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Italia Spa: sul saggio di Salvatore Settis (e dintorni)

di Marco Cammelli



L'agile volume di Salvatore Settis [1], storico dell'arte e direttore della Scuola normale superiore di Pisa, ha un oggetto ben determinato, la denuncia dei rischi che corre il patrimonio italiano dei beni culturali per le proposte di innovazione nelle modalità di gestione o di privatizzazione tout court, e un taglio altrettanto preciso: quello di non evitare nessuno dei problemi che tali tentativi pongono o potrebbero porre.

In breve: l'impressione di una discesa a precipizio dove, al contrario di quanto accade nello slalom, le bandierine (i quattordici capitoli) vengono centrate una dopo l'altra, e abbattute dalla prima ("Talibani a Roma?") all'ultima ("quel che bolle in pentola"). Il lettore, giunto senza fiato a termine della pista, torna con l'occhio alla copertina, inorridito dalla feroce e sanguigna immagine di Saturno che divora i suoi figli e persuaso che qualcosa del genere sta avvenendo, o rischia di avvenire, per mano dello Stato ai (suoi) beni culturali.

Ma l'impressione è fondata? E, comunque, le cose stanno davvero in questi termini?

Al primo quesito la risposta da dare è, fortunatamente, negativa. Il saggio di Salvatore Settis è molto più di un pamphlet, di un sentito ma irrimediabilmente parziale j'accuse. Dietro il ritmo incessante di uno stile affilato e incisivo, oltre l'appassionata denuncia non c'è passo, per sintetico che sia, che non evochi la vastità delle conoscenze, la profondità delle premesse culturali, la capacità di cogliere e intrecciare tra loro elementi diversi nel tempo e nello spazio, lo scrupolo di una puntuale documentazione.

C'è un assunto, certo, indicato fin dal titolo e ampiamente argomentato, e c'è una tesi, anch'essa dichiarata con decisione, l'indissolubile e necessario legame tra tutela e gestione dei beni culturali e amministrazione statale, l'unica in grado di garantire (insieme ai beni) qualcosa di ancor più prezioso: la cultura della conservazione. E, come vedremo, su questo sarà necessario spendere qualche parola.

Ma ora ciò che conta è il (molto) di più che Settis offre di volta in volta al lettore in termini di analisi, di riflessione, di principi culturali e di metodo: l'evidente incertezza, e qualche non virtuosa continuità, manifestata nel tempo dai titolari del ministero; il miracolo del bene culturale, nello stesso tempo unico, per l'irripetibile composizione dei suoi elementi, e universale perché frutto di una pluralità di scambi che collegano ognuno dei suoi ingredienti ad apporti diversi e civiltà anche remote; il richiamo, ripetuto, al rischio che le cose pacificamente ritenute impossibili possono invece, assai meno pacificamente, succedere; il maldestro richiamo, e trapianto, di soluzioni maturate in contesti e su presupposti radicalmente diversi; l'ambivalenza, e talora la vera e propria ambiguità, di aperture ai privati sospese tra la ragionevole ricerca di forme di gestione più efficaci e l'inaccettabile cedimento alle sole ragioni della cassa; la contraddizione tra le altisonanti affermazioni di principio e politiche di costante marginalizzazione, in termini quantitativi, operativi e di statuto giuridico ed economico, del personale tecnico operante nel ministero o tra l'urgenza di disporre in tempi brevi di un censimento completo del patrimonio culturale e il perfezionismo dell'Istituto centrale di restauro la cui scheda di rilevazione è predisposta in termini così complessi da risultare poco praticabile.

Un quadro, in breve, dal quale tutti i diversi protagonisti escono con qualcosa (e forse più di qualcosa) da farsi perdonare.

Non sono certo cose nuove, per i lettori che conoscono gli scritti di Settis, né la sua è una voce solitaria, se solo si pensa ad altri eccellenti saggi apparsi, con taglio diverso ma pari sensibilità rispetto ai recenti sviluppi normativi, in questi ultimi tempi: basti ricordare quello di Silvia Dell'Orso (Altro che musei. La questione dei beni culturali in Italia, Laterza, 2002), di Rosanna Cappelli (Politiche e poietiche per l'arte, Mondadori Electa, 2002), la stessa (significativa) riedizione curata da Giuseppe Chiarante del volume su Giulio Carlo Argan, Storia dell'arte e politica dei beni culturali, Annali dell'Associazione Bianchi Bandinelli, 12/2002, Graffiti editore.

Ma la denuncia dei rischi che le politiche più recenti aprono nella materia è insieme, efficace e fondata. In particolare lo è l'allarme per le vicende di Patrimonio Spa, cui Aedon in questo numero dedica un primo approfondimento con gli interventi di Sergio Foà e Paolo Pizza, per il confuso sovrapporsi di norme diverse e talvolta contrastanti (regime codicistico, Testo unico, agenzia del Demanio e Patrimonio Spa) che certo non possono essere affidate esclusivamente alla saggezza degli uomini, che solo a fatica (e con non lievi forzature interpretative) possono ricondursi ad un grado accettabile di legittimità e coerenza, e che comunque presentano vaste zone d'ombra.

Ne bastino due (non le uniche né le più rilevanti): quale è l'esatto regime dei rapporti tra Patrimonio Spa e Infrastrutture Spa in materia di beni culturali e chi è in grado di garantire che rimanga senza effetti per questi ultimi la cessione di azioni (con semplice autorizzazione, si noti, del ministro dell'Economia: art. 8, comma 1, legge 15 giugno 2002, n. 112) di Infrastrutture Spa quando quest'ultima annoveri tra i propri beni, appunto, beni culturali? La "gestione" di un bene culturale da parte di Patrimonio Spa è davvero senza differenze rispetto a quanto opererebbe il ministero competente? Perché, questo è il punto, non di sola alienazione dei beni si tratta, dato che effetti analoghi si possono avere anche con la cessione delle azioni della società che ne dispone, ed è difficile pensare ad un azionista con diritti differenziati al capitale o il patrimonio sociale a seconda della natura dei beni che vi insistono e perché comunque resta il capitolo delle modalità di gestione.

La denuncia di Salvatore Settis, per quello che già si intravede e per quello che non è chiaro, per quello che è e per quello che sarà o potrebbe essere, è dunque innegabilmente fondata.

In breve, un libro riuscito e la denuncia, per la meritata notorietà conseguita, un obbiettivo raggiunto.

Il discorso si fa diverso per la parte, che certo non rappresenta il fuoco del saggio ma che è troppo importante per essere tralasciata, in cui si accenna alle proposte per scongiurare i rischi e per migliorare le politiche di settore, che Settis identifica nel recupero, certo con i dovuti adattamenti e miglioramenti, dei due pilastri tradizionali dell'azione (la disciplina dettata dalla legge 1 giugno 1939, n. 1089, ora trasfusa nel Testo unico, decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490) e della organizzazione (il ministero e i suoi apparati centrali e periferici) statali. Il che, ovviamente, getta una lunga ombra sulle ipotesi di riallocazione delle funzioni e dei beni agli enti locali e ai privati.

Ridotto all'osso, infatti, il ragionamento è il seguente: a) il cuore degli interventi in materia non può che essere la tutela; b) quest'ultima, richiede saperi tecnico-professionali e una posizione di "terzietà" che ne impongono la riserva ad apparati diversi da quelli di chi è titolare di interessi contrastanti o perché legati in senso lato allo sviluppo (urbanistico-territoriale, economico e produttivo) del territorio, il governo locale, o perché intrecciati ad esigenze, dirette o indirette, di profitto, i privati; c) la tutela, d'altronde, non è materialmente né concettualmente separabile dalle altre funzioni che investono il bene culturale, e in particolare dalla valorizzazione e gestione; d) ergo: la materia (e, per quanto possibile, ogni altro aspetto di qualche rilevanza) va saldamente concentrata nelle mani del ministero, al centro, e delle soprintendenze in sede periferica.

Se tali convinzioni (peraltro molto diffuse) sono riportate fedelmente, in sé e nella loro sequenza, non è difficile verificare che per una parte significativa del problema le ragioni di dissenso non sono riferibili a interpretazioni diverse ma sono oggettive, riguardano cioè giudizi di fatto che non attengono ai singoli passaggi ma ai loro presupposti. Ci limitiamo ad indicarne i tre principali.

Il primo è che, come ogni legge ma specialmente per quelle che implicano un decisivo momento amministrativo e organizzativo, la l. 1089/1939 poggia su premesse istituzionali (la centralità dello Stato e la totale riferibilità a quest'ultimo di ognuno degli elementi in gioco: il podestà al posto del sindaco; l'approvazione dei piani regolatori da parte del ministero dei Lavori pubblici; l'onnipresenza del prefetto in sede locale; il controllo generale sugli atti di comuni e province; il monopolio della funzione legislativa da parte del Parlamento) chiaramente decisive per la sua tenuta e altrettanto chiaramente, e irreversibilmente, mutate già dal 1970 con l'attuazione delle regioni a statuto ordinario.

Le riforme amministrative (leggi Bassanini) e costituzionali (nuovo Titolo V) dell'ultimo decennio, inoltre, non solo hanno trasferito al sistema regionale e locale una quantità di poteri senza precedenti ma implicano un radicale ripensamento dell'intero sistema amministrativo italiano che, dal 2001, è destinato ad essere non più statale ma locale, non più autosufficiente ma sussidiario, non più centralizzato ma autonomo, non più uniforme ma diversificato. Il problema, dunque, non è la validità del sistema di tutela della 1089, ancora insuperato, ma come ridefinirne le basi e il funzionamento rispetto ad un impianto istituzionale ormai radicalmente cambiato.

Altrettanto cambiato è il secondo profilo, che non riguarda i mutamenti (profondi, come si è visto) della sfera pubblica ma il rapporto tra quest'ultima e il variopinto contesto nel quale essa opera. Un contesto che non è composto solo da interessi miopi o mercantili (che certo non mancano), ma da organismi del terzo settore, da associazioni di volontariato, da fondazioni, da saperi tecnici e professionali esterni, da imprese che sanno distinguere tra un bene culturale e un prodotto commerciale e che ritengono che a certe condizioni possa esservi spazio, anche in questo settore, per una attività di impresa. La questione, in questo caso, non è privato sì o no ma come distinguere tra gli uni e gli altri, come rapportarvisi, in quali settori e per quali compiti, con quali garanzie (non solo per il pubblico, ma anche per il privato).

Il terzo è rappresentato dall'importanza acquisita, anche per queste ragioni, dell'elemento della gestione. Mentre in precedenza quest'ultima non aveva autonomia, neppure materiale, rispetto alla tutela, trattandosi appunto della "gestione della conservazione" ben rappresentata dal modello classico di museo, oggi il terreno della gestione ha assunto un rilievo inedito per molte ragioni: per la quantità dei beni da gestire, assai più estesa del passato; per la qualità richiesta nella loro gestione, in termini di livelli di prestazione e tipologie di offerta; per la complessità, in ragione della stretta interdipendenza tra gli interventi in materia e le restanti politiche pubbliche; per diversità delle domande di cui è oggetto il bene, prima tra le quali la fruizione di massa.

In breve. Non solo non è pensabile il ritorno al passato ma è urgente un passo avanti per la ridefinizione delle (nuove) basi istituzionali e amministrative del settore coerenti con il nuovo assetto e tali da supportare in condizioni diverse l'invariata esigenza di tutela; per la messa a punto delle condizioni, degli strumenti e dei soggetti con i quali instaurare rapporti di collaborazione; per la distinzione tra ciò che va operato direttamente e ciò invece che deve essere svolto da soggetti esterni, imponendo la difficile virtù del passaggio dal "fare" al "far fare" ad altri; per identificare e praticare sedi di cooperazione con le diverse autorità pubbliche operanti in materia.

Vi sono molti modi di fare tutto ciò e qui, certo, dai fatti si passa ai valori il cui apprezzamento è inevitabilmente, e legittimamente, diverso e sul quale non è ovviamente possibile soffermarsi. C'è chi ritiene che la risposta alla complessità debba passare per il decentramento di quote significative di funzioni al sistema locale, ovviamente con il gradualismo imposto dalla diversità di condizioni delle autonomie territoriali italiane, e chi ritiene invece che sia necessario mantenere tutte le funzioni più significative allo Stato e alle sue articolazioni periferiche, magari attrezzandole in modo da sostenerne il peso (i poli museali, in fondo, sono proprio questo). C'è chi pensa che prima si debba perimetrare l'area del pubblico "necessario", al netto del privato "possibile", per poi passare alla ripartizione di compiti tra Stato e governo locale e chi, al contrario, o non crede (troppo) alla cooperazione con soggetti esterni o ritiene, comunque, che si tratti di una scelta circostanziata, da operare di volta in volta: in breve, da affidare ai livelli decentrati. Chi ritiene possibile ripartire il ruolo statale e locale lungo la linea di separazione tra un cerchio stretto di tutela (il momento autoritativo del vincoli e dei limiti), al primo, e uno largo (tutto il resto) al secondo, e chi rivendica l'indissolubile connessione tra questi momenti disposto a separare semmai, come in alcune regioni a statuto speciale, il profilo della disciplina (statale) da quello delle funzioni e della gestione amministrativa (regionale e locale).

L'enumerazione delle ipotesi potrebbe proseguire, e il solo fatto che il ventaglio sia ancora così largo la dice lunga sul ritardo di un dibattito che, purtroppo, non ha ancora toccato il nocciolo dei problemi, come è dimostrato dal fatto che anche sugli aspetti più evidenti e teoricamente acquisiti la consapevolezza di ciò che necessita, e le proposte per porvi mano, restano largamente carenti. Prima tra tutti la progettazione e messa in opera di un "centro" in grado di assolvere, quale che sia il sistema prescelto (soprintendenze e/o sistema locale, sistema pubblico e/o privati), alle cruciali funzioni di quadro normativo, di acquisizione dei dati e circolazione delle informazioni, di elaborazione di standards (di intervento, di gestione e di formazione del personale addetto), di vigilanza e controllo (sostanziali, non cartacei), di regole per la cooperazione. Funzioni in ogni caso e comunque da esercitare e purtroppo, basti pensare ai rapporti attuali tra ministero e soprintendenze o tra queste ultime, quasi evanescenti.

In questi anni, e con diverse maggioranze, di tutto si è parlato, di molto si è discusso, parecchio si è legiferato, ma non di questo. Non è il pathos che è mancato: è mancata la consapevolezza delle trasformazioni e la lucidità di trarne gli elementi per una proposta appropriata.

Un compito enorme, una sfida difficile. Ma se l'aspetto più nobile della politica, e anche della cultura, è quello di rendere possibile ciò che è necessario, c'è davvero bisogno dell'apporto di tutti. E come i libri migliori quello di Settis, per ciò che dice e per come lo fa, per quello che persuade e per quanto si può discutere, fa fino in fondo la sua parte.

 

 



Note

[1] Salvatore Settis, Italia Spa. L'assalto al patrimonio culturale, Torino, Einaudi, 2002.



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