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Patrimonio culturale ecclesiastico

Il patrimonio culturale, in particolare quello di rilevanza religiosa, e la Convenzione di Faro [**]

di Luigi Mariano Guzzo [*]

Sommario: 1. La Convenzione di Faro e il patrimonio culturale. - 2. Il patrimonio culturale di rilevanza religiosa e la sua specificità. - 3. Dall’ordinamento canonico un interessante caso-studio: il Parco Culturale Ecclesiale.

Cultural Heritage, in particular that of religious importance, and Faro Convention
The present article has the purpose to emphasize some of more relevant questions on the Religious Cultural Heritage refers to the Faro Convention. The core is the need for a methodological re-setting of the normative discipline to mark the transition from a right of cultural heritage to a right to cultural heritage, as a fundamental right.

Keywords: Religious Cultural Heritage; Cultural Goods; Faro Convention; Common Goods.

1. La Convenzione di Faro e il patrimonio culturale

Il presente contributo intende mettere in luce alcune delle questioni più rilevanti, da una prospettiva giuridica, sottese agli obiettivi dal Piano nazionale della ricerca 2021-2027, che chiede di guadare alla “complessità del patrimonio culturale anche nelle sue componenti di sostenibilità sociale, economica, ambientale” [1], nella “direzione di un turismo sostenibile basato sul rispetto e la valorizzazione dei luoghi, dei paesaggi, del patrimonio immateriale radicato nelle comunità locali” [2], coniugando sviluppo, dimensione sociale e giustizia ambientale.

Nell’ordinamento giuridico italiano si avverte sempre più l’esigenza di una reimpostazione metodologica della disciplina che segni il passaggio da un diritto del patrimonio culturale (le norme che regolano la materia) ad un diritto al patrimonio culturale (un diritto fondamentale che si struttura come diritto soggettivo [3]), soprattutto alla luce della ratifica della c.d. Convenzione di Faro (2005), tramite la legge n. 133 del 2020.

Tale processo presuppone, innanzitutto, la necessità di spostare il baricentro della riflessione giuridica e della disciplina normativa dalle accezioni “analitiche” di bene culturale e di bene ambientale e paesaggistico [4] ad una nozione unitaria [5] di patrimonio culturale. Ciò non tanto come nozione di principio, inserita o da inserire in alcune disposizioni generali ma, ancor di più, quale base normativa su cui (ri)definire l’intero impianto in materia. Considerare in maniera unitaria il patrimonio culturale, quale l’insieme dei beni culturali e dei beni paesaggistici - sia mobili che immobili - nella duplice dimensione, materiale e immateriale, significa analizzare e definire strumenti normativi che realizzano una gestione integrata del patrimonio culturale, in relazione allo sviluppo sostenibile dei territori e ai processi di partecipazione democratica alla cultura [6], nel rispetto del principio di non-discriminazione. Infatti, tra gli obiettivi generali del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), alla misura 3 “Turismo e cultura 4.0” della missione 1 “Digitalizzazione, innovazione, competitività e turismo”, si fa riferimento anche alla “modernizzazione delle infrastrutture materiali e immateriali del patrimonio storico artistico”, alla “rimozione di barriere fisiche e cognitive al patrimonio”, alla rigenerazione dei borghi e delle periferie urbane “attraverso la promozione della partecipazione alla cultura, il rilancio del turismo sostenibile, della tutela e valorizzazione dei parchi e giardini storici” nonché alla “ripresa dell’industria turistica culturale e creativa”.

Tra le sfide più significative che riguardano il patrimonio culturale vi è quella di fare in modo che per i gruppi sociali, anche per quelli portatori di interessi religiosi, si possa effettivamente parlare di “comunità patrimoniale”. Una locuzione, quest’ultima, introdotta nel nostro ordinamento con la Convenzione di Faro, ma i cui tratti distintivi e pratici, tanto sul piano normativo quanto su quello istituzionale, non sono ancora facilmente identificati e identificabili.

Nella traduzione non ufficiale del testo della Convenzione, predisposta dall’allora ministero Bei beni e delle Attività culturali e del Turismo (Mibact), oggi ministero della Cultura (Mic) [7], l’espressione “cultural heritage” aveva assunto il significato, in lingua italiana, di “eredità culturale” e da qui, l’innovativa idea della “heritage community” era diventata la “comunità di eredità”. Sul punto, era stato precisato come tale scelta fosse stata dovuta al fine di “evitare confusioni o sovrapposizioni con la definizione di patrimonio culturale di cui all’art. 2 del Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 - Codice di beni culturali e del paesaggio” [8]. Pur dovendo essere evidente che quella stessa “battaglia di concetti” rintracciata da Frigo nel diritto internazionale a proposito della disciplina giuridica del patrimonio culturale [9] avrebbe finito (come effettivamente è stato) per inverarsi ormai nell’ordinamento interno, si era portati a ritenere che sarebbe stato sufficiente l’utilizzo di un lemma differente per conciliare due (diverse) posizioni intervenenti su uno stesso concetto in un medesimo spazio ordinamentale (con una traduzione che peraltro aveva assunto una chiara connotazione “politica” [10]).

In realtà, in sede di ratifica e di esecuzione della Convenzione, il nostro legislatore è parso più accorto. Così nella legge n. 133 del 2020 la corrispondenza italiana di “cultural heritage” è esattamente quella di “patrimonio culturale”. In tal modo, vi è l’introduzione, della “comunità patrimoniale”.

Nell’ordinamento italiano possiamo ora rintracciare, quindi, almeno due definizioni di patrimonio culturale.

La prima è inserita in una norma di rango internazionale (e ciò conferisce ad essa un carattere maggiormente garantista [11]), l’art. 2, lett. a), della Convenzione di Faro:

il patrimonio culturale è un insieme di risorse ereditate dal passato che alcune persone considerano, a prescindere dal regime di proprietà dei beni, come un riflesso e un’espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni in continua evoluzione. Esso comprende tutti gli aspetti dell’ambiente derivati dall’interazione nel tempo fra le persone e i luoghi”.

La seconda è contenuta in legge di rango ordinario, cioè l’art. 2 del Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lg. n. 42 del 2004, e successive modificazioni; c.d. Codice Urbani), rubricato esattamente come “Patrimonio culturale”.

“1. Il patrimonio culturale è costituito dai beni culturali e dai beni paesaggistici.

2. Sono beni culturali le cose immobili e mobili che, ai sensi degli articoli 10 e 11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà.

3. Sono beni paesaggistici gli immobili e le aree indicati all’articolo 134, costituenti espressione dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio, e gli altri beni individuati dalla legge o in base alla legge.

4. I beni del patrimonio culturale di appartenenza pubblica sono destinati alla fruizione della collettività, compatibilmente con le esigenze di uso istituzionale e sempre che non vi ostino ragioni di tutela”.

Con la ratifica della Convenzione di Faro, entra nel nostro ordinamento quell’accezione ampia di “cultural heritage” declinata, in termini ormai acquisiti, a livello sovranazionale e internazionale [12]. Il punto è comprendere in che misura tale nozione di patrimonio culturale, considerata “dinamica” e “antropologica” [13], vada ad incidere sulla disciplina del Codice.

Non può sfuggire all’interprete del diritto che la definizione di Faro ha un carattere generale: vale a dire, afferma che cos’è il patrimonio culturale, nella sua unitarietà; mentre la definizione del Codice ha un carattere descrittivo, analitico: indica le categorie di beni che, in base alla legge italiana, assunta la qualifica di “beni culturali” o di “beni paesaggistici”, compongono il patrimonio culturale (la sola declinazione generale che rintracciamo nella norma di cui all’art. 2 del Codice è, al comma 2, la clausola “aperta” di “testimonianza avente valore di civiltà”, in riferimento ai beni culturali, com’è noto nata in seno alla Commissione Franceschini).

In questo senso, le due definizioni si affiancano, senza sovrapporsi, l’una all’altra [14]. Ma il problema di fondo rimane. Ed è proprio l’adeguamento del diritto interno agli obblighi internazionali, per evitare il rischio che i principi affermati a Faro non trovino “alcuna reale ricaduta nella legislazione nazionale e nell’organizzazione della tutela” [15].

Peraltro, è ciò che è purtroppo avvenuto nel 2008 con l’introduzione nel Codice dell’art. 7-bis rubricato “Espressioni di identità culturale collettiva”, tramite il d.gls.vo n. 62 del 2008, per adeguare la normativa interna alle Convenzioni UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e per la protezione e la promozione delle diversità culturali, del 2003 e del 2005. Una disposizione che, pur richiamando l’attenzione sulla tutela dei beni immateriali, ha comportato e comporta non pochi problemi di natura interpretativa e applicativa [16]. Infatti, nella disposizione permane il riferimento alla necessaria testimonianza “materiale”, al punto che ad essere tutelati sono - in un’ultima analisi - quei beni materiali espressione delle identità culturali collettive, in relazione alle condizioni di applicabilità dell’art. 10 del Codice. Peraltro, uno dei maggiori elementi di criticità risiede nella scelta ritenere possibile adattare ai beni non-corporali un impianto normativo pensato, nella ratio delle norme, per beni “materiali”.. Insomma, nel 2008, in maniera quasi gattopardesca [17], è stata modificata la forma, “lasciando di fatto inalterate le istituzioni, i ruoli, le procedure” [18], come ha rilevato la stessa dottrina: “dato che l’Italia doveva recepire queste convenzioni, si sono messe lì due frasette niente altro che per salvare la forma, dopodiché il Codice è rimasto, piò o meno, una riedizione della legge del 1902” [19]. Da un lato, quindi, l’odierna coscienza giuridica è matura al punto da riconoscere l’esigenza della tutela e della valorizzazione non soltanto dei beni materiali, ma anche di quei beni che sono immateriali, intangibili, demoetnoantropologici, ma, dall’altro lato, nell’ordinamento interno sembrano mancare gli strumenti operativi a tale scopo

La ratifica della Convenzione di Faro ai nostri giorni impone un ripensamento non più rinviabile della disciplina normativa del patrimonio culturale, in cui venga superata ormai l’impianto prevalentemente fondato su una tradizione giuridica che guarda al “bene” come “res corporalis” e alla sua intrinseca materialità [20]. È necessario lo sviluppo di un “quadro giuridico (...)” (art. 11), che tenga in debito conto:

a) il ruolo della (e delle) comunità patrimoniale/i costituita/e “da persone che attribuiscono valore a degli aspetti specifici del patrimonio culturale, che esse desiderano, nel quadro di un’azione pubblica, sostenere e trasmettere alle generazioni future” (art. 2, lett. b);

b) l’effettività di un “diritto al patrimonio culturale”, quale diritto fondamentale, enfatizzandone i momenti dell’accesso e della fruizione, tanto individuale quanto collettiva;

c) il valore del patrimonio culturale come “risorsa sia per lo sviluppo sostenibile che per la qualità della vita, in una società in costante evoluzione” (Preambolo), nonché “nella costruzione di una società pacifica e democratica, nei processi di sviluppo sostenibile nella promozione della diversità culturale” (art. 1). Se i beni del patrimonio sono a fondamento dell’identità dei popoli, ci dobbiamo adoperare affinché il patrimonio culturale, in quanto fondamento di identità, sia interpretato quale occasione e fonte del dialogo, della convivenza e della comprensione tra i popoli, nel prisma del valore della diversità delle culture, anche alla luce degli strumenti propri del diritto internazionale e, in particolare, delle convenzioni Unesco. Nella materia dei beni culturali si avverte così la necessità di trovare soluzioni normative per coniugare la prospettiva global con quella local, guardando ad una identità inclusiva [21].

2. Il patrimonio culturale di rilevanza religiosa e la sua specificità

Il discorso che abbiamo svolto nel primo paragrafo vale - e non potrebbe essere altrimenti - anche per il patrimonio culturale religioso, cioè per quel patrimonio che incorpora valori religiosi o, diffusamente, spirituali, molto più ampio, come categoria, dell’insieme dei beni culturali di interesse religioso [22], la cui nozione è da rintracciare nell’art. 9 del Codice Urbani che dà rilevanza ai criteri dell’appartenenza (la titolarità giuridica in capo ad un ente ecclesiastico o religioso) e a quello finalistico (le esigenze di culto). Mentre, è evidente che il riferimento alle “credenze”, inserito nella richiamata definizione di cui all’art. 2 la Convenzione di Faro, ha a che fare con le ragioni, i motivi, alla base del patrimonio culturale di rilevanza religiosa.

La specificità del patrimonio culturale religioso risiede nella qualità di incorporare nella testimonianza di civiltà, che esso rappresenta, la sussistenza di valori spirituali. In questa prospettiva, i beni materiali e immateriali non solo hanno un valore culturale, storico ed estetico, ma assumono altresì un significato spirituale. È evidente quindi che accanto al giudizio storico e al giudizio estetico, interviene, in questo caso, l’implicazione di un giudizio sulla rilevanza del bene per la comunità di fede. Vale a dire, sulle potenzialità del bene quale strumento per il raggiungimento dei fini spirituali che persegue il gruppo religioso.

Stiamo parlando di beni che:

a) sono strumentali ai gruppi di fede per la realizzazione di obiettivi spirituali e, quindi, trasmettono valori religiosi;

b) hanno potenzialità economiche (ad es., i percorsi turistico - religiosi);

c) realizzano una funzione di integrazione sociale, in forma identitaria, cioè modellano “l’assetto dei rapporti comunitari in un dato contesto territoriale, che si riconosce intorno alla presenza fisica di particolari vestigia artistiche spiritualmente caratterizzanti” [23].

Inoltre, abbiamo già accennato, nel paragrafo precedente, ai beni immateriali. È importante distinguere tra la dimensione immateriale del patrimonio e l’immaterialità del valore del bene oggetto di tutela [24]. Gli ordinamenti giuridici si preoccupano di quel bene, tanto da renderlo oggetto di una specifica protezione normativa, in relazione alla immateriale funzione culturale che quel bene presiede. Nel caso, poi, dei beni culturali religiosi, la funzione “culturale” è ancor di più specificata da quella spirituale. Non rispondiamo, in questa sede, alla domanda se il valore culturale sia connaturato e meglio specificato dal valore spirituale o se, più semplicemente, il valore spirituale si aggiunga, quasi sommandosi, al valore culturale. Ci limitiamo a precisare come il valore culturale e quello spirituale insistono, nelle loro specificità, pure sui beni ambientali [25], e che questi due valori non devono essere considerati in maniera atomistica l’uno rispetto all’altro.

Alla luce di queste considerazioni, si comprende la necessità di definire una griglia normativa entro la quale definire il patrimonio culturale religioso in relazione agli interessi e ai fini della Convenzione di Faro.

Uno snodo fondamentale è certamente rappresentato dalla nozione di patrimonio culturale come bene comune [26]. Infatti, la costruzione della materia sulla base del criterio dominicale [27] ne determina anche il regime di fruizione da parte della collettività. A norma dell’art. 2 del Codice “Urbani”, come si è visto, il patrimonio culturale è “costituito dai beni culturali e dai beni paesaggistici” (comma 1) e detti beni - i quali sono “individuati dalla legge o in base alla legge” (ai sensi del comma 2 e comma 3) - qualora siano di “appartenenza pubblica” sono “destinati alla fruizione della collettività, compatibilmente con le esigenze di uso istituzionale e sempre che non vi ostino ragioni di tutela” (comma 4).

La correlazione tra appartenenza pubblica (del bene) e fruizione della collettività dà conto della logica che presiede la materia nell’ordinamento giuridico italiano, basata sulla dicotomia tra beni culturali di pertinenza pubblica e beni appartenenti ai privati. La destinazione dei beni alla fruizione della collettività è garantita soltanto per i beni di pertinenza pubblica, tranne che - a norma dell’art. 104 c.b.c.p. - per alcune tipologie di beni immobili che presentano interesse “eccezionale”, anche se la stessa valorizzazione dei beni di proprietà privata, persino nelle forme del sostegno pubblico, rimane soggetta all’iniziativa privata, ex art. 113 c.b.c.p.

La proposta di articolato della Commissione Rodotà per la modifica delle norme del Codice civile in materia di beni pubblici inseriva i beni culturali e ambientali all’interno della categoria dei beni comuni, cioè di quelle “cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona” (art. 1 c. 3 lett. c) [28]. Tale proposta avrebbe permesso di costruire una categoria di beni al di là della dicotomia tra pubblico e privato [29], a beneficio pure degli studi nel settore del diritto ecclesiastico e canonico [30]. Ciò non ha poi trovato un approdo legislativo, sebbene nelle scienze economiche e sociologiche abbia sempre più rilevanza la categoria dei cultural commons [31], rispetto alla quale il diritto vigente fatica a stare al passo. Probabilmente è comunque vero che la commissione Rodotà “non ha saputo produrre legge, ma ha prodotto diritto” [32], in quanto ha permesso di avviare una serie di riflessioni in ambito giuridico per una “rilettura” degli istituti tradizionali a partire dalla teoria (e dalla prassi) dei beni comuni.

3. Dall’ordinamento canonico un interessante caso-studio: il Parco Culturale Ecclesiale

Quale esperienza specifica maturata in seno all’ordinamento della Chiesa cattolica è interessante soffermarsi sul Parco Culturale Ecclesiale (PCE). Il progetto, sviluppato dall’Ufficio Nazionale della Conferenza Episcopale Italiana per la Pastorale del Tempo libero, Turismo e Sport - da un’idea di Giovanni Gazzaneo, coordinatore di “Luoghi dell’infinito”, il mensile del quotidiano “Avvenire” –, pare anticipare i valori e le prassi alla base della Convenzione di Faro [33]. Le prime Linee-Guida sono pubblicate nel 2016, mentre le seconde nel 2018 (quest’ultime sono preparate dopo un tavolo di confronto con l’Ufficio nazionale CEI per la Pastorale sociale e del lavoro, il Servizio nazionale di Pastorale giovanile, la Caritas italiana e il Progetto Policoro). Si avvia così il progetto “Bellezza e speranza per tutti”, al cui interno è ora ricompresa l’istituzione del PCE, con la predisposizione di un logo identificativo: il “Locus Luci”.

Il PCE si presenta quale “sistema territoriale che promuove, recupera e valorizza, attraverso una strategia coordinata e integrata il patrimonio liturgico, storico, artistico, architettonico, museale, ricettivo, ludico di una o più Chiese particolari” [34]. In tale contesto, la valorizzazione del patrimonio culturale religioso diventa un “presupposto irrinunciabile” per una inedita “pastorale integrata” del turismo religioso [35], con specifico riferimento al “turismo di comunità” [36].

Gli obiettivi [37] riguardano la presa di consapevolezza delle comunità locali a considerare l’evangelizzazione e lo sviluppo culturale quali paradigmi di sostenibilità economica e sociale, la valorizzazione dei beni culturali materiali e immateriali, la promozione di buone pratiche di custodia del creato, l’instaurazione di una relazione positiva tra comunità locali e migranti (“viandante, pellegrino, viaggiatore e turista”), il contributo alla realizzazione di filiere dell’accoglienza e dell’ospitalità, la messa in campo di presupposti per la nascita e lo sviluppo di start-up innovativi. D’altronde, il PCE guarda anche alla possibilità di realizzare prospettive professionali per le nuove generazioni, anche integrando i “gesti concreti” del progetto “Policoro”.

Dopo le Linee-Guida del 2018 sta emergendo il tentativo di istituzionalizzare il PCE nel prisma dei rapporti bilaterali tra regione ecclesiastiche e regioni civili, che già investono il settore dei beni culturali di interesse religioso [38]. Da qui, lo sforzo della Conferenza episcopale nazionale di favorire la stipula di protocolli d’intesa tra le Conferenze episcopali regionali e le regionali civili al fine di facilitare il riconoscimento e l’avvio di progetti del PCE, al punto da poter parlare di una nuova stagione della bilateralità pattizia [39], che potrebbe rendere necessaria un’interpretazione estensiva dell’art. 12 dell’Accordo del 1984 ed un aggiornamento dell’Intesa generale siglata nel 2005 tra CEI e Ministero per i Beni e le Attività culturali. Pur non riferendoci ad una propriamente giuridica, è importante soffermarci sul format del protocollo di intesa [40], predisposto dalla CEI, in quanto esso dà conto di una visione ecclesiale del patrimonio culturale che possiamo ritenere più avanzata rispetto a quella codificata nell’ordinamento giuridico italiano, aderendo ad un’accezione ampia di “cultural heritage” in linea con la normativa internazionale e sovranazionale.

I principi contenuti nella Convenzione di Faro, per quanto attiene al patrimonio culturale, sono così fatti propri e implementati nel progetto del PCE, tale da potersi proporre come paradigma di una reimpostazione della disciplina normativa del patrimonio culturale religioso. In effetti, può dirsi che il PCE risponde ad una logica “generativa”, più che “estrattiva” tipica delle forme mercantilistiche del diritto e della società [41].

Fa da sfondo a tale visione della disciplina giuridica del patrimonio culturale una dimensione “orizzontale” del rapporto tra diritto e religione [42], che conduce ad una presa di coscienza “dal basso” dell’importanza del patrimonio culturale per le comunità locali, al fine di valorizzare le dimensioni della sussidiarietà orizzontale e del terzo settore. Inoltre, emerge l’esigenza di un sempre maggiore impiego di strumenti normativi che il Codice prevede ma che, fino ad ora, sono stati poco adoperati nella pratica, come i “Piani strategici di sviluppo culturale” (art. 112) [43] e che concorrono all’effettiva realizzazione di una “comunità patrimoniale”.

 

Note

[*] Luigi Mariano Guzzo, ricercatore in Diritto ecclesiastico e canonico presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pisa, Via Curtatone e Montanara, 16, 56126, Pisa, guzzo.luigimariano@gmail.com

[**] Il presente contributo, sottoposto a valutazione, costituisce l’ampliamento dell’intervento presentato al Convegno nazionale OGIPAC “Il diritto dei beni culturali”, organizzato dall’Università degli Studi Roma Tre il 27 maggio 2021.

[1] Piano nazionale della ricerca 2021-2027, pag. 56.

[2] Ivi, pag. 58, articolazione 3.

[3] Sulla nozione di diritto fondamentale come diritto soggettivo si rinvia, per tutti, a M. La Torre, Disavventure del diritto soggettivo. Una vicenda teorica, Giuffrè, Milano, 1996; A. Facchi, Breve storia dei diritti umani.

[4] Pensiamo soltanto alla denominazione del Codice dei beni culturali e del paesaggio, il d.lg. n. 42 del 2004, c.d. Codice “Urbani”.

[5] Vedi A.L. Tarasco, Il patrimonio culturale. Modelli di gestione e finanza pubblica, Editoriale Scientifica, Napoli, 2017, pag. 113.

[6] Il patrimonio culturale si conferma, quindi, quale strumento per il raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda Onu 2030 per lo Sviluppo Sostenibile. Il documento può essere letto in lingua italiana.

[7] La nuova denominazione del dicastero è stata assunta tramite l’art. 6 del d.l. n. 22 del 2021 convertito con modificazioni dalla legge n. 55 del 2021.

[8] Così come riportato in G. Volpe, Un patrimonio italiano. Beni culturali, paesaggio e cittadini, UTET, Novara, 2016, pag. 29.

[9] M. Frigo, Cultural property v. cultural heritage: A “battle of concepts” in international law?, in International Review of the Red Cross, n. 854/2004, pag. 367 ss. A proposito di questa «battaglia di concetti», nella Convenzione dell’Aja del 1954, fin dal suo titolo, ciò che in italiano, francese o spagnolo è stato tradotto come “beni culturali”, in inglese è definito come “cultural property”. Mentre il patrimonio culturale viene definito in lingua inglese come “cultural heritage”. Ciò consente di definire meglio i termini della questione. Perché “cultural property” esprime una nozione diversa da quella di “cultural heritage”. Eppure, nel diritto internazionale le nozioni di “cultural property” e “cultural heritage” sono considerati quasi come se fossero equivalenti. Un ulteriore problema è che “cultural property” viene generalmente tradotto, anche a livello ufficiale (la Convenzione dell’Aja lo dimostra) con espressioni simili a quelle che nei diritti domestici vengono utilizzati per indicare la categoria analitica di beni culturali. Ma si tratta di concetti che non possono che esprimere significati tendenzialmente differenti: cultural heritage indica il patrimonio culturale, come insieme dei beni culturali e dei beni ambientali, nella dimensione materiale e in quella immateriale, in maniera “olistica”; cultural property è l’insieme di quei beni che unitariamente identifichiamo con la nozione di beni culturali; cultural goods, cioè i beni culturali, riguarda una categoria che indica, in maniera analitica, i singoli beni che sono oggetto di tutela specifica. Per capire meglio, la nozione di cultural property è più vicina all’espressione di patrimonio storico-artistico che utilizza la Costituzione italiana. Sia chiaro che, in un’ottica di interpretazione evolutiva delle disposizioni, tanto il concetto di cultural property quanto quello di patrimonio storico e artistico, non possono che comprendere anche le espressioni intangibili della cultura dei popoli. Da giuristi, sociologi o da operatori del settore non possiamo non avere in mente una simile distinzione, almeno a livello teorico. Ciò perché nella pratica, considerato che queste nozioni sono utilizzate in maniera quasi indifferente, poco tecnica, ci troviamo dinnanzi ad una “battaglia” tra concetti, nel diritto internazionale come nel diritto domestico. Senza i tentativi di una traduzione interculturale delle nozioni, si rischia di provocare asimmetrie funzionali nei rapporti commerciali a livello internazionale e transnazionale.

[10] Cfr. V. Manzetti, Il patrimonio culturale immateriale tra ordinamento internazionale, europeo e nazionale. Spunti dall’esperienza spagnola, in Nomos, 2018, 3, pag. 8.

[11] Si ricorda che a norma dell’art. 117, comma 1, Cost., “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.

[12] Cfr. C. Barbati, M. Cammelli, L. Casini, G. Piperata, G. Sciullo, Diritto del patrimonio culturale, Il Mulino, Bologna, 2017, pag. 16.

[13] Così A. Gualdani, L’Italia ratifica la convenzione di Faro: quale incidenza nel diritto del patrimonio culturale italiano?, in Aedon, 2020, 3.

[14] Ibidem.

[15] Volpe, Un patrimonio italiano. Beni culturali, paesaggio e cittadini, cit., pag. 33.

[16] Sul tema si rimanda a A. Fabbri, Alcune considerazioni sul contributo fornito dal patrimonio culturale religioso ad una identità fideistica di appartenenza, in Ordines, 2021, 2, pag. 194 ss.

[17] La lezione di Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel suo Gattopardo rimane sempre attuale: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Vedi G. Tomasi Di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli, Milano, 2002, pag. 50 (prima edizione: 1957).

[18] Volpe, Un patrimonio italiano. Beni culturali, paesaggio e cittadini, cit., pag. 33.

[19] M. Montella, La “Convenzione di Faro” e la tradizione culturale italiana, in P. Feliciati (a cura di), La valorizzazione dell’eredità culturale in Italia. Atti del convegno di studi in occasione del 5° anno della rivista, Il Capitale Culturale. Studies on the Value of Cultural Heritage, n. 2016, 5, pag. 15.

[20] Tant’è che la legge Bottai (l. n. 899 del 1939) non faceva riferimento alla dizione di beni culturali (storicamente, il concetto non era ancora entrato nel linguaggio del diritto...), bensì utilizzava l’espressione di “cose d’arte” Il termine “cosa” ancor di più rimarcava la dimensione corporale, materiale, del bene.

[21] Non è un caso, a riguardo, che il momento genetico dell’evoluzione normativa della moderna categoria dei beni culturali è da rintracciare nel diritto umanitario, con la Convenzione dell’Aja del 1954. Purtroppo, è ricorrente nella storia l’opera di distruzione delle opere e dei beni culturali della civiltà di un popolo a seguito di conflitti bellici. Pensiamo, soltanto per fare un esempio a noi recente, alla distruzione del patrimonio culturale iracheno da parte del sedicente Stato islamico. L’Unesco nel 2015 ha promosso “Unite4Heritage”, un movimento globale che mira alla tutela del patrimonio culturale e delle diversità artistiche a livello mondiale, un’iniziativa nata come risposta alla distruzione da parte dell’Isis a diverse e inestimabili opere d’arte in Medioriente.

[22] Sul tema la letteratura è molto ampia. Si segnalano, in particolare, F. Margiotta Broglio, Commento all’art. 9. Beni culturali di interesse religioso, in Il Codice dei Beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M. Cammelli, Il Mulino, Bologna, 2004, pag. 84 ss.; A.G. Chizzoniti, Profili giuridici dei beni culturali di interesse religioso, Tricase, Libellula, 2009; N. Colaianni, La tutela dei beni culturali di interesse religioso tra Costituzione e convenzioni con le confessioni religiose, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 2012, 21; E. Camassa, I beni culturali di interesse religioso. Principio di collaborazione e pluralità di ordinamenti, Torino, Giappichelli, 2013; A.G. Chizzoniti - A. Gianfreda, Conservazione, valorizzazione e riuso dei beni culturali ecclesiastici. La disciplina di diritto ecclesiastico italiano, in Aedon, 2021, 3.

[23] Cfr. M. Parisi, Diritto pattizio e beni culturali di interesse religioso, Editoriale Scientifica, Napoli, 2017, pag. 9.

[24] Cfr. A.L. Tarasco, Il patrimonio culturale. Beni culturali, paesaggio e cittadini, cit., pagg. 28-29.

[25] Mi sono occupato della tutela nell’ordinamento giuridico dei siti sacri naturali, parlando della categoria dei beni naturali di interesse religioso, in L.M. Guzzo, La tutela dei luoghi sacri naturali: valori spirituali e patrimonio bioculturale nell’ordinamento giuridico italiano, in P. Consorti (a cura di), Costituzione, religione e cambiamenti nel diritto e nella società, Pisa University Press, Pisa, 2019, pag. 367 ss.

[26] Cfr. V. Di Capua, La Convenzione di Faro. Verso la valorizzazione del patrimonio culturale come bene comune?, in Aedon, 2021, 3.

[27] Cfr. P. Marzaro, Gli edifici di culto di proprietà privata: condizione giuridica e ipotesi di valorizzazione, Libellula, Tricase (Le), 2017, pagg. 92-94.

[28] Commissione Rodotà, Elaborazione dei principi e criteri direttivi di uno schema di disegno di legge delega al Governo per la novellazione del Capo II del Titolo I del Libro III del Codice Civile nonché di altre parti dello stesso Libro ad esso collegate per le quali si presentino simili necessità di recupero della funzione ordinante del diritto della proprietà e dei beni, 14 giugno 2007.

[29] Cfr., sul tema, per tutti, U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Laterza, Roma-Bari, 2012.

[30] In dottrina è stato sottolineato come la categoria dei beni comuni possa aiutare a meglio delineare la natura delle fabbricerie. Vedi P. Consorti, La natura giuridica delle fabbricerie alla luce della riforma del Terzo Settore, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 2019, 32, pagg. 61-62.

[31] Cfr. M.J. Madison, B.M. Frischmann, K.J. Strandburg, Constructing commons in the cultural environment, in Cornell Law Review, 2010, 95, pag. 657 ss.

[32] U. Mattei, Beni culturali, beni comuni, estrazione, in Patrimonio culturale. Profili giuridici e tecniche di tutela, (a cura di) E. Battelli, B. Cortese, A. Gemma, A. Massaro, Roma Tre-Press, Roma 2017, pag. 152.

[33] L’esperienza del PCE è stata oggetto di studio e di interesse da parte nell’edizione 2019 del Campus IUS/11 di Piacenza, organizzato dall’Associazione dei docenti universitari della disciplina giuridica del fenomeno religioso (Adec). Sia consentito rimandare a L.M. Guzzo, Il patrimonio culturale religioso come bene comune: l’esperienza dei Parchi e delle Reti culturali ecclesiali, in corso di pubblicazione.

[34] Ufficio nazionale C.E.I. per la pastorale del tempo libero, turismo e sport, Bellezza e Speranza per tutti. Parchi e Reti Culturali Ecclesiali: quando il Turismo diventa via di vita buona e speranza concreta, Roma 2018, par. 23.

[35] A.G. Chizzoniti - A. Gianfreda, Il turismo religioso: nuove dimensioni per la valorizzazione del patrimonio culturale, in Aedon, 2020, 2.

[36] Bellezza e speranza per tutti, cit., par. 23.

[37] Ivi, pagg. 39-40.

[38] Cfr., per tutti, A.G. Chizzoniti, Profili giuridici dei beni culturali di interesse religioso, cit., pag. 173 ss.

[39] Così A.G. Chizzoniti, A. Gianfreda, Il turismo religioso: nuove dimensioni per la valorizzazione del patrimonio culturale, cit.

[40] Può essere scaricato nella pagina web ufficiale dell’iniziativa.

[41] U. Mattei, Beni culturali, beni comuni, estrazione, cit., pag. 152 ss.

[42] Si segnala, a riguardo, P. Consorti, Diritto e religione. Basi e prospettive, Laterza, Roma-Bari 2020.

[43] È interessante, sul punto, l’intervento di F. Calabrò, Cultura, troppi i luoghi chiusi, in Il Quotidiano del Sud, 12 agosto 2021, pag. 24.

 

 



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