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La conservazione del patrimonio culturale

Il ruolo del fedecommesso nella conservazione delle collezioni d’arte [*]

di Paolo Carpentieri [**]

Sommario: 1. Premessa. – 2. Il fedecommesso: natura giuridica ed evoluzione storica (cenni). – 3. Le vicende dell’istituto nello Stato unitario fino al Codice del 2004. – 4. Gli strumenti privatistici di tutela delle collezioni. – 5. Conclusioni.

The role of fedecommesso in the protection of art collections
The paper summarizes the role played by the legal institution named fedecommesso in the protection of art collections, from its Roman origins to the annexation of Rome and of the Roman provinces to the Kingdom of Italy. In particular, it highlights the contribution that this juridical figure has made to the progressive maturation of the idea of public interest of the most important private noble collections. Finally, it contains some indications on the main private legal instruments available today to ensure the conservation and enhancement of private collections.

Keywords: Art collections; Prohibition of dismemberment; Constraints of inalienability; Conservation and enhancement.

1. Premeswsa

È noto che le principali collezioni d’arte sono pervenute pressoché integre sino a noi anche grazie al vincolo fedecommissario.

È invero noto - ed è forse superfluo ricordarlo in questa sede - che molte delle maggiori raccolte di antichità e di opere d’arte, oggi conservate nei nostri musei (i Capitolini, i Vaticani, la Galleria Borghese, la Galleria Barberini-Corsini, ecc.), sono pervenuti sino a noi, sottratti alla forza centrifuga delle dispersioni, proprio grazie all’istituto del vincolo fedecommissario.

Ricorrendo al fedecommesso si sono formate in Roma le collezioni Colonna, Barberini, Borghese, Torlonia, Albani, Boncompagni-Ludovisi, Doria Pamphilj, Spada-Veralli, Rospigliosi-Pallavicini e, da ultimo, quella del banchiere Vincenzo Valentini [1].

Un vincolo per certi versi analogo ha consentito la conservazione delle raccolte medicee, salvaguardate, al termine del principato, con la morte senza eredi del Granduca Gian Gastone, dalla Convenzione del 1737 stipulata dalla sorella Anna Maria, che legava le collezioni d’arte alla città di Firenze decretandone l’inalienabilità, in occasione della cessione del Granducato di Toscana a Francesco Stefano di Lorena, consorte dell’erede al trono imperiale, Maria Teresa d’Asburgo.

Oltre alla collezione Corsini, di cui ci occupiamo oggi, in sostanza salvaguardata da plurimi fedecommessi [2], ricordiamo la collezione Borghese, costruita sul nucleo fondato dal cardinal nepote Scipione Caffarelli Borghese (1577-1633) e conservata grazie al fedecommesso Borghese, istituito da Marcantonio V principe Borghese VIII di Sulmona (1814-1886) per scongiurare il frazionamento del cospicuo patrimonio tra i numerosi figli; la collezione di arte antica Albani, costituita dal cardinale Alessandro Albani (1692-1779), salvaguardata dal fedecommesso del 1724; la collezione Colonna, raccolta dal principe Aspreno I Colonna, che assunse i titoli e il patrimonio con l’intero fedecommesso dei Colonna di Paliano, dopo la morte dello zio Filippo III scomparso nel 1818 privo di eredi maschi; la collezione della Galleria Spada [3], oggi sede del Consiglio di Stato, giunta fino a noi grazie al fedecommesso imposto nell’Ottocento alla collezione da mons. Virginio Spada, per evitarne la dispersione. Ricordiamo anche la più recente collezione Torlonia di scultura antica, di cui il Prof. Settis ha curato la magnifica mostra di una ragionata selezione, in corso presso la villa Caffarelli al Campidoglio [4].

Meritano poi di essere ricordate, ma perché, purtroppo, in larga parte disperse, la collezione Chigi (quadreria, raccolta di sculture, reperti archeologici, disegni e arredi berniniani) [5], e quella di Palazzo ducale di Mantova, della quale è rimasta solo una minima parte dell’immenso patrimonio artistico dell’età gonzaghesca, quasi tutto disperso a seguito della vendita in blocco del 1628 da parte del duca Vincenzo II al re Carlo I d’Inghilterra [6] e del sacco di Mantova del 1630.

E dunque il fedecommesso, questo istituto giuridico antico, intrinsecamente conservatore, contrario alle nuove e individualistiche concezioni della proprietà, di intralcio al commercio e perciò avversato dai moderni, dal progresso dei Lumi e dalla borghesia mercantile (e infine abolito), ha svolto nei fatti un ruolo virtuoso e utile ai fini della conservazione del nostro patrimonio culturale [7].

Prima che si delineasse chiaramente la funzione di tutela pubblicistica dello Stato, il fedecommesso (insieme al vincolo di maggiorascato), in quanto mezzo limitativo delle facoltà dispositive della proprietà, ha rappresentato lo strumento privatistico più efficace per assicurare continuità e persistenza alle raccolte d’antichità e d’arte (nonché alle biblioteche e ai fondi archivistici privati [8]).

In questo senso il fedecommesso, pur funzionale agli obiettivi familiari e dinastici [9], ha per certi versi anticipato quelle ragioni di interesse generale, superindividuale, che hanno progressivamente condotto alla nascita della funzione pubblica di tutela. Il fedecommesso ha fatto in qualche modo da “ponte” verso l’introduzione di strumenti pubblicistici di tutela e ha svolto un importante ruolo di “leva”, per spingere la legislazione a riempire la lacuna creata dalle disposizioni abolitrici [10].

Insomma, riprendendo le parole del Pres. Severini, il fedecommesso - quale strumento privatistico - e il vincolo sulle collezioni - quale strumento pubblicistico - erano accomunati dallo stesso scopo “di mantenere un’aggregazione contro la tendenza alla dispersione indotta dal procedere delle generazioni, dal moltiplicarsi degli interessati e dal sostituirsi delle propensioni alla collezione con quelle alla realizzazione finanziaria”, mentre sono distinti dalla diversa identificazione “del beneficiario del vincolo, da un lato immaginato in una personificazione metastorica della famiglia, dall’altro in un patrimonio comune considerato elemento d’identità collettiva e nazionale”. Questa evoluzione passa attraverso “la trasformazione dell’universo giuridico nata con lo Stato moderno, con la distinzione tra pubblico e privato, con l’affermazione del principio della libera proprietà e del libero scambio, della libertà dispositiva e dell’eguaglianza successoria, con l’emergere infine del concetto di tutela del patrimonio storico-artistico come funzione pubblica a pieno diritto” [11].

2. Il fedecommesso: natura giuridica ed evoluzione storica (cenni)

Il “fedecommesso”, o “sostituzione fedecommissaria”, è la disposizione con la quale il testatore impone all’erede, o al legatario (detto “istituito”, “fiduciario”) l’obbligo di conservare i beni ricevuti per restituirli, alla sua morte, a persona (detto “sostituito”, “fedecommissario”) designata dal testatore medesimo. La stessa disposizione può accedere anche alla donazione. Il nostro Codice civile (art. 692) [12] adopera l’espressione “sostituzione fedecommissaria”, già accolta dal Codice civile del 1865 (art. 899).

Gli elementi costitutivi della sostituzione fedecommissaria sono tradizionalmente individuati nella doppia vocazione, nell’ordine successivo, nell’obbligo di conservare e restituire.

Circa la natura giuridica dell’istituto, alcuni autori parlano di proprietà fiduciaria, altri di proprietà temporanea dei beni, altri ancora di proprietà risolutivamente condizionata.

Prima della riforma del diritto di famiglia del 1975, il Codice civile ammetteva i fedecommessi che vincolavano il patrimonio familiare, ma per una sola generazione. Con la riforma del diritto di famiglia (legge 19 maggio 1975, n. 151) il divieto è stato generalizzato, con la sola eccezione del fedecommesso assistenziale (art. 692 c.c.). Oggi il fedecommesso è consentito nel solo caso in cui l’istituito sia un interdetto (o un minore in condizioni di abituale infermità di mente tali da far presumere che sarà pronunciata l’interdizione), figlio, discendente o coniuge del testatore, e il sostituito sia la persona o l’ente che, sotto la vigilanza del tutore, ha avuto cura dell’interdetto medesimo.

Le ragioni del divieto (e della sanzione della nullità) del fedecommesso si identificano, nell’opinione prevalente, nella preferenza della successione legittima su quella testamentaria e nel rilievo per cui la sostituzione fedecommissaria finisce in sostanza per programmare un interesse che eccede la causa del negozio testamentario (configurando una doppia chiamata successiva, o una disposizione sull’altrui successione).

Il divieto dei vincoli di tipo fedecommissario è ribadito dal divieto, di ascendenza romanistica, dei così detti patti successori (art. 458 del Codice civile) [13], volto a impedire atti di disposizione della propria successione.

In diritto romano il fedecommesso aveva il suo elemento centrale nella fides del testatore nel chiamato ed era inizialmente fonte di un semplice obbligo morale per l’istituito. Non sembra che nell’esperienza romana, almeno nel periodo classico, il fedecommesso abbia assolto - in modo eminente e più evidente - quel ruolo di legante per la stabilizzazione dei patrimoni familiari che venne ad assumere nell’epoca più tarda e medievale. In diritto romano il fedecommesso serviva per lo più a dettare contenuti atipici del testamento, alla stessa stregua, grosso modo, del legato, cui in epoca giustinianea finì poi per essere assimilato.

Il fedecommesso era estraneo al nucleo vetus del ius civile e solo con Augusto venne introdotta una sanzione giuridica, prevedendosi la possibilità per il sostituito, in caso di inadempimento dell’istituito, di ricorrere extra ordinem ad uno speciale pretore (praetor fideicommissarius), rimedio poi esteso da Claudio ad ogni tipo di fedecommesso [14].

La funzione conservativa emerge in età postclassica. In più luoghi del Digesto [15] si fa riferimento alla causa prevalente nella prassi di immobilizzare il patrimonio entro la cerchia della famiglia, assicurandolo alle successive generazioni dei suoi componenti.

È nel medioevo che l’istituto del fedecommesso acquista nuovo rilievo. In quanto strumento idoneo a mantenere inalterata più a lungo possibile la potenza economica della famiglia, diviene elemento funzionale alla costruzione e al rafforzamento dell’aristocrazia feudale, fino a rappresentare in questo senso uno degli istituti caratteristici dell’Ancien Régime. Progressivamente venne meno per il fedecommesso di famiglia il limite giustinianeo delle quattro generazioni e si consentì la possibilità di costituzione con atto tra vivi oltre che con testamento.

Furono soprattutto i glossatori della scuola di Bologna (Irnerio, Accursio, ecc.) a riprendere a studiare il fedecommesso, sulla base delle fonti giustinianee, progressivamente piegandolo alla funzione di rafforzamento della coesione dei patrimoni familiari evitandone la dispersione. Lo studio del fedecommesso proseguì con i commentatori (Bartolo da Sassoferrato, Baldo degli Ubaldi, ecc.) e poi con i giuristi del Quattrocento [16].

La piena fusione tra fedecommesso e interessi familiari si profila in modo chiaro soprattutto con la dottrina giuridica dei secoli XVI e XVII, con la compiuta teorizzazione del fedecommesso di famiglia [17].

Quando cominciarono a circolare le nuove idee in materia economica e sociale l’istituto divenne oggetto di aspre critiche. In esso si vedeva un ostacolo alla libera circolazione dei beni, alla loro commerciabilità, con danno all’agricoltura e alla ricchezza pubblica, nonché un limite intollerabile alla proprietà privata. Furono poche le opinioni che si espressero a favore del fedecommesso (ad es, l’economista veneziano Giammaria Ortes e lo scienziato romano Francesco Orioli [18]), mentre i maggiori esponenti del pensiero settecentesco - come il Muratori, il Filangieri, il Genovesi, il Beccaria, il Poggi - si espressero decisamente in senso contrario [19]. Ma già prima, nel ‘600, il cardinal Giovanni Battista De Luca [20] aveva preso di mira questo istituto, indicato come una delle cause del mancato sviluppo. Sono note, inoltre, le critiche del cancelliere Henri François d’Aguesseau e di Montesquieu in Francia. Già nel corso del Settecento, dunque, le sostituzioni fedecommissarie perpetue erano state soppresse perché ritenute in contrasto con il diritto di proprietà e con le esigenze di libera circolazione e di proficuo sfruttamento della ricchezza.

Da qui l’abolizione del fedecommesso in Francia nel 1792 durante la Rivoluzione, abolizione confermata dal Code Napoléon (art. 896) e, sulla scorta di questo, al di fuori dei confini francesi, nonostante una breve reviviscenza durante la Restaurazione [21].

Ma gli attacchi non provenivano solo dall’illuminismo. Anche gli interessi assolutistici delle monarchie miravano a contenere e controllare il fedecommesso di famiglia e a tal fine furono promulgate leggi limitative. L’istituto si trovò in tal modo stretto a tenaglia da due opposte forze politico-sociali che lo avversavano: da un lato, le esigenze della borghesia di assicurare la libera circolazione dei beni e di prevenire e combattere la così detta “manomorta”; dall’altro e simmetricamente, la volontà delle monarchie assolutiste di controllare e governare il ceto nobiliare per contenerne le forze centrifughe, impedendo gli eccessivi accrescimenti di ricchezza e di potenza, che potevano divenire pregiudizievoli per la tenuta del potere assoluto della monarchia.

Significativamente, le prime leggi eversive coincidono con la nascita di forti poteri centrali (e con il correlativo decadimento della nobiltà feudale) [22]. Così in Lombardia una disposizione imperiale di Maria Teresa stabilì l’invalidità futura dei vincoli fedecommissari, restringendo l’efficacia di quelli in essere a due soli passaggi. La disposizione - che Carlo Emanuele IV introdurrà poi in Piemonte nel 1796 - venne aggravata da Giuseppe II, il quale impose lo svincolo di tutti i beni soggetti a fedecommesso e la loro conversione in capitali da depositare in pubbliche banche [23]. In Toscana Francesco I di Lorena restrinse, con la legge 22 giugno 1747, l’efficacia dei fedecommessi già esistenti e sottopose a numerose condizioni l’istituzione dei nuovi. Dopo di lui Leopoldo I stabilì nel 1782 l’estinzione del fedecommesso individuo dopo quattro passaggi, e nel 1789 proibì la formazione di nuovi vincoli fedecommissari.

Insomma, non furono solo i venti della rivoluzione francese a segnare la crisi del fedecommesso, ma anche i colpi assestati dal potere monarchico centrale.

Peraltro è noto che lo stesso Napoleone, per favorire la nascita di una nuova nobiltà “napoleonica”, fece rivivere l’istituto ripristinando il diritto di primogenitura per ducati e feudi ereditari, facendo inserire nel 1806 nel Codice una norma che prevedeva la possibilità di stabilire fedecommessi (un terzo comma aggiunto all’art. 896).

E l’istituto ritornò (in parte) in vita con la Restaurazione. Nel Lombardo-Veneto il Codice civile austriaco lo ammetteva come modo ordinario di disposizione. Nel Regno di Sardegna un editto del 1814 faceva rivivere il fedecommesso. Il Codice albertino del 20 giugno 1837 conobbe disposizioni analoghe alle sostituzioni fedecommissarie. Nello Stato pontificio, con motu proprio del 6 luglio 1816, Pio VII consentiva l’istituzione di nuovi fedecommessi entro quattro gradi, limite che venne abolito da Leone XII il 5 ottobre 1824. Alcuni limiti furono lasciati nel Regno delle Due Sicilie, dove l’istituto fu ammesso per il primo grado, mentre venne richiesta l’autorizzazione sovrana per l’istituzione dei maggioraschi [24].

L’opposizione al fedecommesso riprese dopo l’unificazione italiana: l’istituto fu infatti vietato dal Codice civile del 1865 (articoli 899, 900, 901).

Nel Regno d’Italia prevalse l’orientamento politico ispirato ad un assoluto liberalismo, sicché l’art. 899 del Codice civile del 1865 prevedeva la nullità di “qualunque disposizione con la quale l’erede o il legatario è gravato con qualsivoglia espressione di conservare e restituire ad una terza persona”.

Le codificazioni moderne hanno ammesso solo i fedecommessi che vincolavano il patrimonio familiare per una sola generazione. L’istituto sopravvisse più a lungo in alcune parti d’Europa: in Germania ed Austria il Familienfideikommiss fu abolito solo nel 1938, mentre in Svezia ne rimangono ancora in vita alcuni, seppur solo fino alla morte dell’attuale titolare. Attualmente, l’unica area in Italia in cui permane un istituto giuridico assimilabile al diritto di maggiorasco è l’Alto Adige, dove l’art. 11 della Legge Provinciale n. 17 del 2001 prevede che il maso chiuso possa essere assegnato solo ad un unico erede o legatario.

Così, come detto, il Codice civile del 1942 ammetteva solo i fedecommessi per una sola generazione. Con la riforma del diritto di famiglia del 1975 il divieto è stato generalizzato, con la sola eccezione del fedecommesso assistenziale (art. 692 c.c.).

Nella legislazione di tutela degli Stati preunitari vi sono in realtà solo pochi cenni espliciti e diretti allo strumento del fedecommesso, soprattutto per prescrivere la redazione di inventari e cataloghi, propedeutici evidentemente all’esercizio di un controllo efficace sulla circolazione delle collezioni.

Indicazioni puntuali, molto utili e interessanti, circa il regime giuridico vigente nella Roma degli anni dei principali fedecommessi disposti dai principi Corsini (dal vincolo imposto da Bartolomeo IV nel 1785 a quello della donazione di Tommaso senior del 1829) sono offerte dalla minuziosa ricostruzione contenuta nell’opera del Prof. Borsellino, ove sono richiamati [25] i provvedimenti tesi a ripristinare i vincoli fedecommissari sciolti durante la Repubblica Romana del 1798-1799, adottati da Pio VII (nel 1816) e da Leone XII (nel 1824), che richiedeva il previo riconoscimento ufficiale di pregio e di rarità delle collezioni [26].

Quest’ultimo provvedimento merita una particolare attenzione, poiché introduce un’ibridazione dell’istituto privatistico del fedecommesso con tratti pubblicistici e autoritativi, facendone esplicitamente uno strumento di tutela anche nell’interesse generale, evidenziando quella convergenza propria del fedecommesso tra l’interesse patrimoniale e morale della famiglia nobiliare e quello pubblico alla conservazione di un patrimonio storico e artistico che viene ormai sentito come patrimonio comune della città. In ciò il motu proprio del 1824 reca in nuce i tratti che diverranno caratteristici dei vincoli pubblicistici: il particolare pregio, o la rarità dei beni, tali da renderli rilevanti, quale parte costitutiva del patrimonio culturale dello Stato; il previo accertamento di tale interesse da parte di un organo tecnico competente; la sottoposizione a un regime speciale di tutela in virtù di un provvedimento dell’autorità preposta. Emerge dunque la consapevolezza, e proprio con riferimento allo strumento fedecommissario per le collezioni, che le cose d’arte e archeologiche sono oggetto di una proprietà sui generis, vicina alla custodia, dove si affievolisce la usuale piena signoria sulla cosa a favore di ragioni che trascendono la singola persona fisica del proprietario.

Abbiamo già notato sopra come le nuove discipline dei fedecommessi mano a mano introdotte (soprattutto) nelle monarchie restaurate nella prima metà dell’Ottocento avessero spesso cura di prescrivere la redazione e la pubblicazione di precisi inventari dei beni oggetto di istituzione fedecommissaria, in funzione di controllo. Ed è noto l’“inevitabile binomio che si istituisce fra inventario e vincolo”, poiché “la tutela è tutt’uno con la conoscenza” [27].

Come bene ha ricordato il Prof. Borsellino nel suo lavoro [28], un effetto conservativo importante venne a svolgere l’editto del cardinale Camerlengo Giuseppe Doria Pamphilj del 2 ottobre 1802 che, nell’art. 11, prescrisse l’obbligo per i proprietari di gallerie, musei o semplici raccolte di antichità o cose d’arte di redigere e inviare entro un mese agli Uffici preposti un’esatta rassegna dei beni raccolti nelle collezioni [29] (obbligo al quale il principe Tommaso Corsini senior prontamente ottemperò).

Peraltro la prima e più potente spinta alla conservazione (e, se possibile, all’accrescimento) della collezione nobiliare proveniva dal desiderio delle famiglie nobiliari più in vista di primeggiare e di guadagnare in magnificenza e splendore. Costituiva infatti un imperativo morale e sociale per gli illustri casati, in special modo quando un membro della famiglia fosse assurto al soglio pontificio, garantire ben determinati standard da mantenere nei confronti della città: “la costituzione di una significativa raccolta d’arte, una prestigiosa sede in città, la villa fuori porta e la cappella di famiglia, se non addirittura la fondazione di una nuova chiesa, erano gli impegni ineludibili della famiglia del nuovo papa” [30].

La legislazione degli Stati preunitari si occupa delle collezioni private soprattutto per vietarne l’esportazione incontrollata, mediante assoggettamento a previa licenza dell’autorità [31].

3. Le vicende dell’istituto nello Stato unitario fino al Codice del 2004

La legislazione sabauda, improntata al liberalismo e al riconoscimento della proprietà privata come “diritto di godere e disporre delle cose nella maniera più assoluta” (art. 436 del Codice civile del 1865, che riprende l’art. 544 del code civil del 1804; art. 29 dello statuto), era priva di norme di tutela (non ve ne era traccia né nello statuto albertino, né nel Codice civile del 1865).

Il Codice civile del 1865 conteneva, di contro, nelle disposizioni transitorie (decreto n. 2606 del 30 novembre 1865, artt. 24 e 25), l’abolizione dei fedecommessi.

In assenza di una disciplina speciale, che regolasse la materia e, in particolare, il regime delle collezioni d’arte, si era creata una condizione di oggettiva incertezza, riguardo in particolare alla sorte e alla possibile vigenza della preesistente legislazione di tutela degli Stati preunitari [32]. Incertezza dovuta anche al fatto che, a quell’epoca, l’istituto della abrogazione (e, in particolare, di quella “inespressa”, oggi prevista dall’art. 15 delle disposizioni sulla legge in generale anteposte al Codice civile, nei suoi due tipi, “tacita” - per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti - e “implicita” - perché la nuova legge regola l’intera materia già regolata dalla legge anteriore), non era ancora ben delineato, trattandosi di un istituto proprio del positivismo giuridico, formatosi e consolidatosi solo più tardi, ma di ancora incerta configurazione al tempo dell’unità d’Italia, nel quale era ancora vivo e attuale il retaggio del pluralismo delle fonti normative e degli ordinamenti giuridici del medio evo e degli antichi regimi, che, anteriormente all’affermarsi dell’idea dello Stato come unica fonte del diritto e della conseguente rigida gerarchia delle fonti di produzione normativa, ammettevano la coesistenza di plurimi regimi giuridici.

In questo contesto, dunque, non c’era chiarezza sul punto se l’annessione dello Stato pontificio avesse o meno consentito la sopravvivenza della legislazione di tutela preunitaria, oppure ne avesse provocato la cessazione.

Incertezza che veniva a cadere in un momento molto critico e delicato, segnato negativamente dalla perdita e dispersione di numerose opere, con un forte sviluppo del mercato antiquario e di quell’emigrazione verso i musei stranieri che aggravarono il vulnus inferto dalle spoliazioni francesi e prima ancora dai traffici sei-settecenteschi [33].

Si può dire che - con i temi del patrimonio d’origine ecclesiastica, delle emergenze archeologiche e della conservazione dei monumenti - è stata proprio la vicenda della dispersione delle collezioni private a porre la questione della necessità dell’intervento pubblico e a far emergere il bisogno urgente di una legislazione di tutela per la limitazione alla circolazione delle cose d’arte [34].

La presa di Roma, nel 1870, rese vieppiù urgente il problema dell’assenza di una disciplina unitaria di tutela del patrimonio culturale [35]. Si dubitava, come detto, della perdurante applicabilità delle leggi pontificie sulle belle arti ed antichità e si pose rimedio a questa condizione di incertezza con il regio decreto 27 novembre 1870, n. 6030 (art. 2 B), che dispose la sospensione, rispetto alle province romane, degli articoli 24 e 25 delle disposizioni transitorie del Codice civile relative all’abrogazione dei fidecommessi, finché non sia per Legge speciale altrimenti provveduto [36].

Intanto, si avviarono i lavori per l’approvazione della legge speciale, che condussero al varo della legge 28 giugno 1871, n. 286, che rese applicabili dal 1° luglio 1871 gli articoli 24 e 25 delle disposizioni transitorie del Codice medesimo abolitive dei fedecommessi, “provvisoriamente tenuti in sospeso dall’articolo 2, lettera B, del citato Decreto 27 novembre 1870”, ma disponendo (art. 4) la temporanea indivisibilità e inalienabilità, “finché non sia per Legge speciale altrimenti provveduto”, delle “gallerie, biblioteche ed altre collezioni d’arte o di antichità” e, nel contempo, (art. 5), l’ultravigenza della disciplina di tutela dello Stato pontificio (“Finché non sia provveduto con Legge generale continueranno ad aver vigore le Leggi e i Regolamenti speciali attinenti alla conservazione dei monumenti e degli oggetti d’arte”) [37].

È molto interessante dare uno sguardo al dibattito, con le annesse, aspre polemiche, che accompagnò i lavori preparatori della citata legge n. 286 del 1871. Essa venne presentata alla Camera dal ministro di Grazia e Giustizia De Falco il 3 marzo 1871. Non si mancò di ricordare che l’abolizione, già stabilita dalle leggi termidoriane pubblicate a Roma nel 1798 e nel 1809, comprendeva anche i musei e le gallerie, nonché le parole pronunciate il 25 aprile 1848 dal giurista Carlo Armellini a favore dell’abolizione dei fedecommessi: “L’ora della libertà che suonò per le persone doveva battere altresì per le cose” [38]. In Senato si levarono inoltre vivaci proteste contro l’art. 4 del disegno di legge, ritenuto contrario alle norme sulla proprietà privata di cui agli artt. 436 ss. del Codice civile e il ministro De Falco difese tiepidamente la misura sottolineandone l’assoluta temporaneità.

L’attesa dell’apposita legge speciale durerà, come si sa, a lungo. È nota la storia tormentata della gestazione e della nascita della prima legge di tutela, la legge Nasi, pur insufficiente, per la quale si dovrà aspettare il 1902 [39].

All’esigenza di disporre di una raccolta unitaria delle numerose disposizioni preunitarie tenute in vita dalla legge 286/1871 provvide la famosa raccolta di Giuseppe Fiorelli Leggi, decreti, ordinanze e provvedimenti emanati dal cessato governo d’Italia per la conservazione dei monumenti e la esportazione delle opere d’arte (1892 e 1901) [40].

Non è questa la sede per una disamina del lungo e travagliato iter che condusse all’elaborazione ed approvazione delle nostre leggi di tutela [41].

Rileva qui ricordare, con più specifico riferimento alla disciplina fedecommissaria, solo la legge 8 luglio 1883, n. 1461, proposta del ministro di Grazia e Giustizia Zanardelli, che consentì l’alienazione delle gallerie e dei musei non più fedecommissari allo Stato, alle Province, ai Comuni e agli Enti morali nazionali laici, fermo restando il vincolo di indivisibilità e con vincolo per gli enti acquirenti di destinare in perpetuo a uso pubblico le dette gallerie, biblioteche e collezioni [42].

Come ricordato nell’opera del Prof. Borsellino [43], questa legge venne promulgata con urgenza proprio per consentire la donazione Corsini allo Stato italiano, altrimenti impedita dal vincolo fedecommissario e dell’art. 4 della legge 286/1871.

Per contrastare le violazioni fu approvato il regio decreto 23 novembre 1891, n. 653, recante il regolamento per l’esecuzione dell’art. 4 della legge 286/1871 e della legge 1461/1883, che prevedeva l’obbligo dei proprietari di denuncia dell’esistenza, consistenza, sede e catalogo di gallerie, biblioteche e collezioni, ne vietava il trasferimento non autorizzato e imponeva di comunicare esistenza e modi del diritto di visita del pubblico.

A seguito della vendita all’estero di alcuni quadri della collezione Sciarra e della collezione del principe Mario Chigi e Albani, venne poi emanata la legge 7 febbraio 1892, n. 31 recante sanzioni per chi avesse sottratto, soppresso o distrutto gli oggetti delle collezioni di arte o di scienza [44].

La legge Nasi del 1902 dispose l’abrogazione di tutte le disposizioni vigenti in materia nelle diverse parti del Regno, facendo però salvo quanto disposto nell’art. 4 della legge 286/1871 e nelle leggi 8 luglio 1883, n. 1461 e 7 febbraio 1892, n. 31. L’art. 35 mantenne poi in vigore per un anno, in vista della compilazione del catalogo, le disposizioni vigenti in tema di esportazione degli oggetti d’arte e d’antichità.

La legge 27 giugno 1903, n. 242 (Sull’esportazione all’estero degli oggetti antichi di scavo e degli altri oggetti di sommo pregio storico ed artistico) dispose il divieto di esportazione per altri due anni, con la precisazione che “È altresì vietata per detto termine l’esportazione all’estero degli altri oggetti che sieno di sommo pregio per la storia e per l’arte descritti nel catalogo di cui nell’articolo 23 della legge 12 giugno 1902, n. 185, e precisamente nella parte del catalogo stesso relativa agli oggetti d’antichità e d’arte di proprietà privata”, che si sarebbe dovuta pubblicare “non più tardi del 31 dicembre 1903”, dovendo nel frattempo valere la notificazione di cui all’articolo 5 della legge n. 185 del 1902 [45].

La limitazione del divieto di esportazione alle sole opere dichiarate di sommo pregio e inscritte nel catalogo non impedì l’uscita dal territorio nazionale di molte opere. Uscirono dal territorio nazionale, in quel periodo, ad esempio, i famosi Van Dyck di proprietà della famiglia Cattaneo di Genova.

La legge Rosadi 20 giugno 1909, n. 364 rafforzò il sistema di tutela, gettando le basi del regime giuridico che nella sostanza è stato recepito prima nella legge n. 1089 del 1939, poi nel testo unico di cui al decreto legislativo n. 490 del 1999 e, infine, nel vigente Codice del 2004 (tant’è vero che si ritiene che il regolamento per l’esecuzione delle leggi 20 giugno 1909, n. 364, e 23 giugno 1912, n. 688, approvato con regio decreto 30 gennaio 1913, n. 363, sia ancora in parte vigente).

L’art. 40 della legge n. 364/1909, nell’abrogare le precedenti leggi 12 giugno 1902, n. 185, 27 giugno 1903, n. 242, e 2 luglio 1908, n. 396, “e tutte le altre disposizioni in materia”, ebbe cura di fare “salvo quanto è stabilito con l’art. 4 della legge 28 giugno 1871, n. 286, con gli articoli 2 e 3 della legge 14 luglio 1907, n. 500, e nelle leggi 8 luglio 1883, n. 1461, e 7 febbraio 1892, n. 31”, lasciando così in vita le vecchie disposizioni fedecommissarie.

I vincoli fedecommissari, la cui abrogazione venne sospesa, sono dunque ancora oggi in vigore grazie alla sopra richiamata norma contenuta nell’art. 40 della legge Rosadi del 1909, ripresa costantemente nella legislazione successiva [46].

Gli effetti conservativi del fedecommesso hanno dunque rappresentato, come si è già osservato sopra, un punto di convergenza tra l’interesse generale/pubblico alla tutela, alla pubblica fruizione e alla valorizzazione di queste importanti collezioni, e gli interessi particolari e privati delle famiglie nobiliari eredi di quelle raccolte, anche - se si vuole - nell’ottica “egoistica” della conservazione e dell’accrescimento del proprio prestigio, oltre che per finalità “altruistiche” e sociali.

La legge Bottai n. 1089 del 1939 introdusse infine il generale divieto, in difetto di autorizzazione, di smembramento e di alienazione (se dannose per la conservazione o il pubblico godimento, e comunque salva la prelazione statale) delle collezioni vincolate per il loro eccezionale interesse (artt. 5 e 27).

La dottrina giuridica ha osservato che queste norme trasformano delle universalità di fatto in universalità di diritto, tutelando l’integrità non più solo delle singole cose, ma (anche) del complesso unitariamente inteso.

L’innovazione fu rinforzata dal Codice civile del 1942 con la qualificazione delle raccolte pubbliche di musei, pinacoteche, archivi e biblioteche come beni demaniali (artt. 822 e 824).

La legislazione fedecommissaria sopra passata in rapida rassegna non era priva, come si è accennato, di elementi di debolezza e di incertezza. La ultravigenza delle disposizioni fedecommissarie ereditate dagli Stati preunitari, pur disposta dalle norme di legge sopra richiamate, non era invalicabile, essendo comunque esposta a possibili accordi con le famiglie e con gli eredi di quei patrimoni, purché la deroga fosse veicolata da uno strumento normativo pariordinato a quello della legge 286/1871 e dunque capace di apportarvi deroghe (ancorché puntuali ed eccezionali).

È ciò che accadde per il fedecommesso Barberini, con l’accordo del 1934 approvato con regio decreto-legge 26 aprile 1934, n. 705, convertito, senza modificazioni, dalla legge 4 giugno 1934, n. 928 [47].

4. Gli strumenti privatistici di tutela delle collezioni

Ma gettiamo uno sguardo sugli strumenti di tutela delle collezioni offerti oggi dal diritto dei privati.

È sempre più diffusa e avvertita, infatti, l’esigenza, di molti collezionisti amanti dell’arte o uomini di cultura che hanno nella propria vita costruito notevoli raccolte librarie e/o archivistiche, di impedire la dispersione di questi patrimoni e di assicurare ad essi una vita futura oltre quella terrena del fondatore, quale testimonianza e memoria del proprio contributo e lascito culturale.

Va diffondendosi negli ultimi anni, inoltre, un fenomeno, analogo e anch’esso legato al collezionismo privato, quello delle case-museo e delle così dette “camere delle meraviglie” (wunderkammer), movimento che sembra anch’esso sicuramente meritevole di favorevole considerazione e attenzione. Si segnala, ad esempio, la legge regionale del Lazio 15 novembre 2019, n. 24, art. 19 (Disposizioni in materia di servizi culturali regionali e di valorizzazione culturale) che, nell’art. 2, comma 1, lettera b), numero 1), definisce le “case-museo” (“le dimore in cui hanno vissuto, oppure svolto la propria attività, importanti esponenti del mondo della cultura, della politica, della scienza e della spiritualità”) e le ammette (art. 19) nell’ambito dell’organizzazione museale regionale a condizione che offrano un regolare orario di apertura al pubblico, ovvero siano visitabili su appuntamento, che siano in grado di rappresentare la vita, le tradizioni e i valori del personaggio illustre che vi ha abitato o svolto la propria attività, nella sua dimensione pubblica o privata, e che svolgano attività volte alla conoscenza dell’opera e del personaggio a cui la casa museo è intitolata.

Tra le tante iniziative diffuse su tutto il territorio nazionale si possono ricordare, per esempio, il circuito delle case-museo di Milano (museo Bagatti Valsecchi, casa museo Boschi Di Stefano, villa Necchi Campiglio, museo Poldi Pezzoli), nato da un accordo di programma sottoscritto nel 2004 in collaborazione con la Regione Lombardia, il comune di Milano la Provincia di Milano e la Fondazione Cariplo, o, a Roma, la Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, la Casa Museo di Giacomo Balla, la Casa Museo Alberto Moravia, la Casa Museo di Luigi Pirandello, con archivio e biblioteca.

Ma le case-museo restano, ad oggi, prive di una precisa collocazione giuridica.

Sono per lo più di proprietà privata e devono dunque fronteggiare il rischio della dispersione nella successione intergenerazionale. Esse pongono, dunque, un problema analogo a quello vissuto dalle collezioni d’arte delle famiglie nobiliari: finché la forza della volontà del fondatore - o dei suoi prossimi eredi - persiste e perdura nel sostenere le molte spese e i pochi introiti che possono derivare dalla gestione di una casa-museo, essa può resistere e sopravvivere, ma solo fino a quando non prevalgono le impellenti esigenze economiche, che spesso finiscono per suggerire e favorire usi più lucrativi (dell’immobile e dei beni mobili in essi custoditi).

Nel 2013 una commissione ministeriale di studio istituita dal ministro per il Beni e le Attività culturali Massimo Bray propose di integrare l’articolo 101 (Istituti e luoghi della cultura) del Codice di settore, in tema di fruizione e valorizzazione di beni culturali, con una definizione specifica di “casa museo”, posta dopo quella di “museo”: “un’abitazione musealizzata di personaggio storico, ovvero documentativa del tipo di vita domestica di ambienti sociali storicamente determinati, con relativi arredi e oggetti di uso quotidiano”. La proposta non si è però tradotta in una conseguente modifica normativa.

La casa museo - come acutamente osservato da attenta Dottrina [48] - si differenzia piuttosto radicalmente dal museo, poiché la prima “conserva un ordine preesistente”, come “aggregazione di cose domestiche compiuta durante l’esistenza di una persona o di una famiglia che oggi, non essendoci più quelle figure ma i loro eredi o altri, viene eccezionalmente mantenuta - talvolta ricostruita o reintegrata - e, non più abitata, viene offerta alla fruizione pubblica insieme alla “eco immateriale” dalla vita privata di quei personaggi”; mentre il secondo “costituisce un nuovo ordine ... esprime un concetto creativo, illuministico, innovativo, napoleonico, virtuoso ma artificioso, che muove in senso opposto e che è sempre aperto a nuove integrazioni”.

Questa diversità “pregiuridica” non si riflette, tuttavia, sul piano giuridico, sul quale, invece, le due figure presentano in definitiva esigenze di disciplina e di regime assimilabili: anche le case museo esigono tutela conservativa, dalla catalogazione al divieto di smembramento e di dispersione, apertura alla pubblica fruizione e sostegno di valorizzazione. Inoltre, anche le case museo possono farsi rientrare nell’ampia e onnicomprensiva definizione di “museo” data dall’International Council of Museums (Icom) [49].

Ed è proprio l’esempio richiamato poc’anzi, quello delle case museo - come quello più in generale delle tante collezioni private o degli archivi privati, ad esempio di grandi scrittori - a dimostrare l’esistenza di un bisogno attuale di tutela, di disciplina giuridica, già al livello privatistico, prima e a prescindere, dunque, dall’intervento della pubblica autorità, per garantire continuità e persistenza nel tempo a tali, spesso pregevolissime e importanti, collezioni private.

Il desiderio (fisiologico e sicuramente apprezzabile) della singola persona a ché non vada dispersa, dopo di sé, la fatica di una vita e il prodotto della propria passione culturale, il desiderio di lasciare un segno verso il futuro, un messaggio culturale, un tassello del patrimonio culturale comune, e dunque di fare in modo che si stabilisca un vincolo giuridico a protezione della collezione contro le divisioni ereditarie e le dispersioni, dimostra l’attualità dell’esigenza di pensare a un qualche strumento giuridico più “leggero”, già al livello dell’autonomia privata e senza dover necessariamente ricorrente al pesante strumento “istituzionale” della fondazione, senza cioè dover necessariamente dare vita a una nuova, apposita persona giuridica (privata), che possa far conseguire questi obiettivi (in sé sicuramente diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico come recita l’art. 1322 del Codice civile sull’autonomia privata).

È noto che lo strumento principale di vincolo di un patrimonio a una destinazione superindividuale di lungo periodo è rappresentato dalla fondazione, che dà vita a un’apposita persona giuridica costituita attorno a un patrimonio destinato al soddisfacimento di finalità altruistiche e strumentale al perseguimento dello scopo impresso dal fondatore.

Si contano numerosi e noti esempi nella prassi applicativa di fondazioni nate per la gestione di raccolte e collezioni d’arte, soprattutto di collezioni di arte moderna e contemporanea (fondazione Pinault di palazzo Grassi e a Punta della Dogana a Venezia, fondazione Prada a Milano, ecc.). Tra gli altri, il FAI - Fondo Ambiente Italiano è una fondazione senza scopo di lucro, sorta nel 1975 con lo scopo (art. 2 dello statuto) di promuovere l’educazione e l’istruzione della collettività alla difesa dell’ambiente e del patrimonio artistico e monumentale e che opera, come è noto, anche attraverso il restauro e l’apertura al pubblico dei beni storici, artistici o naturalistici ricevuti per donazione, eredità o comodato.

Un modello “ibrido” di fondazione, che mutua alcuni elementi di tipo corporativo dal modello dell’associazione, è costituito dalle così dette “fondazioni di partecipazione”, spesso utilizzate nel campo della gestione di beni culturali [50]. Questo modello ibrido consente la partecipazione, oltre ai fondatori, ai “soci” sovventori, che possono contribuire (soprattutto) al fondo di gestione di parte corrente (e che di regola sono ammessi a partecipare - in varia guisa - alla governance dell’ente). Questo strumento si presenta dunque particolarmente utile per consentire forme di gestione attente all’equilibrio economico-finanziario, essendo aperte ad apporti contributivi rilevanti e stabili dall’esterno (al di là del normale mecenatismo occasionale e del fundraising o crowdfunding).

Il Codice del Terzo settore (decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117) prevede modalità molto semplificate di costituzione delle fondazioni. L’art. 22 prevede che l’acquisto della personalità giuridica, in deroga al decreto del Presidente della Repubblica 10 febbraio 2000, n. 361, può avvenire “mediante l’iscrizione nel registro unico nazionale del Terzo settore ai sensi del presente articolo[51] e richiede (comma 4), quale patrimonio minimo per il conseguimento della personalità giuridica, una somma liquida e disponibile non inferiore a 30.000 euro per le fondazioni.

Anche lo Stato può costituire fondazioni, attorno a beni culturali pubblici, apportando al fondo di destinazione i diritti di uso dei beni (oltre che, eventualmente, personale e servizi di gestione), con la partecipazione degli enti territoriali (regione, comune, provincia), di altri enti pubblici, ma anche di privati, lucrativi (società di capitali) e non (ad es., fondazioni bancarie) [52]. È il caso del Museo Egizio di Torino, del Real Sito di Carditello di Napoli-Caserta, del MAXXI di Roma, ecc.

Presenta un qualche interesse ai fini della nostra trattazione, come possibile strumento civilistico in qualche modo idoneo a perseguire gli stessi obiettivi di conservazione dell’unitarietà della collezione nel corso delle successioni ereditarie, l’istituto del trust. È forse proprio questo innovativo istituto giuridico che potrebbe aprire la strada verso un “recupero” di alcuni elementi utili della vecchia regola fedecommissaria, a tutela della stabilità e unità delle collezioni private, così da poter in qualche modo soddisfare quel bisogno di tutela (privatistica) cui si faceva riferimento nel par. 9.

Il trust, come è noto, è un istituto proprio del diritto inglese creato dai tribunali di equità dei paesi di Common Law, in vari modi “importato” in Italia per via delle convenzioni di diritto internazionale uniforme (soprattutto sulla base della Convenzione dell’Aja del 1 luglio 1985, ratificata con la legge n. 364 del 16 ottobre 1989 [53]), infine contemplato dalla legislazione italiana per il profilo della trascrizione e della opponibilità ai terzi acquirenti.

Si tratta di un istituto che, come suggerisce la parola stessa, si basa sulla fiducia (tant’è che i primi e più frequenti tentativi di inquadramento giuridico di questa figura in diritto italiano hanno fatto riferimento al modello romanistico del negozio fiduciario, della così detta fiducia cum amico, che in effetti evoca non poco la figura del fedecommesso romanistico).

Come il fedecommesso nell’antica Roma era un istituto extra ordinem, estraneo ai canoni tipici del jus civile romanorum, così, oggi, il trust si pone come istituto liminale, di confine, ancora di dubbia definizione e collocazione nel nostro sistema civilistico.

La potenziale utilità del trust a fini fedecommissari è testimoniata dal fatto che si pone, riguardo alla validità del negozio istitutivo del trust, un problema di possibile negozio simulato relativo all’eredità del disponente, in quanto in possibile violazione del divieto dei patti successori sancito dall’art. 458 del Codice civile.

Esso indubbiamente potrebbe assolvere a una funzione in qualche modo fedecommissaria, consentendo il “congelamento” di un patrimonio, destinato al soddisfacimento dei bisogni di determinati beneficiari.

Non mancano esempi di applicazione dell’istituto del trust per finalità di conservazione e di gestione di collezione d’arte. È noto, ad esempio, che i principi Doria Pamphilj, che ancora oggi seguono direttamente la gestione della galleria d’arte omonima, hanno fatto ricorso nel 2013 allo strumento del trust “con la finalità - si legge nel sito web della galleria - di: preservare nel tempo l’origine storico familiare del loro patrimonio artistico garantendone integrità e conservazione, anche nell’interesse culturale nazionale; mantenere la proprietà e la gestione di tali beni il più possibile unita nel tempo” [54].

Di regola, si richiede nel nostro ordinamento giuridico, per la validità del negozio giuridico (anche unilaterale) istitutivo del trust, la presenza di un elemento di collegamento con un paese estero, ossia che si trovi all’estero almeno una parte del patrimonio costituito in trust, o che il beneficiario risieda all’estero o che le obbligazioni incombenti sul trustee debbano essere eseguite all’estero. Occorre, insomma, un elemento di collegamento con la legislazione straniera, trattandosi in definitiva di un istituto di diritto internazionale privato.

Secondo una diversa interpretazione, invece, la Convenzione dell’Aja avrebbe introdotto una sorta di trust internazionale o un trust c.d. amorfo e conterrebbe, quindi, norme sostanziali uniformi direttamente applicabili nello Stato, costituendo essa stessa la legge del trust.

Si è dunque a lungo discusso dell’ammissibilità dei trust così detti “interni”, ossia dei trust istituiti in Italia, da e con soggetti italiani e riguardanti beni “italiani”.

Con l’introduzione nel Codice civile del nuovo articolo 2645-ter (da parte dall’art. 39-novies del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 273, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 febbraio 2006, n. 51), che ha ammesso e disciplinato la trascrizione degli atti di destinazione di beni immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri, per un periodo non superiore a novanta anni o per la durata della vita della persona fisica beneficiaria, alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche ai sensi dell’articolo 1322, secondo comma, la questione sembrerebbe risolta nel senso dell’ammissibilità dell’effetto “segregativo” che, con riferimento a determinati beni, il trust produce nel patrimonio del trustee [55].

L’istituto del trust, dunque, realizza la funzione di costituire una separazione patrimoniale al fine di soddisfare un interesse del beneficiario o di perseguire un determinato scopo. Al generale “programma di segregazione” si aggiunge lo specifico regolamento degli interessi di volta in volta perseguiti, nel quale si rinviene la causa concreta del negozio.

Al fine di valutare la liceità del trust occorre, dunque, individuarne la causa concreta. Si giudica normalmente non meritevole di tutela il così detto trust liquidatorio, la cui causa va individuata nel caso di preesistente insolvenza dell’imprenditore che sfoci in fallimento: in tal caso la procedura pubblicistica di liquidazione non può essere sostituita con l’attività del trustee e il trust liquidatorio non può, quindi, ricevere tutela. Ma sicuramente è lecito e valido un trust che abbia come causa la segregazione patrimoniale in funzione di conservazione di una collezione di beni culturali [56].

5. Conclusioni

Il fedecommesso, in quanto istituto “eversivo” del dogma dell’assolutezza della proprietà privata e di intralcio al commercio, si colloca per ciò solo in una dimensione etica, non egoistica, ed esprime naturalmente una valenza sociale, quasi “comunitarista”, che trascende la sfera puramente individuale e che - anche sotto questo profilo - favorisce l’emersione del valore immateriale, propriamente culturale, del patrimonio della famiglia, con speciale riguardo alle raccolte di oggetti d’arte, quale componente dinamica della storia del territorio. In tal modo il fedecommesso reca in nuce e anticipa quella rilevanza pubblica, di interesse generale, che quei patrimoni culturali oggettivamente rivestono.

In quanto tradizione e conservazione di un progetto culturale, il fedecommesso delle raccolte d’arte segna, in definitiva, la presenza di un piano e di una prospettiva intergenerazionale, di rilevanza sociale, che prepara il terreno alla maturazione dell’idea del patrimonio culturale come bene pubblico, all’idea gianniniana del bene culturale come bene di fruizione [57].

Ponendo al centro il valore della continuità dell’organismo familiare intorno al suo patrimonio identitario, il fedecommesso è venuto in contrasto con l’ideale liberale centrato sull’individuo, con il bagaglio dei suoi diritti personali inalienabili, primo fra tutti quello di proprietà come sfera di intangibile sovranità del singolo. Ma in tal modo il fedecommesso, sviluppando l’idea romanistica dell’universitas rerum, ha contribuito a dare sostanza all’idea della collezione di oggetti d’arte come un quid pluris, come un organismo autonomo che vive per così dire di vita propria, un qualcosa di diverso non solo quantitativamente, ma anche qualitativamente, rispetto alle singole cose che formano la raccolta, e che, come tale, tende naturalmente a trascendere l’individuo, le singole generazioni e a perpetuarsi per quanto possibile nella storia, come sviluppo, lascito e impronta verso il futuro e i posteri di coloro che l’hanno creata e arricchita.

È dunque una figura che veicola in sé - soprattutto sub specie di strumento di conservazione delle raccolte d’antichità e d’arte - un elemento anche eticamente e socialmente apprezzabile, meritevole di un giudizio indulgente, che sappia guardare al di là dei suoi aspetti pure obiettivamente negativi, in quanto legati a una dimensione elitaria, certamente esclusiva e non inclusiva, e a una dimensione sociale ormai superata e certamente da non rimpiangere.

Del resto il collezionismo ha sempre alla base un sincero amore per l’arte - e la storia della collezione Corsini, dettagliatamente ricostruita nel libro del Prof. Borsellino, ne è la prova più evidente - ed esprime quegli ideali di “καλοκ?γαθ?α” e di generosità [58] che conducono la collezione, nel lungo periodo, se salvaguardata, ad aprirsi, in varie forme, alla pubblica fruizione.

Il fedecommesso, passando il testimone della conservazione dell’integrità delle collezioni alla funzione pubblica di tutela, oggi propria dello Stato, ha rappresentato oggettivamente un momento di transizione di grande rilievo, che ha reso un servigio di non poco conto alla causa della conservazione del nostro patrimonio culturale.

 

Note

[*] Sintesi della relazione tenuta in occasione della “Segnatura” di presentazione dei volumi del Prof. E. Borsellino La collezione Corsini di Roma dalle origini alla donazione allo Stato italiano, svoltasi presso l’Accademia dei Lincei il 9 marzo 2022, in corso di pubblicazione nei “Rendiconti Lincei”.

[**] Paolo Carpentieri è Consigliere di Stato, p.carpentieri@giustizia-amministrativa.it.

[1] Il banchiere Vincenzo Valentini, deceduto senza figli il 13 maggio 1842, aveva istituito un fedecommesso a favore del nipote Gioacchino e della sua linea ereditaria.

[2] Puntualmente richiamati nell’opera del Prof. Borsellino, che qui presentiamo: fedecommesso disposto da Filippo Corsini - 1538-1601 - in favore del fratello Bartolomeo, con clausola di maggiorasco, perpetuato poi con il testamento del 1785 di Bartolomeo IV - 1729-1792 - e con quello disposto nel 1829 da Tommaso senior con la donazione in favore del figlio primogenito Andrea, avente ad oggetto la collezione d’arte e la biblioteca esistenti a Roma nel palazzo della Lungara (La collezione Corsini di Roma dalle origini alla donazione allo Stato italiano, Roma, 2017, Parte I, 61, 67, 80, 119, pag. 299 ss. ed ivi richiamati A. Moroni, Il patrimonio dei Corsini tra Granducato e Italia unita. Politica familiare e investimenti, in Bollettino storico pisano, LIV, 1985, e P. Orzi Smeriglio, I Corsini a Roma e le origini della Biblioteca Corsiniana, in Atti dell’Accademia nazionale dei Lincei, vol. VIII, Serie VIII, 1958).

[3] Importante “quadreria” barocca sorta principalmente su impulso del Cardinal Bernardino Spada (1594-1661), che ampliò il cinquecentesco Palazzo Capodiferro, arricchita nella seconda parte del Seicento dal pronipote, il Cardinal Fabrizio Spada (1643-1717), che rivestì per quasi dieci anni la carica di Segretario di Stato con Innocenzo XII, nonché con l’aggiunta del nucleo di quadri portato in dote da Maria Veralli, sposa di Orazio Spada, e da Maria Pulcheria Rocci, moglie del principe Clemente.

[4] Della famiglia Torlonia deve poi ricordarsi il fedecommesso istituto con testamento del 1829 da Giovanni Torlonia, fondatore della collezione raccolta nel palazzo Torlonia di piazza Venezia, demolito per far posto al Vittoriano, poi ceduta allo Stato con l’accordo del 1892 tra lo Stato e la Casa Torlonia (sul tema si veda P. Nicita, Musei e storia dell’arte a Roma, Palazzo Corsini, Palazzo Venezia, Castel Sant’Angelo e Palazzo Barberini tra XIX e XX secolo, Roma, 2009, pag. 52 ss.).

[5] La collezione si era formata prevalentemente con lasciti del pontefice Alessandro VII (1655-1667), l’eredità di Agostino Chigi rettore dell’Ospedale della Scala a Siena (1563-1639) e soprattutto ad opera del “cardinal nepote” Flavio Chigi (1631-1693), con la consulenza dell’antiquario Niccolò Simonelli e dello stesso Bernini. Con la vendita allo Stato nel 1918 di un importante gruppo di tele, sculture e mobili, assieme al Palazzo Chigi di piazza Colonna, molti dipinti sono passati alla Galleria Nazionale d’Arte Antica di Roma ed in parte sono finiti in deposito; altri sono emigrati presso ambasciate e pubbliche istituzioni, nonostante gli accordi li vincolassero alla sede originaria. Il resto della quadreria era stato diviso nel 1917 tra Ludovico, Francesco ed Eleonora Chigi, con successive parziali dispersioni sul mercato antiquario, mentre un nucleo significativo è stato acquisito dal comune di Ariccia nel 1988 con Palazzo Chigi in Ariccia. Il cardinale Flavio Chigi (1631-1693) aveva dato vita, sotto la favorevole congiuntura del pontificato dello zio Alessandro VII, a una considerevole collezione di marmi antichi nel palazzo a Santi Apostoli, alienata dagli eredi nel 1728 a favore di Augusto il Forte, elettore di Sassonia. Tra le raccolte disperse occorre ricordare, infine, le collezioni fidecommessarie dei principi Barberini - costituite sul nucleo fondato da Maffeo Barberini, divenuto papa nel 1623 con il nome di Urbano VIII, che è andata dispersa per vicende di divisioni familiari e per la legge del 1934 che ne permise lo smembramento. Altre vicende di raccolte d’arte e di antichità protette da vincoli fedecommissari o da privilegi assegnati al primogenito in G. Pollastrelli, Con prohibitione di alienare, cit., passim (ed ivi numerosi richiami bibliografici, tra i quali si segnala M. Piccialuti, L’immortalità dei beni. Fedecommessi e primogeniture a Roma nei secoli XVII e XVIII, Roma, 1999).

[6] Vendita che pare abbia poi causato vivaci proteste, anche di popolo, a Mantova, come riferisce F. Haskell, La dispersione e la conservazione del patrimonio artistico, in Storia dell’Arte italiana, X, Torino, 1985, pag. 9 ss. (ove si riporta, ma senza indicazione dell’autore, la seguente citazione: “il popolo di Mantova ha fatto tanto strepito, che se il duca Vincenzo le havesse potute rihavere, le avrebbe volentieri pagate il doppio, et suo popolo si contentava di dare li danari”).

[7] “Le grandi opere di beneficenza, come i grandi musei e le famose gallerie, nonché le biblioteche hanno dovuto [...] la loro esistenza secolare al fedecommesso romano [...] Dai fedecommessi dei Savelli, di Onorio IV e dei Conti, di Innocenzo III ai fedecommessi notissimi dei Barberini, di Urbano VIII e degli Ottoboni, di Alessandro VIII, nonché al fedecommesso di Mons. Virgilio Spada approvato da Pio VI, le disposizioni si sono costantemente ripetute in senso dinastico, e la volontà del fondatore nella espressione più assoluta del diritto di proprietà” (M. Tosi, La società romana dalla feudalità al patriziato (1816-1853), Roma, 1968, pagg. 234-235).

[8] Informazioni interessanti riguardo alla conservazione di patrimoni librari in Dorit Raines, Sotto tutela. Biblioteche vincolate o oggetto di fedecommesso a Venezia, XV-XVIII secoli, in The Mélanges de l’École française de Rome, al sito https://doi.org/10.4000/mefrim.808.

[9] N. La Marca, La nobiltà romana e i suoi strumenti di perpetuazione del potere, Roma, 2000. L’arte ha sempre svolto, del resto, in questo senso, un ruolo di strumento di legittimazione del potere. Su questa falsariga è impostata la mostra Farnese. Architettura, Arte, Potere, inaugurata il 18 marzo 2022 nel complesso monumentale della Pilotta a Parma, a cura di Simona Verde.

[10] In tal senso G. Pollastrelli, Con prohibitione di alienare: il fedecommesso e la conservazione delle opere d’arte in Italia dal XVII al XIX secolo, Roma, 2015, 9, osserva condivisibilmente che “L’istituto del fedecommesso rappresenta ... un antenato, o forse meglio un parente anziano, della nostra attuale tutela dei beni culturali”.

[11] G. Severini, Le collezioni e raccolte d’arte tra conservazione coattiva e prospettive di consenso, in Le dimore storiche, 2000, 2, pag. 11 ss.

[12] Art. 692. Sostituzione fedecommissaria (articolo così sostituito dall’art. 197 della legge 19 maggio 1975, n. 151, sulla riforma del diritto di famiglia).

[13] Art. 458. Divieto di patti successori. Fatto salvo quanto disposto dagli articoli 768-bis e seguenti (in tema di patto di famiglia), “è nulla ogni convenzione con cui taluno dispone della propria successione. È del pari nullo ogni atto col quale taluno dispone dei diritti che gli possono spettare su una successione non ancora aperta, o rinunzia ai medesimi”.

[14] Justinuiani Inst., 2, 23; Gai Inst., 2, 246-253 (in V. Arangio Ruiz, A Guarino, Breviarium iuris romani, 8 ed., Milano, 1998, rispettivamente pag. 100 ss. e 304 ss.). La tutela extra ordinem era in origine di competenza dei consoli; con Claudio vennero introdotti due praetores fideicommissarii, ridotti ad uno da Tito. Nelle province la competenza era del governatore. L’azione a tutela del fedecommesso era detta di solito petitio, con domanda non di una somma di denaro (litis aestimatio), ma della cosa stessa, con condanna in rem ipsam. In ragione della centralità dell’elemento fiduciario, il fedecommesso era accostato ai rapporti inter vivos di buona fede, regolati secondo il criterio dell’arbitrium boni viri: “verbis enim fideicommissi bonam fidem inesse constat”, dice Papiniano (D. 36, 1, 56). La Epitome Ulpiani (XXV, 1) definisce così il fedecommesso: “Fideicommissum est quod non civilibus verbis, sed precative relinquitur, nec ex rigore iuris civilis proficiscitur, sed ex voluntate datur relinquentis”. Dei tre tipi di fedecommesso conosciuti dal diritto romano (fedecommesso universale, fedecommesso di “res singulae” e fedecommesso di libertà) interessa in questa sede soprattutto il primo, il fedecommesso universale, detto nelle fonti fideicommissum hereditatis, talvolta universitatis, che aveva per oggetto una intera eredità o una quota di essa.Nel diritto postclassico (con Costanzo e Giustiniano) si perviene, con l’abolizione della forma solenne per i legati, alla identificazione tra legati e fedecommessi: Per omnia exaequata sunt legata fideicommissis (Ulp. D. 30, 1). Su questi profili cfr. P. Voci, in Enc. Dir., voce Fedecommesso (dir. rom.), vol. XVII, Milano, 1968, pag. 104 ss.; C. Ferrini, Teoria generale dei legati e dei fedecommessi, Milano, 1889; B. Biondi, Successione testamentaria e donazioni, Milano, 1955; P. Voci, Diritto ereditario romano, II, Milano, 1963; A. Guarino, Diritto privato romano, 5 ed., Napoli, 1976, pag. 441 ss.

[15] Richiamati da E. Cortese, voce Divieto di alienazione (diritto intermedio), in Enc. Dir., vol. XIII, Milano, 1964, pag. 389.

[16] M. Caravale, voce Fedecommesso (dir. interm.), in Enc. Dir., vol. XVII, Milano, 1968; B. Brugi, voce Fedecommesso (diritto romano, intermedio, odierno), in Digesto Italiano, XI, 1, Torino, 1895, pag. 624. “La convergenza dei due istituti restò per secoli un luogo comune nella scienza” [E. Cortese, voce Divieto di alienazione (diritto intermedio), in Enc. Dir., cit.]. Secondo R. Trifone, Il fedecommesso. Storia dell’istituto in Italia dal diritto romano all’inizio del secolo XVI, Roma, 1914, 17-35, il fedecommesso avrebbe assunto la funzione di conservare i beni nell’àmbito familiare già nel periodo bizantino. Sembra, invece, che il diritto consuetudinario dei popoli germanici ignorasse le successioni testamentarie, e con esse, le disposizioni fedecommissarie, istituto che di fatto restò estraneo al mondo giuridico barbarico, anche quando gli usi germanici recepirono l’istituto del testamento. L’uso frequente, nelle fonti germaniche del termine “fideicommissarius” nascerebbe dalla traduzione latina del termine germanico “salmanno” (saalmann, da sala = tradizione; mann = uomo), riferito in realtà ad una figura giuridica diversa da quella del fedecommissario romano, più assimilabile all’esecutore testamentario e corrispondente sostanzialmente al romano “familiae emptor” o “haeres fiduciarius” (M. Caravale, op. cit.). Secondo taluna Dottrina la funzione del fedecommesso di strumento per la conservazione del patrimonio familiare sarebbe stata sconosciuta fino al Cinquecento e sarebbe stata introdotta in Italia dalla dottrina giuridica spagnola (L. Tria, Il fedecommesso nella legislazione e nella dottrina dal secolo XVI ai nostri giorni, Milano, 1945, pag. 12, nota 1). Effetti analoghi al fedecommesso erano in effetti riconnessi all’istituto castigliano del mayorazgo, il diritto del primogenito di ereditare tutto il patrimonio familiare. Altra Dottrina (R. Trifone, Il fedecommesso., op. cit., pagg. 155-161) ha invece sostenuto lo sviluppo autonomo del fedecommesso in Italia nel corso del Medioevo.

[17] Venne chiarito tra l’altro che quando il testatore disponesse in modo generico a favore della sua famiglia, per quest’ultima si doveva intendere quella effettiva - comprendente, cioè, i soli discendenti del de cuius - e non quella contentiva - comprendente anche i collaterali. E al fine di evitare l’uscita del patrimonio dalla famiglia effettiva, la dottrina fissò una lunga serie di ostacoli alle disposizioni a favore dei collaterali.

[18] G. Ortes, Dei fidecommessi a famiglie e a chiese e luoghi pii, in Scrittori classici italiani di economia politica, XXVII, Milano, 1704; F. Orioli, Dei fedecommessi e dell’aristocrazia. Quattro lettere del Prof. Francesco Orioli, in Opuscoli politici, Milano, 1851.

[19] L. Muratori, Dei difetti della giurisprudenza, Napoli, 1743; G. Filangieri, La scienza della legislazione, Firenze, 1864; A. Genovesi, Lezioni di economia civile, in Biblioteca dell’economista, III, Torino, 1852; C. Beccaria, Elementi di economia pubblica, in Le opere di C. Beccaria, Firenze, 1854; G. Poggi, Saggio di un trattato teorico pratico sul sistema livellare toscano, Firenze, 1842.

[20] G.B. De Luca, Theatrum veritatis, et justitiae, Lib. X, De fideicommissis, Primogenituris, & Majoratibus (nella vulgata costituita dal Dottor volgare, Roma, 1673).

[21] Anche se è da segnalare come alcune legislazioni europee seguirono indirizzi diversi. Il Codice austriaco ammetteva senza limitazione di grado il fedecommesso di famiglia e qualunque altro fedecommesso, purché tutti i sostituti fossero in vita al tempo della disposizione del testatore; altrimenti il limite era fissato al secondo grado, se oggetto della disposizione erano beni mobili, e al primo, se immobili. Il Codice prussiano ammetteva le sostituzioni entro il secondo grado; similmente quello spagnolo. Il Codice civile svizzero, adeguandosi alla legislazione francese, limitava la possibilità d’istituire fedecommessi al primo grado (L. Ricca, voce Fedecommesso (dir. civ.) in Enc. Dir., vol. XVII, 1968, Milano, pag. 115).

[22] Così L. Ricca, op. loc. cit.

[23] Nel Regno sabaudo vennero introdotte limitazioni già con le nuove Regie Costituzioni del 1723: il fedecommesso veniva ammesso esclusivamente “sopra i beni immobili” (salve alcune eccezioni) e veniva imposto l’obbligo di denuncia dei vincoli e di redazione di un “inventario legittimo» dei beni, da depositarsi presso un pubblico ufficio” Si ammisero inoltre eccezioni all’intangibilità del patrimonio (con il così detto “scorporo”, per far fronte a problemi contingenti o per la costituzione di dote). La seconda edizione delle Regie Costituzioni del 1929 limitò il vincolo a soli quattro gradi, “dopo i quali s’avrà per risolto ogni vincolo e gravame”.

[24] Nel Regno delle Due Sicilie il Codice del 1819 vietava, in genere, l’istituzione di fedecommessi, “eccetto ne’ casi espressamente permessi dalla legge, e salve le disposizioni riguardanti l’istituzione de’ maioraschi” (art. 942), i quali potevano essere disposti dai nobili (art. 948), con l’approvazione del Re (art. 947).

[25] E. Borsellino, La collezione Corsini di Roma dalle origini alla donazione allo Stato italiano, Roma, 2017, Parte I, pag. 299 ss.

[26] Riconoscimento decretato, ai sensi dell’art. 142 del motu proprio di papa Leone XII del 1824, con provvedimento del cardinale Camerlengo Galeffi in data 9 luglio 1827 e quindi ritenuta assoggettabile al fedecommesso (riportato nella II Parte - Appendice documentaria - della ricerca del Prof. Borsellino, op. cit., pag. 96).

[27] A. Emiliani, Leggi, bandi e provvedimenti per la tutela dei Beni Artistici e Culturali negli antichi stati italiani 1571-1860, Bologna, 1996, Introduzione, pagg. 15-16. Si è soliti sintetizzare i contenuti della tutela nel trinomio “conoscere, conservare, proteggere” (trinomio ripreso testualmente nell’art. 3, comma 1, del Codice di settore del 2004).

[28] E. Borsellino, op. cit., Parte I, pag. 285.

[29] “11. Acciò poi le Nostre providenze non restino deluse, o defraudate, ordiniamo, che tutti i Privati, che hanno Gallerie di Statue, e di Pitture, Musei di Antichità Sacre, o Profane, o semplici raccolte dell’uno, e dell’altro genere, ed anche quelli, che senza avere o Gallerie, o Musei, o Raccolte, hanno attualmente presso di loro uno, o più oggetti antichi, o in altro modo pregievoli di Arte, particolarmente in genere di Scultura, o di Pittura in Roma, e in tutto lo Stato, debbano dare un’esatta assegna, distinguendo ciascun pezzo, dentro il termine di un Mese in Roma negli Atti di uno de’ Segretarj della Nostra Camera, che Voi destinerete, e nello Stato presso il Cancelliere della Comunità dentro il termine di due Mesi da computarsi dalla data dell’Editto, che Voi publicherete” (da A. Emiliani, Leggi, bandi e provvedimenti per la tutela dei Beni Artistici e Culturali negli antichi stati italiani 1571-1860, cit., pagg. 91-92).

[30] E. Borsellino, op. cit., Parte I, 133 (dove si richiama F. Haskell, Mecenati e pittori. Studio sui rapporti tra arre e società italiana nell’età barocca, 2 ed., Firenze, 1985, 25). Osserva G. Pollastrelli, Con prohibitione di alienare, cit., pag. 16, come l’architettura, il cerimoniale, il collezionismo erano “condizione necessaria all’autorappresentazione sociale e al concetto stesso di nobiltà”. S. Settis (Bacco ed Ercole. I colossi di Parma, in Domenica del Sole 24 Ore, 13 marzo 2022, I, ricorda come “La casa di un cardinale doveva seguire abitudini correnti (come risulta dal De cardinalatu di Paolo Cortesi, 1510), e fra queste una raccolta di antichità era press’a poco obbligatoria”.

[31] Per l’esame di tali provvedimenti si veda la raccolta contenuta in A. Emiliani, Leggi, bandi e provvedimenti per la tutela dei Beni Artistici e Culturali negli antichi stati italiani 1571-1860, cit. Una ricognizione ragionata di sintesi della legislazione preunitaria di tutela è offerta da S. Settis, Il nuovo codice e la tradizione di tutela del patrimonio culturale italiano, Presentazione al Commentario al codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) G. Leone, A.L. Tarasco, Cedam, Padova, 2006, XXI ss.

[32] Vi erano stati taluni tentativi di approntare una prima disciplina unitaria di tutela, ma senza esiti positivi. Si segnalano a tal proposito un primo disegno di legge predisposto dal ministro della pubblica istruzione Mamiani (che presiedeva la “Consulta di belle arti” istituita con regio decreto 5 dicembre 1862, n. 4474), rimasto però privo di seguito, e un disegno di legge approvato il 17 maggio 1868 da una commissione speciale del Consiglio di Stato (L. Parpagliolo, Codice delle antichità e degli oggetti d’arte, Roma, 1913, vol. I, 16). Si ebbero poi il regio decreto 22 aprile 1886, n. 3959, recante norme in materia di restauro ai monumenti nazionali ed agli scavi di antichità, il regio decreto 21 agosto 1892, istitutivo di una commissione centrale per la compilazione del catalogo dei monumenti e l’esecuzione dei rilievi, disegni, fotografie e il regio decreto 27 aprile 1894, n. 173 istitutivo della Giunta superiore per la storia e l’archeologia.

[33] Ne costituisce un esempio la dispersione della ricca collezione accumulatasi presso il Monte di Pietà di Roma, dopo lo scandalo Campana (Giovan Pietro Campana, già direttore del Monte dei Pegni, accusato nel 1857 di appropriazione indebita); vicenda cui seguì la vendita all’asta dei beni, proseguita ad opera del ministero delle Finanze anche dopo l’annessione di Roma al Regno d’Italia, alla quale scamparono circa duecento dipinti risultati invenduti e quindi acquistati dallo Stato e collocati nel palazzo Corsini (si veda in proposito P. Nicita, Musei e storia dell’arte a Roma, cit., pag. 18 ss., 60 ss.).

[34] G. Severini, op. cit., pag. 2 del testo. La propensione all’indebitamento della nobiltà romana indusse Papa Urbano VIII nel 1625 a rafforzare l’istituto del fedecommesso, rendendo inesigibili i debiti sui patrimoni fedecommissari (G. Pollastrelli, Con prohibitione di alienare, cit., pag. 17). Il Prof. Settis (S. Settis, in Domenica del Sole 24 Ore, 26 luglio 2020, pag. XI, I marmi Borghese di carta, recensione del volume Une histoire en images de la collection Borghèse. Les antiques des Scipion dans les albums Topham, a cura di Marie-Lou Fabréga-Dubert, Louvre édition/Mare & Martin, Parigi, 2020, a proposito dei disegni raccolti da Richard Topham per catalogare i capolavori dell’arte antica) riconnette al “prodigioso diffondersi, fuori di Roma, del collezionismo di antichità specificamente romane, ricercatissime non solo a Firenze o a Torino, ma a Parigi, a Madrid, a Londra, nelle corti tedesche, nelle residenze di campagne di aristocratici in tutta Europa”, il sorgere dei primi provvedimenti di tutela: “Una tendenza e una moda che furono fieramente contrastate (pur tra mille eccezioni) dai governi pontifici. Essi vietarono l’esportazione (o, come si diceva, l’“estrazione”) da Roma di ogni antichità, mediante l’istituzione di un Commissario (poi Prefetto) alle Antichità (dal 1534) e con una serie di editti dei cardinali camerlenghi Aldobrandini (1624), Sforza (1646), Altieri (1686), Spinola (1717), Doria Pamphilj (1802), Pacca (1819)”.

[35] Come osserva E. Mattaliano, “La risoluzione del problema della tutela del patrimonio artistico e storico si presentò, come una necessità della massima urgenza, dopo la presa di Roma (1870). Estendendosi infatti alla capitale d’Italia e alle provincie, già pontificie, le leggi del Regno Italiano, e prima tra tutte il Codice civile del 1865 con le relative disposizioni transitorie (contenute nel decreto del 30 novembre 1865, n. 2606) che abolivano i fidecommessi (articoli 24-25), le principali gallerie e i musei di Roma sarebbero stati sciolti, se non dall’unico, almeno dal principale vincolo cui era affidata la loro conservazione” [E. Mattaliano, Il movimento legislativo per la tutela delle cose d’interesse artistico e storico dal 1861 al 1939, in Ricerca sui beni culturali, (a cura di) G. Limiti (Camera dei deputati), Roma, Grafica Romana, 1975, pag. 4]. Si veda in proposito anche P. Nicita, Musei e storia dell’arte a Roma, cit., pag. 49 ss. [che richiama D. Bernini, Le gallerie fidecommissarie romane nel dibattito risorgimentale, in Garibaldi. Arte e Storia, Arte, catalogo della nostra (Roma, 1982), Firenze, 1982, pag. 336 ss.].

[36] Regio decreto 27 novembre 1870, n. 6030 (Che manda pubblicare nella Provincia di Roma alcuni Codici, Leggi, Decreti e Regolamenti concernenti l’unificazione legislativa). Art. 2. “È pure pubblicato ed avrà esecuzione nella Provincia Romana, a cominciare dalle date indicate nello articolo 6 del presente Decreto, il Regio Decreto 30 novembre 1865, n. 2606, contenente disposizioni transitorie per l’attuazione del Codice civile colle modificazioni che seguono: ... b) Sono provvisoriamente sospese le disposizioni degli articoli 24 e 25. Per lo scioglimento dei fedecommessi, dei maggioraschi, di altre sostituzioni fedecommissarie e dei vincoli feudali ordinati secondo le Leggi anteriori, sarà provveduto con apposita Legge di cui si presenterà il progetto all’apertura del Parlamento”.

[37] Legge 28 giugno 1871, n. 286, Che estende alla Provincia di Roma gli articoli 24 e 25 delle disposizioni transitorie per l’attuazione del Codice civile. Art. 1. “Ai fidecommessi, ai maggioraschi ed altre sostituzioni fidecommessarie, ed ai vincoli feudali ordinati nella Provincia Romana anteriormente all’attuazione del Codice civile, ivi promulgato in virtu’ del Reale Decreto del 27 novembre 1870, n. 6030, sono applicabili dal 1° luglio 1871 gli articoli 24 e 25 delle disposizioni transitorie relative al Codice medesimo, i quali sono stati provvisoriamente tenuti in sospeso dall’articolo 2, lettera B, del citato Decreto 27 novembre 1870. Alle parole “dal giorno dell’attuazione del nuovo Codice e alla data del 1° gennaio 1866”, contenute negli articoli 24 e 25 suddetti, è sostituita la data del 1° luglio 1871”. Art. 4. “Nonostante l’abolizione delle sostituzioni, e finché non sia per Legge speciale altrimenti provveduto, le gallerie, biblioteche ed altre collezioni d’arte o di antichità rimarranno indivise ed inalienabili fra i chiamati alla risoluzione del fidecommesso, loro eredi od aventi causa”. Art. 5. “Finche’ non sia provveduto con Legge generale continueranno ad aver vigore le Leggi e i Regolamenti speciali attinenti alla conservazione dei monumenti e degli oggetti d’arte”.

[38] L. Parpagliolo, op. cit., pag. 211; M. Cantucci, La tutela giuridica delle cose d’interesse artistico o storico, Padova, 1953, pag. 20.

[39] Legge 12 giugno 1902, n. 185, portante Disposizioni circa la tutela e la conservazione dei monumenti ed oggetti aventi pregio d’arte o di antichità.

[40] M. Speroni, La tutela dei beni culturali negli stati preunitari, I, L’età delle riforme, Milano, 1988, pag. 9. Ma deve ricordarsi anche il contributo di Filippo Mariotti, La legislazione delle belle arti, Roma, 1892.

[41] Su cui si veda anche R. Balzani, Per le antichità e le belle arti. La legge n. 364 del 20 giugno 1909 e l’Italia giolittiana. Dibattiti storici in Parlamento, Bologna, 2003.

[42] Art. 1. “La disposizione dell’articolo 4, primo capoverso della legge 28 giugno 1871, n. 286 (Serie 2ª), in quanto proibisce di alienare e dividere le gallerie, biblioteche ed altre collezioni di arte e di antichità, ivi contemplate, cessa di avere effetto, non per la loro indivisibilità da rimanere ferma, ma per l’alienazione, a qualsiasi titolo, ogni qualvolta i diritti che si hanno sopra di esse, si trasferiscano allo Stato, alle provincie, ai comuni, a istituti od altri Enti morali nazionali laici, fondati o da fondarsi, i quali dovranno conservare o destinare in perpetuo ad uso pubblico le dette gallerie, biblioteche e collezioni”.

[43] E. Borsellino, op. cit., Parte I, pag. 569 ss., in particolare 573, dove è ricordata la sentenza del Tribunale di Roma del 1875 che aveva dichiarato l’inalienabilità degli ambienti che ospitavano raccolte d’arte e biblioteche vincolate (tema sul quale cfr. P. Nicita, Musei e storia dell’arte a Roma, cit., pag. 49 ss.). Riferisce E. Mattaliano che, infatti, nella relazione dell’Ufficio centrale del Senato in data 3 luglio 1883 (relatore Finali) si giustificò questo disegno di legge portando l’esempio virtuoso e significativo della donazione fatta dal Principe Corsini allo Stato italiano del palazzo Corsini e della annessa collezione (E. Mattaliano, op. cit., pag. 8, nota 17, che richiama Filippo Mariotti, La legislazione delle belle arti, cit., pag. 75).

[44] Art. 1. “Chiunque sottrae, sopprime, distrugge o in qualsiasi modo distrae o converte in profitto proprio od altrui, quadri, statue od altre opere d’arte custodite nelle gallerie, biblioteche o collezioni d’arte o di antichità di cui nello art. 4 della legge 28 giugno 1871, soggiace alla pena stabilita nella prima parte dell’art. 203 del Codice penale, salvo le pene maggiori qualora il fatto costituisca un reato più grave previsto dal Codice penale”.

Art. 2. “Il Governo provvederà a mantenere o reintegrare l’esercizio dei diritti del pubblico sulle gallerie, biblioteche, collezioni d’arte indicate nel precedente articolo, sia che tali diritti risultino da atti di fondazione, sia che risultino da possesso. Darà inoltre i provvedimenti per l’esatto adempimento delle condizioni imposte dai fondatori e pel rispetto dei diritti acquisiti dal pubblico. Il Governo potrà in qualunque tempo ispezionare le gallerie, collezioni e biblioteche, di cui all’articolo precedente e dare tutte le disposizioni occorrenti per la loro sicura custodia e conservazione”.

[45] Art. 1. “Fino al termine di due anni dalla promulgazione della presente legge è vietata l’esportazione all’estero degli oggetti antichi provenienti da scavo, che siano di notevole importanza archeologica od artistica. È altresì vietata per detto termine l’esportazione all’estero degli altri oggetti che sieno di sommo pregio per la storia e per l’arte descritti nel catalogo di cui nell’articolo 23 della legge 12 giugno 1902, n. 185, e precisamente nella parte del catalogo stesso relativa agli oggetti d’antichità e d’arte di proprietà privata. Questa parte del catalogo dovrà essere pubblicata dal Ministero dell’Istruzione Pubblica non più tardi del 31 dicembre 1903. Intanto ne fa le veci per tutti gli effetti di legge la notificazione di cui all’articolo 5 della legge sopra citata”.

[46] Così la legge n. 1089 del 1939, nell’art. 72 (“Nulla è innovato per quanto riguarda le raccolte artistiche ex-fidecommissarie, regolate con L. 28 giugno 1871, n. 286, L. 8 luglio 1883, n. 1461, R.D. 23 novembre 1891, n. 653, e L. 7 febbraio 1892, n. 31, nonché le bellezze naturali panoramiche regolate con L. 11 giugno 1922, n. 778”). Così il testo unico del 1999, di cui al decreto legislativo n. 490 del 1999 (art. 12, Raccolte ex-fidecommissarie. “1. Restano salve le disposizioni relative alle raccolte artistiche ex-fidecommissarie, impartite con legge 28 giugno 1871, n. 286, legge 8 luglio 1883, n. 1461, regio decreto 23 novembre 1891, n. 653 e legge 7 febbraio 1892, n. 31”). Così anche, infine, l’odierno Codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo n. 42 del 2004 (art. 129 - Provvedimenti legislativi particolari, comma 2: “2. Restano altresì salve le disposizioni relative alle raccolte artistiche ex-fidecommissarie, impartite con legge 28 giugno 1871, n. 286, legge 8 luglio 1883, n. 1461, regio decreto 23 novembre 1891, n. 653 e legge 7 febbraio 1892, n. 31”). Su questa disposizione nel Codice del 2004 cfr. G. Famiglietti, D. Carletti, sub art. 129, in Il codice dei beni culturali e del paesaggio, commentario coord. da R. Tamiozzo, Giuffrè, Milano, 2005, pag. 579 ss.; M.C. Spena, sub art. 129, in Commentario al codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) G. Leone, A.L. Tarasco, Cedam, Padova, 2006, pag. 826 ss.; G. Piperata, sub art. 129, in Il codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M. Cammelli, Il Mulino, Bologna, 2004, pag. 501 ss.; B. Lubrano, sub art. 129, in G. Trotta, G. Caia, N. Aicardi (a cura di), Codice dei beni culturali e del paesaggio, in Le nuove leggi civili commentare, Anno XXVIII, n. 5-6 2005, Padova, 2006, 1483 ss.; A. Romeo, sub. artt. 129 e 130, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, 3 ed., (a cura di) M.A. Sandulli, Giuffrè Francis Lefebvre, Milano, 2019, pag. 1155 ss.

[47] Questa tematica è tornata di attualità nel 2008, in occasione della presentazione all’Ufficio esportazione di Roma, da parte di una società che opera nel settore antiquario, di una richiesta di attestato di libera circolazione in ordine a un dipinto, di cui la società si dichiarava proprietaria, proveniente dalla collezione Barberini (ex fidecommissaria), con conseguente provvedimento in data 4 giugno 2008 di diniego dell’attestato di libera circolazione e di contestuale avvio del procedimento per la dichiarazione dell’interesse culturale del quadro. Per l’interessante questione giuridica sottesa a questa vicenda si vedano le opposte conclusioni cui sono giunti il Tar del Lazio (sez. II-quater, sentenza n. 94/2010 dell’8 gennaio 2010) e il Consiglio di Stato (sentenza della sez. VI del 6 settembre 2010, n. 6479). Le sentenze del Giudice amministrativo successive all’anno 2000 sono reperibili e liberamente consultabili nel sito della Giustizia amministrativa alla funzione “Decisioni e pareri”.

[48] G. Severini, Discorso sulle case museo (dissertazione svolta dall’A. su invito dell’assemblea della Commissione case museo di ICOM-Italia. Roma, Museo Canonica, 18 ottobre 2016), pubblicata nel sito della Giustizia amministrativa, 21 giugno 2017.

[49] Definizione recepita nella riforma organizzativa del ministero di settore con il decreto ministeriale 23 dicembre 2014 sull’organizzazione e funzionamento dei musei statali, pubblicato nella Gazz. Uff. 10 marzo 2015, n. 57 (art. 1, comma 1: “una istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo. È aperto al pubblico e compie ricerche che riguardano le testimonianze materiali e immateriali dell’umanità’ e del suo ambiente; le acquisisce, le conserva, le comunica e le espone a fini di studio, educazione e diletto, promuovendone la conoscenza presso il pubblico e la comunità scientifica”). La definizione di “museo” è stata poi riproposta, a livello normativo, nel regolamento di organizzazione del ministero della Cultura, di cui al d.p.c.m. 2 dicembre 2019, n. 169, nell’art. 43 (Musei, aree e parchi archeologici e altri luoghi della cultura. “1. I musei, i parchi archeologici, le aree archeologiche e gli altri luoghi della cultura di appartenenza statale sono istituzioni permanenti, senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo. Sono aperti al pubblico e compiono ricerche che riguardano le testimonianze materiali e immateriali dell’umanità e del suo ambiente; le acquisiscono, le conservano, le comunicano e le espongono a fini di studio, educazione e diletto, promuovendone la conoscenza presso il pubblico e la comunità scientifica. 2. Gli istituti e i luoghi di cui al comma 1 sono dotati di autonomia tecnico-scientifica e svolgono funzioni di tutela e valorizzazione delle raccolte in loro consegna, assicurandone la pubblica fruizione. Sono dotati di un proprio statuto e possono sottoscrivere, anche per fini di didattica, convenzioni con enti pubblici e istituti di studio e ricerca”).

[50] F. Merusi, La privatizzazione per fondazioni tra pubblico e privato, in Dir. amm., 2004, 3, pag. 447 ss.; E. Bellezza, F. Florian, Le fondazioni del terzo millennio, Firenze, 1998, pag. 63 ss.; D. Vittoria, Le fondazioni culturali e il consiglio di amministrazione. Evoluzioni della prassi statutaria e prospettive della tecnica fondazionale, in Riv. dir. comm., 1975, I, pag. 316 ss.; A. Zoppini, Problemi e prospettive per una riforma delle associazioni e delle fondazioni di diritto privato, in Riv. dir. civ., 2005, II, 365 ss. (soprattutto pag. 372 ss.); A. Paire,Fondazioni di partecipazione e pubblica amministrazione. Rischi e opportunità di un modello organizzativo “atipico”, in Federalismi.it, n. 30/2020, 4 novembre 2020. Con più specifico riferimento all’impiego di questa figura nella gestione dei beni culturali si veda A. Moliterni (a cura di), Patrimonio culturale e soggetti privati, Editoriale Scientifica, Napoli, 2019.

[51] Il registro unico nazionale del terzo settore è divenuto operativo nel novembre 2021 in attuazione del d.m. 15 settembre 2020, recante la Definizione delle procedure di iscrizione degli enti, delle modalità di deposito degli atti, delle regole per la predisposizione, la tenuta, la conservazione del Registro unico nazionale del Terzo settore.

[52] Il decreto legislativo di riforma del ministero n. 368 del 1998 (che trasformò il ministero per i Beni Culturali e Ambientali in ministero per i Beni e le Attività culturali) prevedeva, nell’art. 10 (Accordi e forme associative), la facoltà del ministero, “ai fini del più efficace esercizio delle sue funzioni e, in particolare, per la gestione dei servizi relativi ai beni culturali di interesse nazionale...” di “b) costituire o partecipare ad associazioni, fondazioni o società secondo modalità e criteri definiti con regolamento emanato ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400” (regolamento poi adottato, per le fondazioni, con d.m. 27 novembre 2001, n. 491, ritenuto ancora vigente in forza della norma transitoria contenuta nell’art. 130 del Codice di settore del 2004). L’art. 10 del d.lg. 368/1998 è stato poi abrogato dal d.lg. 156/2006, ma, per quanto riguarda le fondazioni, si ritiene che i suoi contenuti siano compatibili con il nuovo codice, che richiama le fondazioni nell’art. 112.

[53] L’art. 2 della Convenzione così definisce il trust: “Ai fini della presente Convenzione, per trust s’intendono i rapporti giuridici istituiti da una persona, il costituente - con atto tra vivi o mortis causa - qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine specifico. Il trust presenta le seguenti caratteristiche: a) i beni del trust costituiscono una massa distinta e non fanno parte del patrimonio del trustee; b) i beni del trust sono intestati a nome del trustee o di un’altra persona per conto del trustee; c) il trustee è investito del potere e onerato dell’obbligo, di cui deve rendere conto, di amministrare, gestire o disporre beni secondo i termini del trust e le norme particolari impostegli dalla legge. Il fatto che il costituente conservi alcune prerogative o che il trustee stesso possieda alcuni diritti in qualità di beneficiario non è necessariamente incompatibile con l’esistenza di un trust.

[54] Il sito aggiunge che il trust Doria Pamphilj è un trust interno avente ad oggetto una collezione di opere d’arte d’inestimabile valore artistico nonché storici palazzi cinquecenteschi tra cui quelli che ospitano i musei di Palazzo Doria Pamphilj a Roma e di Villa del Principe a Genova. Riferimenti utili in G. Lepore, Aspetti fiscali di un trust per immobili di interesse storico-artistico, in Trusts, 2006, 4 ss.

[55] La giurisprudenza per parte sua ha chiarito che con l’atto costitutivo del trust il trasferimento dal “settlor” al “trustee” di immobili e partecipazioni sociali per una durata predeterminata o fino alla morte del disponente, i cui beneficiari siano i discendenti di quest’ultimo, avviene a titolo gratuito e non determina effetti traslativi, poiché non ne comporta l’attribuzione definitiva allo stesso trustee, che è tenuto solo ad amministrare ed a custodire gli immobili ed i diritti conferiti, in regime di segregazione patrimoniale, in vista del loro ritrasferimento ai beneficiari del “trust” (con conseguente assoggettamento dell’atto a tassazione in misura fissa, sia per quanto attiene all’imposta di registro che alle imposte ipotecaria e catastale). Ha ulteriormente specificato che l’istituzione di un trust ed il conferimento in esso di beni che ne costituiscono la dotazione sono atti fiscalmente neutri, in quanto non danno luogo ad un passaggio effettivo e stabile di ricchezza, ad un incremento del patrimonio del trustee, che acquista solo formalmente la titolarità dei beni, per poi trasferirla al beneficiario finale, sicché non sono soggetti all’imposta sulle successioni e donazioni. Ha quindi precisato che il trust non è un ente dotato di personalità giuridica ma un insieme di beni e rapporti destinati ad un fine determinato, nell’interesse di uno o più beneficiari, e formalmente intestati al trustee, il quale, pertanto, disponendo in via esclusiva dei diritti conferiti nel patrimonio vincolato, è l’unico soggetto legittimato a farli valere nei rapporti con i terzi, anche in giudizio (rispettivamente, Cassazione civile, sez. VI, 26 novembre 2019, n. 30821; Cassazione civile, sez. trib., 24 dicembre 2020, n. 29507; Cassazione civile, sez. I, 22 dicembre 2015, n. 25800).

[56] Un ulteriore istituto che potrebbe presentare, ma in misura sicuramente minore, profili di un qualche interesse per il tema trattato è rappresentato dal patto di famiglia, di recente introdotto nel Codice civile dalla legge 14 febbraio 2006, n. 55 (che ha aggiunto nel Codice un nuovo Capo V-bis, artt. 768-bis ss.). Il patto di famiglia è definito dal Codice come il contratto, che deve essere concluso per atto pubblico, con cui, compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie, l’imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti. Al contratto devono partecipare anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore.

[57] M.S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, pag. 36 ss., ora Id., Scritti, VI, Milano, 2005: “il bene culturale è pubblico non in quanto bene di appartenenza, ma in quanto bene di fruizione” (1033).

[58] Si veda, a tal proposito, la “psicologia timotica” di Peter Sloterdijk (Crescita o extraprofitto, (a cura di) René Scheu, Mimesis, Milano, 2013), che promuove una nuova antropologia centrata sul thymos greco-omerico, la naturale spinta dell’uomo a essere apprezzato per il suo valore e riconosciuto nel suo orgoglio, nel suo onore, nella sua esemplarità, che lo spinge a dare, che muove la generosità (e non solo l’egoismo, l’appropriazione e il conflitto con gli altri). Vi sono, insomma, “egoismi altruistici”, in una dinamica che è del resto tipica del mecenatismo, nelle sue varie forme, per le quali alle volte si parla (giuridicamente) di atti di “liberalità interessata” (su questi temi sia consentito il rinvio a P. Carpentieri, Sponsorizzazioni e mecenatismo nei beni culturali, in www.giustamm.it, 28 maggio 2014.

 

 

 



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