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Patrimonio culturale e terzo settore

Tutela e valorizzazione del patrimonio culturale cattolico e terzo settore. Il ramo Ets si o no? [*]

di Rita Benigni

Sommario: 1. Terzo settore ed enti religiosi. - 2. Il ramo Ets dell'ente religioso civilmente riconosciuto nel d.lg. 117/2017. - 3. La cura del patrimonio cattolico tra finalità cultuale-religiosa ed attività di interesse generale. Le scelte dell'ente: il ramo Ets sì o no? - 4. La cooperazione con soggetti esterni di terzo settore ed il caso "fabbricerie".

Protection and enhancement of Catholic cultural heritage, and Third Sector
The protection and enhancement of cultural heritage carried out by the entities of the Catholic Church, recognized ex l. 222/1985, benefits from the Code of the Third Sector if an ETS branch is formed (art. 4.3 d.lg. 117/2017). However, the formation of branch is not obvious. The Catholic entities will have to assess the structural feasibility of branch, and its impact on the canonical mission. In particular, the entity will have to consider that the Catholic cultural heritage is linked to liturgical, catechetical, pastoral purposes, and its protection and enhancement are institutional aims for the Church. For entities, the possibility remains of using external operators (classified in the Third sector).

Keywords: Protection and Enhancement of Catholic Heritage; No Profit; Third Sector Code; Religious Entities; Branch of Ets.

1. Terzo settore ed enti religiosi

Il terzo settore riunisce una realtà associativa ed imprenditoriale impegnata in diversi ambiti del sociale, connotata da finalità no profit e cresciuta nelle maglie di una normativa disorganica sulla quale è intervenuto il Codice del terzo settore, d.lg. 3 luglio 2017, n 117 (di seguito Cts). Quest'ultimo è l'approdo di un percorso avviato sul finire del Novecento, volto a ridare piena dignità normativa a quel complesso di attività, personali e collettive, dirette a tutelare, valorizzare e promuovere una spinta solidarista, allargatasi negli anni a tanti settori della società italiana, compresa la tutela dei beni culturali.

L'impianto normativo del cosiddetto no profit [1] ha incluso da subito gli enti religiosi tra i destinatari dei benefici, richiamando più precisamente gli enti ecclesiastici e quelli collegati alle confessioni con le quali lo Stato ha stipulato Patti, Accordi e Intese, una formulazione, quest'ultima, che conservava una diffidenza verso realtà non strutturate, superata dalla dizione di enti religiosi civilmente riconosciuti utilizzata dal Cts [2].

A tali soggetti si è assegnato un trattamento diversificato rispetto agli altri operatori del no profit, al fine di coordinare la normativa premiale sul privato sociale con la specialità già assegnata all'ente religioso. La Costituzione riconosce infatti alle confessioni religiose l'autonomia istituzionale iscritta nell'art. 8, co. 2 e rinforzata dalle norme pattizie, che ribadiscono la libertà del Culto sottoscrivente l'Intesa di organizzarsi secondo i propri Statuti e senza ingerenze dello Stato.

Tale principio di autonomia assegna all'ente religioso, sia esso organismo di governo che corpo sociale nato per impulso dei fedeli, una tutela identitaria, sia sotto il profilo strutturale che teleologico. Una specialità che si concretizza nella rilevanza civile della normativa interna confessionale per le attività di religione e di culto, e nell'applicazione del diritto comune alle attività diverse, nel rispetto delle finalità e della struttura dell'ente. Nel caso cattolico tale specialità é annessa alla qualifica di ente ecclesiastico civilmente riconosciuto, che trova compiuta regolazione nelle disposizioni concordatarie, ed in particolare, quanto al fine, negli artt. 2, 15 e 16 della legge 20 maggio 1985, n. 222, "Disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici in Italia e per il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi".

Per tali norme l'ente ecclesiastico civilmente riconosciuto deve perseguire un fine di religione e di culto, costitutivo ed essenziale, la cui esistenza dipende dallo svolgimento in via prevalente di una delle attività indicate all'art. 16, lett. a) [3]. Le altre attività, cosiddette extra-ecclesiastiche ed elencate alla lett. b) in modo non esaustivo, possono svolgersi solo in via secondaria; laddove esse divenissero primarie l'ente perderebbe le garanzie connesse al regime concordatario [4]. Le attività annoverabili tra le extra-ecclesiastiche agli effetti della legge 222/1985, assorbono quelle definite di interesse generale dalla normativa no profit, le quali, però, per godere dei previsti benefici devono essere prevalenti o esclusive (art. 5 comma 1, d.lg. 117/2017). La combinazione delle due normative genera così un'empasse, laddove le medesime attività sono secondarie per la normativa pattizia e primarie per quella no profit. E così per consentire all'ente religioso di avvalersi delle premialità assegnate al privato sociale, senza perdere la specialità derivante dalla sua natura religiosa, il legislatore, già nel 1997 [5], ha creato il ramo Onlus, ridefinito oggi ramo Ets. In esso potranno essere conferite le attività di interesse generale ammesse ai benefici del terzo settore, che il ramo dovrà svolgere in via primaria e nel rispetto delle regole dettate dal Cts.

La normativa di terzo settore apre quindi indubbi vantaggi, e tuttavia la scelta di avvalersene richiederà al singolo ente di valutare, accanto ai benefici, i costi del ramo, in termini di impatto sulla propria struttura e dotazione patrimoniale e, ancor prima, sulla propria identità e ragion d'essere ecclesiale. Dal punto di vista confessionale, infatti, se è vero che le attività definite extra-ecclesiastiche o di interesse generale dalla normativa civile "in linea di massima non sono istituzionali" [6], esse tuttavia possono anche sostanziare una finalità religiosa primaria per il Culto e per il singolo ente [7]. In tal caso per l'ente potrebbe essere preferibile, se non addirittura necessario, non staccare da sé l'attività, e non avvalersi della normativa Ets, tanto più considerate le innovazioni apportate dal Cts. Il d.lg. 117/2017, infatti, disciplina il ramo nel senso di una separazione dall'ente più decisa, rinforzandone l'autonomia strutturale e patrimoniale. Si tratta, come meglio vedremo, di una separazione che, rispetto al passato, può cambiare le scelte finali dell'ente circa la veste giuridica civilistica con cui agire.

Le valutazioni finalistiche e strutturali di cui sopra investono tutti gli enti religiosi civilmente riconosciuti, compreso quello cattolico, e più di una attività di interesse generale, inclusa la tutela e la valorizzazione del bene culturale. Per quest'ultima l'ente cattolico, in particolare, dovrà considerare che la cura, la fruizione e la valorizzazione del proprio patrimonio culturale rientrano nelle finalità istituzionali della Chiesa, laddove è spesso impossibile distinguere la valenza religiosa del bene, dalla sua qualifica civilistica di patrimonio culturale [8]. Sotto il profilo strutturale, accanto alle criticità valide per le altre attività di interesse generale, potrà ulteriormente incidere la frammentazione della proprietà, i beni culturali cattolici sono infatti in mano ad un notevole numero di enti, talora di modeste dimensioni, non sempre in grado di strutturare un ramo Ets.

L'ente cattolico posto innanzi alla possibilità di avvalersi della disciplina premiale del Cts potrà quindi scegliere di conferire la di tutela e la valorizzazione del proprio patrimonio culturale in un ramo Ets oppure restare soltanto un ente ecclesiastico civilmente riconosciuto, e godere, anche per tali attività, dei benefici fiscali comunque annessi alla propria natura di ente non commerciale. In ogni caso, infine, ci si potrà avvalere della cooperazione di altri enti esterni operanti nel terzo settore, una collaborazione che, nell'esperienza cattolica, è già particolarmente sviluppata ed indubbiamente vantaggiosa per la tutela e la valorizzazione dell'immenso patrimonio della Chiesa.

2. Il ramo Ets dell'ente religioso civilmente riconosciuto nel d.lg. 117/2017

Il d.lg. 117/2017, non a caso definito Codice, mira a far ordine tra i diversi soggetti già ammessi a godere del regime promozionale del no profit, ridefinendo i rapporti di complementarietà tra Stato, terzo settore e mercato [9]. In riferimento all'ente religioso civilmente riconosciuto, nel più ampio quadro di un irrobustimento di limiti e controlli che restringono l'autonomia di tutti i soggetti Ets, il Codice supera la configurazione essenzialmente fiscale e contabile del ramo, trasformandolo in un'entità a sé stante. Tra gli obblighi confermati, già previsti per il ramo Onlus [10], non crea particolari problemi la tenuta di una contabilità separata per le attività di interesse generale; va invece nel senso di una più marcata distinzione il contenuto del Regolamento. Esso andrà adottato per atto pubblico o scrittura privata autenticata e dovrà individuare gli organi di amministrazione del ramo sociale (artt. 24-28), irrobustire la trasparenza nei bilanci (artt. 13-15 e 31) e prevedere procedure di monitoraggio, vigilanza e controllo, non solo interne (art. 92 ss).

Gli interventi richiesti possono rendere gli assetti organizzativi più efficienti, assicurare la sostenibilità delle opere nel tempo e tutelare i beni ecclesiastici, e così costituire una opportunità per l'ente [11], il quale ha tutto l'interesse a tenere distinta la propria responsabilità, soprattutto patrimoniale, dall'azione del ramo e dai suoi creditori. Si tratta del resto di un impegno di maggior trasparenza e responsabilità nella gestione dei beni temporali, che trova concorde il legislatore canonico [12], e che, nella vigenza del precedente regime, ha talora portato a precisare nel Regolamento quali beni fossero impegnati nell'attività sociale, ed anche a quali condizioni. Ciò nonostante, tali cautele, trasformate in adempimenti obbligatori, possono creare più di una difficoltà, soprattutto alle realtà minori. Particolarmente delicata sarà in tal senso la creazione di un patrimonio destinato all'attività di interesse generale svolta [13], non previsto in precedenza. Tale figura giuridica è infatti ignota al diritto della Chiesa e di difficile traduzione canonica, tanto che alcuni autori ritengono possibile un riferimento alla fondazione non autonoma [14], mentre altri negano tale riferibilità essendo quest'ultimo un istituto pensato per fattispecie differenti [15], il quale presenta, peraltro, maggiore analogia con un altro strumento civilistico, il patrimonio destinato ad uno specifico affare (artt. 2447-bis e ss., c.c.).

A questo primo scoglio segue la difficile individuazione dei beni da distaccare in modo definitivo, considerato il confermato obbligo di devoluzione del patrimonio residuo ad altro Ets, in caso di scioglimento. Per il diritto canonico, infatti, tutti i beni funzionali alle finalità di religione e di culto, in via diretta o indiretta, formano il patrimonio stabile (can. 1292, CIC) [16] ed in quanto essenziali all'esistenza dell'ente non potranno essere recisi in favore del ramo sociale. La valutazione da parte dei responsabili dell'ente circa la coessenzialità del bene richiederà pertanto particolare cautela, e nel caso di consistenze patrimoniali limitate potrà ostare alla formazione stessa del ramo. Da ultimo, occorrerà verificare la sostenibilità finanziaria dell'ente all'esito del distacco dell'attività, tenuto conto dell'obbligo di riutilizzo dei proventi nella medesima attività sociale, ragion per cui, come già per le Onlus, essi non potranno essere impiegati per coprire le spese generali dell'ente.

Insomma, la scelta di dar vita ad un ramo Ets per lo svolgimento di attività di interesse generale, come si diceva, non è scontata, tanto più per gli enti di piccole dimensioni dalle risorse umane e patrimoniali limitate. Di volta in volta essi dovranno valutare se rimanere nello schema dell'ente ecclesiastico civilmente riconosciuto oppure avvalersi della soggettività civile nelle sue varie configurazioni, tenuto anche conto della natura delle attività poste in essere [17].

3. La cura del patrimonio cattolico tra finalità cultuale-religiosa ed attività di interesse generale. Le scelte dell'ente: il ramo Ets si o no?

Il codice del terzo settore conferma tra le attività di interesse generale "gli interventi di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale e del paesaggio, ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modifiche" (art. 5 lett. f), già inseriti tra le attività sociali dalla normativa sulle Onlus [18]. Tale richiamo ha aperto un importante canale tra mondo no profit ed enti cattolici, nella misura in cui grande parte del patrimonio culturale italiano appartiene alla Chiesa cattolica ed è legato alla sua storia [19].

L'ente cattolico, tuttavia, davanti alla scelta di avvalersi o meno del Cts per la tutela e la valorizzazione dei propri beni soggetti al d.lg. 42/2004 [20], per quanto già detto, accanto alle agevolazioni accordate all'ente di terzo settore [21], dovrà valutare la fattibilità strutturale del ramo e la sua incidenza sulle finalità istituzionali. Più ancora, quando fosse necessario a preservare la propria identità, esso dovrebbe resistere alle lusinghe di un diritto comune che sotto la spinta di premialità fiscali fa sì che le attività diverse occupino ormai uno spazio sempre maggiore nella vita dell'ente, tanto da far parlare di "autunno del fine di religione e di culto" [22] o di superamento della figura di ente ecclesiastico civilmente riconosciuto, come regolato dalle disposizioni concordatarie del 1984 [23].

In tale quadro, non sembra potersi dubitare del fatto che, per la Chiesa, la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale è una finalità religioso/cultuale, di natura quindi istituzionale. Se è vero infatti che in ogni bene culturale la res evapora lasciando emergere la valenza identitaria, simbolica, evocativa della cultura che rappresenta [24], ciò vale a maggior ragione per il patrimonio cattolico, il quale è fatto di edifici di culto, oggetti liturgici o devozionali, tra cui si ritrovano statue, dipinti, ma anche gioielli, abiti o mobili, frutto talora di ex voto; esso ricomprende altresì libri o documenti, luoghi di culto o della memoria, ed infine di beni immateriali: i riti tradizionali, i canti, i cibi e le bevande [25]. Tale cospicuo e variegato patrimonio è funzionale alle finalità cultuali e religiose in senso ampio, comprensive del culto, della catechesi ma anche dell'azione pastorale e di evangelizzazione. In tal senso, per gli Orientamenti in materia di Beni culturali, adottati dalla Conferenza Episcopale Italiana nel 1992 [26], "la maggior parte dei beni culturali ecclesiastici è stata creata e continua a far riferimento alla liturgia che ne costituisce la ragion d'essere"; spesso essi sono strumenti di catechesi e in genere possiedono un valore comunitario, laddove "stimolano una più diretta comunicazione tra i fedeli nella Chiesa e tra la Chiesa e il mondo circostante" [27].

Nello stesso orizzonte l'Istruzione in materia amministrativa, adottata dalla Cei nel 2005, ricorda che "solo in linea teorica è possibile distinguere la dimensione culturale di una chiesa da quella religiosa, perché di fatto i due aspetti sono inseparabili [28]. Mentre l'attenzione alla valenza dimensionale e funzionale del singolo bene, parte inscindibile del più ampio contesto storico, culturale ed ambientale che lo comprende, e che con esso condivide una finalità religiosa, appare evidente in alcune azioni promosse dalla Cei, come la istituzione di Parchi o Reti Culturali Ecclesiali lanciata nel settembre 2018. Il Parco, infatti, "vuole essere un sistema territoriale che promuove, recupera e valorizza, attraverso una strategia coordinata e integrata il patrimonio liturgico, storico, artistico, architettonico, museale, ricettivo, ludico di una o più diocesi" [29], partendo dal presupposto - espresso nelle Linee Guida del progetto - che la Chiesa è chiamata ad offrire attraverso l'arte, gli ambienti architettonici e naturali, ed anche con le proprie tradizioni, degli spazi di senso e di significato, delle occasioni di preghiera, nonché percorsi di ricerca, di memoria viva e di trasmissione di valori. A fare insomma anche del turismo una "via di vita buona e speranza concreta", un'azione pastorale che si avvale del patrimonio culturale cattolico.

In diretta connessione con quanto sopra la cura dei beni, anche culturali, è un dovere istituzionale dell'ente ecclesiastico, da adempiere nel più ampio quadro dell'interesse pubblico della Chiesa a conservare il proprio patrimonio storico-artistico, e a valorizzarlo in una dialettica ecclesiale. Finalità, quest'ultime, proprie della Pontificia Commissione per i beni culturali della Chiesa [30], chiamata a svolgere, in tal senso, un'azione di sollecitazione di tutti gli enti cattolici. Tale sollecitazione è esercitata ancor più concretamente dall'Ufficio nazionale dei beni culturali ecclesiastici (Unbce), facente capo alla Cei, il quale, in particolare, coordina le Consulte regionali presiedute dai vescovi, e coopera con il Ministero per i beni culturali. Si tratta di una complessa struttura amministrativa [31] che pur lasciando la gestione del bene all'ente ecclesiastico cui appartiene, e al vescovo cui esso è soggetto, conferma che per la Chiesa la tutela e la valorizzazione del bene cultuale/culturale ha natura di interesse pubblico, così da essere, per il singolo ente, una finalità istituzionale. Tale conclusione è rinforzata dal fatto che ogni atto relativo ai beni immobili o mobili di interesse artistico, storico o culturale, adottato da persone giuridiche soggette al vescovo, è un atto di straordinaria amministrazione e richiede l'autorizzazione vescovile [32]; mentre ogni intervento di tipo restaurativo o conservativo, anche ordinario, necessita quantomeno del parere della Consulta diocesana per l'Arte sacra e i Beni culturali ecclesiastici.

La trasposizione civilistica di finalità religiose cosi spiccatamente istituzionali in mere attività di interesse generale, appare allora una scelta difficile, su cui possono ulteriormente incidere gli adempimenti strutturali previsti dal Cts. Sotto tale profilo, nel caso della tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, alle perplessità già segnalate può aggiungersi la consistenza degli enti cui il bene appartiene. La proprietà del patrimonio culturale cattolico è frazionata in una miriade di soggetti [33], spesso modesti per dimensioni e capacità gestionali, che possono incontrare difficoltà nello strutturare la governance di un ramo Ets e ancor più nel costituire il patrimonio destinato. Potrà accadere, infatti, che il patrimonio stabile sia l'unico cespite dell'ente o che i proventi di donazioni o di un ticket per la visita al museo o a parti di una chiesa, siano necessari per coprire i costi generali dell'ente stesso.

Da ultimo è bene sottolineare che la valutazione e la decisione finale dell'ente si muovono tutte nella dimensione confessionale. Dal punto di vista della normativa statuale, sia unilaterale che pattizia, la scelta tra la conservazione della sola qualifica di ente ecclesiastico civilmente riconosciuto oppure la creazione del ramo non comporterà un mutamento della soggettività dell'ente né del trattamento del bene culturale. La tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, sul piano civilistico, rientra tra le attività extraecclesiastiche, non a caso il d.lg. 42/2004 tratta il patrimonio religioso di tutti i Culti come qualsivoglia altro bene di valore culturale, fatta salva soltanto la necessità di una concertazione con le autorità ecclesiastiche quando entrino in gioco esigenze di culto (art. 9 comma 1). Una concertazione richiamata anche nelle normative pattizie, che per la Chiesa cattolica è ulteriormente regolata dalla Intesa bilaterale sottoscritta nel 2005 [34].

Tali disposizioni riconoscono una connessione tra le finalità istituzionali di culto e la tutela e valorizzazione dei beni appartenenti ad enti ed istituzioni ecclesiastiche. Ciò tuttavia non comprometterà né la ecclesiasticità dell'ente cattolico né la applicazione del d.lg. 42/2004 e dell'Intesa del 2005, nel caso in cui la tutela e/o la valorizzazione del bene fosse conferita in un ramo Ets. Di certo infatti l'ente manterrà in capo a sé stesso l'attività di religione e di culto connessa al bene, e di tale bene conserverà l'appartenenza [35]; saranno così sostanziati sia i requisiti dell'ente ecclesiastico sia i presupposti per la applicazione dell'art. 9 d.lg. 42/2004.

4. La cooperazione con soggetti esterni di terzo settore ed il caso "fabbricerie"

La risposta sul campo degli enti ecclesiastici cattolici civilmente riconosciuti, alla luce di quanto osservato, non stupisce. Si registra infatti la tendenza al mantenimento in capo all'ente religioso dell'attività di tutela e valorizzazione del bene, esercitata tuttavia, non di rado, con il soccorso di soggetti esterni rientranti nel no profit, un volontariato non strutturato oppure costituito in una delle forme giuridiche previste dal Cts.

L'intero territorio nazionale ha visto fiorire negli anni numerosi enti che agiscono in sinergia con le diocesi e le parrocchie per lo sviluppo e l'attuazione di progetti di conservazione, restauro e valorizzazione dei beni culturali cattolici. Più di recente vanno crescendo corsi di formazione di volontari diocesani dei beni culturali ecclesiastici, spesso finanziati con i fondi dell'otto per mille. Si tratta di un volontariato attivo da anni, ma rinvigorito oggi dalle linee pastorali del pontificato di Bergoglio sulla Chiesa in uscita, che tendono a circoscrivere la dimensione istituzionale dando maggiore spazio alle aggregazioni sociali [36]. Queste entrano così, sempre più attivamente, nelle strategie di tutela e valorizzazione dei beni culturali ecclesiali. In tal senso già nelle Linee guida per la tutela dei beni culturali ecclesiastici, realizzate nel 2014 dal Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale in collaborazione con l'Unbce [37], si auspica il coinvolgimento dell'associazionismo e del volontariato culturale e cattolico nella vigilanza delle chiese grandi e maggiormente visitate oppure isolate, per garantirne la fruibilità senza danneggiamenti o furti.

Più di recente l'Unbce ha sollecitato momenti di studio e confronto sulle potenzialità della valorizzazione del patrimonio ecclesiale mediante il ricorso al volontariato ed al terzo settore [38], e si sta facendo promotore di una cooperazione strutturata tra gli operatori territoriali. Vengono così incentivate forme stabili di collegamento, che potrebbero ambire ad essere reti associative secondo le previsioni dell'art. 41 Cts.

Va infine segnalata la permanenza di un dibattito sulla possibilità di attribuire la qualifica di Ets alla fabbriceria, ente del tutto speciale destinato alla tutela di importanti complessi sacri del patrimonio culturale cattolico, che negli ultimi anni si è aperta ad iniziative di valorizzazione dei beni accuditi più ampiamente culturali, promuovendo, ad esempio, concerti e mostre d'arte. Le fabbricerie, che possono assumere diversa denominazione (fabbrica, opera, procuratoria, maramma, arca etc.), curano tradizionalmente la gestione di chiese cattedrali o edifici di culto di rilevante interesse storico o artistico [39], ma possono essere collegate anche ad edifici di culto minori.

Si tratta di enti di incerta configurazione giuridica [40], nati tra medioevo ed età moderna come strumenti di partecipazione della comunità dei fedeli alla amministrazione dei beni delle chiese che godono di un regime speciale di fonte pattizia, dettato in particolare dalla legge 222/1985 e dal suo Regolamento di esecuzione [41], il d.p.r. 33/1987. Per quest'ultimo esse sono regolate ed amministrate con statuti ed organi collegiali, alla cui formazione partecipa il Ministro dell'Interno o il Prefetto (art. 34).

Più in dettaglio, la normativa pattizia configura la fabbriceria come un ente satellite della chiesa cui afferisce, l'attività svolta in via costitutiva è infatti la conservazione dell'edificio di culto, in funzione della sua utilizzazione cultuale. In tale quadro (artt. 35 ss.) la fabbriceria provvede alle spese di manutenzione e di restauro della chiesa e degli stabili annessi; nonché alle spese per arredi, suppellettili ed impianti necessari; inoltre amministra i beni patrimoniali destinati a spese di ufficiatura e di culto, e ne versa i proventi all'ente cui l'edificio è annesso [42]. Essa resta invece estranea, ed anzi esclusa, dall'attività cultuale del bene, cui attende l'ente religioso cui il bene appartiene.

La normativa pattizia e prima ancora l'identità canonica della fabbriceria evidenziano, insomma, una stretta connessione tra le finalità riconducibili alla gestione storico-artistica e quelle riguardanti il culto [43]. L'attività svolta, in quanto strumentale alla finalità di culto e di religione annessa al Complesso sacro cui la fabbriceria è collegata, condivide le medesime finalità, così da non potersi considerare pura tutela del patrimonio storico-artistico [44], e più ancora un'attività di interesse generale secondo la semantica civilistica.

Quanto osservato solleva più di un dubbio sulla possibilità di attribuire alla fabbriceria la qualifica di Ets. Vero è che in passato diverse fabbricerie hanno ottenuto il riconoscimento come Onlus [45], e tuttavia le criticità di quella qualifica, contestate dalla dottrina [46], si ripropongono oggi, persino rinforzate. Alla assunzione della fabbriceria tra gli Ets potrebbe ostare la sua natura pubblica, rilanciata dall'Autorità nazionale anticorruzione nella delibera sull'Opera di Santa Croce n. 365/2018 [47], che ha dichiarato l'Opera medesima un ente di diritto privato in controllo pubblico, assoggettandola alla normativa sulla trasparenza, valida per le pubbliche amministrazioni [48]. La qualifica di ente pubblico è stata peraltro smentita dal Consiglio di Stato nel parere n. 289/2000, che aprì le porte alla "fabbriceria Onlus" [49] riconoscendogli la natura privatistica più di recente ribadita in via incidentale dal Tar Toscana (2017) [50]. La soggettività di diritto privato, se apre le porte all'applicazione del Cts, non risolve tuttavia gli altri dubbi, a partire dalla strutturazione di una governance dell'ente che andrebbe a modificare quella concertata secondo la norma concordataria.

A tali profili si sommano le criticità connesse alla costituzione di un patrimonio autonomo e, soprattutto, la opportunità/legittimità di ridurre la conservazione e la valorizzazione di chiese ed importanti complessi sacri, come San Marco o il Duomo di Milano o la Piazza dei miracoli di Pisa, a mere attività di utilità o solidarietà sociale, al solo scopo di ottenere vantaggi fiscali. La qualifica di Ets della fabbriceria, come quella precedente di Onlus, resta pertanto un quesito aperto.

 

Note

[*] Il testo costituisce la relazione in formato integrale tenuta al Seminario, Terzo Settore e Beni Culturali, 11 aprile 2019, Dipartimento di Economia dell'Università degli Studi Roma Tre.

[1] Si ricordano in particolare le leggi sulle organizzazioni di volontariato (legge 266/1991), sulle cooperative sociali (legge 381/1991) e le associazioni di promozione sociale (legge 383/2000), ed ancora la cornice fiscale delle Onlus (d.lg. 460/1997).

[2] In argomento cfr. P. Floris, Enti religiosi e riforma del Terzo settore: verso nuove partizioni nella disciplina degli enti religiosi, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 2018, 3, passim; P. Consorti, L'impatto del nuovo Codice del Terzo settore sulla disciplina degli "enti religiosi", in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 2018, 4, pagg. 5-9.

[3] Ricorda C. Cardia, Principi di diritto ecclesiastico, Giappichelli, Torino, 2010, pag. 321, che "Il fine di religione o di culto caratterizza ontologicamente l'ente ecclesiastico, a qualunque confessione appartenga; soltanto dopo aver verificato la sua esistenza e la sua centralità nella conformazione dell'ente, lo Stato dà luogo ad un riconoscimento che apre la strada alla disciplina speciale valida per gli enti confessionali". In assenza di tale centralità, anche se l'attività esercitata fosse latamente religiosa, l'ente sarà soggetto al diritto comune.

[4] Per le sole attività di religione e di culto si assegna rilevanza civile alla normativa canonica, in particolare circa le procedure di controllo ed autorizzazione da parte degli organi amministrativi.

[5] Cfr. art. 10, comma 9, decreto legislativo sulla disciplina Tributaria degli enti non commerciali e delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale (ONLUS) d.lg. 460/97; art. 4 comma 2, d.lg. 117/2017.

[6] Cfr. Conferenza Episcopale Italiana, Istruzione in materia amministrativa (2005), art. 83; l'istruzione precisa ulteriormente che "l'ente ecclesiastico non è obbligato a seguire il regime ONLUS; in alternativa, può svolgere attività di utilità sociale secondo il regime fiscale ordinario previsto per gli enti ecclesiastici".

[7] Per la normativa statuale può essere attività istituzionale della confessione quella che esula dalle competenze dello Stato; tra le "attività altre" rientrano per contro tutte quelle che rivestono un'utilità pubblica statale. Pertanto alcune attività, pur essendo istituzionali per la Chiesa, sono riportate sotto la lett. b), è il caso ad esempio dell'assistenza, ricompresa nella finalità istituzionale della carità, che agli effetti civili è extra-ecclesiastica poiché ricade nelle funzioni proprie dello Stato.

[8] La valenza culturale assegnata al bene dal Culto può non coincidere con quella ricavabile dal diritto italiano. La tutela e valorizzazione di un bene religioso che non abbia valore culturale ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio, d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42, non rientra tra le attività di interesse generale soggette al Cts.

[9] In argomento cfr. G. Ponzanelli, V. Montani, Dal "groviglio di leggi speciali" al Codice del terzo settore, La riforma del Terzo settore e dell'impresa sociale. Un'introduzione, (a cura di) A. Fici, Editoriale Scientifica, Napoli, 2018, pag. 31 ss.; per un primo inquadramento del terzo settore vedi A. Mazzullo, Il nuovo Codice del Terzo Settore: Profili civilistici e tributari (d.lg. 3 luglio 2017, n. 117), Giappichelli, Torino, 2017; P. Consorti, L. Gori, E. Rossi, Diritto del terzo settore, Il Mulino, Bologna, 2018.

[10] Cfr. circolare ministero delle Finanze n. 168/E, 26 giugno 1998; circolare ministero delle Finanze, n. 22/E, 22 gennaio 1999 per la quale il regime tributario delle Onlus si applica al ramo a condizione che, per le attività Onlus siano tenute scritture contabili separate, e venga elaborato un regolamento in forma di scrittura privata registrata (all'Ufficio del Registro), che recepisca le clausole dell'articolo 10, comma 1, d.lg. 460/97. Il regolamento dovrà indicare il settore (o i settori) di attività prescelto; la esclusiva finalità solidaristica; il divieto di distribuire utili; l'obbligo di impiegare gli utili o avanzi di gestione nell'attività svolta; l'obbligo di devoluzione del patrimonio ad altra Onlus o a fini di pubblica utilità nel caso di scioglimento.

[11] Cfr. A. Perrone, V. Marano, La riforma del Terzo settore e gli enti ecclesiastici: un rischio, un costo o un'opportunità?, in Stato, chiese e pluralismo confessionale, 2018, 35, pag. 9, per i quali tuttavia, "l'adeguamento alla nuova disciplina risulta, nel contempo, foriero di costi: oneri economici, tempo e altre risorse distolte da un uso alternativo".

[12] Cfr. P. Cavana, Enti ecclesiastici e riforma del Terzo settore. Profili canonistici, in Stato, chiese e pluralismo confessionale, 2018, 22.

[13] Si è rilevato che la pretesa di un patrimonio separato può incidere l'autonomia patrimoniale dell'ente religioso in forma aggravata, rispetto agli enti comuni che esercitino identica attività, cfr. P. Consorti, L'impatto del nuovo Codice del Terzo settore sulla disciplina degli "enti religiosi", in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 2018, 4, pagg. 10-11.

[14] L. Simonelli, L'ente ecclesiastico e la riforma del Terzo settore, in exLege, 2016, 4, pag. 13 ss. ed in particolare pag. 34 ss.; A. Bettetini, Riflessi canonistici della riforma del Terzo settore, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 2018, 4, pag. 11.

[15] P. Cavana, Enti ecclesiastici e riforma del Terzo settore. Profili canonistici, cit., pagg. 19-20.

[16] Si tratta dei beni strumentali o redditizi assegnati all'ente in dote permanente, per il conseguimento dei fini istituzionali e per garantirne l'autosufficienza economica; cfr. Conferenza Episcopale Italiana, Istruzione in materia amministrativa (2005), cit. art. 53.

[17] Cfr. in tal senso G. Dalla Torre, Enti ecclesiastici e Terzo settore. Annotazioni prospettiche, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 2018, 16, pag. 11.

[18] Cfr. d.lg. 460/1997, art. 10, comma 1, lett. a), nn. 7 ed 8.

[19] In argomento, più ampiamente, cfr. E. Camassa, I beni culturali di interesse religioso. Principio di collaborazione e pluralità di ordinamenti, Giappichelli, Torino, 2013; N. Gullo, Art. 9. Beni culturali di interesse religioso, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M.A. Sandulli, Giuffrè, Milano, 2012, pag. 84 ss.

[20] Vedi sopra nota 8.

[21] Cfr. A. Mantineo, Il Codice del terzo settore: punto di arrivo o di partenza per la palingenesi degli enti religiosi?, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 2018, 22, pag. 29.

[22] Così M.C. Folliero, Enti religiosi e non profit tra welfare state e welfare community. La transizione, Giappichelli Torino, 2010, pag. 157.

[23] In argomento cfr. P. Floris, Associazioni ed enti nell'agire solidale. Le risposte del diritto canonico e del diritto ecclesiastico, in Recte Sapere, Studi in onore di Giuseppe Dalla Torre, Giappichelli, Torino2014, Vol. II, pag. 929 ss.

[24] Sulla valenza identitaria del patrimonio culturale cfr. M.S. Giannini, I beni culturali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1976, 1, pag. 5 ss.; F.S. Marini, Lo Statuto costituzionale dei beni culturali, Giuffrè, Milano, 2002, pag. 203; S. Settis, Battaglie senza eroi. I beni culturali tra estinzione e profitto, Mondadori, Milano, 2005, pag. 271; G. Severini, I Principi del Codice dei beni culturali e del paesaggio, in Giornale di diritto amministrativo, 2004, pag. 470, pagg. 470-471. Più in particolare, sulla capacità del bene di farsi promotore dell'identità culturale cfr. F. Merusi, Commentario all'art. 9 della Costituzione, in Commentario della Costituzione. Principi fondamentali, (a cura di) G. Branca, Il Mulino, Bologna-Roma 1974, pag. 434, 443 e 446; P Carpentieri, Commento all'art. 6, in Il Codice dei beni culturali e del paesaggio. Decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, (a cura di) R. Tamiozzo, Giuffrè, Milano 2005, pag. 3, passim.

[25] Sulla nozione di bene immateriale cfr. M. Are, Beni immateriali, in Enc. Dir., V, Milano, 1959, pag. 251 ss.; in questa Rivista in argomento cfr. V.A. Bartolini, L'immaterialità dei beni culturali, 2014, 1; G. Severini, Immaterialità di beni culturali?, 2014, 1; A. Gualdani, I beni culturali immateriali: una categoria in cerca di autonomia, 2019, 1.

[26] Conferenza Episcopale Italiana, I Beni Culturali della Chiesa in Italia. Orientamenti, n. 33, in Notiziario della Conferenza Episcopale Italiana, a cura della Segreteria Generale, n. 9, 9 dicembre 1992, pag. 309 ss.

[27] Cfr. Conferenza Episcopale italiana, I Beni Culturali della Chiesa in Italia. Orientamenti cit., n. 2; il rapporto tra profili teologici ed artistici, animazione pastorale e culturale, si ritrova anche in numerosi passi sulla formazione degli operatori dei beni culturali.

[28] Per la Istruzione "La visita di una chiesa comporta la comprensione dei valori sottesi al culto di quel luogo, che sono anche testimonianza della vita e della storia della Chiesa, ed esige rispetto: le chiese non sono semplici beni di consumo turistico" (n. 129).

[29] Cfr. Conferenza Episcopale Italiana. Ufficio nazionale per la Pastorale del Tempo libero, turismo e sport, "Bellezza e speranza per tutti" Parchi e Reti Culturali Ecclesiali: quando il Turismo diventa via di vita buona e speranza concreta, settembre 2018 (in www.turismo.chiesacattolica.it). L'idea dei Parchi fu lanciata nel 2014, al Convegno "Parchi ecclesiastici culturali, eremi e territorio", Chieti 8 settembre.

[30] Nel 1988 la Costituzione Apostolica Pastor Bonus crea la Commissione per il Patrimonio Artistico e Storico, ridenominata Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa dal Motu proprio Inde a Pontificatus Nostri initio, 25 marzo 1993, che ha aggiunto l'impegno per la valorizzazione, nel rinnovato intento di un uso del patrimonio per l'animazione liturgica, catechetica e pastorale.

[31] L'Unbce intrattiene rapporti col Mibac, coordina le 16 Consulte regionali (organi di consulenza della Conferenza episcopale regionale) e si avvale della consulenza della Consulta nazionale (riunisce rappresentanti delle Consulte regionali e membri tecnici ed esperti d'arte).

[32] Cfr. Conferenza Episcopale Italiana, Istruzione in materia amministrativa, 2005, cit., All. C. Sono soggette al vescovo le parrocchie e le rettorie, i capitoli, i seminari arcivescovili, i santuari, le fondazioni, le associazioni diocesane e le confraternite.

[33] Mentre si scrive il contatore dei beni inventariati del sito beweb, dell'Unbce, segnala: 4.035.199 beni storici ed artistici; 65.413 Edifici di culto; 5.733.994; beni librari 140.477 beni archivistici, in mano a 224 diocesi, 1985 istituti culturali ecclesiastici, 2402 persone, famiglie, enti.

[34] L'intesa, sottoscritta ex art. 12 dell'Acc. 1984, prevede forme di concertazione tra gli Uffici di Sovraintendenza dei beni culturali e le Consulte regionali delle Provincie ecclesiastiche; cfr. Intesa relativa alla tutela dei beni culturali di interesse religioso appartenenti a enti e istituzioni ecclesiastiche, 26 gennaio 2005, che sostituisce quella del 13 settembre 1996; per un primo esame cfr. A.G. Chizzoniti, L'intesa del 26 gennaio 2005 tra Ministero per i beni e le attività culturali e la conferenza episcopale italiana: la tutela dei beni culturali di interesse religioso appartenenti a enti e istituzioni ecclesiastiche tra continuità e innovazione, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 2005, 2, pag. 387.

[35] Il bene cultuale-culturale integra in genere il patrimonio stabile, perciò non sarà conferibile nel patrimonio separato; anche in tal caso peraltro dovrebbe ritenersi appartenente all'ente.

[36] Cfr. P. Cavana, Enti della chiesa e diritto secolare, in J. Miñambres (a cura di), Diritto canonico e culture giuridiche nel centenario del Codex Iuris Canonici del 1917, Atti del XVI Congresso Internazionale della Consociatio Internationalis Studio Iuris Canonici Promovendo, Roma 4-7 ottobre 7 2017, Roma, Edusc, 2019, pag. 493 ss., pag. 500.

[37] Cfr. Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, Conferenza Episcopale Italiana, Linee Guida per La Tutela Dei Beni Culturali Ecclesiastici, novembre 2014.

[38] In particolare, nel Convegno "Progettazione - Valorizzazione - Terzo settore. La valorizzazione degli istituti culturali e del patrimonio ecclesiale, volontariato e terzo settore, potenzialità e prospettive", 9 maggio 2018, sono state presentate alcune esperienze diocesane tra cui quella di Agrigento che per garantire custodia e valorizzazione dei beni diocesani ha costituito enti di volontariato con capofila la Associazione Ecclesia Viva; esperienza divenuta modello anche per altre diocesi della Sicilia.

[39] Per un elenco degli enti fabbriceria più importanti cfr. http://www.fabbricerieitaliane.it/it/soci.html.

[40] Per un primo inquadramento cfr. La natura giuridica delle fabbricerie, Atti della giornata di studio La natura giuridica delle fabbricerie, Pisa 4 maggio 2004, Ed. Opera Primaziale Pisana (disponibile in http://www.fabbricerieitaliane.it/it/pubblicazioni.html).

[41] D.p.r. 13 febbraio 1987, n. 33.

[42] Le rendite destinate a spese di ufficiatura e di culto sono iscritte nel bilancio della fabbriceria fra le partite di giro e sono annualmente versate a chi rappresenta la chiesa o l'ente a cui la chiesa è annessa (art. 37, comma 2).

[43] Cfr. P. Moneta, Fabbricerie, esempio di intesa tra autorità civile e autorità religiosa, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale. Rivista Telematica (http://www.statoechiese.it), n. 37, 2017, pagg. 5-6.

[44] Cfr. G. Dalla Torre, Parere sulla applicabilità della normativa anticorruzione alle Fabbricerie, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, n. 38, 2018.

[45] Riferisce P. Moneta, Fabbricerie, esempio di intesa tra autorità civile e autorità religiosa, op. cit. nota 7, la assunzione della qualifica di Onlus dell'Opera della Primaziale Pisana; di Santa Maria del Fiore in Firenze; della Metropolitana di Siena, del Duomo di Orvieto, e della Procuratoria di San Marco a Venezia.

[46] P. Consorti, Se le fabbricerie possano essere Onlus, in http://www.olir.it, dicembre 2015.

[47] Deliberazione dell'Autorità Nazionale Anticorruzione n. 365 del 2018, in appendice a G. Dalla Torre, Parere sulla applicabilità della normativa anticorruzione alle Fabbricerie, cit., pagg. 10-19.

[48] Contrario G. Dalla Torre, Parere sulla applicabilità della normativa anticorruzione alle Fabbricerie, cit.

[49] Cfr. Cons. St., parere 28 settembre 2000, n. 289, in Foro it., 2002, III, c. 66.

[50] Cfr. Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana, Sez. I, parere n. 793, 12 giugno 2017 (in calce a P. Moneta, Fabbricerie, esempio di intesa tra autorità civile e autorità religiosa, cit., pag. 9 ss). Il Parere nasce su Ricorso dell'Arcivescovo della Diocesi di Pisa, contro l'omessa nomina da parte del Ministero dell'Interno di due membri del Consiglio di amministrazione dell'Opera primaziale pisana. Il Ministero nel costituirsi in giudizio eccepisce la carenza di legittimazione ed interesse ad agire dell'Arcivescovo, poiché esso nella nomina del Consiglio fungerebbe da mero consultore dell'ente pubblico. Eccezione respinta dal Tar il quale nel motivare afferma che l'Arcivescovo è "titolare di un interesse proprio al corretto funzionamento di un ente di diritto privato, quali sono le fabbricerie".

 

 

 



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