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Eccezione culturale e diversità culturale. Il potere culturale
delle organizzazioni centralizzate e decentralizzate
[*]

di Sergio Foà e Walter Santagata


Sommario: 1. Breve storia di una regola contro la centralizzazione sovranazionale. - 2. Eccezione culturale: strumenti di intervento pubblico e loro effetti attesi e inattesi. 2.1. Cinema e settore audiovisivo. 2.2. Dal cinema al settore culturale. - 3. Eccezione culturale e libertà di scambio: un falso dilemma. 3.1. Tutela della diversità culturale. 3.2. Ostacolo al libero scambio. 3.3. Una soluzione istituzionalista ad un falso dilemma. - 4. Conclusioni sulla delimitazione della eccezione culturale. - 4.1. Delimitazione dell'eccezione culturale. - 4.2. Eccezione culturale e livelli di governo.



1. Breve storia di una regola contro la centralizzazione sovranazionale

L'eccezione culturale, intesa come possibilità di mantenere politiche europee e nazionali di quote di programmazione e di aiuti finanziari in alcuni settori di rilievo culturale sottraendole ai negoziati commerciali sui beni e sui servizi, può essere eccepita da uno stato membro sia nei confronti dell'Unione europea, sia nei confronti di paesi extra Ue in ambiti di accordi internazionali (Omc, Gatt).

Con riferimento al processo di centralizzazione/decentralizzazione dell'Unione europea l'eccezione culturale presenta due effetti:

- da un lato costituisce una richiesta di deroga, provvisoria, alla regole stabilite dai trattati dell'Unione in materia di libertà di scambio e libera concorrenza. E' una formula che mira a legittimare l'intervento regolativo e finanziario dei poteri pubblici nazionali per correggere le distorsioni internazionali provocate dal mercato;

- dall'altro legittima l'attribuzione dei poteri in materia culturale agli stati membri, sottraendo la materia oggetto di eccezione alle decisioni degli organi comunitari dell'Unione.

Il primo effetto vale sia nei confronti dei paesi membri dell'Ue, che dei paesi extra Ue. Il secondo effetto vale nei confronti dei paesi membri dell'Ue.

Secondo uno schema federalista, l'eccezione culturale rappresenta, in ambito Ue, un fattore di decentramento di competenze. In un contesto di diversità culturale europea, gli stati nazionali sono i pieni depositari delle loro espressioni culturali. Dunque l'eccezione è un limite alla centralizzazione delle decisioni culturali e prevarrebbe sul principio di libera concorrenza. L'assegnazione dei poteri culturali ai singoli stati risponderebbe, inoltre, all'obiettivo governativo di rafforzare il legame tra quanto un cittadino paga, in termini di oneri fiscali, per una politica pubblica culturale e la qualità e la quantità dei beni e servizi da essa offerti.

Per comprendere la sostanza del problema, è bene ricostruire le origini del dibattito sull'eccezione culturale e sulla successiva formula della "diversità culturale", muovendo dagli accordi internazionali che ne hanno costituito le radici. Il primo richiamo è al Gatt (General Agreement on Tariffs and Trade - accordo generale sulle tariffe doganali e del commercio), concluso all'indomani della seconda guerra mondiale in un contesto di ridefinizione di un ordine giuridico liberale, fondato sui principi del libero scambio. In origine l'accordo corrispondeva solo ad una parte della Carta dell'Avana (Conferenza internazionale sul commercio e il lavoro novembre 1947 - maggio 1948) e mirava ad istituire l'Organizzazione internazionale del commercio (Oic) accanto alle altre istituzioni di Bretton-Woods: il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale.

Come noto, quel trattato internazionale non fu mai ratificato per via dell'opposizione degli Stati Uniti che ne criticavano la portata insufficiente a garantire il libero scambio.

A fronte della portata parziale, si immaginò di completare il Gatt avviando cicli ("Round") di negoziazioni commerciali multilaterali intesi ad ampliare i relativi ambiti di intervento. In particolare nel 1986 si aprì un nuovo ciclo, "l'Uruguay Round", con l'intenzione di estendere anche al settore dei servizi i principi del libero scambio, applicabili dal Gatt al solo campo del commercio delle merci. Tra i servizi, definiti "commercio invisibile" in opposizione al "commercio visibile" delle merci, figurano l'audiovisivo e il cinema.

In quel contesto nacque appunto "l'eccezione culturale", intesa come rifiuto opposto dalla Comunità europea all'applicazione dei principi del libero scambio propri del Gatt, poi diventato Omc (creato secondo le previsioni dell'Uruguay Round, dagli accordi di Marrakech), in alcuni settori ritenuti "culturali", invero limitati solo all'audiovisivo ed al cinema.

Così impostata, la dialettica contrapponeva ai principi del libero scambio i finanziamenti pubblici nei settori culturali menzionati, nella misura in cui questi ultimi discriminavano tra merci e servizi in ragione della loro origine, nazionale o straniera; mentre gli Stati membri dell'Omc avrebbero dovuto trattare i servizi stranieri alla stessa stregua e negli stessi termini dei propri servizi nazionali.

In tal modo sarebbero stati temperati e addirittura derogati i principi della progressiva liberalizzazione degli scambi, della nazione più favorita (secondo il quale qualsiasi trattamento più favorevole accordato da uno Stato membro a prodotti - merci o servizi - provenienti da un altro Stato, deve essere esteso a qualsiasi altro Stato per prodotti similari), il principio del trattamento nazionale secondo il quale gli Stati membri devono trattare i prodotti stranieri e i loro produttori, come i loro prodotti nazionali e i loro stessi cittadini.

L'esempio più eclatante riguarda il sistema francese di finanziamento del cinema e della televisione, ove il sostegno finanziario pubblico all'industria cinematografica e audiovisiva permette, mediante strumenti diversi (aiuti automatici, aiuti selettivi) di assicurare il finanziamento della creazione e produzione francese, fondando l'aiuto sulla sussistenza di elementi convenzionali che classificano l'opera come "nazionale". E' appena il caso di rilevare, peraltro, che tale forma di "eccezione" solleva delicati problemi giuridici altresì a livello comunitario, con particolare riferimento alla deroga al regime degli aiuti di Stato, tema che si affronterà tra breve.

La stessa utilizzazione di un termine di matrice processuale, come "l'eccezione", lascia intendere la sua portata effettiva, in termini di possibilità per gli Stati di non sottoscrivere gli impegni di liberalizzazione nei settori interessati (tra cui i servizi di cui al Gats).

Quell'idea "difensiva", legata appunto alla necessità di una "eccezione", è parsa indebitamente limitativa, da quando si è preferito reclamare uno strumento giuridico internazionale specifico per valorizzare e promuovere la cultura e le tradizioni culturali: si leggano in questo quadro gli emendamenti alla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea presentati dalla Commissione per la cultura del Parlamento europeo, intesi al mantenimento ed alla valorizzazione della diversità culturale.

Si è tuttavia criticata da taluni la inutilità, o meglio il carattere solo teorico, di un accordo o di un trattato internazionale che proclami e difenda la "diversità culturale" senza la previa adozione, in seno all'Omc, di una clausola di "esclusione culturale" che esenti esplicitamente le attività culturali dalla competenza dell'Omc, cosa che l'Ue non ha né ottenuto, né rivendicato nel corso delle citate negoziazioni del Gatt [1]. Insomma: anziché accettare accordi fortemente liberali e inserire delicate "riserve" in campi difficilmente delimitabili ed a rischio di dimenticare altri settori da sottrarre che potrebbero essere degni di uguale, e forse maggiore, tutela [2], è giuridicamente più utile ed appropriato a tal fine escludere il riconoscimento di competenze sopranazionali in capo ad organismi rivolti alla regolazione del commercio (come avvenne peraltro con il progetto di Accordo multilaterale sugli investimenti, che fu ricusato integralmente).

Se è vero, in effetti, che la posizione dell'Ue in occasione dei negoziati commerciali multilaterali del 1993 ha posto un freno alla liberalizzazione, consentendo all'Ue di mantenere le proprie politiche nazionali ed europee di quote di programmazione e di aiuti finanziari, è anche vero che quella posizione si è limitata ad intervenire a favore dell'industria cinematografica europea, laddove i beni e i servizi culturali non sono stati esclusi dall'ambito negoziale. Dunque, un'eccezione non propriamente culturale, ma dell'industria culturale, e nemmeno riferita a tutta l'industria culturale. Di qui la necessità di affermare un principio di diversità culturale, in luogo di una "eccezione", e di definire in modo appropriato i confini del settore "culturale", potendo toccare, con portata più o meno incisiva, i beni ed i servizi culturali.

 

2. Eccezione culturale: strumenti di intervento pubblico e loro effetti attesi e inattesi

Diverse espressioni delle attività culturali possono essere ricondotte alla formula, negativa, dell'eccezione culturale e al suo complemento, positivo, della diversità culturale. Si esamineranno in questo paragrafo alcuni esempi di eccezione culturale e i loro effetti diretti e indiretti sui comportamenti degli stakeholders e dei mercati.

 

2.1. Cinema e settore audiovisivo

La polarizzazione del dibattito sul settore audiovisivo sollecita alcune riflessioni circa la compatibilità tra eccezione culturale e divieto di aiuti pubblici. Come per altri settori industriali, al cinema e all'audiovisivo si applicano infatti le regole comunitarie in materia di mercato interno e di concorrenza. Tuttavia, il Trattato autorizza l'erogazione di aiuti pubblici destinati a promuovere la cultura "quando non alterino le condizioni degli scambi e della concorrenza nella Comunità in misura contraria all'interesse comune" (art. 87).

Sul punto è fondamentale la risoluzione del Consiglio Ue del 12 febbraio 2001, con la quale è stata affermata l'importanza dei sussidi nazionali al cinema e al settore audiovisivo "per garantire la diversità culturale e per contribuire alla creazione di un mercato audiovisivo europeo". Riguardo ai sistemi nazionali di sostegno, la Commissione deve verificare che gli incentivi ottemperino alla normativa comunitaria tenendo conto degli obiettivi culturali.

Il precedente risale al giugno 1998, quando la Commissione ha definito taluni criteri nella decisione riguardante il regime nazionale francese di sostegno: criteri che vanno applicati "alla luce delle peculiarità dei singoli Stati membri e dei mercati audiovisivi europei" [3]. E' utile riprendere il passaggio cruciale di quella decisione: "Gli aiuti alla produzione cinematografica presentano aspetti puramente culturali e un aspetto industriale. Riguardo a quest'ultimo giova notare che questo sostegno ad un prodotto (un film) fa sì che il settore audiovisivo tragga vantaggio dal sostegno necessario a conseguire l'obiettivo culturale, segnatamente quello della creazione audiovisiva. Riguardo all'aiuto all'industria si può pensare che la necessaria struttura operativa deve esistere all'interno del Paese per rendere possibile la creazione culturale. Tuttavia una impostazione territorialistica che va aldilà dello stretto necessario per garantire la creazione culturale in uno Stato membro frammenta indebitamente il mercato interno, impedendo che il settore tragga tutti i vantaggi che l'accresciuta concorrenza potrebbe apportare alle attività tecnico cinematografiche in una situazione in cui vi è concorrenza tra gli Stati membri. Inoltre le condizioni di territorializzazione possono comportare anche riserve alla luce di altri articoli del trattato Ce".

 

2.2. Dal cinema al settore culturale

Come si è ricordato, a livello comunitario la posizione dell'Ue in occasione dei negoziati commerciali multilaterali del 1993 si è limitata all'industria cinematografica europea, mentre i beni e i servizi culturali non sono stati esclusi dall'ambito negoziale. Si tratta di una delle anomalie della formula dell'eccezione culturale, anche se il Parlamento europeo intende allargare sensibilmente l'area della "cultura" e del "settore culturale", la cui diversità va tutelata e promossa [4].

Le definizioni precise mancano a livello comunitario, per la semplice ragione che nei diversi settori potenzialmente interessati ad una "difesa culturale" le competenze restano affidate ai singoli Stati membri.

In effetti l'art. 151 del Trattato Ce, introdotto con il Trattato di Maastricht, nella sua prima parte afferma:

1. La Comunità contribuisce al pieno sviluppo delle culture degli Stati membri nel rispetto delle loro diversità nazionali e regionali, evidenziando nel contempo il retaggio culturale comune.

2. L'azione della Comunità è intesa ad incoraggiare la cooperazione tra Stati membri e, se necessario, ad appoggiare e ad integrare l'azione di questi ultimi nei seguenti settori:

- miglioramento della conoscenza e della diffusione della cultura e della storia dei popoli europei,

- conservazione e salvaguardia del patrimonio culturale di importanza europea,

- scambi culturali non commerciali,

- creazione artistica e letteraria, compreso il settore audiovisivo.

Sono elencati dunque alcuni settori che si ritengono culturalmente rilevanti, ma mancano le relative definizioni: l'azione è statale e, se necessario, l'Ue può "appoggiare e integrare" le iniziative nazionali.

La Francia, ad esempio, ha una lunga tradizione di aiuto all'industria cinematografica. Una legge introduce, già dal 1948, una tassa sul prezzo dei biglietti venduti nelle sale cinematografiche. I proventi di questa tassa alimentano un fondo gestito dallo Stato e sono trasferiti ai produttori di film francesi. Gli effetti attesi di questa norma sono evidenti: le industrie hollywoodiane americane, di fatto, attraverso i grandi incassi del loro box office europeo e francese in particolare, pagano un contributo finanziario per sostenere l'industria nazionale francese loro concorrente. L'avance sur recette, un altro tipo di aiuto alla creazione cinematografica francese, consiste in un prestito senza interessi (rimborsato solo se le entrate da box office sono sufficienti). Anche in Italia l'aiuto al cinema si articola in diversi strumenti. Il principale riguarda il Fondo unico per lo spettacolo e, fino alla recentissima riforma del gennaio 2004, i mutui concessi ai produttori per la realizzazione di film. I mutui riguardano sia la messa a disposizione di fondi sia le spese per il rimborso degli interessi sui mutui contratti. Gli effetti di questi interventi indubbiamente costituiscono una deroga delle norme sulla libera concorrenza.

Un altro modello di protezione si fonda sulla assegnazione di quote di diffusione televisiva di film nazionali. Vale soprattutto per Canada e Francia. La direttiva europea "Télevision sans frontières" del 3 ottobre 1989, art. 4 e 5, formula obiettivi di produzione indipendente e quote intorno al 50% a favore di programmi nazionali o di co-produzione europea. Un importante effetto inatteso del meccanismo delle quote riguarda la qualità e gli incentivi alla creazione artistica nel settore audiovisivo. La fissazione di quote, infatti, induce attraverso questo tipo di protezione i programmatori a trasmettere materiali audiovisivi di basso costo e qualità. Il risultato è quindi l'aumento nei palinsesti televisivi delle ore di serial e telenovelle in sostituzione dei più costosi film di qualità. I serials costano di meno data la loro riproducibilità e serialità, ma presentano anche una livello qualitativo basso, con riduzione degli incentivi alla creazione audiovisiva di qualità.

Alcune delle più note politiche di eccezione riguardanti settori diversi dal cinema contribuiscono a definire una vasto e consistente ambito europeo di eccezione culturale.

Lo spettacolo e il Fus. Lo Stato italiano assiste il settore dello spettacolo in vari modi: il principale è il Fondo unico per lo spettacolo (Fus), ma altri importanti provvedimenti hanno aggiunto risorse e flessibilità all'intervento pubblico.

Nel 2001 il Fus è stato di circa 500 milioni di euro, assegnati alle Fondazioni lirico sinfoniche (49%), alle attività musicali (12,5%), alle attività di danza (1,4%), alle attività di prosa (16,6%), alle attività cinematografiche (18,6%), alle attività circensi (1,5) [5].

I settori dello spettacolo sono, dunque, protetti dall'azione pubblica. L'intervento dello Stato attraverso il Fus nel mondo dello spettacolo risponderebbe ad una logica di complementarietà con l'intervento dei privati. "... destinata a quelle espressioni di spettacolo che non trovino nel mercato le condizioni necessarie e sufficienti alla loro affermazione" [6].

In questo settore, tuttavia, data la specificità territoriale degli eventi culturali, la limitazione della concorrenza è fenomeno meno forte e distorsivo.

I beni culturali e la tutela nazionale. Il Codice italiano sui beni culturali (decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42) ribadisce che la definizione e individuazione di tali beni è prerogativa degli stati nazionali. Qui l'eccezione prende la forma della c.d. "notifica" di interesse nazionale. La notifica ad opera delle soprintendenze rende meno libera la circolazione dei beni culturali e ha effetti sui prezzi di mercato. Effetti che spesso si controbilanciano: da un lato la notifica essendo segno di garanzia di autenticità dell'opera d'arte ne aumenta il prezzo; dall'altro limitando le possibilità di esportazione e introducendo una regola di trasparenza sui cambiamenti di proprietà riduce il prezzo del bene.

La normativa europea sulla esportazione e restituzione delle opere d'arte (regolamento (Cee) n. 3911/92 del Consiglio, del 9 dicembre 1992 e regolamento (Cee) n. 1526/98 della Commissione del 16 luglio 1998), inoltre, assegna agli Stati la definizione della lista del patrimonio oggetto di tutela e non esportabilità.

I limiti all'esportazione certamente restringono il mercato, atteso che le opere d'arte non esportabili non possono raggiungere il mercato internazionale, in cui sarebbe teoricamente possibile raggiungere quotazioni di vendita migliori.

I culture-based goods e i diritti collettivi sulla proprietà intellettuale. L'assegnazione dei diritti di proprietà intellettuale collettivi (marchi e segni distintivi territoriali) a beni con produzione fortemente localizzata in distretti industriali e con intensi legami con la cultura locale (dai beni di design, alla moda e al tessile; dai prodotti del territorio a molti beni del made in Italy) crea situazioni di privilegio monopolistico e si discute se gli incentivi alla produzione e alla qualità impliciti nell'assegnazione dei diritti siano superiori ai costi sopportati dai consumatori per il più alto prezzo inevitabilmente pagato.

La tutela della proprietà intellettuale collettiva caratterizza spesso i settori dell'artigianato di qualità, come nel caso della legge veneta (legge regionale 23 dicembre 1994, n. 70) sul marchio per il vetro artistico di Murano, quello sulla ceramica artistica (legge 9 luglio 1990, n. 188) di diversi distretti italiani (Faenza, Calagirone, Albisola, Deruta). Anche nel settore agro-alimentare e vinicolo sono diffusi i marchi collettivi, come la Denominazione di origine controllata (Doc) per i vini o la Denominazione di origine protetta (Dop) per i prodotti alimentari.

 

3. Eccezione culturale e libertà di scambio: un falso dilemma

Da quanto esposto sembra emergere una netta contraddizione tra i due principali effetti dell'eccezione culturale: la tutela della diversità culturale, effetto positivo, e la creazione di ostacoli alla libera concorrenza, effetto negativo. I due risultati sembrano nettamente contrapposti, legati in un inestricabile trade-off, ma a ben riflettere essi sono, dal punto di vista dell'economia delle istituzioni [7], i due corni di un falso dilemma.

 

3.1. Tutela della diversità culturale

La possibilità di sostegno o aiuto pubblico rappresenta una difesa, sul piano economico, per la sopravvivenza della diversità culturale. La diversità culturale è definita all'articolo 1 della Dichiarazione universale dell'Unesco [8]:

"Cultural diversity: the common heritage of humanity. Culture takes diverse forms across time ands pace. This diversity is embodied in the uniqueness and plurality of the identities of the groups and societies making up humankind. As a source of exchange, innovation and creativity, cultural diversity is as necessary for humankind as biodiversity is for nature. In this sense, it is the common heritage of humanity and should be recognized and affirmed for the benefit of present and future generations."

Inoltre all'articolo 9 la dichiarazione afferma:

"Cultural policies as catalysts of creativity. While ensuring the free circulation of ideas and works, cultural policies must create conditions conducive to the production and dissemination of diversified cultural goods and services through cultural industries that have the means to assert themselves at the local and global level. It is for each State, with due regard to its international obligations, to define its cultural policy and to implement it through the means it considers fit, whether by operational support or appropriate regulations."

L'eccezione culturale dunque tutela e salvaguarda:

- I settori economicamente minati dalla logica dei costi crescenti e da produttività stagnante, come nel caso studiato da W. Baumol delle performing arts e della televisione [9]. La Baumol disease rende le organizzazioni dello spettacolo (opera lirica, musica, prosa e circo) strutturalmente incapaci di stare sul mercato per una deficienza sul lato dei costi di produzione, progressivamente crescenti.

- I settori culturali che operano in mercati non concorrenziali, con l'aggravante che la posizione dominante (monopolistica o oligopolistica) è detenuta dall'industria culturale (cinematografica, discografica e audiovisiva) dei paesi forti e industrializzati. Gli exceptionnalistes ritengono che il mercato mondiale della cultura sia falsamente concorrenziale, perché di fatto dominato dalle imprese multinazionali e dal protezionismo culturale americano (con importazioni di prodotti culturali inferiori all'1% della produzione cinematografica mondiale). Essi considerano il cinema come un'arte, come patrimonio culturale e non come una semplice industria del divertimento.

- I settori industriali la cui domanda locale non è sufficientemente ampia da consentire loro una prospettiva di crescita e di sviluppo.

- I settori culturali, infine, che per definizione non hanno mercato (riti, credenze, folklore).

 

3.2. Ostacolo al libero scambio

Secondo questo punto di vista l'eccezione culturale presenta solo aspetti negativi.

- Introduce distorsioni alla libera concorrenza (politiche d'aiuto discrezionali e discriminanti). I liberiscambisti, considerano i beni culturali come beni e servizi prodotti da un'industria e chiedono l'abolizione delle barriere doganali e dei sussidi statali.

- Introduce asimmetrie e dissimmetrie tra i settori produttivi del sistema economico, offrendo condizioni di vantaggio ai settori in qualche modo riconducibili alla dimensione culturale.

- Crea settori assistiti e disincentivi ad un'azione efficiente. E' noto come vi sia una soglia oltre la quale l'assistenza pubblica produce parassitismo e inefficienza. L'aiuto al cinema italiano, ad esempio, assiste produttori e autori le cui opere non saranno mai proiettate nelle sale cinematografiche, ossia non hanno alcuna domanda.

- Sottrae i settori culturali ad un processo decisionale di tipo centralizzato.

 

3.3. Una soluzione istituzionalista ad un falso dilemma

Il dilemma esposto tende a contrapporre i due grandi campi di applicazione dell'eccezione culturale e pone il problema di come pesare i costi di una minore libertà economica con i benefici di una consolidata diversità culturale.

Sul piano della giustificazione razionale delle norme, se si dimostrasse che la diversità culturale è un prerequisito della libertà economica si giustificherebbe l'eccezione culturale. E viceversa.

La nostra impostazione del dilemma è di tipo istituzionalista, nel senso che consideriamo la diversità culturale come una regola o istituzione che fa evolvere il mercato in una direzione efficiente. Senza di essa il mercato non sarà efficiente, ossia non vi sarà piena libertà economica negli scambi, né i relativi vantaggi per il benessere e lo sviluppo. Il valore della diversità culturale è stato assimilato dall'Unesco all'importanza che la biodiversità ha per la natura. In termini economici se ne può sottolineare l'appartenenza a quella classe di istituzioni, come la fiducia, la reciprocità, gli standard, le corti commerciali che sono essenziali per una evoluzione dei mercati in senso moderno ed efficiente. Sotto questo profilo è evidente che con la scomparsa o l'eliminazione di una cultura si riducono le possibilità derivanti dal fatto che la diversità culturale è source of exchange, non solo in senso antropologico. Sul lato della domanda la diversità culturale è all'origine della specializzazione del lavoro, delle conoscenze e delle tecniche; sul lato dell'offerta è altresì all'origine delle opportunità di scambi tra produttori e consumatori con ordinamenti di preferenze diversi.

La diversità culturale è, dunque, sotto il profilo di una impostazione istituzionale un prerequisito per la realizzazione della libertà economica, per il libero scambio. In questo senso anche un'impostazione di tipo evoluzionista, in base alla quale le culture come le specie biologiche possono estinguersi e apparire senza per questo compromettere il processo evolutivo, appare limitativa. Infatti, "una cultura in meno" appare comunque come una restrizione della diversità culturale e dunque un freno allo sviluppo, diremmo, ben ordinato e ottimale dell'ambiente culturale e delle possibilità positive di relazione e interazione tra culture diverse.

Il falso dilemma è allora sostituibile da un ordinamento lessicografico che innanzitutto richiede l'applicazione di un primo principio di sviluppo assoluto e pieno della diversità culturale su scala mondiale. Questa appare dunque come un prerequisito istituzionale all'applicazione del secondo principio della libertà economica negli scambi.

 

4. Conclusioni sulla delimitazione della eccezione culturale

4.1. Delimitazione dell'eccezione culturale

Questa soluzione del dilemma pone però un nuovo problema che è quello dell'estensione pratica del concetto di diversità culturale e della sua applicazione. Finora, come abbiamo visto, le applicazioni più contrastate hanno riguardato l'industria audiovisiva e cinematografica internazionale. Ma per non aprire la strada ad un protezionismo generalizzato e perverso bisognerebbe individuare con chiarezza analitica e giuridica l'estensione territoriale tutelabile di ciò che definiamo cultura.

Come abbiamo detto, il settore culturale definito in senso largo riguarda, secondo una definizione ormai ufficiale, "ogni manifestazione della civiltà umana". In senso più stretto i beni culturali riguardano il cultural heritage, le arti dello spettacolo, la pittura e la scultura, l'industria culturale (cinema, tv, editoria), e la cultura materiale e intangibile (arts & crafts; culture-based goods). La produzione culturale, inoltre, riguarda sia merci che servizi. Ora, la crisi del 1993 nacque nell'ambito di una disputa interna all'industria culturale e sembrò riguardare i prodotti dell'industria audiovisiva e non i servizi culturali. Poteva sembrare che l'eccezione culturale non concernesse i servizi dello spettacolo dal vivo (teatro, concerto musicale, opera) poiché nel loro caso la libertà di concorrenza era meno coartata da aiuti pubblici localizzati. Si poteva arguire quindi che i beni-merce dovevano essere sottoposti alle regole del mercato, mentre i beni d'arte e i servizi culturali potevano essere oggetto di eccezione culturale. Con l'avvento della tecnologia digitale si è, poi, entrati un una nuova fase che di fatto riconduce ad una medesima piattaforma tecnologica immagini, suoni e testi. Il concerto digitalizzato è un bene di mercato, come il film e la pièce di teatro.

Si è visto che l'art. 151 del Trattato Ce affida al livello comunitario alcuni interventi finalizzati a valorizzare il "retaggio comune" e la promozione della cooperazione tra gli Stati membri, mentre nei diversi settori elencati dal secondo comma prevede la possibilità di erogare misure di incentivazione e sostegno alle iniziative nazionali.

Di competenze concorrenti in senso stretto si può parlare solo a proposito della cooperazione con i paesi terzi, per la quale sono in egual modo legittimati ad operare tanto la Comunità che gli Stati membri.

E' interessante notare che in tali settori l'azione comunitaria è prevista solo in seguito ad una "valutazione di necessità" dell'intervento: il che sembra condurre ad una applicazione del principio di sussidiarietà espressamente dedicata al settore culturale, che è stata efficacemente definita la "sussidiarietà del principio di sussidiarietà" [10].

 

4.2. Eccezione culturale e livelli di governo

Il tema del livello di governo e dell'ambito territoriale di riferimento è ovviamente centrale nell'ottica del federalizing process europeo e nazionale.

I fronti del problema sono almeno cinque:

- rapporti tra Ue e Omc (con conseguenti riflessi sui rapporti economici con in Paesi terzi)

- rapporti tra Ue e altre istituzioni europee (Consiglio d'Europa)

- rapporti tra Ue e Stati membri

- rapporti tra Stati membri

- rapporti istituzionali all'interno degli Stati membri.

I primi tre livelli risentono di uno stretto rapporto di connessione: basta pensare che l'individuazione dell'"opera europea" da tutelare in ragione della diversità culturale produce effetti sui negoziati commerciali in quanto tende a costruire un "mercato europeo", ma è proprio il carattere "europeo" dell'opera che impone di stabilire quali definizioni debbano essere utilizzate: le convenzioni del Consiglio d'Europa ove esistenti, le definizioni nazionali?

Il problema è legato alla molteplicità di definizioni, anche profondamente differenti, di "opera europea" esistenti a livello di Stato membro. Come pare evidente, le differenze possono creare ostacoli alla circolazione delle produzioni europee [11].

A questo punto si possono avanzare a livello generale alcune valutazioni. In sintesi: la "libertà" degli Stati membri nella definizione dei settori rilevanti e dei criteri per ammettere interventi pubblici di sostegno deve incontrare limiti sovranazionali, pena lo sconfinamento in una "impostazione territorialistica che va aldilà dello stretto necessario per garantire la creazione culturale in uno Stato membro", così frammentando indebitamente il mercato interno. In questo modo si tornerebbe alla "eccezione culturale", non più come protezione dell'Europa dagli Usa, ma come protezione della produzione di un singolo Stato nei settori che invece potrebbero trarre vantaggi dall'accresciuta concorrenza tra gli Stati membri.

L'Ue sembra allora rappresentare oggi il referente istituzionale nei cui confronti invocare e difendere la diversità culturale da parte dei singoli Stati, similmente a quanto faceva prima la stessa Comunità europea in sede di negoziati commerciali: si può così ricordare il ruolo particolarmente attivo dell'Assemblea delle regioni d'Europa (che riunisce 250 regioni di 28 paesi) nell'affrontare la tematica spinosa della diversità culturale e del Gats. Nella dichiarazione di Bressanone sulla diversità culturale e Gats (Approvata dai referenti regionali europei per la cultura e l'istruzione il 18 ottobre 2002) sollecitando l'inclusione dei governi regionali in tutti i futuri negoziati in materia di cultura, istruzione e mezzi d'informazione, le regioni hanno altresì chiesto "che i servizi in materia di istruzione, cultura e media siano esclusi dai negoziati futuri del Gats [...]", ed hanno espresso la loro preoccupazione per il fatto che "la Commissione europea [...] sta perseguendo attivamente una strategia di promozione della liberalizzazione" e la loro "opposizione a qualsivoglia cambiamento dei trattati dell'Ue che trasferisca le competenze in materia di istruzione, cultura e mezzi d'informazione a livello europeo con l'implicazione del voto a maggioranza qualificata".

Lo stesso ragionamento dovrebbe valere a livello nazionale, nei confronti delle iniziative e delle tradizioni culturali locali: del resto il principio di sussidiarietà, ormai costituzionalizzato in Italia riguardo all'esercizio delle funzioni amministrative, si fonda proprio sul rispetto e la valorizzazione dell'identità culturale degli enti territoriali minori. Bisogna tuttavia ricordare che resta ferma la distribuzione delle competenze normative (legislative e regolamentari) tra Stato e regioni in base al catalogo delle materie previste dalla Costituzione: la promozione delle attività culturali (così come la valorizzazione dei beni culturali) rientra nella potestà legislativa concorrente tra Stato e regioni, ma è destinata ad assumere carattere "trasversale" incidendo su altri settori (si pensi all'industria culturale) per i quali deve essere tutelata la concorrenza, così ritornando alla piena competenza statale. In alcuni settori poi la situazione è ancora più complessa: l'esempio più eclatante è lo spettacolo, con riferimento al quale mancava una legge che fissasse i principi ed i criteri dell'azione di promozione pubblica a favore delle attività teatrali di prosa, sicché sino all'adozione del decreto ministeriale 4 novembre 1999, n. 470, il sostegno ed il finanziamento pubblico nei loro confronti veniva disposto sulla base di mere leggi di spesa, ma soprattutto attraverso lo strumento delle circolari, annualmente adottate dal ministero e, a seguito della sua soppressione, dalla presidenza del Consiglio dei ministri.

Si può solo accennare all'emergente - e preoccupante - tendenza ad interpretare il principio di sussidiarietà nella sua "vocazione ascensionale" (così la Corte costituzionale, nella recente sentenza n. 303 del 2003), con l'effetto di assegnare le competenze allo Stato allorquando gli interessi di riferimento siano concretamente garantiti solo a livello unitario. E' evidente che anche nella materia di riferimento, la soluzione concreta in merito all'assegnazione delle competenze amministrative non potrà che discendere dalle scelte del legislatore statale e, entro i limiti ammessi, dalle scelte dei legislatori regionali.

La sfuggente definizione dell'ambito culturale può anche agevolare un'applicazione meno rigida del riparto di competenze (normative e) amministrative. Si può riportare il recente esempio della legge regionale del Lazio sulla salvaguardia dei locali storici regionali: a stretto rigore quell'intervento normativo riguardava la tutela e dunque avrebbe dovuto essere adottato dallo Stato, ma la Corte costituzionale ha aggirato l'ostacolo affermando che si trattava non di beni culturali ai sensi del Testo unico decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, ma di altri beni di rilievo e interesse culturale, con riferimento ai quali potevano intervenire anche strumenti di protezione previsti dal legislatore regionale territorialmente competente [12].

In sintesi: la possibilità di dettare discipline differenziate sul territorio e derogatorie rispetto a quelle "centrali", in ragione delle tradizioni locali da tutelare (beni e servizi), deve limitarsi allo "stretto necessario" per garantire la creazione culturale in uno Stato membro o in un ente territoriale minore: giuridicamente il controllo esperibile può oggi fondarsi sui canoni della ragionevolezza e della proporzionalità.

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Note

[*] Relazione presentata al Convegno: Fiscal federalism in the european Union and in the national States, Scuola superiore di Amministrazione pubblica, 23 gennaio 2004, Roma. Si ringraziano i partecipanti per gli utilissimi commenti. Siamo, ovviamente, i soli responsabili di quanto sostenuto nel testo.

[1] S. Regourd, A proposito dell'eccezione culturale, in www.attac.it, 20 giugno 2003.

[2] Basti considerare, a tal fine, l'opportunità, che pure potrebbe essere rilevata, di difendere congiuntamente le politiche pubbliche e i servizi pubblici nel campo della sanità e dell'istruzione.

[3] In particolare si deve tener conto degli Stati membri aventi un'area culturale o linguistica limitata.

[4] Nel documento di lavoro del 16 luglio 2003 sulla tutela (e la promozione) della diversità culturale (relatrice C. Prets) si afferma infatti: "Un bene culturale è un supporto materiale di contenuto culturale (Cd, Cd-rom, nastro, libro ecc.). Un servizio culturale rappresenta qualsiasi altra forma con la quale si fornisce contenuto culturale (ad esempio, trasmissioni radiotelevisive, lo scaricamento individuale di contenuti da reti di comunicazione, spettacoli teatrali, musei, biblioteche ecc.)". Posto che una definizione siffatta pare onnicomprensiva e forse solo indicativa, lo stesso documento richiede "definizioni precise al fine di garantire la corretta attuazione degli accordi commerciali relativi ai servizi culturali nell'ambito del Gats e degli accordi sui beni culturali all'interno del Gatt. Sia i servizi sia i beni culturali meritano particolare attenzione".

[5] Edizione 2001 della Relazione sulla utilizzazione del Fondo unico per lo spettacolo.

[6] C. Barbati, Lo spettacolo: il difficile percorso delle riforme (dalla Costituzione del 1948 al "nuovo" Titolo V e "ritorno"), in Aedon, n. 1/2003, pp. 1-11.

[7] In particolare cfr. D. North, Institutions, institutional change and economic performance, Cambridge University Press, 1990; trad. it. Bologna, Il Mulino, 1994.

[8] Unesco universal Declaration on cultural diversity, Paris, 2001.

[9] W.J. Baumol e W.G. Bowen, Performing arts: the economic dilemma, New York, The MIT Press, 1966.

[10] S. Cassese, L'aquila e le mosche. Principio di sussidiarietà e diritti amministrativi nell'area europea, in F. Roversi Monaco (a cura di), Sussidiarietà e pubbliche amministrazioni, Bologna, 1997, 73 ss.

[11] Con riferimento al settore cinematografico merita un cenno la recentissima riforma italiana: il Consiglio dei ministri del 16 gennaio 2004, in attuazione della delega conferita dalla legge 6 luglio 2002, n. 137, ha approvato definitivamente il decreto legislativo sul finanziamento pubblico del settore cinematografico. La riforma introduce il reference system, un sistema che supporterà le tradizionali commissioni nella scelta dei soggetti e dei progetti meritevoli di finanziamento, privilegiando chi nel recente passato ha prodotto cinema di qualità e cinema capace di catalizzare l'attenzione del pubblico.

[12] S. Foà, La legge regionale sulla tutela dei locali storici è legittima perché non riguarda "beni culturali" ma beni "a rilevanza culturale". La Corte costituzionale "sorvola" sulla distinzione tra tutela e valorizzazione, in corso di pubblicazione in le Regioni, 6/2003, e consultabile in rete all'indirizzo http://web.unife.it/progetti/forumcostituzionale/giurisprudenza/sf942003.htm.



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