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Alla faccia del management. La retorica del management
nei processi di trasformazione degli enti lirici in fondazioni

di Luigi Maria Sicca e Luca Zan


Sommario: 1. Introduzione. - 2. La riforma e la retorica del management. - 3. Una valutazione dell'impatto a livello aggregato. - 3.1. Divisione del lavoro tra attività di produzione e di distribuzione. - 3.2. Il coinvolgimento forzato dei privati. - 3.3. Razionalità economica e trasparenza nella definizione delle quote Fus. - 4. Una valutazione in chiave micro: Il Teatro Comunale di Bologna. - 4.1. L'assetto istituzionale e l'intervento sulla struttura organizzativa. - 4.2. Risorse umane: una trasformazione più che morbida. - 4.3. Risorse finanziarie e aspetti amministrativi. - 4.4. Thatcherismo strisciante (o all'italiana)?. - 5. Conclusioni.



1. Introduzione

Scopo del presente lavoro è investigare in chiave critica i processi di cambiamento organizzativo e gestionale che hanno interessato negli ultimi anni gli enti lirici. Nel comparto dell'opera lirica infatti il vento della managerializzazione - elemento di fondo che accompagna buona parte delle istituzioni artistiche del continente [1] - è stato forse più forte che altrove, con una riforma che ha inciso direttamente sugli assetti istituzionali di questi enti, con la trasformazione in fondazioni [2]. Vale dunque la pena di interrogarsi sugli esiti organizzativi e manageriali di questo processo di trasformazione, come e più di molti altri caratterizzato da una peculiarità e da una potenziale contraddittorietà intrinseca: di essere un provvedimento che mira a profonde e delicate trasformazioni organizzative e manageriali, ma in logica law-driven, dettata dalla legge. In questo contesto la riforma ha un impatto forte, incide profondamente nella realtà. Che gli esiti siano quelli dichiarati o perseguiti è quanto faremo emergere con il nostro contributo.

Il nostro approccio è quello di una lettura testuale dei materiali della riforma e dei dati aziendali con riferimento a un caso (Teatro comunale di Bologna), sottolineando la dimensione retorica del linguaggio manageriale [3]. Per comprendere a fondo i processi di cambiamento organizzativo e strategico che in questi anni stanno vivendo le nostre fondazioni liriche è infatti fondamentale una riflessione sull'uso del linguaggio manageriale e della retorica che ne deriva, che vada al di là della logica delle tecniche gestionali ed organizzative che ispirano (o vorrebbero ispirare) l'azione organizzativa della singola realtà. Non quindi, un'operazione di inquadramento della disciplina macro e della struttura normativa, ma una riflessione trasversale di tipo linguistico, che parte dal campo, volta a dare uno stimolo polemico al dibattito in corso. Attraverso una decodifica dell'uso della terminologia aziendale, ed attraverso la riconcettualizzazione delle metafore prevalenti [4], così come emerse dai nostri numerosi incontri con chi vive dall'interno l'esperienza della riforma in corso [5], non ci siamo sottratti da un lato ad una riflessione sulle principali linee di cultural policy che stanno orientando il passaggio da ente autonomo a fondazione di diritto privato di uno dei più importanti teatri d'Italia e, dall'altro, non ci siamo sottratti ad una serie di considerazioni sulle modalità con cui questo passaggio è già avvenuto (in realtà, in alcuni casi, più sul piano formale che sostanziale). La comprensione dei problemi strutturali e dinamici della fondazione da noi studiata procede parallelamente sia sul piano della politica culturale sia su quello dell'entità organizzativa.

 

2. La riforma e la retorica del management

"E' possibile identificare due modelli di riferimento di politica culturale. Quello americano: mercato puro e defiscalizzazione, Stato completamente assente. E quello francese: esclusivi e massicci investimenti pubblici nella cultura. Io punto ad un terzo modello: uno stato che non rinunci alla sua vocazione, senza però essere invadente, e condizioni più favorevoli di accesso per i privati". Con queste parole l'allora Vicepresidente del Consiglio e ministro dei Beni Culturali Walter Veltroni presentava il nuovo decreto legislativo 29 giugno 1996, 367 che prevedeva la trasformazione degli enti lirico-sinfonici in fondazioni di diritto privato [6].

Il decreto legislativo prevedeva, tra le altre cose, che i tredici enti lirici "di prioritario interesse nazionale", individuati dalla legge 14 agosto 1967, n. 800 (legge Corona), "devono trasformarsi in fondazioni di diritto privato" (articolo 1). Il decreto affrontava anche il modo in cui sarebbe dovuta avvenire la trasformazione (titolo II), e stabiliva in primo luogo che gli allora enti autonomi avessero a disposizione tre anni per realizzarla. La principale implicazione, nelle intenzioni del legislatore dell'epoca, riguardava il graduale ingresso di capitali privati in questo settore, che sarebbero dovuti andare ad aggiungersi agli stanziamenti del Fus che non avrebbero dovuto essere ridotti.

In realtà, se quello dell'ingresso dei privati nel capitale degli enti lirici è l'elemento più appariscente della trasformazione in fondazione degli ex enti autonomi, in una logica manageriale il provvedimento trova una seconda - più sottile e pervasiva - motivazione nelle esigenze di dare maggiore consistenza alla logica progettuale e alla responsabilizzazione gestionale degli amministratori degli enti: "Pur con la necessaria gradualità, le norme prevedono, a regime, un'incisiva partecipazione dei privati al finanziamento ed ai processi decisionali di tali istituzioni, con l'obiettivo di una gestione più efficiente nel rispetto di criteri di imprenditorialità e soprattutto del vincolo di bilancio" [7]. Questo secondo obiettivo di condizioni di gestione efficiente è peraltro tratto comune di un lungo processo di riforma, che vede un susseguirsi complesso di atti e provvedimenti, a partire dalla legge 30 aprile 1985, n. 163, la cui "innovazione principale consisteva nella tendenza a ricomporre la frammentazione dello spettacolo in settori distinti e tra loro non comunicanti in un insieme organico e unitario di attività, alimentate da un fondo nell'ambito del quale la ripartizione dei finanziamenti alla musica, al teatro, al cinema, al circo e allo spettacolo viaggiante venisse stabilita ex ante, e su base triennale, in modo da dare certezza del finanziamento a tutti i soggetti interessati" [8]. Come è stato osservato, infatti, "[è] evidente, quindi, che l'irregolare stanziamento del Fus, anche se motivato da più complesse difficoltà della finanza pubblica, non ha agevolato certamente quella progettualità triennale pure prevista dalla legge n. 163/1985" [9].

Del resto lo stesso vento della managerializzazione non si ferma col d.lg. n. 367/1996, se è vero che l'azione del governo è descritta dalla relazione del 1998 in termini di "proseguimento della 'privatizzazione' delle istituzioni culturali, con la avvenuta trasformazione degli enti lirici, della Biennale di Venezia, della Scuola di cinema, dell'Istituto del dramma antico da enti pubblici in più agili organismi privati, in vista sia di deburocratizzarne la gestione, sia di aprirli maggiormente alla società e all'apporto di capitali privati", unitamente al "sostegno ad una programmazione di più ampio respiro dell'attività dello spettacolo, attraverso una triennalizzazione - per legge - dei finanziamenti statali al settore, tale da dare maggiori certezze e stabilità ai grandi enti culturali, e agli operatori del teatro, della musica e della danza", perseguito col decreto legislativo 21 dicembre 1998, n. 492 [10].

Ma è soprattutto il decreto legislativo 23 aprile 1998, n. 134 che aggiunge ulteriori elementi a questo processo, anticipando la trasformazione degli enti autonomi in fondazioni di diritto privato e definendone alcuni importanti caratteri: "[la] trasformazione, avviata dal decreto legislativo 29 giugno 1996, n. 367, che indicava il mese di luglio del 1999 come termine ultimo per l'adozione dello status di fondazione da parte dei tredici enti lirici e istituzioni concertistiche assimilate, è stata invece anticipata dal decreto 23 aprile 1998, n. 134, che la sancisce ope legis per quegli enti lirici che ancora non ne avessero completato la procedura (ossia tutti, fuorché il Teatro alla Scala). Il decreto n. 134/1998 disciplina tra l'altro l'adozione dello statuto e la stima del patrimonio degli ex enti autonomi e definisce la struttura e la composizione degli organi societari: in attesa che nel consiglio d'amministrazione entrino i soggetti privati, in conseguenza del loro apporto finanziario, il decreto stabilisce che il consiglio viene nominato dall'autorità di governo competente in materia di spettacolo. Esso è presieduto dal presidente della fondazione (sindaco della città dove il teatro ha sede, per statuto), ed è composto da un componente designato dall'autorità di governo, da uno designato dalla regione in cui ha sede la fondazione e da due componenti designati dal sindaco (per l'Accademia di Santa Cecilia è previsto un consiglio provvisorio formato da sette membri). Un ruolo cruciale assume, secondo gli intendimenti già presenti nel d.lg. n. 367/1996, la partecipazione dei soggetti privati, che dipende dall'erogazione alla fondazione di un contributo pari ad almeno il 12% del totale dei finanziamenti statali; in forza di tale ingresso lo statuto può essere modificato, e - soprattutto - il contributo statale non può essere accresciuto se l'apporto privato risulta inferiore al 12%" [11].

Nella stessa direzione un ruolo chiave giocherà il d.m. 10 giugno 1999, n. 239 sui criteri per la ripartizione della quota del Fus destinata alle fondazioni lirico-sinfoniche, definendo nel concreto i parametri che sono alla base di un sistema che vuole - o asserisce di volere - premiare una gestione di tipo manageriale (cosa ciò significhi lo discuteremo più avanti).

In sostanza, due ordini di problemi di natura affatto diversa sembrano rilevanti in chiave manageriale nella retorica della privatizzazione che caratterizza la riforma degli ex enti autonomi e la loro trasformazione in fondazioni:

- il tentativo di coinvolgere i privati nel finanziamento degli stessi enti, in logica dunque di riduzione o almeno di non aumento del contributo pubblico (cioè nel senso di economizzare le risorse pubbliche);

- il tentativo di introdurre una struttura di governance più agile e forme di responsabilizzazione economica, sia attraverso l'istituzione di consigli di amministrazione (apparentemente) più snelli; sia attraverso l'uso di sistemi amministrativi di tipo privatistico che consentano una maggiore programmabilità (anche in connessione ad una dichiarata volontà di stabilizzazione del Fus); sia attraverso forme dirette di gestione delle risorse umane.

Ora da questo punto di vista è abbastanza chiaro che la riforma sia densa di riferimenti a concetti e al linguaggio stesso del management. L'impatto deve essere analizzato sia a livello aggregato che di singola organizzazione.

 

3. Una valutazione dell'impatto a livello aggregato

Tre aspetti risultano centrali nella valutazione a livello aggregato della trasformazione degli enti lirici in fondazioni nella particolare prospettiva adottata in queste pagine, cioè in chiave di impatto della retorica del management: le conseguenze in termini di razionalizzazione del settore; l'effettivo coinvolgimento dei privati; il sistema di incentivi e la razionalità economica che la distribuzione del Fus ha assunto in tale contesto.

 

3.1. Divisione del lavoro tra attività di produzione e di distribuzione

Alcune delle possibili conseguenze della riforma degli enti lirici sono meglio analizzabili a livello aggregato, per l'intento di policy che guidava il Legislatore a organizzare/riorganizzare il funzionamento del comparto nel suo complesso.

In tal senso si potrebbe sostenere che la ventata di managerialismo sarà realmente recepita dai tredici ex enti autonomi quando si comincerà a superare l'attuale assetto nella divisione del lavoro tra funzioni di produzione e di distribuzione. Diverrà allora difficile che ciascun teatro resti un centro autonomo di produzione e di distribuzione, continuando ad essere quasi inesistente una rete organica di distribuzione. Per comprendere il problema della divisione del lavoro, a livello di business system, tra attività di produzione ed attività di distribuzione, occorre rammentare che l'Italia è il "Paese del bel canto": le nostre produzioni di lirica sono tra le più famose in tutto il mondo. E' "l'orgoglio" che vive in ogni teatro d'opera che da un lato stimola la qualità delle esecuzioni proposte, dall'altro rafforza la fama (ed ancora l'orgoglio!) che ciascun teatro d'opera è riuscito a costruire nell'opinione pubblica internazionale. In questo processo circolare è complice lo sfarzo delle "confezioni" proposte, che sovente poco o nulla aggiunge alla qualità ed al rispetto del messaggio estetico contenuto nell'opera rappresentata. Occorre allora domandarsi quanto costa alla collettività questo "orgoglio": vale la pena, sul piano dei benefici, sostenere dei costi molto elevati per tenere in piedi un sistema economico che consente di realizzare un volume di rappresentazioni viste da un numero di spettatori paganti bassissimo, se confrontato con l'universo dei contribuenti?

Questo è, in ogni caso, l'aspetto quantitativo della disfunzione attuale nel modo di produrre e distribuire arte. C'è poi il risvolto qualitativo che coinvolge il management artistico nella dicotomia "massimizzazione della diffusione/identificazione dei parametri estetici della rappresentazione". La soluzione di questa dicotomia [12] può passare anche attraverso la ricerca di un equilibrio nella sensibilità dei manager da un lato alle esigenze di diffusione dell'arte, dall'altro alla dimensione estetica perché tale diffusione non scada in una usurpazione delle esigenze imposte dal testo da rappresentare [13]. Insomma, fino a che punto la massimizzazione della diffusione è compatibile con l'identità estetica dell'offerta proposta?

Il problema-chiave per realizzare un reale assorbimento della tanto attesa e sperata ventata di managerialismo è quindi lo squilibrio nella divisione del lavoro, a livello di sistema-Paese, tra le attività di produzione e le attività di distribuzione. E, sottolineiamo, come la parola critica all'interno di questo tema sia proprio sistema-Paese. Uno sguardo dialettico tra il livello micro e quello macro ci dimostra che da un lato la parte più cospicua della produzione si articola sulle 13 fondazioni liriche; dall'altro manca una rete di distribuzione organica, pur in presenza di un enorme patrimonio di teatri di grande valore storico ed architettonico che potrebbero fungere efficacemente da anelli di un sistema distributivo. Di conseguenza, a livello nazionale (sistema-Paese) vi é una scarsa o quasi nulla differenziazione nelle modalità di offerta della lirica, con una netta prevalenza della formula di teatro "a stagione": questo approccio in alcuni casi favorisce la qualità, a scapito della quantità e dell'economicità, obiettivi che invece tendono a prevalere nella produzione operistica "di repertorio" della maggior parte dei Paesi europei [14]. Così, riprendendo noi per primi, non senza qualche ironia, il linguaggio del management, possiamo affermare che le nostre attuali

fondazioni liriche, che pure assorbono ogni anno il 50% circa del Fus, hanno tutti (ad eccezione di Santa Cecilia) la medesima "missione aziendale" ed il medesimo "posizionamento strategico", utilizzano tutti le stesse risorse (collettive) e gli stessi processi di produzione, fornendo prodotti simili sia pure a diversi livelli di qualità.

Viceversa, senza rinunciare al modello di offerta "a stagione", ci si dovrebbe interrogare sulle modalità per far fronte all'attuale struttura di costi, caratterizzata da un deficit strutturale, specie attraverso l'identificazione di un ampliamento delle core activity. Più precisamente, anche in questo comparto il problema del processo di managerializzazione si pone in modo più articolato, con una dialettica a tre [15], tra efficacia rispetto al discorso estetico, efficacia rispetto alla soddisfazione del potenziale utente/consumatore, e efficienza nell'uso delle risorse umane e finanziarie (e risultati connessi).

Un punto centrale del ragionamento che stiamo conducendo è che l'attuale assetto ha prodotto una fragilità di cultura imprenditoriale i cui limiti avrebbero potuto essere stati recepiti negli ultimi anni dal Legislatore che, dopo decenni d'inerzia, con il d.lg. n. 367/1996 e successivamente con il d.lg. n. 134/1998 avrebbe potuto sfidare il management dei teatri d'opera ad effettuare una sorta di investimento di lungo periodo in "cultura di impresa". Percorso lungo, lento e complesso che richiede in tutti i campi, e specie in quello della musica e dell'arte, processi di rielaborazione estetica e linguistica [16] idonei a preparare le teste e le culture nei percorsi di cambiamento organizzativo e gestionali.

Risultati in tal senso non sembrano invero esserci: ma per la dimostrazione di questa affermazione (e l'individuazione delle cause) è necessario analizzare il meccanismo di incentivi messo in essere.

 

3.2. Il coinvolgimento forzato dei privati

A cavallo tra il 1996 ed il 1999 le modalità di applicazione della nuova normativa lasciarono spazio ad un ampio dibattito tra i giuristi [17] ed, ancor di più, tra gli operatori del settore e gli economisti [18]. Anche in questo caso ci interessa riprendere velocemente le argomentazioni e contro-argomentazioni che caratterizzano alcune posizioni rappresentative per analizzare il particolare tipo di discorso sul management che si viene a caratterizzare.

La maggior parte di essi esprimeva non poco scetticismo [19]. Si tratta di un tema che richiederebbe un ampio approfondimento, ma in questo articolo ci si limiterà a riportare alcuni tra i più significativi argomenti [20] e le idee espresse dalle due più elevate cariche istituzionali del settore della lirica [21].

Così si esprimeva Lorenzo Jorio, allora presidente dell'Anels (Associazione nazionale enti lirico-sinfonici): "Come tutte le cose nuove, il decreto legislativo che trasforma gli enti lirici in fondazioni ha lati soddisfacenti, lati ancora da chiarire e lati insoddisfacenti. Un aspetto positivo di ordine generale riguarda il 'metodo'. Merita dare atto che il Vicepresidente del Consiglio on. Veltroni ha subito adottato un metodo di lavoro e di rapporto ben diverso dai suoi predecessori. Siamo passati dai testi frettolosamente letti all'ultimo momento, nemmeno consegnati per una diretta presa di visione e quindi senza alcuna possibilità di approfondimento, ad un confronto che, pur nella ristrettezza dello spazio residuale, onde restare nei termini della delega, ha consentito di modificare in modo rilevante ed in senso positivo il testo finale, quello che è appena entrato in vigore. Un testo che ha un primo lato positivo: quello di segnalare un punto di svolta sulla strada di riordino del settore, del quale tutti sentiamo la necessità. Certamente la strada della trasformazione in fondazioni è stata densa di incognite, ma è la 'strada'. Un lato positivo che è ancor più positivo nel momento in cui stabilisce l'obbligatorietà della trasformazione. L'Anels ha sempre rivendicato il principio della pari dignità di tutti gli enti. Ciascuno con le proprie peculiarità, ma parlando da un'impostazione comune, senza preordinate categorie. Volevamo, e l'abbiamo ottenuto, che tutti gli enti potessero allinearsi sulla stessa linea di partenza. Altri aspetti positivi stanno nello snellimento (ottenuto proprio nello sprint finale) degli organi di gestione e di controllo, nella natura privatistica del rapporto di lavoro con i dipendenti, nell'esclusione dell'imposta sui redditi per le attività commerciali connessa all'attività propria della fondazione. Grandemente positivo, ma condizionato dall'entità dei contributi l'impegno a mantenere inalterato per un triennio l'apporto del fondo unico per lo spettacolo, evitando i consueti drammi in corso d'opera di ogni nuova legge finanziaria. Tra i lati da chiarire (e la soluzione avrà grande rilevanza) le proporzioni che dovranno essere attribuite ai singoli prìncipi che andranno a comporre il criterio di ripartizione dei contributi dello Stato ai singoli enti. Tra gli aspetti negativi due lo sono in massimo grado: la partecipazione dello Stato alla costituzione del patrimonio delle fondazioni mediante detrazione dal contributo ordinario (e con parametri di riferimento ai contributi dei privati che, in definitiva, plafondano le erogazioni di questi ultimi) e l'assenza di una reale incentivazione fiscale che stimoli la partecipazione dei privati. Una strada lunga è stata imboccata, richiederà, come sempre, buona volontà, fatica e senso del dovere e - anche - qualche 'aggiustamento' sul campo. Ma la strada c'è".

Diversa è la posizione del barone Francesco Agnello, presidente del Cidim (Comitato nazionale italiano musica): "La trasformazione degli enti lirico musicali in fondazioni non è una riforma. Il legislatore ha voluto evitare ogni riferimento alle categorie della legge 800. Ciò ha, a mio parere, un significato politico. Non a caso, infatti, il decreto si riferisce dal titolo solo ad enti musicali di cui si prevede il riconoscimento. Il mio parere personale è che il decreto non sia soddisfacente. Rappresenta una notevole semplificazione nella gestione degli enti lirici, ma anche una notevole complicazione per tutti gli altri. Ciò che ritengo inaccettabile è la filosofia che ne sta alla base. Si tratta di perseguire un obiettivo di americanizzazione acritica nell'organizzazione della musica in Italia, non corrispondente alle nostre tradizioni ed ispirato ad un modello peraltro contestato negli stessi Usa. La peculiarità dell'organizzazione italiana, realizzata attraverso il modesto sostegno dello Stato con la legge 800, ci poneva in posizione molto più avanzata rispetto al mondo anglosassone: garantiva una programmazione non condizionata dalle necessità di botteghino ed una distribuzione musicale estremamente capillare. Istituzioni di prioritario interesse nazionale finiranno con assorbire gli sponsor disponibili, ciò a discapito delle piccole. Insomma siamo al contrario di quello che sostiene Prodi quando dice di vuol essere un nuovo Robin Hood: qui a rimetterci saranno proprio i più deboli e quelli la cui attività assicura una informazione musicale di livello nei piccoli centri".

Sul piano empirico, le considerazioni riportate vanno intese e comparate con la tabella 1 che rende evidente il modesto grado di coinvolgimento dei privati in questo processo di trasformazione, prendendo a riferimento i dati di 9 fondazioni disponibili [22].

Alcune osservazioni si impongono con riguardo alla logica di "privatizzazione" che accompagnerebbe la trasformazione societaria, ma dove in generale per tutti i teatri la percentuale di dipendenza pubblica resta ancora elevata:

- in termini di finanziamento istituzionale i capitali dei privati se pure arrivano in sostanza e salvo un caso a coprire la fatidica soglia del 12% del contributo statale, in realtà mantengono un peso modesto (7,8% in media sul totale delle entrate; tra il 7 e il 9% se si escludono le punte estreme della Scala, 17%, e di Roma, 1%), mentre il 71% dei fondi è assicurato dagli enti pubblici (Stato, regione, provincia, comune);

- se questo aspetto è stato da più parti sottolineato, sul piano metodologico si evidenzia una logica perlomeno bizzarra della legge, laddove stabilisce una soglia del finanziamento privato non già in relazione ai fabbisogni complessivi, ma al contributo dello stato: in realtà ciò che si premia/incentiva non è la capacità del management del teatro a reperire fondi autonomamente, ma la capacità di una coalizione management/enti locali (così, ad esempio, il Comunale di Bologna pur avendo raccolto relativamente più fondi da privati rispetto a Torino o Venezia si trova in una situazione complessiva di minori finanziamenti dagli altri enti locali - per scelta non propria ma degli amministratori locali - e in sostanza vede comunque penalizzato o comunque non vede premiata questa prestazione);

- non sembra in parallelo affermarsi nemmeno una sorta di orientamento al mercato, ad esempio alla ricerca di repertori o iniziative più accattivanti per il pubblico o per un pubblico potenziale più vasto, e resta in fondo dominante la logica della "conservazione" nel tempo del bene culturale [23]. Il che si riconduce perfettamente al discorso precedentemente condotto sul concetto di "orgoglio" di ciascuna istituzione teatrale e di prevalenza del modello "a stagione". In definitiva, non possiamo esimerci dal rilevare elevati livelli di autoreferenzialità che non vanno banalizzati, e con accezione non necessariamente negativa, e che costituiscono un aspetto importante nella vita di queste organizzazioni che va tenuto in conto. Ma l'analisi mostra alcune eccezioni che vanno prese in considerazione per la loro peculiarità. Ci riferiamo all'Arena di Verona che copre il 41% dei suoi costi con l'incasso biglietti ed abbonamenti, a fronte di una media del settore significativamente più bassa. Questa anomalia sta a dimostrare l'importanza di una capacità di attrazione a livello europeo di pubblico, che poco ha a che fare con la ricerca della raffinata interpretazione affidata allo star system, ma attratta dalla magnificenza del luogo (l'Arena) ubicata in posizione tale da potersi considerare europea per la vicinanza con il confine austriaco assai più che non con il resto dell'Italia, e che abbina la vacanza in Italia con un grande spettacolo difficilmente replicabile in luoghi diversi, per la tradizione culturale della città e la sua immagine legata ad alcune delle opere universali come la storia di Giulietta e Romeo. Da parte sua, l'Arena, grazie alle capacità organizzative dello staff ed alla dimensione espressa dal numero di spettatori che possono essere accolti in uno spettacolo è in grado di conseguire economie di scala che gli altri teatri non hanno. Come dire: grandi dimensioni, pubblico internazionale di prevalenza germanico, due fattori che rendono interessante l'apporto dei privati, con un 10% del totale, la percentuale più elevata in Italia (eccetto la Scala); posizione centrale in Europa e costi per recita più bassi rispetto alla media italiana assicurano una capacità di autosussistenza inibita agli altri teatri, soprattutto del Sud.

 

3.3. Razionalità economica e trasparenza nella definizione delle quote Fus

Buona parte dell'intervento regolatore si gioca nella definizione di criteri di finanziamento che vorrebbero essere incentivanti. Al di fuori di qualsiasi visione positivistica, interessa qui ripercorrere il processo di costruzione sociale di questi criteri, come parte centrale del discorso sul management che si è nel tempo sviluppato. E' su questa base che poi in effetti le risorse sono state assegnate dal 1998 in poi, nei due trienni 1998-2000 e 2001-2003.

a) Un sistema di regole più che perfettibile

Sul piano qualitativo chi si addentra in una simile analisi deve mettere in preventivo tempi consistenti per capire l'evoluzione di un sistema complesso di calcoli, che si evolve nel tempo. Di fatto, la semplice lettura dell'articolazione del finanziamento nelle sue voci dal 1995 in poi tradisce la difficoltà logica e verosimilmente politica di sviluppare un simile sistema di norme (si veda l'intestazione delle colonne di tabella 2 per avere un'idea della questione): se l'articolazione a regime è quella del 1998, si evidenzia un tortuoso processo di avvicinamento già nei tre anni precedenti, con la evidenziazione di categorie non perfettamente stabili, ma che a grandi linee distinguono un parametro "di gestione" per opposto a un parametro "di produzione" (con un linguaggio che di per sé meriterebbe un'analisi), se pure con straripante peso del parametro "di gestione" (98,25%). Anche successivamente alla effettiva implementazione dei criteri di assegnazione triennale è poi curioso sottolineare l'incapacità di essere lineare del meccanismo, con una serie di detrazioni, riduzioni, mancati incrementi, recuperi, conguagli e detrazioni varie che solo per essere seguita e compresa richiede non poche energie (dell'analista esterno senz'altro, ma temiamo anche da parte del management delle nuove istituzioni).

In sostanza il nuovo meccanismo che si afferma è per certi versi affascinante, una sorta di mediazione tra dato storico e meccanismi di incentivo quali-quantitativo, con un pizzico di consociativismo residuo. Come noto il decreto n. 239/1999 definisce quattro variabili per la ripartizione del Fus tra le varie fondazioni:

- il 60% viene ripartito in base al valore medio di finanziamento ottenuto da ciascun ente nel triennio precedente;

- per il 20% l'assegnazione è determinata dai costi del personale, commisurati, cioè in base agli organici funzionali;

- il 10% è assegnato in base all'attività di produzione, mediante un apposito sistema di punteggio;

- il 10% è assegnato in base alla qualità, secondo i giudizi della Commissione musica.

La forte incidenza del dato storico (60%) è indicatore di una cautela nel processo di cambiamento: senza credere troppo ai meccanismi passati di assegnazione delle risorse, un atteggiamento gradualista più volte ripetuto nei vari documenti legislativi e amministrativi suggerisce di tenere comunque in conto la realtà di partenza (in questo atteggiamento incrementalista si può riconoscere una opportuna dose di saggezza manageriale, in effetti).

Un'ulteriore quota del 20% - in realtà essa stessa riflettente un dato storico di configurazione degli organici - attribuita a ciascuna fondazione in relazione ai costi del personale è viceversa aspetto abbastanza sconcertante: si perde l'occasione di discutere - o di iniziare a discutere, con tutti i gradualismi possibili - della questione della efficienza o della produttività (almeno relativa) delle varie istituzioni in gioco. Certo impostare una seria discussione sul concetto di produttività non sarebbe facile, in via logica prima che con riferimento a difficoltà di tipo sindacali: ma in questo caso non ci si trova di fronte ad alcun premio di efficienza; anzi, il concetto di pianta organica anche se formalmente abolita (e sostituito con quello di "organico funzionale") di fatto permane.

Il residuo 20% è da attribuirsi in base a parametri di performance, metà in base a una misura di attività produttiva e metà in base a una percezione di qualità. La percentuale non è enorme, ma non è certo questo il limite più consistente in prospettiva economico gestionale, al di là dell'apparente connotazione manageriale.

Quanto alla qualità, è il giudizio della Commissione musica che - partendo dal contributo determinato per ciascuna fondazione in base alla attività - può arrivare ad aumentare o diminuire fino al 20% questo importo. I criteri di dettaglio non sono definiti (e in effetti sarebbero di difficile statuizione), ma la pubblicità del processi dovrebbe garantire una valutazione equa.

Il carattere profondamente problematico di tutto il meccanismo risiede tuttavia nella determinazione degli indici di attività produttiva, con due diversi ordini di questioni:

- da una parte esiste un problema di ponderare diverse attività produttive, di per sé portatrici di costi e risorse assai differenziate, da ricondurre a tre classi principali (lirica, balletto, concerti), con possibilità di margini di negoziazione in sede di definizione operativa, ove più che premiare la produzione e tanto meno l'efficienza produttiva si premia la capacità di negoziazione al tavolo di definizione dei criteri [24];

- dall'altra il meccanismo sembra male interpretare un concetto di efficienza produttiva, andando a premiare lo sviluppo di ulteriori attività in un sistema come quello della lirica italiana dove altre sarebbero le esigenze di intervento e razionalizzazione. Senza in questa sede rivendicare necessariamente una radicale trasformazione da una logica "a stagione" verso una "a repertorio", resta il fatto che (come detto in precedenza) ci si continua a trovare in una realtà di 13 enti di produzione che non hanno caratterizzazione e identità specifica, che destinano risorse per eventi che una volta prodotti non vengono distribuiti se non in casi eccezionali, a volte con una ridondanza che è un lusso che pochi paesi possono permettersi (quante Aida sono state prodotte nell'anniversario verdiano?). Comportamento razionale da parte dei singoli soggetti è - in relazione al meccanismo di incentivi in essere - costruire ulteriori eventi, aumentando come risultato perverso l'eccesso di produzione a livello aggregato.

b) L'implementazione del sistema

A queste osservazioni di impianto critico, sul sistema di regole che caratterizza il meccanismo di ripartizione del Fus si possono aggiungere alcune osservazioni sugli impatti effettivi, a seguito delle applicazioni nei due trienni 1998-2000 e 2001-2003.

La tabella 3 evidenzia l'effetto complessivo dell'introduzione del nuovo sistema di ripartizione del Fus nel primo triennio di applicazione: chi vince e chi perde. Ad essere beneficiati del nuovo meccanismo sono Cagliari, Verona, Trieste, Torino e Genova; escono penalizzati Venezia, l'Opera di Roma, Napoli e soprattutto la Scala; con perdite più lievi di Santa Cecilia, Palermo, Firenze e Bologna. Che qualcuno vinca e altri perdano è segno che il sistema è in grado di discriminare tra situazioni diverse, non è "piatto": ma articolando l'analisi si evidenziano alcune sorprese.

In tabella 4 abbiamo costruito una serie di rapporti che pur con estrema attenzione possono leggersi quali segnali di efficienza relativa e di efficacia relativa a partire dalla tabella 2, in logica di benchmarking (nella tabella evidenziamo gli istituti che hanno efficacia o efficienza comparata maggiore del valore medio):

- nella prima colonna, rapportando il contributo per il personale sulla quota del 60% (che riflette una parte dei contributi complessivi degli anni precedenti) si ottiene un rapporto che è espressione in qualche modo di produttività del lavoro: in termini relativi, se si ottiene in proporzione un valore minore per il personale si ha una maggiore produttività del lavoro;

- nella seconda colonna, rapportando il contributo per il personale al contributo per l'attività produttiva si ottiene un rapporto che è espressione in qualche modo di efficienza: in termini relativi, se si ottiene in proporzione un minore rapporto personale/attività si ha una maggiore efficienza relativa;

- nella terza colonna, rapportando il contributo la quota del 60% per l'attività produttiva si ottiene un rapporto che è espressione in qualche modo di efficienza, per quanto in senso molto particolare: in termini relativi, se l'incidenza complessiva del parametro attività è superiore, ciò è segno quindi di una qualche forma di produttività superiore;

- infine, nella quarta colonna viene ripreso il parametro di ponderazione della qualità utilizzato dalla Commissione Musica: un valore superiore a 1 vuol dire efficacia superiore alla media.

Nella tabella 4 si riporta l'effetto complessivo che la ripartizione del Fus nel primo triennio ha comportato. Alla luce di quanto detto, e con tutte le cautele sulla rappresentatività di questi indicatori, dalla tabella emergono alcuni elementi paradossali:

- in effetti colpisce la correlazione negativa tra qualità e meccanismo incentivante: non uno degli istituti che hanno avuto un giudizio di qualità superiore è premiato dal complessivo meccanismo;

- il meccanismo è più sensibile all'efficienza, ma in modo assai bizzarro: Bologna, Firenze, Palermo, che presentano un indicatore di efficienza in tutte tre le prime colonne non sono premiati; viceversa il sistema premia a volte chi non è efficiente (in senso relativo) su tutti e tre i parametri (Verona), o efficiente in modo più restrittivo (su due soli parametri: Genova, Torino, Trieste, Cagliari).

Se la retorica è quella dell'efficienza-ed-efficacia e della responsabilizzazione economica, gli effetti reali sembrano dunque discostarsi decisamente da quanto evocato. Rispetto all'analisi dell'assegnazione del secondo triennio, occorre sottolineare due effetti ulteriormente controversi:

- da una parte l'effetto cumulo della determinazione della quota del 60% del triennio precedente (per cui si ha un effetto volano e di amplificazione delle decisione prese con riferimento al primo triennio, che potrebbe venire premiato nel tempo anche in presenza di peggioramenti di performance di prestazione);

- dall'altra una sostanziale incapacità da parte della Commissione musica a giocare in via incisiva un ruolo nel premiare o penalizzare alcunché: la lettura dei verbali della Commissione (30 novembre 2000 e 2 febbraio 2001) ben descrive le difficoltà ad articolare una qualsivoglia griglia analitica, e più modestamente arriva a suggerire rispetto al dato di partenza (come detto il dato quantitativo della produzione) variazioni molto modeste (dell'ordine di più o meno 50 o 60 milioni, intorno all'1,5 o al massimo in un caso il 3%, ben lontano dal più o meno 20% consentito dalla legge). Peraltro comparando il parametro implicito di premio o penalizzazione che si ottiene in tabella 5 con il parametro esplicitamente utilizzato dalla Commissione per il triennio 1998-2000 si evidenzia l'effetto appiattimento: semplicemente il fattore qualità non gioca più, e la commissione sembra - di fatto - aver abdicato al proprio ruolo.

In sostanza il quadro che emerge dalla dialettica micro-macro è abbastanza critico: "alla faccia del management", il sistema posto in essere non sembra nei fatti orientare l'azione così come sembrerebbe di capire nella retorica che accompagnava l'introduzione delle nuove regole.

In fondo, alla fine di questo pesante esercizio (che temiamo occupi troppo tempo di sovrintendenti e direttori artistici delle fondazioni liriche) emerge in tutta la sua inconsistenza questo meccanismo tutto centrato sulle percentuali: se l'idea era quella di consentire migliori condizioni di programmabilità, l'instabilità delle assegnazioni complessive cui poi queste percentuali si applicano poco risolve il problema; e d'altra parte, l'enfasi così cruciale sulle percentuali sembra sottolineare il carattere politico di spartizione delle quote tra i tredici attori più che in una logica che voglia orientare lo sviluppo in una qualche direzione, di politica economico-culturale o manageriale che sia.

Che poi esista effettivamente una volontà di indirizzo è elemento che lascia qualche dubbio nell'uso ex post di queste percentuali: più che voler orientare in modo processuale le istituzioni verso le modalità operative che il sistema di incentivi consapevolmente o meno incorpora, di fatto si premiano comportamenti passati, intervenendo con tagli di risorse che rendono i processi di sviluppo e mantenimento assai difficili (se pure è vero che il peso del dato storico stempera in parte questi rischi).

Comunque sia, l'efficienza è problema non direttamente affrontato dal meccanismo di ripartizione/spartizione del Fus, e la qualità ne è presto uscita. In compenso, a livello aggregato si può parlare di un vero e proprio effetto perverso, legato all'incentivo a espandere la produzione piuttosto che a premiare utilizzi più efficienti - in senso pieno - delle risorse e delle possibili economie di scala nei processi di distribuzione dell'attività prodotta.

 

4. Una valutazione in chiave micro: Il Teatro Comunale di Bologna

L'obiettivo di questa sezione è di tentare una valutazione in chiave micro dei reali processi attivati dalla trasformazione in Fondazione, a livello locale, di singola organizzazione, prendendo a riferimento il teatro Comunale di Bologna. Aspetto non facile per una serie articolata di ragioni:

- si tratta di un processo ancora in corso, solamente avviato, nella migliore delle ipotesi, in questo primo periodo;

- in relazione al tempo recente e ancora in corso, esistono pochi documenti scritti (un paio di relazioni di bilancio, ad esempio) con cui triangolare informazioni e impressione di singoli che emergono dai colloqui da noi tenuti con personale dell'organizzazione;

- a questo si aggiunga la sostituzione del soprintendente avvenuta a settembre 2002 (in fase di analisi praticamente conclusa), che pone lo studioso indipendente in una situazione alquanto imbarazzante, non volendoci prestare a possibili strumentalizzazioni nel giudizio sul primo periodo di trasformazione della fondazione, né associarci a una posizione a priori circa la nuova dirigenza, né in chiave negativa né di supporto.

La nostra analisi si soffermerà dunque su tre variabili principali: gli interventi di (ri)assetto istituzionale e di (ri)organizzazione; gli interventi sulle risorse umane; gli interventi sulle risorse finanziarie.

 

4.1. L'assetto istituzionale e l'intervento sulla struttura organizzativa

Alcuni aspetti sembrano caratterizzare l'esperienza del Comunale di Bologna in questa prima fase del processo di trasformazione.

Un primo aspetto da segnalare è che lo statuto conferisce al consiglio di amministrazione un ruolo abbastanza debole, sostanzialmente di controllo, mentre il potere è accentrato completamente al soprintendente, il quale fissa le linee guida, definisce gli obiettivi e presiede le attività di attuazione delle decisioni prese (art. 9 dello statuto) [25]. Si tratta di una situazione abbastanza aberrante, perché il consiglio di amministrazione anziché svolgere - come sarebbe necessario - un ruolo di supporto al soprintendente nella governance del teatro, apportando le competenze necessarie (ad esempio in materia di relazioni industriali, di diritto amministrativo e di organizzazione) finisce con l'essere un organo rappresentativo degli enti finanziatori al quale non sarebbe affidato alcun ruolo professionale, ma di mera rappresentanza. Fatto assai grave se tiene presente che in genere i sovrintendenti sono portatori di cultura musicale, e che questa integrazione tra matrici culturali diverse in seno al consiglio di amministrazione sarebbe elemento cruciale per contribuire a migliorare il dialogo tra arte e economia, piuttosto che la situazione di "monocrazia senza professionalità gestionale" che questa soluzione istituzionale suggerisce.

A livello di posizioni organizzative interne, si è qui assistito alla costruzione di un gruppo manageriale intorno al soprintendente, con inserimento di nuovi ruoli e persone. Tuttavia, sulla reale capacità di incidere di questa riorganizzazione non mancano i dubbi, da più parti, con accuse reciproche di colpa. Certo rende il tutto più complesso il contenuto di elevate tecnologie artigianali che il lavoro nel teatro comporta, e il forte contenuto e identità professionale di cui alcune delle figure coinvolte sono portatrici (in effetti su ruolo e identità dell'orchestra sarebbe necessario un lavoro ben più approfondito di analisi, posto l'esito dirompente che una qualsiasi ristrutturazione di questa risorsa critica potrebbe portare). Allo studioso esterno non resta che riportare le reciproche accuse: di mancanza di capacità direzionale sollevate dai sindacalisti del teatro al team dirigente; di forti resistenze e di posizioni di conflittualità permanente che secondo il vertice il sindacato ha assunto a difesa di condizioni di privilegio, frutto di una tradizione di consociativismo gestionale (che verrebbe in verità confermata dalla latitanza di tutta la riforma sulla questione di produttività del lavoro, come visto in precedenza).

Certo una cosa si può dire: che la grave tensione nelle relazioni industriali - sulla cui esistenza almeno tutte le parti concordano - è forse il frutto di una riforma che non pone in alcun modo il fuoco sui problemi di organizzazione del lavoro, non individuando alcuna macro soluzione o almeno alcuni indirizzi a livello centrale con un minimo di legittimazione e consenso, scaricando poi a livello locale l'esplodere di questi aspetti, ignorati a livello aggregato.

 

4.2. Risorse umane: una trasformazione più che morbida

Che sotto il piano delle risorse umane la trasformazione in fondazione non si accompagni a una svolta thatcheriana è abbastanza evidente: di fatto - salvo la posizione centrale di segreteria del soprintendente che viene superata dalla riorganizzazione della squadra di vertice - non si assiste a una riduzione dello staff. Anzi, come si evidenzia in tabella 6, dopo una contrazione di un certo peso negli anni '90 (di circa il 18% nel complesso, e comunque del 15% anche non considerando la riduzione per eliminazione del corpo di ballo) negli ultimi anni si assiste ad una reintegrazione di posizioni (+8%, anche se il dato al 31 dicembre 2002 non è chiaramente imputabile all'uno o all'altro dei due mandati dei consigli di amministrazione e soprintendenti).

In aggiunta a questo, permane nel primo triennio della fondazione il vecchio contratto (in linea con quel che accade nella maggior parte delle fondazioni liriche), il che rende difficile una gestione di tipo privatistico delle risorse umane, mantenendo un'ulteriore rigidità al sistema proprio nel momento in cui si asserisce di volerlo cambiare.

Come spesso in organizzazioni simili, si riscontra poi una situazione di forte divergenza e articolazione tra le stesse organizzazioni sindacali, rappresentanti interessi di fatti confliggenti (ad esempio tra autonomi e confederali, e all'interno delle singole articolazioni), rendendo ancora più problematica l'organizzazione e la gestione del cambiamento.

 

4.3. Risorse finanziarie e aspetti amministrativi

L'aspetto amministrativo e di controllo economico e di gestione è elemento che gioca spesso un ruolo centrale nei processi di managerializzazione delle organizzazioni. E anche da questo punto di vista la situazione del Comunale di Bologna presenta risultati ma anche qualche difficoltà.

Ad esempio, la logica di controllo di gestione fatica ancora a trovare applicazione: un nuovo sistema di contabilità analitica è in fase di impostazione, ma la non chiara definizione della struttura organizzativa e dei centri di responsabilità (come si è accennato) rende difficile arrivare a risultati organizzativamente significativi. Fino ad oggi si è lavorato solamente sui costi "esterni", legati cioè ad acquisizione di risorse e prestazioni da terze economie, non affrontando ancora in modo sistematico il problema dei costi interni e generali. Il che si lega peraltro a un dato preoccupante che ci viene fornito dai responsabile amministrativo del teatro, vale a dire l'esistenza di un margine di contribuzione negativo per l'attività, dovuto sostanzialmente alle caratteristiche di capienza ridotte di un teatro settecentesco: in realtà, con 700 posti, ogni rappresentazione aggiuntiva genera costi che non vengono coperti dai ricavi incrementali. Sarà vero o non sarà vero? Restando aderenti all'impianto della nostra analisi fondata su una riflessione della dialettica micro-macro, certo sconcerta la difficoltà di legare considerazioni simili al complessivo impianto legislativo: come perseguire una prospettiva manageriale se le conseguenze e implicazioni di una tale situazione non vengono indagate, isolando gli esiti e i risultati imputabili alla gestione del management rispetto ai valori invarianti?

Sui risultati di bilancio poi si possono sollevare alcune osservazioni.

A livello di rappresentazione, e in particolare dello stato patrimoniale, nel caso di Bologna come altrove si è proceduto alla valorizzazione quale asset della fondazione della rendita associata alla disponibilità del teatro. Il che riflette l'orientamento complessivo del legislatore, e un orientamento patrimonialista più che questionabile. In realtà il 90% circa dell'attivo è rappresentato da beni indisponibili, con una sorta di cosmesi di bilancio che nulla serve e distoglie l'attenzione dalla centralità del conto economico e dai risultati su questo conseguibili. Peraltro sul conto economico, nel caso del Comunale di Bologna si può evidenziare oltre a una situazione di pareggio di bilancio, l'effettivo raggiungimento del 12% dei contributi (in conto gestione) dei privati. Paradossalmente questo elemento non ha costituito - come avrebbe dovuto secondo le regole - elemento di premio nelle assegnazioni successive del Fus.

Sul piano concettuale l'aspetto centrale che a nostro avviso va sottolineato è il basso grado di libertà che il vertice della fondazione ha nel gestire il conto economico e quindi i risultati economici associati, in una situazione in cui un buon team manageriale avrebbe difficoltà a distinguersi da un team mediocre: i costi del personale sono difficilmente gestibili nel breve, e soprattutto in presenza del vecchio contratto collettivo; molti costi delle attività non sono gestibili nel breve perché la programmazione dell'attività è a lungo periodo. Ma addirittura a questo si aggiungono alcuni effetti negativi della stessa legge di riforma che vale la pena di esaminare.

Permane una sostanziale incapacità a dare certezza al piano dei finanziamenti - con il delirio di percentuali del Fus piuttosto che di valori assoluti - e con un vizio metodologico che raramente si riscontra in altre organizzazioni gestite managerialmente: quello di dare luogo a un vero e proprio sfasamento logico tra programmazione delle attività (solitamente su 2-3 anni in avanti) e finanziamento, per larga parte su Fus, che è sì triennale, ma senza un piano "a scorrimento" (che ogni anno aggiorni e sposti in avanti il triennio), col risultato di trovarsi a impegnare costi e risorse per tre anni, coperte solo per 12 mesi nell'ultimo anno del triennio Fus.

Del resto, questa profonda incomprensione delle logiche di responsabilizzazione manageriali - imputabile probabilmente all'egemonia di una cultura giuridica - si riscontra in un dettaglio assai emblematico: consiglio e soprintendenze scadono, da statuto e salvo situazioni eccezionali, il 22 giugno ogni 4 anni. Il che vuol dire che ogni 4 anni si verificano due esercizi finanziari in cui non è possibile individuare in modo chiaro la responsabilità dei risultati economici (i risultati del bilancio 2002 potrebbero essere così attribuiti, nel bene e nel male, sia al vecchio che al nuovo soprintendente). La responsabilizzazione economica sui risultati - elemento distintivo di tutto il discorso manageriale - è così inficiato da questa apparentemente innocua dizione statutaria, che dimostra tutta la distanza psicologica dell'estensore, e di chi nel frattempo non ha sollevato e risolto il problema (invero basterebbe un esercizio straordinario di sei mesi il primo anno, dal 22 giugno al 31 dicembre, e poi risultati e responsabilità tornerebbero a coincidere).

In realtà, si assiste spesso ad un gioco iniquo in termini di processi manageriali tra amministrazione centrale e enti per così dire autonomizzati (le fondazioni). Se allo scopo di introdurre forme di responsabilizzazione si ricorre a istituti di diritto privato, di fatto l'amministrazione centrale "si chiama fuori" da tale processo di responsabilizzazione, e spesso più che introdurre logiche di tipo privatistico nel pubblico il risultato è quello di inquinare il privato con logiche di tipo pubblico: è il caso dello stanziamento Fus 2002, ridotto a gennaio 2002, dopo che in dicembre 2001 il Consiglio di Amministrazione del Comunale - sulla base degli impegni presi dal Fus - già aveva deliberato su attività e budget dell'anno a venire. In altri termini, il ministero si tiene fuori da ogni forma di disciplina del proprio operato, e recupera tutta la discrezionalità che crede; i privati vengono inquinati da logiche del pubblico in senso deteriore (per non dire delle vicende delle fondazioni bancarie, il cui impatto si è tradotto in una situazione di totale incertezza per tutto il 2002, con tensioni di liquidità notevoli a fronte di decisioni - è bene ribadirlo - che nulla hanno a che fare con la gestione e i patti sulla gestione già siglati tra amministrazione centrale e fondazioni liriche).

Ma, inoltre, si assiste a un vero e proprio effetto perverso della legge, laddove il Comunale di Bologna, per usufruire del sistema incentivante proprio della riforma e dei meccanismi del Fus, viene costretto a percorre la strada dell'aumento della produzione, per avere un punteggio superiore e quindi più risorse assegnate. E da questo punti di vista, va notato che la legge non è solo latitante rispetto al problema di riorganizzazione complessiva del settore e di recuperi di livelli di efficienza e efficacia aggregati, ma genera piuttosto comportamenti contrari.

Sul piano del merito, in questo caso si assiste invece a ben altra situazione rispetto a quanto descritto in termini di risorse umane: la effettiva decurtazione delle risorse assegnate nel corso degli ultimi dieci anni (tabella 7). Di fatto, il contributo statale nel 1999 risulta essere il 76% del valore monetario aggiornato di quanto finanziato nel 1990.

 

4.4. Thatcherismo strisciante (o all'italiana)?

In sintesi, anche a livello micro e al di là degli usi e abusi della retorica del management, da questo quadro appare una situazione abbastanza peculiare del processo di ristrutturazione di lungo periodo (all'interno del quale si colloca l'ultima fase, di trasformazione in Fondazione):

- un atteggiamento sostanzialmente benevolo in tema di risorse umane, che non questiona problemi di organizzazione del lavoro e di produttività (pur va detto, restringendo comunque il potere d'acquisto del monte salari, come si evidenzia da tabella 7);

- un atteggiamento assai più restrittivo in termini di risorse finanziarie, con tagli striscianti di forte peso;

- le due cose insieme, nella loro asimmetria "antiestetica", portano a risultati ben precisi: il depauperamento dell'organizzazione, e l'irrigidimento complessivo in una struttura di costi a crescente peso salariale, dove i costi di attività vengono ridotti e limati gli stessi margini di libertà di coloro che della gestione devono rispondere;

- il tutto, per finire, ricoperto da una vernice di struttura di governance che si vorrebbe responsabilizzante e professionale, ma che nei due aspetti non sembra poter essere (al di là delle singole situazioni e dei singoli nomi) né particolarmente incisiva (non raccoglie fondi da privati né skills professionali) né di gioco corretto (con ridefinizioni dello stanziamento del Fus a bilanci e piani preventivi già approvati dal Consiglio di Amministrazione).

 

5. Conclusioni

Molte sono probabilmente le critiche che si possono sollevare alla trasformazione degli enti lirici in fondazioni. La prospettiva critica di questo articolo non è in genere quella di scarsa efficacia ("la legge non ha funzionato", "non ha ottenuto i risultati sperati"), quanto piuttosto quella di un abuso di retorica manageriale, per ottenere qualcosa che ha poco a che fare con le logiche proprie dei processi di management e di managerializzazione.

In fondo uno degli elementi di relativo insuccesso per alcuni è per chi scrive uno dei pochi aspetti positivi del processo di trasformazione, che rifugge da un selvaggio processo di spettacolarizzazione, preservando parte di quel sistema di conoscenze e competenze che definisce l'entità di una qualsiasi organizzazione. In questo senso costituisce aspetto positivo la non affermazione di un drastico orientamento al mercato, con piuttosto la persistenza di una logica professionale di conservazione del patrimonio di repertorio e di capacità esecutivo-interpretativa propria dell'identità della lirica italiana con assonanze impressionanti tra aspetti di conservazione e fruizione che si possono trovare nel dibattito sul management dei musei.

Ma detto questo, al di là di evocazioni astratte di comportamenti manageriali la trasformazione sembra muoversi in tutt'altra direzione, "alla faccia del management" come corpo di conoscenze e metodologie, in molteplici sensi.

Se il management è innanzitutto questione di indirizzare l'attenzione, lo stesso sistema complesso e farraginoso di punteggi su cui si basa la ripartizione del Fus sembra distogliere l'attenzione dei vertici da aspetti più centrali nel loro lavoro e nell'economia dei risultatati che questo può produrre (in effetti si ha talvolta l'impressione che soprintendenti e direttori amministrativi diventino esperti di conti e algoritmi).

Di più: l'enfasi sulle percentuali che caratterizza tutto il meccanismo di ripartizione del Fus è in questo senso folle, se il fine era garantire la prevedibilità ai fini della gestione in logica appunto manageriale. Se infatti lo stanziamento complessivo (e lo stesso stanziamento alla singola fondazione in valori assoluti) viene ridefinito, resta poco alla programmabilità, se non una generica consolazione che anche gli altri 12 enti hanno avuto un danno simile.

Nel merito, quello strano e asimmetrico processo di taglio di risorse che abbiamo descritto come thatcherismo all'italiana (taglio di risorse finanziarie ma mantenimento delle risorse umane) rappresenta tutto fuorché una logica di responsabilizzazione dei vertici delle organizzazioni liriche: semplicemente si tolgono risorse finanziarie senza togliere risorse umane per evitare conflitti a livello aggregato, ma scaricando in questo modo a livello di singola organizzazione l'impossibilità di effettiva azione (in cui non si afferma cioè una logica di congruità tra obiettivi e risorse che è uno degli aspetti di fondo del pensiero manageriale fin dal rinascimento).

Nella effettiva applicazione della legge poi, l'impressione è quella di una trasformazione tutta nominalistica del ruolo del soprintendente, lasciato in una sorta di "giochi senza frontiere", di esercizio di abilità gestionali, e comunque in una situazione di "solitudine professionale": solo a inventare chissà che, senza aiuto di norma o nel processo di legittimazione a scoprire questioni di efficienza e organizzazione del lavoro (con problemi di produttività e organizzazione non risolti, con sindacalismo corporativo da settore pubblico che rimane).

In questo quadro stupisce il ruolo passivo (nella legge in sé e nel caso da noi esaminato forse ancora di più) che assume il consiglio di amministrazione, in una situazione che potrebbe definirsi di "monocrazia senza professionalità gestionale", e dove cultura e matrici diverse da quella puramente estetica non vengono apportate se pure potenzialmente esistenti nel consiglio, che continua a giocare un ruolo meramente di controllo.

Se l'efficienza non è affatto indirizzata e la struttura di governance non sembra di particolare aiuto a chi deve decidere, colpisce poi l'effetto perverso che tutto il meccanismo alla fine produce, orientando le singole organizzazioni verso un aumento della produzione in modo da poter acquisire punti e quindi maggiori stanziamenti. Cioè non solo la complessiva impalcatura non costringe a comportamenti singolarmente e collettivamente più razionali, ma piuttosto fa sì che cresca la pressione - già storicamente consistente perché alimentata da valori professionali e di identità distintive - ad aumentare la produzione senza pensare a usi più intensivi della distribuzione dell'opera lirica.

Ma infine, forse più di tutti colpisce l'asimmetria nei processi di responsabilizzazione tra centro e periferia, tra amministrazione centrale e fondazioni. Il caso dello stanziamento del Fus 2002 ridotta a gennaio, a bilanci preventivi già apportati dai consigli di amministrazione delle singole fondazioni, rappresenta un elemento dirompente di falsa delega e responsabilizzazione, che va ben al di là di mettere in difficoltà la programmabilità che la trasformazione doveva invece incentivare. Il fatto è che il gioco resta non equo, ove il "centro" si può tirare indietro e rimangiarsi la parola data, con l'effetto veramente bizzarro che invece di portare nel pubblico (gli ex enti) logiche del privato, si portano nel privato (le fondazioni) logiche del pubblico (di politiche aggiornate in termini reali in funzione delle complessive esigenze del bilancio pubblico).

Alla faccia del management, appunto.

 



Note
[1] Conservazione e innovazione nei musei italiani. Management e processi di cambiamento, a cura di L. Zan, Milano, Etas, 1999.

[2] L.M. Sicca, The Management of Opera Houses. The Italian Experence of the Enti Autonomi, in The International Journal of Cultural Policy, n. 1-2/1997; Id., Alla lirica serve il modello festival, in Il Sole-24 ore, 9 dicembre 1998.

[3] L. Zan, Economia dei musei e retorica del management, Milano, Electa, 2003.

[4] R. Boyd, T. Kuhn, Metaphor and theory change: what is 'Metaphor' a metaphor for? Metaphor in science, in Metaphor and Thought, a cura di A. Ottony, Cambridge, Cambridge University Press, 1979; S.A. Deetz, Methaphors and the Discursive Production and Reproduction of Organizations, in Organization-Comunication: Emerging Perspectives I, a cura di L. Thayer, Norwood - New York, Ablex, 1986, 168-182; G. Morgan, Images of Organisation, London, Sage Publications Inc., 1986.

[5] Desideriamo ringraziare chi all'interno della Fondazione Teatro Comunale di Bologna ha voluto fornirci dati e opinioni sulla Fondazione e sul processo di recepimento della nuova normativa nel corso di interviste nel periodo 2001-2002: il Maestro Luigi Ferrari (Soprintendente), il Maestro Matteo D'Amico (Direttore artistico), il Dott. Loris Golfieri (Direttore amministrativo), il Dott. Domenico Randi (Responsabile organizzazione e personale), il Dott. Piergiorgio Righi (Direttore del personale), il Dott. Valerio Tura (Responsabile della comunicazione e del fund raising); i membri del Consiglio di amministrazione Arch. Gaetano Maccaferri e Dott. Federico Stame; i responsabili sindacali Enrico Baldotto (Fials), Pietro Rossi (Cisl) e Valeria Elmi (Cgil).

[6] R. Chiaberge, Veltroni. La terza via del superministro, intervista a Walter Veltroni, Corriere della Sera, 19 dicembre 1996.

[7] Dipartimento dello spettacolo, Relazione sulla utilizzazione del Fondo unico dello spettacolo e sull'andamento complessivo dello spettacolo, anno 1996, 1, corsivo aggiunto.

[8] Dipartimento dello spettacolo, Relazione 1996, cit. (corsivo aggiunto).

[9] Dipartimento dello spettacolo, Relazione sulla utilizzazione del Fondo unico dello spettacolo e sull'andamento complessivo dello spettacolo, anno 1995.

[10] Dipartimento dello spettacolo, Relazione sulla utilizzazione del Fondo unico dello spettacolo e sull'andamento complessivo dello spettacolo, anno 1998, 1 (corsivo aggiunto).

[11] Dipartimento dello spettacolo, Relazione 1998, cit.

[12] Cfr. M. Trimarchi, Economia e Cultura, Milano, Franco Angeli, 1993.

[13] S. Cappelletto, Farò grande questo teatro. Storia recente dell'Opera a Roma e in altre città, Torino, Edt, 1995.

[14] I teatri d'opera italiani seguono la logica della produzione "a stagione" che si caratterizza per la costruzione di un cartellone in cui per ogni titolo si cercano sul mercato del lavoro le migliori voci adatte ad interpretarlo. Cosi, se per esempio in una stagione sono presenti sette o dieci opere differenti, per ognuna di queste opere si costruirà un cast ad hoc con l'obiettivo di offrire la migliore rappresentazione possibile dal punto di vista canoro. Questo schema di lavoro, come si può agevolmente intuire, ha in sé un'elevata incidenza di costi variabili sui costi totali, il che rende assai improbabile una riduzione dei costi medi unitari, in funzione di incrementi della scala di produzione (economie di scala). Differente, invece, è il modello di produzione "a repertorio" - come già ci fa notare Adorno alla metà del secolo scorso nelle sue "Lezioni di Sociologia della Musica" (T.W. Adorno, Einleitung in die Musiksoziologie. Zwolf theoretische Vorlesungen, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1962) - diffuso in altri paesi europei (si pensi all'Austria, alla Germania ed, in parte, al Regno Unito), che utilizza un cast fisso per tutte le opere che un teatro intende realizzare, con evidenti risultati positivi in termini di efficienza (economie di scala), a cui corrisponde però una minore efficacia e qualità.

[15] L. Zan, Economia dei musei, cit.

[16] Le Imprese come Culture, a cura di P. Gagliardi, Torino, Isedi, 1995; P. Jeffcutt, The Organization of Performance and the Performance of Organization, in Studies in Cultures, Organizations and Societies, n. 2/1996; L.M. Sicca, Chamber Music and Organization Theory. Some typical Organizational Phenomena Seen Under the Microscope, in Studies in Cultures Organizations and Societies (Scos), vol. 6, n. 2, 2000.

[17] G. Marasà, Fondazioni, privatizzazioni e impresa: la trasformazione degli enti musicali in fondazioni di diritto privato, in Studium Iuris, n. 10/1996; Fondazioni ed Enti Lirici, a cura di G. Iudica, Padova, Cedam, 1998.

[18] M. Finoia, Non di solo sponsor vive l'Arte, in Il Sole-24 ore, 23 luglio 1996.

[19] Le neo-fondazioni della lirica: un passo avanti e due indietro, Atti del Convegno Cidim (Gubbio, 5-6 dicembre 1996); S. Escobar, Del consenso. Postafazione, in S. Cappelletto, Farò grande questo teatro, cit.

[20] Da Enti Lirici a Fondazioni: come affrontare il cambiamento, Atti del Seminario Anels-Antheia (Milano, 23 ottobre 1998).

[21] S. Cimarosti, A. Rossi Espagnet, A chi piace a chi non piace, intervista al presidente dell'Anels Lorenzo Jorio ed al presidente del Cidim Francesco Agnello, in Giornale della Musica, n. 119, settembre 1996.

[22] M. Mariani, Le fondazioni lirico-sinfoniche italiane. Una indagine settoriale del periodo post-privatizzazione attraverso una analisi bilancistica comparata, Università di Bologna, 2004, working paper. Sfortunatamente i dati riportati da Opera 2001 si dimostrano totalmente inattendibili, richiedono il ricorso ai documenti di bilancio di ciascuno dei 13 enti. Oltre a rendere la ricerca estremamente costosa, è potenziale causa di errori e informazioni fuorvianti sugli impatti della trasformazione in corso. Sconcerta infatti questa mancanza efficace di monitoraggio in forme organizzate.

[23] In tal senso si esprime con lucidità Tura, Responsabile del fund raising del Teatro Comunale di Bologna: "Noi siamo dei conservatori di un patrimonio che ci consegna la storia. [...] L'opera è il prodotto più sintomatico della nostra ragione di esistere" (nonostante il segmento di mercato sia forse il più piccolo, rispetto a altra classica). [...] Noi siamo un'azienda product oriented, non marketing oriented, e che si identifica con la lirica. [...] Come ente lirico la sinfonica è un accessorio (a Milano lo fanno altri, diversi dalla Scala: l'Orchestra Verdi, la Filarmonica della Scala, ecc.). Il che si riflette negli incentivi del Fus".

[24] Senza alcuna pretesa di obbiettività e senza sorprendersi del carattere soggettivo e in parte arbitrario di tali processi (del resto il management è di per sé retorica, argomentazione, mobilizzazione di attenzione e risorse, vale la pena di riprendere due esempi di buona o cattiva negoziazione, per l'ente singolarmente considerato: nel caso di Trieste, l'attività di operetta viene equiparata alla lirica; nel caso del Comunale di Bologna, si lamenta una penalizzazione nel fatto di non essere riusciti a farsi riconoscere l'attività fuori sede, con l'eliminazione del doppio borderò. Dal nuovo regolamento del 1998 il doppio borderò è abolito, e per le attività che il Comunale svolge in regione il borderò lo tengono gli altri enti, i teatri ospiti, che pagano i costi vivi degli artisti e si tengono i biglietti, mentre Bologna non ha più alcun riconoscimento per queste attività (e i costi connessi, costi generali, orchestrali etc.). Col nuovo regolamento Bologna viene penalizzata, perde 10 recite l'anno, con l'effetto di una sensibile riduzione del parametro della produzione. Ad aumentare la connotazione di controversia, ci viene segnalato dalla Soprintendenza del Teatro che in realtà l'abolizione del doppio borderò si applica solo per enti lirici, mentre vale ancora per le orchestre.

[25] Nei nostri colloqui ci viene riferito come, secondo l'interpretazione dei sindaci della fondazione, lo statuto assimila il Cda all'assemblea dei soci ed il soprintendente all'amministratore unico. Così, il Cda è chiamato ad approvare i programmi ed il bilancio preventivo del soprintendente.



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