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La censura cinematografica: libertà dello spettatore,
tutela dei minori e censura economica

di Riccardo Viriglio


Sommario: 1. Le proposte di riforma, i suggerimenti della dottrina. - 2. La censura economica. - 3. Breve storia della legislazione italiana in materia di censura. - 4. La legge n. 162 del 1961 e il suo regolamento di esecuzione. - 5. Il male minore.



1. Le proposte di riforma, i suggerimenti della dottrina

In seguito alla presentazione di due disegni di legge al Senato (nn. 3112 e 3180) e di un progetto di legge alla Camera dei deputati (n. 4637) pare che il Parlamento si accinga ad intervenire sull'istituto della censura cinematografica.

Fin dal periodo immediatamente successivo alla sua approvazione innumerevoli e dal segno più diverso sono stati i tentativi di modificare la legge 21 aprile 1962, n. 161 (recante norme in tema di Revisione dei film e dei lavori teatrali), da sempre oggetto di critiche a dir poco feroci [1]: salvo interventi marginali, nessuno di essi è però stato mai approvato dalle Camere. Inoltre, si scoprirebbe che ciascuno di questi tentativi ha avuto origine da un caso eclatante di censura.

Le tre proposte legislative, sebbene non si possa ad oggi sapere se sfuggiranno alla prima regola, certo obbediscono alla seconda: essi fanno seguito alla vicenda che ha riguardato il film "Totò che visse due volte" (1997) di Daniele Ciprì e Francesco Maresco, film che non ha ottenuto in primo grado il necessario nulla osta per la circolazione nella sale italiane.

Tralasciando qualunque previsione in merito alla loro approvazione, è necessario chiarire cosa tali proposte intendano disporre. Si farà qui riferimento per comodità al solo disegno di legge n. 3180, maggiormente articolato, il quale è stato presentato dall'ex ministro per i Beni culturali e ambientali Walter Veltroni.

La proposta è volta ad abolire la possibilità riconosciuta al ministero competente (attualmente, il ministero per i Beni e le Attività culturali) di negare il nulla osta alla proiezione in pubblico di un film, straniero o italiano, a causa del parere vincolante espresso in tal senso dalle Commissioni di primo e secondo grado, insediate presso il Dipartimento dello spettacolo. Nulla s'intende innovare invece in ordine alla possibilità che la visione del film venga vietata ai minori di 14 o di 18 anni. Tutti i film continueranno ad essere sottoposti al vaglio delle Commissioni, ma non potrà più essere stabilito il divieto assoluto di proiezione in pubblico: un film potrà solo continuare a subire il divieto per i minori. Se dunque è questo il cuore della proposta legislativa, accompagnata da una pressante campagna parlamentare e di stampa, viene da chiedersi quanti film nella più che trentennale storia (repubblicana) delle Commissioni di revisione si siano visti negare il necessario nulla osta, non potendo così essere visti dal pubblico italiano.

A memoria di censore ed in assenza di statistiche ufficiali [2], la risposta è: due. Oltre al film di Ciprì e Maresco, il quale alla fine di una tormentata vicenda giudiziaria finì in ogni caso per uscire nelle sale, e volendo escludere le pellicole dichiaratamente pornografiche [3], l'altro film che si ricordi non abbia ottenuto il necessario nulla osta è stato nel 1993 "Il Ritorno" di Jens Jorgen Thorsen.

La riforma in esame vorrebbe adeguare "la normativa vigente (...) all'attuale contesto sociale" rendendola maggiormente "coerente con la libertà di manifestazione del pensiero, di cui all'articolo 21 della Carta Costituzionale", come si legge nella relazione al disegno di legge. Tuttavia, a fronte dei dati appena ricordati si potrebbe dubitare che essa abbia centrato il giusto obbiettivo: si abolisce il potere, scarsamente esercitato negli anni, di vietare un film alla visione del pubblico adulto, si conserva la possibilità di stabilire divieti a tutela dei minori.

Il disegno di legge pare recepire gli auspici formulati da una parte della dottrina costituzionalistica. Le questioni attorno alle quali ruota il dibattito intorno alla censura cinematografica sono due: il bene che s'intende tutelare, e implicitamente i soggetti da tutelare; le forme di tutela.

L'articolo 21, comma VI, Cost. sancisce il divieto degli stampati, degli spettacoli e di tutte le altre manifestazioni contrarie al "buon costume", soggiungendo che è compito del legislatore stabilire provvedimenti adeguati non solo a "reprimere", ma anche a "prevenire" le eventuali violazioni.

Il legislatore del 1962 introdusse il sistema attualmente vigente di revisione per le sole opere teatrali e cinematografiche, prevedendo che per tutti i film, nazionali ed esteri, il ministero competente, previo parere vincolante di un'apposita commissione, potesse disporre alternativamente: 1) il divieto assoluto di proiezione in pubblico ove fosse ravvisato nel film, sia nel suo complesso sia in singole scene o sequenze, offesa al buon costume, inteso "ai sensi dell'articolo 21 della Costituzione" (art. 6, comma I e II); 2) il divieto di proiezione ai minori di 18 o di 14 anni "in relazione alla particolare sensibilità dell'età evolutiva ed alle esigenze della sua tutela morale" (art. 5, comma I); 3) la proiezione in pubblico senza limiti di età. Gli interessati, in caso di diniego del nulla osta o di rilascio del nulla osta condizionato al divieto per i minori, si vedevano riconosciuta la possibilità di ricorrere ad una diversa commissione di secondo grado, nonché di adire il giudice amministrativo. Nel successivo regolamento di esecuzione (dpr 11 novembre 1963, n. 2029) fu infine specificato ogni aspetto del procedimento di revisione: in particolare, quali dovessero essere i criteri ai quali attenersi per giudicare un'opera cinematografica non adatta al pubblico dei minori.

Come è noto, la concezione del buon costume, dopo varie oscillazioni, oggi s'intende legata esclusivamente alla sfera del pudore sessuale, per unanime consenso di dottrina e giurisprudenza: sono stati abbandonati i tentativi di allargarla a dismisura, in particolare fino a ricomprendere "la morale" o "la coscienza etica" come si legge nella sentenza della Corte costituzionale n. 9 del 1965. Quali sono tuttavia i soggetti che dovrebbero essere tutelati da offese al buon costume contenute in opere cinematografiche? Sul punto non esiste un consenso altrettanto unanime.

Secondo alcuni, seguendo un'interpretazione forse "contestabile sia sul piano letterale che su quello storico, e cioè dei lavori preparatori", ma sicuramente fondata "sul piano logico e su quello storico-evolutivo", le manifestazioni contrarie al buon costume, da intendersi come in perversione dei costumi secondo la celebre definizione di Carlo Esposito, dovrebbero essere giudicate tali a patto di intendere in generale il limite del buon costume come posto "a tutela esclusivamente dei minori". Tale interpretazione, la quale combina la disposizione di cui all'articolo 21, comma VI, con quelle di cui agli articoli 30 e 31, dovrebbe inoltre riguardare sia la prevenzione sia la repressione, le quali "logicamente (...) non possono che avere lo stesso oggetto".

Non vi sarebbe alcuna ragione "di protezione costituzionale del pudore e della decenza dei maggiorenni, che possono liberamente scegliere di rendersi o no destinatari di stampa e di manifestazioni pornografiche", a condizione - si aggiunge - che "tale natura risulti chiaramente dichiarata e ben percepibile, come ad esempio avviene oggi nei cinematografi a luce rossa". La censura a tutela degli adulti rappresenterebbe "un errore di fondo, perché attiva un circuito di repressione che conduce alla negazione di tutte le libertà". Nessuna forma di censura per i maggiorenni, dunque, ma solo - prosegue tale opinione - un obbligo di informazione, che, "fondamentale" e imposto dallo stesso articolo 21 della Costituzione, dovrebbe "mettere in grado chiunque di conoscere preventivamente se il film che si proietta in un pubblico locale può essere giudicato o no come una manifestazione contraria al buon costume": un tale sistema, da affidare eventualmente ad "un organo non burocratico", rappresenterebbe una sorta di "ampliamento culturale dell'attuale luce rossa" [4].

Il disegno di legge n. 3180 va oltre questa interpretazione della disciplina vigente in materia di censura, poiché intende abolire direttamente il potere di negare il nulla osta. Uguale è l'orientamento volto a limitare in sede preventiva la libertà di manifestazione del pensiero, costituzionalmente garantita, al solo fine di proteggere i minori. Nulla si dice però in ordine ad un sistema di informazione preventiva dei maggiorenni in merito al contenuto dell'opera cinematografica. Forse opportunamente.

Una classificazione dei film che, affidata ad "organi non burocratici" (ad esempio sul modello delle autorità indipendenti), fosse volta unicamente ad informare il pubblico adulto sul contenuto del film, si rivelerebbe inutile: è forse credibile che i maggiorenni, già liberi di vedere il film, riterrebbero necessario attendere anche una patente "ufficiale" sul contenuto di esso per determinarsi nella propria scelta, esistendo a sufficienza ben altri canali (informali) per ottenere le necessarie informazioni? Inoltre, la giustificazione di tale meccanismo (l'obbligo di informazione che sarebbe imposto dall'art. 21 Cost.) è labile, potendo anzi prestarsi a mascherare sotto altra forma proprio quel concetto dello Stato tutore di un cittadino eternamente immaturo, che la citata opinione vuole invece superare. Non il censore che vieta, ma l'esperto, il tecnico che ammonisce o peggio dissuade. D'altronde, codici di comportamento, di autoregolamentazione, sui quale imperniare anche forme di informazione al pubblico, sarebbero auspicabili, ma difficili da far rispettare e in ogni caso rimessi all'iniziativa e alla spontanea adesione degli interessati (autori, produttori e distributori).

2. La censura economica

Già da tempo paesi diversi dall'Italia sperimentano un sistema di classificazione dei film "volontario" [5], vale a dire una forma di censura preventiva (di ciò alla fine si tratta) non imperniata sull'intervento dei pubblici poteri, ma affidata dallo Stato agli stessi privati (nella migliore delle ipotesi, autori, produttori e distributori; nella peggiore, alle sole industrie private). Un simile sistema sovente crea più problemi di quanti si vorrebbero risolvere: esso tende a rivelarsi pericoloso per la libertà di manifestazione del pensiero, poiché istituzionalizza una sorta di censura economica.

Come dimostrato dall'esperienza maturata negli Stati Uniti, al termine del montaggio può risultare probabile che l'opera venga classificata come oscena o comunque non adatta per altre ragioni al pubblico dei minori, e dunque ad essi vietata (non può infatti essere stabilito il divieto per tutti). Ciò comporterebbe una diminuzione della cerchia del pubblico potenziale con conseguente danno economico per produttori e distributori. Questi ultimi, solitamente in possesso del cd. final cut grazie ad accordi contrattuali con gli autori, sono allora indotti ad adattare il film per ottenere una più mite classificazione. Per ciò che attiene in particolare al presunto carattere osceno di un film, non sempre è detto che esso possa essere sfruttato da elemento di richiamo per il pubblico maggiorenne: ciò dipende da innumerevoli fattori, legati genericamente ai tempi ed alle condizioni in cui viene a trovarsi il mercato nel quale l'opera dovrà essere distribuita.

Emblematica è la vicenda del film "Eyes wide shut" (1999) di Stanley Kubrick (autore notoriamente geloso del director's cut), film che, dopo la morte dell'autore e malgrado il suo supposto assenso in vita, è apparso nelle sale americane in una versione nella quale la casa di produzione aveva deciso non di tagliare, bensì di adattare sapientemente, utilizzando le moderne tecniche digitali, una scena ritenuta scabrosa, vista invece dal pubblico europeo. Il fine dichiarato era evitare che, grazie al sistema volontario americano, gestito dalle industrie private attraverso la Motion picture association of America, il film ottenesse una classificazione ritenuta penalizzante dal punto di vista economico (il cd. NC-17 rating, con il quale viene vietata la visione del film ai minori di 17 anni).

La classificazione di un film come NC-17 da parte della Classification and ratings administration, organo della Mpaa, finisce infatti per escludere dalla cerchia del pubblico potenziale, oltre ai minori, anche gli stessi adulti, perché è dimostrato che i proprietari delle sale americane sono restii a acquistare o noleggiare le copie della pellicola così classificata, mentre giornali, radio e televisioni preferiscono non accoglierne la pubblicità [6].

È arbitrario ritenere che l'introduzione in Italia di un sistema volontario simile a quello americano possa necessariamente rivelare gli stessi inconvenienti appena segnalati [7]. Tuttavia, si può essere sicuri che nel sistema di controllo sulle opere cinematografiche oggi vigente in Italia già non esista nei fatti una forma surrettizia di censura economica?

La dottrina costituzionalistica generalmente dubita che l'attuale previsione di una forma di censura sulle opere cinematografiche, in relazione alla tutela del buon costume, sia imposta dalla Costituzione al legislatore ordinario o che essa rappresenti comunque "l'unica attuazione corretta" di tale obbligo. La censura è considerata invece ammissibile, se non doverosa in relazione "all'interesse costituzionalmente protetto a che si assicuri una particolare tutela all'infanzia e alla gioventù" (articolo 31, comma 2, Cost.) [8].

Pur dubitandosi della composizione, delle capacità di giudizio e dell'operato delle attuali commissioni ministeriali, è "concorde l'opinione sull'utilità delle misure preventive poste ad esclusiva tutela dei minori": si considera opportuno mantenere "il potere di precludere la fruizione dell'opera ai minori, non soltanto per i motivi attinenti all'osceno in senso erotico, ma anche (...) per cause relative alla violenza, all'incitamento all'uso di droghe o alla volgarità in genere". E ciò vale anche per chi "nella prospettiva de iure condendo" considera la tutela dei minori "uno dei pochi limiti che sembrano doversi mantenere, in generale, per ogni manifestazione di pensiero, ed anche (...) per l'espressione artistica" [9].

Se è innegabile che anche in questa materia la Costituzione sembra imporre forme di tutela dei minori (anzi della "infanzia" e della "gioventù", come specifica l'articolo 31), è nondimeno necessario andare oltre tale constatazione, chiarendo se le forme in cui la tutela è stata realizzata dal legislatore risultino conformi allo scopo e se esse possano conciliarsi con le altre libertà costituzionalmente garantite. Anche nell'ipotesi in cui le recenti proposte legislative fossero infine approvate, rimarrebbe inalterato l'attuale sistema di censura preventiva volto a tutelare i minori.

3. Breve storia della legislazione italiana in materia di censura

È utile ripercorrere, seppur brevemente, la storia della legislazione italiana in materia di controlli preventivi sugli spettacoli cinematografici. Il cinema è sempre andato di pari passo con forme più o meno restrittive di censura da parte dei pubblici poteri [10]. E ciò non solo perché esso è caratterizzato da una "fruibilità necessariamente collettiva e quindi potenzialmente foriera di disordini", ma soprattutto perché sin dalle origini del muto, "sia attraverso il contenuto plastico dell'immagine che le risorse del montaggio, il cinema dispone di tutto un arsenale di procedimenti per imporre allo spettatore la propria interpretazione dell'avvenimento rappresentato", tanto che oggi, grazie al sonoro, al moderno découpage e, si potrebbe dire, alle recenti tecniche digitali "l'immagine - la sua struttura plastica, la sua organizzazione nel tempo - dato che si appoggia ad un ancora maggiore realismo, dispone (...) di molti più mezzi per piegare, modificare dall'interno la realtà" [11]. Caratteri peculiari del cinema che da sempre hanno destato l'attenzione del legislatore. Non sorprenda quindi constatare l'esistenza di un "elemento di continuità nella legislazione di settore, nel passaggio dal periodo liberale a quello fascista a quello repubblicano", il quale trova origine in un costante "atteggiamento di particolare diffidenza" nei confronti di questa forma di manifestazione della libertà di espressione [12].

Lo Statuto Albertino garantiva espressamente la stampa (art. 28): nulla diceva in ordine alla libertà di espressione attraverso mezzi diversi. Fin dal 1859, le leggi e i regolamenti in materia di pubblica sicurezza che si succedettero nel tempo (l. 13 novembre 1859, n. 3270; l. 20 marzo 1865, all. B e relativo regolamento di esecuzione; l. 30 giugno 1889, n. 6144) mostrarono chiaramente l'intento di configurare l'intervento dello Stato in caso di abusi della libertà di espressione in materia di spettacoli come preventivo (di natura sostanzialmente censoria) lasciato alla pubblica amministrazione, non successivo (di natura repressiva) affidato all'autorità giudiziaria sulla base di fattispecie di reato prefissate dal legislatore. Erano concessi alle autorità locali di pubblica sicurezza, e agli stessi prefetti, ampi margini di discrezionalità nel rilascio delle necessarie licenze di polizia e nel potere di adottare eventuali misure di vigilanza durante le rappresentazioni: provvedimenti legati alla sussistenza di condizioni indeterminate e influenti indirettamente sul contenuto degli spettacoli da rappresentare [13].

Fu tuttavia negli anni 1913-1914 che per il cinema fu introdotta un'apposita forma di intervento censorio propriamente detto. A seguito di un forte movimento d'opinione favorevole all'introduzione della censura, il quale trovava voce soprattutto nel quotidiano conservatore "Il Giornale d'Italia" [14], prima la l. 25 giugno 1913, n. 785, che autorizzava "il governo del Re ad esercitare la vigilanza sulla produzione delle pellicole cinematografiche", e poi il regolamento esecutivo (r.d. 31 maggio 1914, n. 532) disciplinarono compiutamente la materia. Il secondo atto normativo è di notevole interesse, perché molte delle soluzioni in esso accolte saranno successivamente mantenute e perfezionate, anche nel periodo repubblicano. Scopo della vigilanza sulle pellicole era impedire la rappresentazione al pubblico "di spettacoli offensivi della morale, del buon costume, della pubblica decenza e dei privati cittadini; di spettacoli contrari alla reputazione e al decoro nazionale o all'ordine pubblico, ovvero che (potessero) turbare i buoni rapporti internazionali; di spettacoli offensivi del decoro e del prestigio delle istituzioni e autorità pubbliche, dei funzionari e degli agenti della forza pubblica; di scene truci, repugnanti o di crudeltà, anche se a danno di animali; di delitti o di suicidi impressionanti": in ogni caso doveva essere impedita la visione al pubblico "di azioni perverse o di fatti che (potessero) essere scuola o incentivo al delitto, ovvero turbare gli animi o eccitare al male" (art. 1).

Custode del rispetto di questo lungo e dettagliato elenco di divieti, il quale dimostrava l'ormai acquisita consapevolezza delle potenzialità espressive del mezzo cinematografico, era il ministro dell'Interno: dalle "approvazioni concesse dalle autorità locali di pubblica sicurezza" si passava al controllo accentrato del ministero (art. 2), salva la delega in caso di urgenza ai prefetti del Regno per le sole pellicole che riproducessero "avvenimenti di attualità" (art. 5).

"In conformità al giudizio del revisore", il quale esprimeva dunque parere vincolante, il ministro dell'Interno poteva negare ovvero rilasciare il necessario nulla osta, eventualmente a condizione che alcune parti del film fossero soppresse (art. 7). In primo grado, revisore era un funzionario della direzione generale di pubblica sicurezza o un commissario di pubblica sicurezza; in secondo grado (essendo ammesso "ricorso al ministero per nuovo esame": art. 8), esisteva invece una commissione, composta dal vice-direttore generale e da due capi di divisione della direzione generale di pubblica sicurezza (art. 9). In ogni momento il ministero poteva ordinare la ripresentazione della pellicola già munita di nulla osta per sottoporla a un nuovo procedimento di revisione (art. 10).

Con il r.d. 22 aprile 1920, n. 531, la revisione fu affidata anche in primo grado a una commissione, la composizione della quale si allargava a soggetti diversi, pur sempre di nomina ministeriale: oltre a due funzionari della direzione generale della pubblica sicurezza, vi erano un magistrato, una madre di famiglia, un membro da scegliersi fra educatori e rappresentanti di associazioni umanitarie che si proponessero la protezione morale del popolo e della gioventù, un esperto in materia artistica e letteraria e un pubblicista (art. 8). Come condizione per l'accesso al procedimento di revisione della pellicola, fu altresì previsto che "il copione o scenario", esaminato prima dell'inizio delle riprese, contenesse un soggetto "in massima riconosciuto rappresentabile" (art. 2: cfr. già il r.d. 9 ottobre 1919, n. 1953): i film finivano così per sottostare ad un controllo preventivo sui contenuti sin dalla fase antecedente alla loro realizzazione.

Il regime fascista intuì fin da subito le potenzialità a fini propagandistici di un mezzo di comunicazione di massa come il cinema. Facilitato dall'esistenza nell'ordinamento di numerose disposizioni che già consentivano interventi preventivi di natura censoria, fu in grado di predisporre un sistema "che consentisse a priori di garantire (...) l'utilizzazione (del cinema) in modo omogeneo agli indirizzi politici dominanti", a tal fine ricorrendo anche alle leve del sostegno economico e del protezionismo a favore delle opere prodotte in Italia [15]. Anzi, contrariamente all'opinione di altri [16], il fascismo non fece altro che confermare perfezionandola la legislazione del periodo precedente in materia di revisione delle pellicole cinematografiche: controllo accentrato presso un ministero (prima quello dell'Interno, in seguito quello della Cultura popolare), salva delega ai prefetti; parere vincolante di commissioni di revisione di primo e secondo grado, le quali sarebbero passate da una composizione burocratica ad una composizione più articolata, contando al proprio interno anche membri di designazione politica (il partito nazionale fascista), nonché quelli che potrebbero oggi essere definiti i tecnici (gli esperti in materia artistica, letteraria e di tecnica cinematografica) e, con qualche sforzo di immaginazione, gli utenti (le madri di famiglia) [17]; previo valutazione del soggetto del film; possibilità di assoggettare a nuova revisione i film che, muniti di nulla osta, avessero già iniziato a circolare nelle sale cinematografiche. In ogni caso, esemplare era la conoscenza dimostrata del mezzo cinematografico e meticolosa la cura di sottoporre ogni fase della produzione al più rigido controllo.

Due interventi sono degni di nota in quel periodo. Il r.d. 24 settembre 1923, n. 3287, oltre a confermare nella sostanza le cause ostative del nulla osta già previste dal r.d. 532 del 1914, cit., per le pellicole da rappresentarsi in pubblico (art. 3) [18], stabilì un'apposita revisione per le pellicole destinate all'esportazione (art. 1, comma II), qualora la rappresentazione di esse nel Regno non fosse già stata approvata dal ministero (art. 19, comma II): il nulla osta poteva essere negato ai film da esportare all'estero qualora contenessero scene, fatti o soggetti capaci di "compromettere gli interessi economici e politici, il decoro e il prestigio della nazione, delle istituzioni o delle autorità pubbliche, dei funzionari e agenti della forza pubblica, del regio esercito e della regia armata o ingenerare, all'estero, errati o dannosi apprezzamenti sul nostro paese, oppure turbare i buoni rapporti internazionali". A scanso di equivoci, il legislatore di quel periodo elevò il carattere artistico dell'opera a parametro di valutazione, stabilendo che qualsiasi film potesse essere vietato anche qualora non presentasse "sufficienti requisiti di dignità artistica così nella trama del soggetto, come nella esecuzione tecnica" (l. 16 giugno 1927, n. 1121, art. 5, comma II). Inoltre, durante il fascismo fu introdotta una prima forma specifica di tutela dei minori: il r.d. 6 novembre 1926, n. 1848, art. 76, consentì all'Amministrazione di vietare la visione dei film ai minori di anni 16, nulla disponendo però in ordine ai motivi del possibile divieto.

All'indomani della Liberazione, in vista della redazione della futura carta costituzionale, già si conveniva "sull'opportunità di stabilire per la cinematografia un'eccezione al divieto della censura preventiva, soprattutto a scopo di tutela della pubblica moralità" [19]. In Assemblea costituente, l'orientamento comune, propugnato soprattutto dalla democrazia cristiana, era che "almeno per le pubblicazioni oscene, almeno per gli spettacoli e per le altre manifestazioni che urtino contro il buon costume, sia ammessa non solo una severa repressione, ma anche la possibilità di una prevenzione adeguata ed immediata": infatti, l'intervento esecutivo, il quale "per altri casi va guardato con qualche preoccupazione, può essere ammesso con animo tranquillo quando sono in giuoco il buon costume e la moralità (...). Se sotto il profilo politico, per altri aspetti del problema, si deve ammettere un grande rigore a tutela della libertà individuale, possiamo invece largheggiare un poco, quando si tratta di tutelare la libertà e dignità della persona". In particolare, vi era chi affermava: "La legge può introdurre certe misure di garanzia collettiva di fronte alla produzione cinematografica... E dico esplicitamente che a ciò si è mossi dalle guarentigie della pubblica moralità e della protezione della gioventù" [20].

L'art. 21, comma VI, della Costituzione fu il frutto di questo orientamento condiviso, o comunque non osteggiato da alcuno. D'altronde, la stessa Assemblea costituente aveva già provveduto con legge ordinaria (l. 16 maggio 1947, n. 379) ad affidare il controllo preventivo sui film al nuovo Ufficio centrale per la cinematografia, costituito presso la Presidenza del Consiglio, previo parere delle Commissioni di primo e secondo grado, nuovamente mutate nella loro composizione: pur eliminandosi l'obbligo della revisione dei copioni, veniva confermato tutto quanto era stato disposto con il r.d. n. 3287 del 1923, cit., comprese le cause ostative al rilascio del nulla osta (art. 14). Come si legge nella relazione al disegno di legge, la censura era sentita come una misura irrinunciabile, essendo infatti "in vigore in tutti i Paesi del mondo, poiché dappertutto lo Stato (...) vigila e garantisce la moralità dello spettacolo cinematografico" [21]. Nulla venne innovato dalla successiva l. 29 dicembre 1949, n. 958.

Trascorse più di un decennio prima che il legislatore repubblicano, spinto dalla necessità di meglio adattare la disciplina vigente all'art. 21 Cost., approvasse la legge n. 161 del 1962: pur apportando "numerose e significative novità", essa però dimostrava con il mantenimento di un sistema di censura preventiva "tutta la difficoltà (...) ad abbandonare l'idea che, in questo settore, l'intervento dei pubblici poteri (debba) caratterizzarsi in modo speciale (rispetto agli altri mezzi di comunicazione di massa) ed assumere anche contenuti censori" [22].

4. La legge n. 162 del 1961 e il suo regolamento di esecuzione

I veri punti nevralgici della disciplina in materia di censura, i quali appaiono strettamente correlati, sono la cd. audizione degli interessati da parte delle Commissioni di revisione e il modo in cui si intende accordare tutela ai minori.

L'autore del film ovvero chi richiede il nulla osta possono e, se ne fanno richiesta, debbono essere uditi dalla Commissione al fine di "promuovere" le ragioni del film ed evitare il diniego del nulla osta ovvero il rilascio condizionato al divieto per i minori (art. 4, l. 161/1962, cit.).

A fronte del lodevole intento di promuovere il principio del contraddittorio nel corso del procedimento amministrativo si pone però l'art. 8, comma 8, del regolamento di esecuzione (dpr n. 2029 del 1963, cit.), secondo il quale "la Commissione può sospendere la espressione del parere invitando il richiedente a sopprimere o a modificare singole scene o sequenze o battute". Tale previsione ha finito nel corso degli anni per incentivare fra gli interessati e i censori una vera e propria "contrattazione sui tagli e le modifiche" da apportare ai film, che sovente ha sfiorato "il limite del grottesco, con soppressione di singole parole o di singoli fotogrammi": come osservato dalla dottrina, infatti, "la Commissione, che per prima non saprebbe dove e come apportare i tagli, indica solo la necessità di un non meglio precisato 'alleggerimento' della scena" [23]. Ciò dimostra una scarsa conoscenza del fenomeno cinematografico da parte del legislatore repubblicano, il quale consente la disgregazione di un film, che dovrebbe essere invece riguardato nel suo complesso, in singole scene, sequenze o peggio fotogrammi.

Inoltre, un simile sistema si rivela doppiamente pericoloso per la libertà di manifestazione del pensiero. Se è pur vero, come sopra ricordato, che il diniego del nulla osta è caso assai raro, l'art. 6, comma 1, l. 161/1962, cit., stabilisce che un film può essere giudicato offensivo del buon costume, e dunque a tutti vietato, sia nel complesso, sia in singole scene o sequenze: ciò che potrebbe essere ritenuto offensivo del buon costume (la singola scena o sequenza), la Commissione non suole assumerlo come motivo di diniego del nulla osta, ma diventa l'oggetto di una richiesta di soppressione o modificazione agli interessati. Se questi ultimi sono i produttori o i distributori, nella maggior parte dei casi si sono già assicurati contrattualmente con gli autori la facoltà di apportare modifiche alla versione finale del film: la richiesta della Commissione viene così accolta di buon grado, attivando una facoltà dei privati che altrimenti non sarebbe stata esercitata, poiché è chiaro che produttori e distributori sarebbero economicamente danneggiati dal divieto assoluto di proiezione in pubblico del film. Una sorta di aut-aut (o, se si preferisce, di ricatto), che incoraggia la (auto)censura economica.

Il fenomeno indicato si riscontra anche in relazione al rilascio del nulla osta sotto condizione che la visione del film venga preclusa ai minori di anni 14 o 18. Questo provvedimento, che nella prassi risulta assai più comune del diniego ed è dunque il più temuto, riduce in ogni caso la cerchia del pubblico potenziale, anche televisivo: è noto infatti che i film ai quali sia stato negato il nulla osta e quelli vietati ai minori degli anni 18, non possono essere diffusi per televisione (art. 13, l. 161/1962, cit.), mentre i film vietati ai minori degli anni 14 possono essere trasmessi solo in determinate ore notturne (art. 15, comma 13, l. 6 agosto 1990, n. 223). Anzi, la possibilità di indurre i privati all'autocensura risulta qui ancor più favorita dall'art. 9, dpr 2029/1963 cit.: tale disposizione integra - "forse anche in termini innovativi" o meglio "travalicando quelli che dovrebbero essere i limiti di un regolamento di esecuzione" [24] - quanto è previsto dall'art. 5, comma 1, l. 161/1962, cit., ai sensi del quale possono essere stabiliti divieti particolari per i minori "in relazione alla particolare sensibilità dell'età evolutiva ed alle esigenze della (loro) tutela morale".

Secondo il regolamento di esecuzione, devono essere vietati ai minori i film che, pur non costituendo offesa al buon costume, in ogni caso "contengano battute o gesti volgari; indulgano a comportamenti amorali; contengano scene erotiche o di violenza verso uomini o animali, o relative ad operazioni chirurgiche od a fenomeni ipnotici o medianici se rappresentate in forma particolarmente impressionante, o riguardanti l'uso di sostanze stupefacenti; fomentino l'odio o la vendetta; presentino crimini in forma tale da indurre all'imitazione od il suicidio in forma suggestiva".

A parte ogni considerazione sull'opportunità di distinguere in questa materia i minori degli anni 14 e degli anni 18 (distinzione che non appare adeguatamente giustificata), tale elenco aspira ad essere dettagliato, ma molte delle ipotesi in esso contenute hanno contorni imprecisati [25]. Viene lasciato un ampio margine di discrezionalità alle valutazioni dell'Amministrazione, la quale ben può trovare il necessario appiglio per rilasciare un nulla osta condizionato: a ciò si aggiunga che il medesimo art. 9 del regolamento, al comma 2, consente che la scelta fra divieto ai minori degli anni 14 e divieto ai minori degli anni 18 avvenga in base a parametri approssimativi come la "gravità" e "l'insistenza degli elementi indicati nel comma precedente".

Soprattutto, l'elenco contenuto nella disposizione regolamentare apre ancor più larghi spazi alle Commissioni di revisione per chiedere agli interessati di apportare le auspicate modifiche alla pellicola. Ove le case di produzione e di distribuzione accolgano la richiesta, al fine di evitare ogni divieto per i minori ovvero un divieto meno penalizzante dal punto di vista economico (i 14 anni anziché i 18), la versione finale del film che potrà circolare ed essere vista nelle sale cinematografiche sarà mutilata anche per il pubblico adulto. D'altronde, in Italia tende ormai a ricrearsi una situazione analoga a quella riscontrabile nei paesi nei quali esiste un sistema di classificazione volontario dei film: sovente distributori e produttori anticipano le probabili richieste delle Commissioni, presentando al procedimento di revisione pellicole già modificate nelle parti che si è certi condurrebbero ad un divieto per i minori [26].

5. Il male minore

Se storicamente l'affermazione del principio della libera manifestazione del pensiero si è accompagnata all'esigenza di sottrarre questa libertà (e in particolare quella di stampa) a ogni intervento preventivo dei pubblici poteri, è oggi riduttivo "identificare libertà di manifestazione del pensiero con libertà dalla censura": a tacer d'altro, è noto come l'evoluzione degli Stati e delle società contemporanee si accompagni a "imponenti e capillari strumenti di repressione del dissenso (...) e di valorizzazione del conformismo", i quali agiscono "normalmente nelle grandi articolazioni del sistema", fra cui anche il settore dello spettacolo [27].

Non si vuole qui certo discutere di quella incessante attività che con riferimento ai mezzi di comunicazione di massa è stato di recente definita manifacturing consent [28]. Più modestamente, la verifica della vigente disciplina in materia di revisione delle pellicole cinematografiche porta a confermare un antico dubbio: anche a voler ritenere che l'art. 21, comma 6, Cost. imponga al legislatore l'obbligo di predisporre forme adeguate a prevenire le offese al buon costume, non è detto che esse debbano necessariamente consistere nella censura, la quale rappresenta solo la via tradizionale (peraltro già abbandonata in relazione al teatro con il d.lg. 8 gennaio 1998, n. 3). D'altronde, altre Costituzioni democratiche hanno troncato in radice ogni dubbio. La Costituzione spagnola del 1978 stabilisce che l'esercizio della libertà di manifestazione del pensiero nonché della libertà di produzione e creazione artistica "non può essere limitato mediante forme di censura preventiva" (art. 20); secondo la Legge fondamentale tedesca del 1949 "non si effettua alcuna censura" con riguardo al cinema (art. 5).

In Italia, pur in presenza della attuale formulazione dell'art. 21, comma 6, Cost., potrebbe ritenersi necessario e sufficiente - anche ai fini di prevenzione - l'intervento successivo affidato all'autorità giudiziaria sulla base di fattispecie di reato prefissate dal legislatore [29]. Le attuali fattispecie dovrebbero essere maggiormente determinate rispetto a quelle attuali (art. 528 c.p.: pubblicazioni e spettacoli osceni) e punire innanzitutto le offese al buon costume, inteso però come limite posto a esclusiva tutela dei minori: inoltre, opportuna sarebbe l'abolizione della scriminante dell'opera d'arte prevista dall'art. 529 c.p., in virtù del quale viene affidato al giudice il compito improbo di dichiarare se un film è artistico. Anche se non ci si può nascondere che l'affidamento al giudice penale di ogni residuo controllo sui film non eliminerebbe certo il fenomeno (in qualche misura inevitabile) della censura economica, verrebbe comunque evitato l'inconveniente più volte segnalato di affidare il controllo sul medesimo film a due autorità, quella amministrativa e quella giudiziaria, i cui giudizi si sono spesso rivelati nel passato conflittuali.

V'è da notare che il disegno di legge n. 3180 non intende modificare le citate disposizioni del codice penale. Sembra però contraddittorio affermare che lo Stato, nella veste dell'Amministrazione, non deve vietare le offese al pudore sessuale degli adulti, perché non è più in grado di sapere per essi che cosa è il buon costume, e al contempo che lo Stato, nella veste del giudice, deve continuare a punire tali offese, perché sa ancora per gli adulti che cosa è il buon costume.

Infine, se si considera il modo con il quale è oggi disciplinata la censura, i dubbi si moltiplicano, perché a fronte della salvaguardia del buon costume e della tutela dei minori non pare soddisfacente il complessivo equilibrio raggiunto fra libertà di espressione, libertà di intrapresa economica e diritto all'informazione, aspetti della questione che risultano strettamente intrecciati. Ciò anche in considerazione del fatto che "negli ordinamenti liberaldemocratici il rapporto - di concorrenza, non d'incompatibilità - fra valore della libertà di manifestazione del pensiero e altri valori essenziali non risponde a una logica di statica gerarchica, ma a una dinamica fluttuante che porta alla prevalenza ora dell'uno (nella stragrande maggioranza dei casi), ora degli altri", secondo quanto è stato affermato in relazione ad altro aspetto della libertà di espressione (i reati d'opinione): tale osservazione a maggior ragione dovrebbero però valere nella materia qui considerata, nella quale non sono in gioco solo "valori essenziali" per la democrazia, eccezion fatta proprio per la libertà di manifestazione del pensiero [30].

Di fronte ai problemi posti dagli interventi censori dello Stato sulle opere cinematografiche saggio rimane l'atteggiamento di chi più di trent'anni or sono osservava con disincanto che "il rapporto fra artista e pubblico è troppo delicato perché possa essere regolato con la bilancia non sempre precisa delle commissioni di controllo. E non sono neppure così ottimista da credere che l'uso della libertà sia un rimedio perfetto all'abuso della libertà: in questi anni, tendenti più alla libertà che al rigore, ne abbiamo viste troppe per essere fiduciosi fino al candore. Credo semplicemente che la libertà sia un male minore" [31]. Libertà che, pagata a vantaggio dell'autore e dello spettatore, dovrebbe ispirare maggior coraggio a chi intenda riformare la disciplina vigente in materia di censura.



Note

[1] Cfr. A. Di Giovine, Articolo 21. Il diritto di manifestare e diffondere il proprio pensiero, in Stato della Costituzione, a cura di G. Neppi Modona, Milano, 1998, 94.

[2] Cfr. D. Liggeri, Mani di forbice. La censura cinematografica in Italia, Alessandria, 1997, 222.

[3] Sui recenti sviluppi della vicenda riguardante il film di Ciprì e Maresco si vedano le cronache di S. Robiony, Ciprì e Maresco in tribunale, in La Stampa, 3 dicembre 1999 e A. Bonanno, Truffa e vilipendio rinviati a giudizio Ciprì e Maresco, in La Repubblica, 3 dicembre 1999, nonché il commento di L. Tornabuoni, Al rogo il cinema truffatore, in La Stampa, 3 dicembre 1999. Sulle vicende legate all'attività delle commissioni in materia di film pornografici, che hanno visto all'inizio degli anni ottanta numerose condanne per truffa ai danni dello stato a carico di produttori e distributori, i quali facevano circolare sul mercato copie diverse del film rispetto a quella oggetto di revisione, si veda D. Liggeri, Mani di forbice cit., 76 ss.

[4] P. Barile, Diritti dell'uomo e libertà fondamentali, Bologna, 1984, 259-262. Dello stesso Autore si veda altresì Costituzione, censura cinematografica e autorità giudiziaria, in Studi Furno, Milano, 1973, 63 ss., nonché Libertà di manifestazione del pensiero, Milano, 1975, 99-101.

[5] Sui sistemi di controllo della produzione cinematografica in paesi diversi dall'Italia si veda per tutti A. Pace, Comunicazioni di massa (Diritto), in Enciclopedia delle scienze sociali, vol. II, Roma, 1992, 180-181 e la bibliografia ivi citata.

[6] Sul punto si veda l'inchiesta di A. Essex, NC-17 gets an F, in Entertainment weekly magazine, 13 agosto 1999. Sulla difficile realizzazione dell'ultimo film di Kubrick e sui suoi rapporti con la casa di produzione americana Warner bros. si legga il capitolo finale di J. Baxter, Stanley Kubrick. La biografia, Torino, 1999; sull'autocensura decisa dalla Warner bros. cfr. per la stampa periodica italiana S. Bizio, I 65 secondi che sconvolsero il cinema, in L'Espresso, 22 luglio 1999 e L. Tornabuoni, Che scandalo. Kubrick non è scandaloso, in L'Espresso, 2 settembre 1999; per la stampa specializzata americana J. Wolk, Rating ritual, in Entertainment weekly magazine, 3 maggio 1999. Si veda infine M. Harris, Raters and the Lost Art, in Entertainment weekly magazine, 30 luglio 1999, il quale dà conto delle forti polemiche che negli Stati Uniti hanno investito in questi ultimi anni sia il metodo di classificazione adottato sia la stessa opportunità di mantenere il sistema volontario gestito dalla Mpaa, creato nel 1968.

[7] "Pagine insuperate" sul conformismo americano, secondo le parole di A. Di Giovine, I confini della libertà di manifestazione del pensiero, Torino, 1988, 27, nt. 69, restano quelle di Alexis de Tocqueville, La democrazia in America, nel paragrafo intitolato Influenza della maggioranza in America sul pensiero: "In America la maggioranza traccia un cerchio formidabile intorno al pensiero. Nell'interno di quei limiti lo scrittore è libero, ma guai a lui se osa sorpassarli. (...) Vi sono governi che si sforzano di proteggere i costumi condannando gli autori di libri licenziosi. Negli Stati Uniti non si condanna alcuno per questo genere di opere, ma nessuno è tentato di scriverne. Non già che tutti i cittadini abbiano costumi puri, ma la maggioranza ha costumi normali".

[8] P. Caretti, Diritto pubblico dell'informazione, Bologna, 1994, 175 e 152.

[9] F. Rimoli, La libertà dell'arte nell'ordinamento italiano, Padova, 1992, rispettivamente 328 e 327 e la bibliografia ivi citata.

[10] Sulla storia della legislazione italiana in materia di disciplina generale degli spettacoli si veda per tutti P. Caretti, Diritto pubblico cit., 137 ss. Sulla storia della censura in Italia dalle origini del cinema ad oggi, oltre al già citato D. Liggeri, Mani di forbice cit., 90 ss., si veda G. Brunetta, Storia del cinema italiano, voll. I-IV, Roma, 1995-1998 (l'analisi dedicata a ciascun periodo della storia del cinema è completata da un capitolo in cui si illustra il funzionamento del sistema di censura vigente); per singoli periodi si vedano infine M. Argentieri, La censura nel cinema italiano, Roma, 1974 e A. Baldi, Lo sguardo punito. Film censurati 1947-1962, Roma, 1996.

[11] Cfr. rispettivamente P. Caretti, Diritto pubblico cit., 137 e A. Bazin, L'evoluzione del linguaggio cinematografico, in Id., Che cosa è il cinema?, trad. it., Milano, 1991, 77 e 92.

[12] P. Caretti, Diritto pubblico cit., 137.

[13] Cfr. P. Caretti, Diritto pubblico cit., 138-139, nonché G. B. Garrone, Appunti di diritto pubblico dell'informazione e della comunicazione, Torino, 1998, 47-48.

[14] La vicenda è ricordata da D. Liggeri, La censura cinematografica cit., 93 ss.

[15] P. Caretti, Diritto pubblico cit., 139. In generale, su ciò che significò per lo spettacolo il divenire "materia di governo" sotto il fascismo si vedano le osservazioni di G. Long, Spettacoli e trattenimenti pubblici, in Enciclopedia del diritto, Milano, 1990, 422 ss.

[16] V. soprattutto G. B. Garrone, Appunti cit., 50.

[17] Cfr. P. Caretti, Diritto pubblico cit., 141.

[18] Tuttavia, non si parlava più genericamente di "spettacoli" vietati, bensì di "scene, fatti e soggetti". All'elenco delle cause ostative si aggiungeva la presenza nel film di scene, fatti e soggetti che "costituiscono, comunque, l'apologia di un fatto che la legge prevede come reato e incitino all'odio tra le varie classi sociali" (lett. c), o che rappresentino "operazioni chirurgiche e fenomeni ipnotici e medianici" (lett. d).

[19] Cfr. Relazione della sottocommissione per i problemi costituzionali del Ministero della Costituente, vol. I, 109.

[20] Le parole riportate nel testo sono rispettivamente di Aldo Moro, seduta antimeridiana 14 aprile 1947, Atti dell'Assemblea Costituente, 2820-2821 e di Giulio Andreotti, seduta antimeridiana 14 aprile 1947, Atti dell'Assemblea Costituente, 2812.

[21] Alcide De Gasperi, Relazione all'Assemblea Costituente, in Leggi-1947, 296. Sulla legislazione vigente in materia di censura cinematografica negli anni 50 e sulla sua difficile armonizzazione con l'art. 21 Cost., si veda S. Fois, Censura, in Enciclopedia del diritto, VI, Milano, 1960, 729 ss.

[22] P. Caretti, Diritto pubblico cit., 151.

[23] F. Rimoli, La libertà dell'arte cit., 323 e 324 (nonché nt. 45).

[24] Cfr. rispettivamente R. Zaccaria, Cinematografi e Cinematografia. II: Censura cinematografica, in Enciclopedia giuridica, VI, Roma, 1988, 2 e T. Martines, Diritto costituzionale, Milano, 1997, 721, nt. 55.

[25] In merito ai complessi meccanismi attraverso i quali bambini e adolescenti ricevono ed elaborano le immagini cinematografiche, può essere utile leggere le osservazioni dello psicologo Massimo Ammaniti (raccolte in D. Liggeri, La censura cinematografica cit., 266 ss.), consulente di parte nel giudizio promosso innanzi al Consiglio di Stato contro il nulla osta condizionato al divieto per i minori di 18 anni per il film "Pulp fiction" (1995) di Quentin Tarantino: in quella occasione il giudice amministrativo decise per l'abbassamento del divieto ai minori di 14 anni. Secondo alcuni l'elenco contenuto nel regolamento in esame addirittura non esaurirebbe "comunque la casistica dei possibili divieti ai minori" (R. Zaccaria, Censura cit., 3).

[26] Si vedano le recenti vicende che hanno riguardato i film "L'umanità" (1999) di Bruno Dumont, Gran premio della giuria al Festival internazionale del cinema di Cannes 1999, e "Idioti" (1998) di Lars von Trier (L. Tornabuoni, Non per morale, per soldi, in L'Espresso, 9 dicembre 1999).

[27] Cfr. A. Di Giovine, I confini cit., 19, nt. 49 e 8 (e la bibliografia ivi citata).

[28] N. Chomsky - E.S. Herman, La fabbrica del consenso ovvero la politica dei mass media, trad. it., Milano, 1998.

[29] Cfr. per tutti T. Martines, Diritto cit., 720-721.

[30] A. Di Giovine, I confini cit., 118-119.

[31] N. Bobbio, Libertà dello spettacolo e libertà dello spettatore, in Cinema nuovo, 1962, 351 (cit. in A. Di Giovine, I confini cit., 86, nt. 269).



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