si è spiegato altrove [3] - in due distinti sub-sistemi: quello della conservazione in senso stretto - che assume le forme della 'tutela diretta' e della 'tutela indiretta' dei beni - e quello della conservazione in senso lato - che si esplicita negli strumenti giuridici volti, da un lato, a conservare il patrimonio culturale entro i confini nazionali e, dall'altro, a mantenere in capo agli enti pubblici la titolarità della proprietà dei beni medesimi, essendo ad essa collegato, come è ben noto, un particolare regime giuridico della accessibilità e della fruizione.
Con riguardo agli strumenti della tutela diretta, e, segnatamente, al restauro, la Corte ha avuto modo di affermare che trattasi di «un'attività che ha caratteristiche proprie (...), un proprio peculiare contenuto ed (...) una consolidata autonomia concettuale e definitoria» [4]. Invero, secondo il giudice delle leggi, manutenzione e restauro non sono attività tra loro assimilabili o fungibili: incidendo sulla consistenza fisica del bene protetto, il restauro è volto a «reintegrare quanto del bene è compromesso, a recuperarne il valore culturale originario, ad assicurare, mediante le appropriate modificazioni, la possibilità di tramandarne l'esistenza ed il messaggio ideale», laddove - invece - la manutenzione si sostanzia nel mero «mantenimento delle condizioni, per lo più esterne, di conservazione della cosa» [5].
Quanto ai divieti, e segnatamente al divieto di smembramento, senza preventiva autorizzazione ministeriale, delle collezioni notificate, la Corte], restando nel solco di una sua costante giurisprudenza [6], ha affermato che «non deve farsi luogo ad indennizzo allorché i limiti imposti alla proprietà privata, nell'ambito delle garanzie costituzionali, si riferiscano a modi di godimento di intere categorie di beni, né quando sia regolata la situazione che i beni stessi hanno rispetto ad interessi della pubblica amministrazione, sempreché la legge (...) abbia per destinataria la generalità dei soggetti» [7].
Ad avviso del giudice delle leggi, infatti, «La vigente disciplina legislativa in tema di tutela delle cose d'arte trova rispondenza nell'art. 9 Cost.»: pertanto, il censurato art. 5, legge 1089/1939 - argomenta - «lungi dal menomare il contenuto patrimoniale degli oggetti facenti parte delle collezioni, è diretto a garantirne la destinazione unitaria, stante l'eccezionale valore artistico o storico che gli oggetti stessi rivestono nel loro complesso e non nella singola individualità di ciascuno di essi», con ciò non violando l'art. 42 Cost., «che prevede un indennizzo per l'imposizione di vincoli sostanzialmente ablativi», i quali non ricorrono nel caso di specie, giacché «lo smembramento di una collezione (...) non può in alcun modo intendersi come una violazione del diritto di proprietà, cui debba seguire un indennizzo».
Con riguardo, invece, agli strumenti di tutela indiretta, nella sentenza 202/1974 la Corte ha avuto modo di affermare (anzi, di ribadire [8]) che l'art. 42, comma 3, Cost. «non impone indennizzo quando la legge regoli in via generale i diritti dominicali in relazione a determinati beni ed al fine di assicurarne la funzione sociale e per evitare lesioni all'interesse pubblico», ricordando che «La riserva di legge espressa nel citato articolo consente al legislatore di attribuire alla pubblica amministrazione il potere di incidere sulla concreta disciplina del godimento degli immobili "qualora nella legge ordinaria siano contenuti elementi e criteri idonei a delimitare chiaramente la discrezionalità dell'amministrazione"» [9].
Pertanto, la norma impugnata (nel caso di specie l'art. 21, comma 1, legge 1089/1939) non viola il precetto costituzionale, in quanto «non concerne l'espropriazione di immobili di proprietà privata, ma attribuisce al ministro (...) la facoltà di prescrivere le distanze, le misure e le altre norme dirette ad evitare che sia posta in pericolo la integrità delle cose che presentano interesse»; ovvero, «riconoscendo l'inerenza di un pubblico interesse rispetto alla categoria dei beni predetti, ne disciplina il regime, accordando alla pubblica amministrazione il potere di imporre dei limiti all'esercizio dei diritti privati in relazione ad un preciso interesse pubblico in base ad apprezzamento tecnico sufficientemente definito e controllabile, la cui discrezionalità è chiaramente determinata». Né, ad avviso del giudice delle leggi, sussiste violazione del principio di eguaglianza: invero, prevedendo la norma in questione «nessuna ablazione del diritto di proprietà», la situazione che essa determina «non è in alcun modo parificabile a quella del proprietario espropriato». In conclusione, escludendo che il vincolo ex art. 21 comporti espropriazione, la Corte valorizza la funzionalizzazione della proprietà privata al perseguimento dell'interesse pubblico [10].
Venendo al sub-sistema della conservazione in senso lato, e segnatamente alla disciplina della esportazione, va fatto cenno alla sentenza 278/1991 [11], nella quale la Consulta - nel risolvere una questione di competenza [12] - dichiara espressamente che «le funzioni delegate relative all'esportazione (...) sono strumenti essenziali al fine di un organico esercizio delle competenze "proprie" concernenti l'integrità del patrimonio artistico e bibliografico d'interesse locale, nel senso che la tutela della predetta integrità non può considerarsi pienamente assicurata ove le regioni non potessero esercitare i poteri sull'esportazione delle cose appartenenti al menzionato patrimonio» [13], così chiarendo definitivamente che la disciplina della esportazione merita di essere classificata a pieno titolo nell'ambito della tutela [14].
c) con riguardo al godimento
La Consulta ha avuto modo di esprimersi sulla prelazione artistica, sostenendo che - in caso di alienazione di cose di interesse storico e artistico, denunciata in violazione delle prescrizioni di legge - il ministro ha facoltà di procedervi, oltre che senza limiti di tempo, anche al medesimo prezzo stabilito nell'atto di alienazione [15].
Il giudice delle leggi afferma che trattasi di un istituto «del tutto peculiare», il quale, pur manifestando «un profilo autoritativo» e «una sostanza ablativa», va tenuto ben distinto dagli «ordinari provvedimenti di natura espropriativa» previsti per beni di altra natura.
A giudizio della Corte, infatti, non può trascurarsi «di considerare il carattere del tutto peculiare del regime giuridico fissato (...) dalla legge 1089 del 1939 e, nell'ambito di tale regime, dell'istituto della prelazione storico-artistica: un regime che trova nell'art. 9 della Costituzione il suo fondamento e che si giustifica nella sua specificità in relazione al fine di salvaguardare beni cui sono connessi interessi primari per la vita culturale del paese. L'esigenza di conservare e di garantire la fruizione da parte della collettività (...) giustifica (...) l'adozione di particolari misure di tutela che si realizzano attraverso poteri della pubblica amministrazioni e vincoli per i privati differenziati dai poteri e dai vincoli operanti per altre categorie di beni, sia pure gravati da limiti connessi al perseguimento di interessi pubblici» [16].
Pertanto, è da escludere che la mancata sottoposizione della prelazione artistica a termini decadenziali, analogamente a quanto è rigorosamente stabilito per le espropriazioni, comporti violazione del principio di eguaglianza.
d) con riguardo alla valorizzazione
Nelle (poche) sentenze di questo primo periodo, che affrontano, sia pure in via indiretta, il tema della valorizzazione, la Corte esclude che essa possa considerarsi un compito a sé stante, dotato, al pari della tutela, di una propria identità giuridica e di una sua specifica teleologia. I percorsi argomentativi seguiti dal giudice delle leggi, in perfetta sintonia con il dato normativo vigente - nel quale, come è ben noto, il profilo della valorizzazione non è ancora adeguatamente tematizzato - autorizzano a ritenere che la valorizzazione sia stata riguardata dalla Consulta come un ambito materiale sostanzialmente coincidente con quello della gestione dei servizi che oggi definiremmo di accoglienza culturale e di ospitalità [17].
2. La Corte contribuisce ad integrare la disciplina sulla distribuzione delle competenze legislative ed amministrative
Con riguardo al ruolo svolto dalla Corte costituzionale in ordine alla disciplina della distribuzione delle competenze fino alla riforma del Titolo V Cost. del 2001, va rilevato che questo può ben dirsi, prima ancora che integrativo, un vero e proprio ruolo di supplenza. La circostanza si spiega agevolmente ove si rifletta sulla perdurante latitanza del legislatore nel definire con puntualità le funzioni amministrative in materia di tutela e di valorizzazione del patrimonio culturale nazionale spettanti alle regioni ed agli enti locali.
Il giudice costituzionale, pertanto, si è trovato costretto, spesso suo malgrado, a disimpegnarsi, da un lato, nella definizione dei confini della materia 'musei e biblioteche di enti locali e di interesse locale'; e, dall'altro, nella individuazione dei compiti spettanti al sistema delle autonomie.
Con riferimento al primo profilo, va richiamata la sentenza 921/1988 [18], la quale può ben dirsi riassuma in modo esemplare l'orientamento della Consulta sul punto. In questa pronuncia, infatti, la Corte - dopo aver rammentato che «la materia dei musei e delle biblioteche di enti locali ha avuto nella Costituzione (art. 117) e nella legislazione successiva una diretta ed esclusiva inerenza regionale» - ripercorre le tappe che, a far data dai primissimi anni Cinquanta, hanno scandito l'evoluzione della disciplina per l'esercizio della potestà legislativa ed amministrativa delle regioni nella materia de qua, per giungere a concludere che «la sequenza normativa ha attribuito all'espressione "musei e biblioteche di enti locali" contenuta nell'art. 117 Cost.» una dimensione decisamente «ampia (...), relativa non solo ai musei e alle biblioteche dei comuni, delle province e delle regioni, ma anche a quelli di enti pubblici non territoriali e di privati». E, come a fugare ogni dubbio, afferma espressamente che l'art. 47 del d.p.r. 616/1977 «riassume la evoluzione normativa, svincolando la competenza regionale dalla territorialità dell'ente e collegandola alla località dell'interesse», specificando, subito dopo, che «Tale interesse non si identifica soltanto con la struttura immobiliare (e con le cose da questa custodite), ma è caratterizzato da profili dinamici, in quanto comprende, oltre la conservazione e il funzionamento, l'uso pubblico e l'incremento dei beni e delle attività attraverso essi realizzate» [19].
Con riferimento alla definizione dei compiti spettanti al sistema delle autonomie meritano di essere segnalate le seguenti sentenze.
a) con riguardo alla identificazione
Nella sentenza 178/1971 [20], la Corte ha avuto modo di chiarire che, sebbene in forza dell'art. 14, lett. n), dello Statuto, alla regione Sicilia sia attribuita potestà legislativa esclusiva, con conseguente competenza amministrativa, in materia di «conservazione delle antichità e delle opere artistiche», pur tuttavia, fin quando non vengano emanate le norme di attuazione previste dall'art. 43 dello Statuto, il trasferimento alla regione dei poteri contemplati dall'art. 14, lett. n) non può ritenersi attuato.
Ove tali norme fossero state emanate - così conclude il giudice delle leggi - «sarebbe rientrata nella competenza della regione la stessa declaratoria di "particolare interesse archeologico" che, invece, in assenza di tali norme è stata legittimamente decretata dal ministero della Pubblica Istruzione».
Viceversa - prosegue la Consulta -, poiché le norme di attuazione riguardanti il demanio e il patrimonio sono state emanate (ex d.p.r. 1825/1961), gli artt. 32 e 33 dello Statuto, i quali assegnano alla regione i beni del demanio statale presenti sul territorio regionale, nonché altri beni dello Stato, «tra i quali "le cose d'interesse storico, archeologico, paleontologico e artistico, da chiunque ed in qualunque luogo ritrovate nel sottosuolo regionale"») devono ritenersi già operanti. Sebbene l'effettivo passaggio di detti beni alla regione sia subordinato, ex art. 5 del succitato decreto, alla compilazione di appositi elenchi (che, per quanto attiene al ramo artistico-storico-archeologico, non sono stati ancora approvati), ciò nondimeno, ad avviso della Corte, nel caso di specie, trattandosi della «prima acquisizione alla proprietà pubblica di un bene già in proprietà privata», può essere disposta l'immediata assegnazione a favore della regione.
Appare in qualche modo riconducibile all'area della identificazione anche la sentenza 1034/1988, con la quale la Corte ha risolto la questione concernente l'individuazione degli uffici competenti a ricevere i rapporti per le violazioni di cui all'art. 58 della legge 1089/1939 [21].
Dopo aver chiarito che «Spetta allo Stato individuare gli uffici dei ministeri, competenti a ricevere il rapporto per l'applicazione delle sanzioni amministrative ai sensi dell'art. 17 legge 24 novembre 1981, n. 689 (...) quando si tratti di violazioni di norme disciplinanti materie di competenza statale, tanto se esercitate da uffici statali quanto se esercitate dai comuni o da altri enti locali», e che, diversamente, spetta alle regioni quando si tratti di violazione di norme disciplinanti materie di competenza regionale, la Consulta afferma perentoriamente che «non vi può essere dubbio che, per la parte in cui trova applicazione ai beni culturali rientranti nelle raccolte locali, l'art. 58 si riferisce a materie trasferite alle regioni dall'art. 7 del d.p.r. 14 gennaio 1972, n. 3, e dall'art. 47 del d.p.r. 24 luglio 1977, n. 616, materie che, a loro volta, radicano la competenza regionale sulle correlative misure di polizia amministrativa».
b) con riguardo alla conservazione
Come si è poc'anzi riferito, l'assenza di una puntuale individuazione, ad opera del legislatore, delle funzioni amministrative in ordine alla conservazione dei «musei e biblioteche di ente locale e di interesse locale», ovvero delle «cose» in essi esposte o conservate, spettanti al sistema delle autonomie, ha 'costretto' il giudice delle leggi a tipizzare un possibile criterio di riparto della competenza.
Detto criterio è quello della 'territorialità dell'interesse', la cui ampiezza di definizione è apparsa, però, tutt'altro che pacifica. Ed invero, se, in alcuni casi, la Corte sembra derivare la 'località' dell'interesse dalla titolarità della proprietà e/o dalla 'mera' collocazione del bene; in altri sembra negare tali parametri, fondando la dimensione dell'interesse del bene sul valore intrinseco della «cosa» e sul tipo di attività che su di essa si intende condurre.
Nel solco del primo indirizzo si colloca la già esaminata sentenza 278/1991 [22], con la quale la Consulta - chiamata ad esprimersi sul soggetto da ritenersi titolare dei poteri finalizzati ad assicurare la conservazione in senso lato dei beni raccolti nei musei locali - ha affermato che «non spetta agli uffici di esportazione (...) dipendenti dal ministero rilasciare licenze o nulla-osta per l'esportazione degli oggetti (...) che appartengano alla regione o ad altri enti, anche non territoriali, sottoposti alla sua vigilanza, o comunque, siano d'interesse locale».
A giudizio della Corte, infatti, giacché «I poteri residuati allo Stato dopo il trasferimento delle funzioni amministrative alle regioni, oltre a quelli di direttiva e di sostituzione generalmente previsti per le funzioni delegate, sono poteri strettamente strumentali all'esercizio delle competenze riservate allo stesso Stato a tutela del patrimonio artistico, storico e bibliografico d'interesse nazionale» [23], è da escludersi «che tra le potestà conservate allo Stato possano essere individuati poteri "concorrenti" sugli stessi oggetti che sono stati affidati alle regioni». D'altra parte - prosegue - dal momento che«le funzioni delegate relative all'esportazione (...) sono strumenti essenziali al fine di un organico esercizio delle competenze "proprie" concernenti l'integrità del patrimonio artistico e bibliografico d'interesse locale (...), non si può dubitare che tra le une e le altre competenze sussista una connessione funzionale necessaria, tale che l'eventuale lesione delle competenze delegate non potrebbe non comportare una menomazione di quelle "proprie"».
Di tenore parzialmente dissimile sono le argomentazioni svolte in una pronuncia di qualche anno successiva [24], avente ad oggetto, peraltro, una questione analoga a quella testé riferita.
La Corte, dopo aver rammentato di aver più volte precisato che, a seguito dei trasferimenti delle funzioni operati dal d.p.r. 3/1972 e dal d.p.r. 616/1977, «la materia "musei e biblioteche di enti locali" (...) ha assunto (...) una dimensione che si estende oltre l'ambito soggettivo dell'appartenenza del museo o della biblioteca, per collegare la competenza regionale al profilo oggettivo del carattere locale che tali istituzioni rivestono», con riguardo alla l.r. Piemonte recante «Norme sul prestito e l'esportazione di beni culturali conservati in Piemonte», conclude per la illegittimità della medesima, sulla base della considerazione che «la legge (...) non distingue in alcun modo, nel suo impianto generale, il livello dell'interesse che esprimono i beni culturali» [25]. In ogni caso - specifica -, «Anche prefigurando una competenza regionale in ordine a questi provvedimenti relativi a beni di interesse esclusivamente locale, non può (...) essere omessa la previsione di un collegamento con gli organi dello Stato competenti nella medesima materia e di una comunicazione delle procedure in corso, perché tali organi siano posti in grado di apprezzare se l'esportazione o il prestito, per il valore culturale dei beni, tocchi l'interesse nazionale».
Ed infatti può ben accadere - così prosegue la Consulta - «che, anche quando si rimanga nell'ambito di musei appartenenti ad enti locali», si sia «non di rado (...) in presenza di beni di tale rilevanza artistica e storica, da attingere ad un interesse di dimensione nazionale». Dal che la conclusione che «i criteri soggettivo dell'appartenenza e territoriale della localizzazione del bene non possono costituire decisivo elemento di distinzione delle competenze statali e regionali, anche per quanto concerne l'esportazione o il prestito».
La tesi appena riportata si colloca in linea di continuità e coerenza con quanto il giudice delle leggi aveva avuto modo di affermare nella già citata sentenza 277/1993 [26] - peraltro ascrivibile al secondo indirizzo (quello relativo al valore intrinseco del bene e al tipo di attività) - in ordine alla titolarità dei poteri di conservazione in senso stretto, e segnatamente di quelli di tutela diretta (consistenti, nella fattispecie esaminata, nel rilascio della autorizzazione per interventi di rimozione e restauro), pronunciandosi per il mantenimento di siffatti poteri in capo allo Stato anche quando si tratti di beni appartenenti a musei di enti locali o di interesse locale.
Nella sentenza in parola, dopo aver ricordato che «il d.p.r. 616/1977 ha rinviato la determinazione delle competenze da conferire alle regioni in materia di tutela» ad una apposita legge non ancora emanata, e che, in sua assenza, «la situazione normativa è caratterizzata dall'attribuzione allo Stato dei poteri inerenti alla protezione del patrimonio storico e artistico della Nazione» [27], la Consulta afferma che ben «si può ritenere che non vi è stata una onnicomprensiva attribuzione alle regioni delle funzioni amministrative relative ai beni culturali di interesse locale, idonea a fondare la pretesa dell'esclusione del potere statale di autorizzazione per il restauro di cose di interesse artistico o storico, in ragione di una distinzione di tale competenza ad adottare tale atto basata sull'interesse, nazionale o locale, che il bene esprime.
A giudizio della Corte, infatti, detta distinzione «è stata [sì] assunta a criterio di discriminazione nell'esercizio di competenze statali o regionali, ma esclusivamente per funzioni espressamente delegate alle regioni» [28].Pertanto - conclude - «Non si può (...) ritenere, come vorrebbe la regione ricorrente, che, nell'attuale assetto normativo, la competenza alla manutenzione ed alla conservazione dell'integrità delle cose raccolte e custodite nei musei di interesse locale (...), in funzione della loro gestione e del loro godimento, comprenda anche la competenza ad autorizzare il restauro, che è diretto ad incidere immediatamente sulla consistenza e sulla preservazione del valore culturale di ciascuna cosa di interesse artistico o storico» [29].
Analogamente, nella sentenza 70/1995, la Corte afferma che spetta parimenti allo Stato disciplinare con regolamento la programmazione e la esecuzione di interventi di restauro e manutenzione straordinaria di edifici di interesse storico-artistico, anche quando si tratti di immobili in proprietà di enti pubblici non statali o di privati [30].
A giudizio della Corte - la quale preliminarmente osserva che il regolamento censurato ha ad oggetto «interventi su edifici, in ordine ai quali si manifesta la coesistenza di una molteplicità di interessi pubblici» - la normativa «riguarda espressamente "la necessità di interventi volti a garantire la conservazione del bene"», ovvero la realizzazione di un interesse pubblico che - stante i principi attualmente vigenti in ordine alla ripartizione delle competenze statali e regionali in materia di tutela - è tuttora di competenza esclusiva dello Stato [31]. Essa, perciò, non può considerarsi lesiva delle competenze regionali, «che permangono intoccate in materia urbanistica e per gli interventi diretti al recupero funzionale del patrimonio edilizio esistente, anche mediante opere di manutenzione straordinaria degli immobili» [32].
La 'preferenza' per una allocazione a livello statale delle funzioni amministrative preordinate alla conservazione può rilevarsi anche nella risalente sentenza 74/1969 [33].
Secondo la Consulta, infatti - pur essendo «fuori contestazione che la regione siciliana ha, per l'art. 14, lett. n), dello Statuto speciale competenza legislativa esclusiva in materia di (...) "conservazione delle antichità e delle opere artistiche"» -, è pacifico che, «per diventare operativa», la disposizione statutaria necessiti di norme di attuazione, che precisino, tra l'altro, «il contenuto e i limiti della competenza regionale, anche in riferimento al suo oggetto» [34], tenuto conto - così il giudice delle leggi - che «la conservazione delle cose artistiche e storiche è solo un aspetto della loro tutela» [35], circostanza, quest'ultima, che rende necessario «sia stabilito un coordinamento della funzione di conservazione, attribuita alla regione, con le altre forme di tutela (...) previste dalla legislazione dello Stato».
Non essendosi ancora «realizzate le condizioni per l'esercizio di tale competenza» - questa la tesi della Corte -, può ben dirsi che «nell'attuale situazione normativa, non esiste, nei confronti della regione siciliana, un obbligo negativo dello Stato, di astensione dell'esercizio della propria potestà legislativa ed amministrativa», né tanto meno «un impedimento costituzionale, per lo Stato, a provvedere con legge, in deroga alle leggi generali in materia, e a disporre particolari procedimenti, per la tutela (...) delle cose artistiche, in presenza di particolari esigenze, che, secondo la sua valutazione discrezionale, giustifichino una speciale disciplina della materia, in relazione a località e a beni archeologici determinati» [36].
Quanto alla titolarità dei poteri di tutela indiretta merita di essere richiamata - pur non sembrando propriamente pertinente ai beni culturali stricto sensu - la sentenza 21 luglio 1992, n. 388 [37], giacché la disposizione oggetto di giudizio appare comunque riconducibile al fine ultimo cui è funzionalizzata siffatta forma di conservazione. La Corte considera costituzionalmente legittima la norma che consente al Comune «di precludere nel proprio territorio l'esercizio di determinate attività imprenditoriali, limitatamente agli esercizi commerciali, agli esercizi pubblici e alle imprese artigiane, ritenute incompatibili con la finalità di tutelare le tradizioni locali e le aree di particolare interesse», sulla base della argomentazione che gli interessi che essa intende tutelare troverebbero «fondamento nell'art. 9 Cost.».
In particolare - osserva la Consulta - la disposizione oggetto di impugnazione «rappresenta un ulteriore tentativo del legislatore» (già perseguito con altri interventi, tra i quali la legge 1089/1939, la legislazione urbanistica, la legge 426/1971, la legge 287/1991) rivolto ad «assicurare la tutela delle tradizioni locali e delle aree di particolare interesse site nei territori comunali, caratterizzati da un nucleo edilizio ed abitativo riconducibile al concetto di centro storico il quale rappresenta l'immagine della città ed esprime anche l'essenziale della nostra storia civile ed artistica e della nostra cultura», provando a «raccordare le esigenze relative alle suddette aree con lo sviluppo del commercio». In tal modo - prosegue - «si è voluto porre freno al degrado delle aree di particolare interesse impedendo il moltiplicarsi di esercizi commerciali che, sostituendo quelli tradizionali, per l'attività che vi si svolge, producono effetti dannosi e distorsivi del loro assetto, mentre, invece, meritano protezione le particolari caratteristiche acquisite per lunga tradizione».
c) con riguardo al godimento
Con riguardo al godimento, non risultano sentenze aventi ad oggetto la disciplina della distribuzione delle competenze.
d) con riguardo alla valorizzazione
Con riguardo alla valorizzazione, merita di essere richiamata la già esaminata sentenza 921/1988 [38], nella quale il giudice delle leggi fa chiarezza circa gli ambiti materiali entro i quali, rispettivamente, lo Stato e le regioni esercitano le funzioni e le attività di valorizzazione.
Questo, in estrema sintesi, il ragionamento della Corte: se, per un verso, non può non rilevarsi che «la materia "musei e biblioteche di enti locali" ha avuto nella Costituzione (art. 117) e nella legislazione successiva una diretta ed esclusiva ingerenza regionale», al punto da potersi pacificamente individuare «nella regione il soggetto titolare, oltre che di potestà normativa, anche di attribuzioni amministrative, concernenti la gestione e il finanziamento di tali beni»; per altro verso, però, non può sottacersi che l'evoluzione normativa della materia dei beni culturali «non ha reso (...) operante l'apertura contenuta nell'art. 9 della Costituzione».
Detta norma - così prosegue la Consulta -, «chiamando all'azione per la tutela e l'incremento dei "valori culturali" tutti i soggetti, provvisti di autonomia», in realtà «traduce una visione chiara, intesa a sollecitare il concorso di tutte le istituzioni, la cui sfera di attività possa toccare detti valori» [39]. Secondo il giudice delle leggi, infatti, «Nella visione del legislatore, la posizione della regione si è venuta profilando come quella di un soggetto titolare di un'aspettativa di investitura normativa, che non ha ricevuto concreta ed efficace attuazione».
Pertanto - conclude -, «In attesa della preannunciata normativa di trasferimento o di delega, nella quale dovrebbero essere definite le diverse competenze e il loro congiunto operare per la tutela e l'incremento dei valori culturali», non può non affermarsi che, in detta materia, «la normativa attuale attribuisce alle regioni compiti di (...) valorizzazione, da esplicarsi (...) secondo programmi concordati con lo Stato» [40].
L'impostazione appena riferita è coerente con le argomentazioni svolte, poco meno di un anno prima, nella sentenza 64/1987 [41], nella quale la Consulta ha avuto modo di ribadire che l'ambito di esercizio della competenza regionale in materia di beni culturali è stabilito dall'art. 47 del d.p.r. 616/1977, il quale, «nel definire le funzioni relative alla materia "musei e biblioteche di enti locali" trasferita alla regione (...) precisa che esse concernono i compiti attinenti alla gestione di musei, di raccolte d'interesse artistico, storico e bibliografico, di biblioteche, centri di lettura appartenenti alla regione, ad enti non territoriali sottoposti alla sua vigilanza, o comunque d'interesse locale».
In definitiva, secondo la Corte, posto che l'ambito della competenza regionale «è segnato dalla qualificazione di "interesse locale" dei beni culturali», la normativa impugnata deve ritenersi legittima, giacché l'area sua propria non coincide affatto con quella di competenza regionale, essendo riferita «evidentemente» a beni culturali di interesse non locale.
Note
[1] Così Corte cost., 6 marzo 1990, n. 118. La sentenza ha ad oggetto i giudizi riuniti di legittimità costituzionale in via incidentale, in riferimento all'art. 9 Cost., degli artt. 1 e 2 della legge 1089/1939, nella parte in cui non prevedono la possibilità di tutelare attività tradizionali caratterizzanti una parte del territorio cittadino, ed in particolare i centri storici, entrambi promossi dal Tar Lazio. Con d.m. 12 novembre 1984, il ministro - nel sottoporre a vincolo il Palazzo Fiano in Roma - aveva dichiarato d'interesse particolarmente importante anche la Gioielleria Masenza, in esso ubicata. Con d.m. 4 aprile 1987, il ministro aveva sottoposto a vincolo l'Antico Caffè Genovese di Cagliari. Avverso tali provvedimenti, i proprietari avevano presentato ricorso, deducendo violazione degli artt. 1 e 2 della 'legge Bottai' ed eccesso di potere. Il giudice a quo, nell'osservare che «dal contenuto del decreto impugnato si evince che esso non ha inteso tanto tutelare l'arredo e i decori del locale, quanto, soprattutto, assicurare la continuità dell'attività commerciale», aveva sostenuto l'estraneità di una siffatta finalità alla previsione della legge.
[2] Cfr. Corte cost., sent. 118/1990 cit.
[3] Cfr. G. Clemente di San Luca, R. Savoia, Manuale di diritto dei beni culturali cit., pp. 242 ss.
[4] Corte cost., 28 maggio 1993, n. 277. La sentenza ha ad oggetto il giudizio su conflitto di attribuzione tra enti, promosso dalla regione Liguria, sorto a seguito della nota con la quale il Soprintendente ai beni artistici e storici di Genova ha ingiunto all'Assessore regionale ai beni culturali di sospendere il restauro di un piviale, in deposito presso un museo di interesse locale, perché non preventivamente autorizzato dal ministero. Per un compiuto commento della pronuncia, sia consentito rinviare a G. Clemente di San Luca, Il restauro di beni culturali fra competenza tecnica e autonomia locale, in Id., Cultura, diritto e territorio, Edit. Scient., Napoli, 1994, pp. 103 ss.
[5] Sulle affermazioni rese dal giudice delle leggi in ordine alla titolarità delle competenze si v., infra, par. 2, lett. b) di questa Parte seconda.
[6] Cfr. Corte cost., sentt. 6/1966, 56/1968, 79/1971, 9/1973 e 202/1974.
[7] Corte cost., 9 dicembre 1976, n. 245. La sentenza ha ad oggetto il giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale, in riferimento all'art. 42 Cost., dell' art. 5, legge 1089/1939, sollevato nel corso di un giudizio avviato dall'acquirente di un oggetto d'arte, che il venditore non aveva consegnato, essendo stato imposto alla collezione di cui l'oggetto faceva parte il vincolo di eccezionale interesse. Il giudizio è stato promosso dal Pretore di Firenze, ad avviso del quale «i vincoli alla proprietà che ne annullino o ne diminuiscano notevolmente il contenuto patrimoniale o questo svuotino in modo rilevante ed incisivo, equivarrebbero ad esproprio e sarebbero costituzionalmente illegittimi, quando alla loro imposizione non segua l'indennizzo di cui all'art. 42, terzo comma, della Costituzione».
[8] La Corte richiama espressamente le sentt. 38/1966 e 94/1971.
[9] Corte cost., 27 giugno 1974, n. 202. La sentenza ha ad oggetto il giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale, in riferimento agli artt. 3 e 42, comma 3, Cost., dell'art. 21 comma 1, legge 1089/1939, sorto nel corso del procedimento civile nei confronti del ministero P.I., promosso dai proprietari di un fondo - presso il quale era stato rinvenuto un antico tempio - per ottenere il pagamento di un indennizzo relativo all'imposizione del vincolo indiretto. Il giudizio è stato promosso dal Tribunale di Palermo, ad avviso del quale la norma è da ritenersi illegittima «nella parte in cui non prevede alcun diritto ad indennizzo per le limitazioni imposte alla proprietà privata al fine della salvaguardia degli immobili soggetti alla legge medesima, anche quando le limitazioni assumono contenuto espropriativo».
[10] Sul punto si v., anche, sent. 245/1976 cit. e ordinanza 20 dicembre 1984, n. 309. In quest'ultima - avente ad oggetto il giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale, in riferimento all'art. 42 Cost., dell'art. 21 legge 1089/1939, per la parte in cui attribuisce al ministro P.I. - così il giudice a quo - la facoltà «di imporre qualsiasi altra misura rivolta ad impedire che siano alterate le condizioni dell'ambiente che circonda le cose immobili soggette alla disciplina di detta legge e a vietare, quindi, che nuove costruzioni modifichino la fisionomia della zona, dando così modo di istituire un vero e proprio vincolo di inedificabilità senza indennizzo» - la Corte, coerentemente con quanto sostenuto nella pronuncia appena commentata, ritiene la questione manifestamente infondata.
[11] Corte cost., 23 maggio 1991, n. 278. La sentenza ha ad oggetto il giudizio su conflitto di attribuzione tra enti, sorto a seguito del decreto del ministro del Commercio con l'estero 30 ottobre 1990 («Elenco delle merci sottoposte ad autorizzazione per l'esportazione e per il transito»). Il giudizio è stato promosso dalle regioni Toscana, Liguria e Lombardia, ad avviso delle quali il decreto, nella parte in cui prevede che l'esportazione di codici, manoscritti, incunaboli, stampe, libri e incisioni sia vincolata alla presentazione di una licenza o di un nulla osta, al cui rilascio sono autorizzati esclusivamente gli Uffici di esportazione dipendenti dal ministero per i Beni culturali, non terrebbe conto della assegnazione di competenza operata dall'art. 9, lett. f) del d.p.r. 3/1972 e confermata dagli artt. 47 e 48 del d.p.r. 616/1977; nonché dalla regione Sardegna, la quale ritiene il decreto «invasivo delle attribuzioni di tipo esclusivo ad essa garantite dagli artt. 3, lettera q), 5 e 6 dello Statuto in materia di biblioteche e musei di enti locali, nonché della propria competenza integrativa in materia di antichità e belle arti».
[12] Sul punto si v., infra, il par. 2, lett. b), di questa Parte seconda.
[13] Corsivi di chi scrive.
[14] Per una disamina della pronuncia, sia consentito rinviare a G. Clemente di San Luca, Un altro piccolo passo nella definizione delle competenze in materia di beni culturali, in Id., Cultura, diritto e territorio cit., pp. 95 ss.
[15] Corte cost., 14 giugno 1995, n. 269/1995. La sentenza ha ad oggetto il giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale, in riferimento agli artt. 3 e 42 Cost., del combinato disposto degli artt. 61, 31 e 32 della legge 1089/1939, promosso con ordinanza dalla Corte di Cassazione su ricorsi riuniti contro il ministero per beni culturali ed ambientali. Nel giudizio a quo, i ricorrenti hanno impugnato la decisione con la quale il Consiglio di Stato ha respinto la domanda tendente ad ottenere l'annullamento del decreto con il quale il ministero ha esercitato il diritto di prelazione sul dipinto "Il giardiniere" di Vincent Van Gogh per il prezzo di 600 milioni, in relazione alla vendita, per uguale prezzo, del dipinto medesimo, intervenuta nel 1977 ed irregolarmente denunciata.
[16] D'altra parte - osserva la Corte - se, per un verso, «non si può certo dubitare del fatto che l'esercizio della prelazione a distanza di molto tempo dalla alienazione possa determinare - in conseguenza sia della svalutazione monetaria che della rivalutazione del bene sul mercato - uno scarto anche elevato tra prezzo corrisposto e valore reale del bene "espropriato" con conseguente danno economico per il venditore sottoposto a prelazione tardiva» [ed è proprio questa l'ipotesi che ricorre nella fattispecie in esame], per altro verso, non può non riconoscersi che «il punto decisivo che va rilevato è che il danno economico che i contraenti vengono a subire in conseguenza dell'esercizio ritardato della prelazione (...) non è altro che la conseguenza diretta dell'inadempimento realizzato dagli stessi a seguito della mancata presentazione di una denuncia regolare (...). I rischi che in conseguenza dell'omessa o dell'irregolare denuncia (...) possono determinarsi ai fini della conservazione del bene al patrimonio culturale nazionale vengono (...) a giustificare il particolare rigore della disciplina».
[17] Cfr. sent. 64/1987, sulla quale si v., infra, il par. 2, lett. d) di questa Parte seconda, e sent. 462/1994, aventi ad oggetto, rispettivamente, i giudizi riuniti di legittimità costituzionale di alcune norme della legge 41/1986 (recante disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato), promossi dalle province autonome di Trento e di Bolzano e dalle regioni Toscana e Lombardia; ed il giudizio su conflitto di attribuzione tra enti, promosso dalla regione Umbria, sorto a seguito dell'art. 8, comma 2, del d.m. 171/1994 («Regolamento recante la determinazione di indirizzi, criteri e modalità per la gestione dei servizi aggiuntivi presso i musei, le gallerie, gli scavi archeologici, le biblioteche e gli archivi di stato e gli altri istituti dello Stato consegnatari di beni culturali»), nella parte in cui prevede la possibilità che la gara per la gestione dei servizi aggiuntivi nei musei e negli istituti minori (di cui al comma 1) «comprenda anche l'affidamento dei servizi per musei di enti locali che ne facciano richiesta».
[18] La sentenza ha ad oggetto il giudizio di legittimità costituzionale in via principale, tra gli altri, dell'art. 1, lett. a) del d.l. 371/1987 («Interventi urgenti di adeguamento strutturale e funzionale di immobili destinati ai musei, archivi e biblioteche e provvedimenti urgenti a sostegno delle attività culturali»), convertito con modificazioni nella legge 449/1987. A giudizio della ricorrente regione Lombardia, la norma - per la parte in cui prevede un intervento finanziario dello Stato per la realizzazione di un programma, predisposto dal ministero, volto a garantire l'adeguamento strutturale e funzionale degli immobili destinati a musei, archivi e biblioteche, siano essi in appartenenza dello Stato ovvero di enti pubblici - recherebbe vulnus alle competenze regionali in materia di musei e biblioteche di ente o di interesse locale ex artt. 117 e 118 Cost., come attuati dagli artt. 7 e 9 del d.p.r. 3/1972 e 47 e 49 del d.p.r. 616/1977.
[19] A quest'ultimo riguardo, pur se relativa ad un conflitto di attribuzione fra lo Stato e la regione speciale Sicilia (con la conseguenza che il dictum non è integralmente generalizzabile) va segnalata anche la sentenza, di poco precedente, 20 aprile 1988, n. 479 (avente ad oggetto il giudizio su conflitto di attribuzione, sorto a seguito del d.p.r. 940/1979, con il quale l'Accademia di Scienze Naturali Gioenia, con sede in Catania, è stata autorizzata ad accettare un'eredità). Ad avviso della ricorrente, il provvedimento violerebbe gli artt. 14, lett. r), e 20 dello Statuto, che attribuiscono alla regione, rispettivamente, competenza legislativa esclusiva e competenza amministrativa in materia di «istruzione elementare, musei, biblioteche, accademie». La Corte afferma che spetta alla regione Sicilia il potere di autorizzare le accademie e le biblioteche aventi sede nel territorio regionale all'acquisto di beni immobili e all'accettazione di lasciti e donazioni. La ricostruzione della Consulta muove dall'analisi delle norme statutarie richiamate, le quali «sottopongono le accademie e le biblioteche "per molteplici aspetti ai poteri di supremazia" della regione», nonché dell'art. 1, comma 1, del d.p.r. 635/1975, recante «Norme di attuazione dello statuto della regione siciliana in materia di accademie e biblioteche», secondo il quale «L'amministrazione regionale esercita nel territorio della regione siciliana, le attribuzioni degli organi centrali e periferici dello Stato in materia di biblioteche e accademie». Il giudice delle leggi richiama poi l'art. 15 del d.p.r. 616/1977 «che ha trasferito alle regioni a statuto ordinario le funzioni amministrative concernenti l'acquisto di immobili e l'accettazione di liberalità da parte (...) degli enti pubblici locali operanti nelle materie contemplate dal decreto, tra i quali l'art. 49, terzo comma, annovera anche le istituzioni culturali di interesse locale operanti nel territorio regionale». Pur riconoscendo che il decreto in parola «non è applicabile nella specie, trattandosi di un'istituzione culturale di dimensioni locali operante nel territorio di una regione a statuto speciale», la Corte chiarisce che «Non di meno esso costituisce un indice ermeneutico concludente nel senso che l'art. 1, primo comma, del d.p.r. n. 635 del 1975 comprende tra le attribuzioni statali trasferite alla regione siciliana anche il potere autorizzativo di cui è causa», per poi concludere che «Non si può pensare che una istituzione culturale di interesse locale debba chiedere l'autorizzazione ad accettare un'eredità all'amministrazione regionale, se situata nel territorio di una regione a statuto ordinario, e debba invece ancora chiederla allo Stato se insediata nel territorio della regione siciliana».
[20] Corte cost., 10 novembre 1971, n. 178. La sentenza ha ad oggetto il giudizio su conflitto di attribuzione tra enti, promosso dalla regione Sicilia, sorto a seguito della nota con la quale il ministero delle Finanze, a ridosso della declaratoria di interesse archeologico di alcuni ruderi rinvenuti nell'area dell'antica Naxos adottata dal ministero P.I., ha disposto l'inclusione dei suddetti ruderi tra i beni del demanio statale. La ricorrente deduce la violazione delle competenze regionali costituzionalmente garantite e chiede l'annullamento della nota.
[21] Corte cost., 27 ottobre 1988, n. 1034. La sentenza ha ad oggetto i giudizi su conflitto di attribuzione tra enti, promossi dalle regioni Toscana e Liguria, sorti a seguito del d.p.r. 571/1982, recante norme per l'attuazione, tra gli altri, dell'art. 17, penultimo comma, della legge 689/1981, concernente modifiche al sistema penale. La norma dispone la competenza degli uffici periferici del ministero per i Beni culturali a ricevere i rapporti per le violazioni di cui all'art. 58 della legge 1089/1939 (mancata - o inesatta - presentazione, senza giustificato motivo, entro i termini prescritti dal ministro, dei c.d. 'elenchi descrittivi' previsti dall'art. 4 della medesima legge). Le ricorrenti ritengono «che tale previsione leda la propria competenza nella parte in cui si riferisce anche a beni culturali facenti parte di raccolte di enti locali».
[22] Si v., retro, par. 1, lett. b), di questa Parte seconda.
[23] Corsivo di chi scrive.
[24] Corte cost., 19 luglio 1994, n. 339. La sentenza ha ad oggetto il giudizio di legittimità costituzionale in via principale, in riferimento agli artt. 9, 10, 25, 41, 42, 97 e 117 Cost., della l.r. Piemonte 12 ottobre 1993, recante «Norme sul prestito e l'esportazione di beni culturali conservati in Piemonte». Il giudizio è stato promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri, ad avviso del quale la normativa regionale si risolverebbe in una vera e propria avocazione da parte della regione di funzioni legislative ed amministrative statali. In particolare, il ricorrente deduce che la legge «definisce il suo campo di applicazione in base a criteri soggettivi e formali, quali l'appartenenza giuridica dei beni, che non riflettono un carattere locale dell'interesse», intervenendo «su aspetti, come l'esportazione, in cui la tutela è inscindibilmente legata alla nazionalità dell'interesse».
[25] Invero - argomenta la Corte - riferendosi genericamente «a beni culturali "conservati in Piemonte"», la legge finisce con l'attribuire «rilievo al luogo di collocazione delle cose, senza che in alcun modo risulti che la disciplina dettata dalla legge regionale riguarda beni culturali di interesse locale e non nazionale». Ed invece - prosegue - va rilevato «che, anche quando si rimanga nell'ambito di musei appartenenti ad enti locali, non di rado si è in presenza di beni di tale rilevanza artistica e storica, da attingere ad un interesse di dimensione nazionale». Dal ché la conclusione che «i criteri soggettivo dell'appartenenza e territoriale della localizzazione del bene non possono costituire decisivo elemento di distinzione delle competenze statali e regionali, anche per quanto concerne l'esportazione o il prestito».
[26] Si v., retro, par. 1, lett. b) di questa Parte seconda.
[27] Così la Corte nella sent. 921/1988 cit.
[28] Dal che la considerazione che «Difficilmente (...) si può sostenere che, per altre funzioni non delegate, la competenza attribuita alle regioni sia addirittura più ampia di quella ad esse espressamente devoluta in forza di apposite deleghe».
[29] Sempre con riguardo al restauro - sebbene la relativa materia del contendere sia poi cessata -, va riferita anche la sentenza 18 aprile 1996, n. 136, avente ad oggetto il giudizio su conflitto di attribuzione tra enti, promosso dalla regione Umbria nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, sorto a seguito della nota della soprintendenza di Perugia con la quale si rifiuta l'autorizzazione al restauro di un dipinto su tela, appartenente alla Pinacoteca comunale di Spoleto, «solo perché la richiesta di autorizzazione è stata trasmessa dalla regione e non dal comune». La ricorrente chiede si dichiari che non può negarsi l'autorizzazione solo perché la relativa richiesta non sia stata avanzata dal proprietario ed il conseguente annullamento della nota, deducendo che sarebbero state lese competenze ad essa attribuite dagli artt. 117 e 118 Cost., ed attuate dagli artt. 7 d.p.r. 3/1972 e 47 e 48 d.p.r. 616/1977. La regione, se per un verso, coerentemente con la giurisprudenza della Consulta, distingue il restauro dalla manutenzione e riconosce che lo Stato conserva la potestà di autorizzarlo anche quando si tratti di beni appartenenti a musei di enti locali; per altro verso, sostiene che «la disciplina delle modalità di trasmissione delle richieste di autorizzazione» dovrebbe essere compresa nel potere, attribuito alla regione, di individuare le opere da restaurare e di programmare gli interventi. Per contro, ad avviso dell'Avvocatura dello Stato, seguendo la prospettata interpretazione, «la regione interferirebbe nell'esercizio di una competenza statale e l'autorizzazione al restauro, da autonomo provvedimento, sarebbe degradata ad atto consultivo o istruttorio, interno ad un procedimento regionale». La Corte ha deciso di non pronunciarsi, dichiarando la cessazione della materia del contendere, giacché la Soprintendenza «ha espresso parere favorevole ai lavori proposti», avendo «considerata la necessità di provvedere al restauro dell'opera d'arte per la quale era stata avanzata la relativa richiesta»: pertanto, «L'atto in relazione al quale il conflitto è sorto è stato (...) modificato in conformità all'interesse della regione ricorrente».
[30] Corte cost., 22 febbraio 1995, n. 70. La sentenza ha ad oggetto il giudizio su conflitto di attribuzione tra enti avverso gli artt. 1 e 2 del d.p.r. 368/1994, contenente «Regolamento recante semplificazione del procedimento di programmazione ed esecuzione di interventi di manutenzione straordinaria su edifici di interesse storico-artistico». Il giudizio è stato promosso dalla regione Toscana, ad avviso della quale le norme impugnate - le quali, rispettivamente, dispongono che il procedimento in questione ha ad oggetto anche immobili non statali ed affidano alle Soprintendenze competenti per territorio l'individuazione di quelli che necessitano di interventi conservativi - violerebbero le competenze riservatele dall'art. 117 Cost. ed attuate ex art. 12 della legge 537/1993. Tale ultima disposizione, che ha attribuito «alle regioni i fondi del ministero dei Lavori pubblici destinati alle spese per gli immobili di interesse storico-artistico avrebbe trasferito - così sostiene la ricorrente - anche le relative competenze. Peraltro - annota la regione -, «gli interventi di restauro e manutenzione straordinaria si inseriscono nel recupero del patrimonio edilizio esistente, materia compresa in quella urbanistica, di competenza regionale».
[31] Sul punto la Corte richiama espressamente le sentt. 339/1994 cit., 277/1993 cit. e 921/1988 cit. Quanto alla censura mossa dalla ricorrente, assai efficacemente la Corte afferma che «L'attribuzione alle regioni dei fondi in precedenza attribuiti al ministero dei Lavori pubblici per la manutenzione straordinaria ed il restauro di immobili non statali di interesse artistico o storico, anche ove implichi trasferimento delle relative competenze, non vale ad escludere o ad assorbire le diverse e distinte competenze del ministero per i beni culturali ed ambientali, dirette ad assicurare la conservazione e ad impedire il deterioramento delle cose di interesse artistico e storico, anche mediante i necessari interventi di restauro e di manutenzione straordinaria degli immobili che presentano tale interesse» (i corsivi sono di chi scrive).
[32] In sede di considerazioni finali, poi, la Corte osserva che «Le competenze statali e regionali sono differenziate nella cura di interesse pubblici diversi e complementari. Quando esse incidano sugli stessi immobili, la cura dei due interessi richiede, secondo principi generali, la cooperazione tra amministrazioni diverse, che è sempre necessaria quando vi sia concorso di competenze».
[33] Corte cost., 27 marzo 1969, n. 74. La sentenza ha ad oggetto il giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 2-bis della legge 749/1966 (contenente provvedimenti a favore della città di Agrigento in conseguenza del movimento franoso di quello stesso anno), nonché su conflitto di attribuzione tra enti sorto a seguito del decreto interministeriale 16 maggio 1968, emanato in attuazione dell'articolo suddetto. La norma censurata aveva dichiarato la Valle dei Templi «zona archeologica di interesse nazionale», e stabilito, altresì, che il ministro P.I., d'intesa con quello per i lavori pubblici, avrebbe determinato con proprio decreto «il perimetro della zona, le prescrizioni di uso e i vincoli di inedificabilità». Il giudizio è stato promosso dalla regione Sicilia, ad avviso della quale, la disposizione impugnata - contenendo una norma di legge speciale, in quanto introduce, per la sola Valle dei Templi, un vincolo che non trova riscontro nella legislazione di tutela - invaderebbe la sua competenza legislativa esclusiva in materia di «conservazione delle antichità e delle opere artistiche» (ex art. 14, lett. n, dello Statuto).
[34] Corsivo di chi scrive.
[35] Ed invero - annota la Consulta -, nella legge 1089/1939 «la conservazione (...) forma oggetto solo di una parte delle disposizioni in essa contenute (quelle del capo II), mentre le disposizioni successive riguardano l'alienazione e gli altri modi di trasmissione delle cose (...), la loro esportazione e importazione (...), i ritrovamenti e le scoperte (...), le riproduzioni e il godimento pubblico (...) e le sanzioni».
[36] Peraltro - osserva la Consulta in sede di conclusioni -, «Per il suo stesso carattere speciale, la norma impugnata non sottrae alla regione la materia che le è stata genericamente attribuita dalla norma statutaria, né preclude l'esercizio futuro della sua competenza». Sullo stesso tema, si v. anche Corte cost., 12 luglio 1976, n. 169. La sentenza ha ad oggetto i giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 4, del d.l. 657/1974 (istitutivo del ministero per i Beni culturali e ambientali), promossi dalle giunte provinciali di Trento e Bolzano. Ad avviso delle ricorrenti, la disposizione impugnata - per la parte in cui attribuisce al neonato dicastero il compito di promuovere, «ferme restando le competenze regionali», e «sentite le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano», le iniziative necessarie per la protezione del patrimonio storico ed artistico della Nazione, nonché per la protezione dell'ambiente, con riguardo alle zone archeologiche e naturali» - violerebbe gli artt. 8, nn. 3 e 6, e 16 dello Statuto, a norma dei quali la provincia ha, nelle suddette materie, competenza legislativa ed amministrativa esclusiva, che «non tollererebbe alcuna interferenza da parte degli organi dello Stato, nemmeno sotto la forma della promozione». La Consulta ha dichiarato la questione non fondata, sostenendo che la disposizione censurata «condiziona le previste attività statuali al rispetto delle competenze regionali e di quelle delle province di Trento e Bolzano», come può agevolmente inferirsi «dalla salvezza espressamente dichiarata nella norma impugnata delle competenze regionali nelle quali necessariamente si comprendono anche quelle provinciali».
[37] La pronuncia ha ad oggetto il giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale, in riferimento all'art. 41 Cost., dell'art. 4, d.l. 832/1986, convertito con modificazioni nella legge 15/1987 («Misure urgenti in materia di contratti di locazione di immobili adibiti ad uso diverso da quello di abitazione»), promosso dal Tar Lazio sui ricorsi riuniti proposti dalla S.p.a. FoodItalia e dalla Mc Donald's Corporation contro il comune di Roma. Quest'ultimo, con propria delibera, adottata ai sensi del menzionato articolo, aveva dichiarato «incompatibile, con le esigenze di tutela dei valori ambientali di alcune zone del centro cittadino, l'attività di ristorazione veloce con menù limitato e non tradizionale».
[38] Si v, retro, l'esordio del par. 2 di questa Parte seconda.
[39] Corsivo di chi scrive.
[40] Corsivo di chi scrive.
[41] Corte cost., 25 febbraio 1987, n. 64. La sentenza ha ad oggetto il giudizio di legittimità costituzionale, fra gli altri, dell'art. 15 della legge 41/1986, il quale autorizza una spesa di 600 miliardi da destinarsi ad iniziative volte alla valorizzazione di beni culturali ed al loro recupero, da realizzarsi attraverso l'utilizzo delle tecnologie più avanzate, nonché alla creazione di occupazione aggiuntiva di giovani disoccupati di lungo periodo. Il giudizio è stato promosso dalla regione Toscana, la quale fa notare che «in questa previsione di impiego di mezzi finanziari non si parla mai delle regioni, anche se esse hanno competenze amministrative proprie, a norma degli artt. 117 e 118 Cost., nella materia dei beni culturali (...), nella materia urbanistica, e in quella della formazione professionale (...), tutte implicate dall'art. 15 della legge n. 41 del 1986».