Editoriale
Rischio sismico, territorio e prevenzione
Seismic risck, territory, prevention
The importance of the cultural heritage subjected to expected future seismic events requires an effective policy of seismic risk prevention and a specific plan of preventive and programmatic protection of cultural heritage. This means having a greater awareness of the problem, a solide institutional architecture and cooperation between Public Administrations (Mibact, Regions, Local Authorities) and Universities, Research Institutes and qualified companies.
Keywords: Territory; Seismic risk; Prevention; Protection.
L'attività sismica che ha investito duramente molti comuni di quattro regioni e che continua ad interessare quotidianamente una parte importante dell'Italia centrale, è molto più di un grave problema e di una altrettanto acuta emergenza: pone sfide che possiamo decidere di raccogliere o rimuovere, di riconoscere o di ridimensionare, di affrontare subito o di rinviare. Sfide che per la loro portata, profondità e implicazioni superano la ristretta dimensione delle tecniche e degli interventi di emergenza per porre domande squisitamente politiche che riguardano il cuore alla società italiana e alle sue istituzioni.
È ormai evidente, infatti, che l'esposizione del Paese al rischio sismico interessa l'intero territorio nazionale senza eccezioni e che tutto ciò mette in serio pericolo beni primari come sicurezza delle persone, patrimonio culturale, beni pubblici e privati, sistema socio-economico. Da questo, dunque, l'imperativo di spostare l'asse degli interventi alla fase precedente, quella della prevenzione con un piano che muovendosi su un orizzonte temporale di lungo periodo ponga in essere azioni di contrasto mirate all'unico elemento su cui siamo in grado di intervenire, quello della riduzione degli effetti del sisma su persone e cose.
Ma farlo, pone problemi di portata inimmaginabile. Anche solo limitandosi, per cominciare, ad una parte degli immobili pubblici la cui salvaguardia è cruciale per ogni collettività, come edifici residenziali pubblici e edifici scolastici, basti considerare che a dati del 2014 questi ultimi (un totale di 41.530) per quasi la metà (più di 20.000) si trovano nelle due aree di maggiore pericolosità, cioè in zona 1 (8.5%) e zona 2 (40.3%), oltretutto costruiti per 3/4 prima del 1980. Le abitazioni pubbliche (a dati del 2001) sono circa un 5% dello complesso (21 milioni e rotti) delle abitazioni in Italia, dunque più di 1 milione la cui metà è costruita pre-1970 (e 150.000 pre 1945).
E basti aggiungere, per venire all'oggi e ai beni culturali coinvolti nel sisma del 24 agosto e del 30 ottobre 2016, che nella zona gli immobili vincolati o comunque soggetti alla disciplina del codice dei beni culturali sono più di 6.500 (carta del rischio).
In breve, è richiesta una azione ciclopica per mezzi investiti, continuità nel tempo e cooperazione di strutture pubbliche e private oltre che per la partecipazione informata e consapevole dell'intera popolazione e opinione pubblica, che da concettualmente necessaria diventerà materialmente possibile solo a precise condizioni tecniche, finanziarie, organizzative e comunicative di eccezionale dimensione e stabilità. In una parola: su presupposti culturali e politici fondanti.
Senza i quali, è bene saperlo, oltre a risultare impraticabile la strada di un organico piano nazionale di prevenzione non sarebbero possibili neppure limitate iniziative e piccole virtù.
Un esempio. Qualunque iniziativa in materia (comprese quelle richieste dalla emergenza) presuppone una base conoscitiva, condivisa e accessibile, tale da assicurare a istituzioni, a comunità, a imprese e allo stesso singolo interessato, la conoscenza delle caratteristiche geomorfologiche della propria zona e i dati primari degli edifici che vi si trovano a cominciare dalla propria abitazione.
È ovvio, si dirà, ma così non è basti pensare alla resistenza opposta da una parte delle associazioni di privati proprietari al fascicolo di fabbricato, non certo motivata dal solo timore di ulteriori adempimenti burocratici, o alla comprensibile preoccupazione degli amministratori pubblici e in particolare dei sindaci, che dalla diffusione di dati negativi sullo stato delle strutture pubbliche rischiano di rimanere paralizzati tra la pressante richiesta della propria cittadinanza di interventi immediati, per i quali però non ci sono risorse, e l'interruzione pura e semplice di attività scolastiche, servizi pubblici e altro, la cui erogazione deve invece essere assicurata.
Dunque, anche la semplice organizzazione di dati e la relativa comunicazione pongono seri problemi che per essere affrontati con equilibrio e consapevolezza richiedono finalità chiare, principi solidi, scelte: in una parola, politica e politiche pubbliche.
Se questo è lo stato delle esigenze, quello delle risposte è purtroppo molto più arretrato. Le ragioni, in parte, sono comprensibili: l'urgenza di dare risposte a situazioni di eccezionale necessità mal si concilia con la messa a punto di azioni di lungo o lunghissimo periodo e non è facile mobilitare risorse di particolare ampiezza in condizioni economico-finanziarie difficili.
Eppure, a ben guardare ostacoli ancora maggiori vengono da un altro versante: dal fatto cioè che intervenire ad ampio spettro e in profondità su queste forme di rischio richiede la progettazione e messa in opera di politiche complesse e strettamente integrate tra loro, vale a dire di segno del tutto opposto alle dinamiche divaricanti tuttora prevalenti nella nostra realtà amministrativa e istituzionale.
Mi limito ad indicarne solo alcune:
- la forte "dispersione tra più amministrazioni e agenzie" di interventi simili o strettamente connessi, cominciando dalla Presidenza del Consiglio sia nei dipartimenti (protezione civile, politiche di coesione) che nelle unità di missione (UdM contro il dissesto idrogeologico e per lo sviluppo delle infrastrutture idriche, UdM attuazione di interventi di riqualificazione dell'edilizia scolastica, UdM ricostruzione e sviluppo dei territori colpiti dai vari sismi, UdM Casa Italia), per passare ai ministeri (Infrastrutture, Ambiente, Mibact, Politiche agricole) e al sistema regionale e locale. Naturalmente non è detto che la sola concentrazione di compiti e funzioni in un'unica amministrazione, d'altronde già avanzata da tempo (Covatta), assicuri di per sé unità di comando e coordinamento, ma è certo che distribuirne la titolarità e l'esercizio tra più soggetti e articolazioni organizzative rende il tutto molto più complicato;
- la divaricazione nelle politiche pubbliche generata da un "rapporto centro/regioni/enti locali" che, prima con il decentramento istituzionale e amministrativo del periodo 1996-2001 (di cui la riforma del titolo V Cost. era l'effetto, non la causa) e poi con la brusca frenata e il fortissimo riaccentramento di poteri e risorse, hanno perso la bussola e spesso si sono smarrite con la conseguenza, per limitarsi ad un solo esempio, che l'applicazione regionale dei criteri per la delimitazione delle aree di rischio sismico ha generato 20 classificazioni diverse [1] e con il risultato di politiche di prevenzione e riduzione del rischio concretamente diverse da regione a regione anche a parità di condizioni;
- l'orientamento analitico-estetico-filologico ancora prevalente nella cultura di una parte non trascurabile dei corpi tecnici addetti alla cura del patrimonio culturale (architetti, storici dell'arte, e anche archeologi) rispetto all'approccio più sistemico delle discipline scientifiche (geologi, fisici, chimici, biologi) ed economiche, con il risultato non solo di allontanare i singoli beni dal contesto ma di mantenere inalterata la separazione tra i criteri della conservazione (e del restauro) e i protocolli suggeriti dall'evoluzione scientifica e tecnologica.
Anno dopo anno, infine, si è aggiunta l'insuperabile e crescente tensione tra l'adozione di regimi speciali, di volta in volta confezionati sulle e legittimati dalle singole emergenze, e l'esigenza di stabilità e prevedibilità del passo e delle regole della amministrazione ordinaria. Con il risultato di rendere, nello stesso tempo, più difficoltosa l'attività quotidiana e più necessarie le deroghe.
In sintesi: è vero che le ragioni di interventi e politiche integrate sono profonde, ma ancora più forti sono state fino ad oggi le dinamiche divaricanti, che hanno portato i (rari) tentativi di innovazione ad arenarsi e soccombere di fronte alla difesa del proprio particolare e alla resistenza, questa sì congiunta, di ogni entità istituzionale e organizzativa oggi operante in materia.
L'accelerazione impressa dagli eventi di questi ultimi mesi ha rimesso in discussione l'intero quadro e i motivi di un approccio integrato sono ancora più evidenti e forti.
Qualche esempio. In tema di patrimonio culturale, ove è ormai evidente a tutti che non può darsi vera tutela e valorizzazione dei beni artistici senza presidiarne le connessioni con l'ambiente e il paesaggio il cui degrado ne mette ormai in discussione, non solo nelle emergenze più acute (dall'alluvione di Firenze alla laguna di Venezia) ma anche nelle condizioni ambientali quotidiane, la stessa sopravvivenza materiale e fisica.
Il discorso si ripete identico, perché cambia solo la dimensione quantitativa ma resta l'approccio e il metodo, anche per i programmi su scala minore come quelli per le aree interne o i borghi storici, ove non solo il singolo edificio (ecclesiastico o monumentale) non è separabile dal proprio centro storico ma resta determinante la rete di infrastrutture, i servizi (cominciando da quelli scolastici e del sistema sanitario), di esercizi commerciali e dei luoghi di ritrovo, le infrastrutture agricole e montane che costituiscono il tessuto connettivo primario delle realtà locali.
Ma soprattutto c'è il dato, di cui si stenta ancora oggi a percepire l'eccezionale portata e gravità, di un territorio nazionale che gli eventi dell'agosto 2016 e dei mesi successivi mostrano interamente e pesantemente esposto al rischio sismico e idrogeologico, mettendo in discussione le premesse stesse della sicurezza e della vita socio economica delle popolazioni e dunque imponendo di avviare senza ritardo un piano organico di prevenzione che con mezzi adeguati e una azione senza sosta negli anni e decenni a venire porti gradualmente l'ambiente e l'intero stock abitativo e infrastrutturale italiano ad accettabili standard di sicurezza da cui oggi è pericolosamente distante.
Nessuna di queste azioni è realizzabile e neppure concepibile al di fuori di un approccio sistemico e di lungo periodo. E qui viene in luce, per intero, il profilo politico alto dell'intera questione per ciò che presuppone prima di avviarsi e ciò che implica in termini di strumenti pianificatori, di risorse, di reticolo istituzionale, organizzativo e operativo. Il che non costituisce una novità se si pensa che i primi passi, e anche i primi durissimi contrasti, del riformismo degli anni '60 si ebbero proprio su questo terreno.
Occorre dunque riprendere nel loro insieme i temi della pianificazione territoriale generale e di settore, su cui non mancarono a suo tempo significative proposte organiche presentate anche in sede parlamentare, aggiornandone le soluzioni alla luce della disciplina successiva e soprattutto delle prime serie esperienze di piano paesaggistico, che hanno messo in luce le complesse relazioni tra i caratteri fisici e tangibili di un'area, le pratiche di vita quotidiana della popolazione e i significati o i simboli impressi nella consapevolezza di chi vive i paesaggi e di chi li fruisce [2].
Nello stesso tempo, e correlato al piano organico di prevenzione di cui si è appena detto, è necessario porre mano ad una specifica linea di conservazione preventiva e programmata del patrimonio culturale, con il duplice obbiettivo di evitare che il primo si blocchi al primo incrocio (peraltro, immediato) con l'area dei beni culturali e per altro verso di agevolare l'innesto della tutela e valorizzazione di questi ultimi nel relativo contesto e dunque da concepire questo e quelli più un insieme indissolubile che una somma di singole opere.
I passi indispensabili per rendere tutto questo possibile sono più d'uno.
Il primo è sapere dare al Paese tre cose: la percezione dell'enormità del problema e dello sforzo necessario per affrontarlo; la consapevolezza che l'alternativa non esiste e che senza iniziative di questo genere la strada verso l'irreversibile degrado dell'Italia, o meglio dell'Italia che noi e il mondo fin qui abbiamo conosciuto, è segnata; la capacità infine di capire e la forza di credere che l'enormità del compito non significa la sua impossibilità e che anche una modesta percentuale di interventi effettuati con continuità ogni anno permettono nello spazio di una generazione di realizzare il progetto e di raggiungere un accettabile grado di prevenzione rispetto a questi rischi in tutto il territorio nazionale. Senza contare il profilo economico e finanziario di tutto questo perché, oltre alla sicurezza di persone, beni e mezzi (v. interventi di emergenza) risparmiati o fortemente contenuti, l'apporto di importanti risorse interne e sovranazionali e la messa in opera di una massa di interventi così corposi ed estesi assicurerebbero fin dall'inizio anche al sistema economico del Paese effetti positivi destinati a durare a lungo.
Non è necessario aggiungere che è in questa fase cruciale e a questi elementi di conoscenza e consapevolezza che è legata la possibilità di garantire all'intero processo quelle condizioni di largo consenso indispensabili per affrontare gli inevitabili sacrifici personali e collettivi, fiscali e finanziari oltre che materiali (v. indisponibilità parziale o temporanea di abitazioni e servizi) che sono connessi: elementi, tra l'altro, di vera e propria responsabilizzazione delle comunità locali che costituiscono oltretutto una risorsa strategica per il controllo dal basso degli interventi effettuati e, successivamente, del rispetto delle normative di prevenzione e delle corrette pratiche adottate dalla pubblica amministrazione e dai terzi.
Il secondo passo è quello di predisporre una intelaiatura istituzionale che poggi ovviamente su una forte unità di governo (in termini di impulso, regolazione, risorse e controlli) centrale, garante dei profili sistemici e degli elementi indivisibili (tra i quali, interpretazione e applicazione di standard), e una altrettanto robusta articolazione regionale e locale, cui è affidata la messa a punto di piani e programmi e la relativa messa in opera. Il che è credibile e realistico a condizione che:
- definita la cornice contenutistica, metodologica e finanziaria generale, le diverse fasi regionali e locali di intervento siano distribuite su tempi diversi, per una attuazione graduale nelle diverse aree del Paese richiesta non solo dalla quota di risorse annualmente disponibili inevitabilmente più limitate ma soprattutto dalle diverse condizioni di fatto dei territori interessati;
- a garanzia dell'effettivo e tempestivo svolgimento dei compiti assegnati vanno disposte specie nelle situazioni più fragili, in luogo delle consuete (e largamente inutili) previsioni di sanzioni di varia natura, apposite azioni di sostegno e di supporto temporaneo con saperi e esperienze professionali qualificate assicurati da gruppi di lavoro ad hoc;
- quando questo non bastasse, in nessun caso la difficoltà o il blocco di uno degli snodi (centrale, regionale, locale) in cui si articola il piano deve comportare l'arresto della attività prevista, il che significa sul piano politico l'esclusione di sostanziali poteri di veto; sul piano giuridico, che nelle relazioni tra Stato, regioni e enti locali sarà garantita non l'astratta titolarità di competenze ma il loro concreto esercizio; sul piano operativo, che il riconoscimento di poteri e di risorse è subordinato alla preliminare messa a punto in sede regionale e locale strumenti pianificatori e operativi necessari, in assenza dei quali la stessa agenzia nazionale cui andranno affidati i compiti di verifica tecnica e di controllo di processo e di prodotto potrà attivare direttamente gli interventi necessari, o almeno i più urgenti.
Non si tratta solo di garantire l'operatività, il che è ovviamente importante. Si tratta anche di comprendere che le risorse necessarie sia interne che esterne potranno essere realmente disponibili anche in misura significativa solo a condizione di un credibile, solido e verificabile governo complessivo dell'intero progetto e solo a garanzia di adeguate condizioni di operatività e di controllo;
- ben poco di quanto fin qui elencato può essere compiuto senza forme qualificate e continuative di collaborazione con tutti i detentori di saperi scientifici e di competenze tecniche e professionali, il che significa affiancare ai corpi tecnici dello Stato e del sistema locale forme aperte di collaborazione non solo con le università e gli istituti di ricerca ma anche con l'esperienza specifica delle imprese più qualificate.
Il terzo passo, infine, è costituito da azioni ed elementi più minuti ma non meno importanti.
Intanto, interventi sistematici, continuativi e integrati come quelli qui indicati possono contare solo in parte su elementi contenutistici e procedurali sicuri e acquisiti. Per il resto, l'esperienza suggerisce di evitare gli eccessi opposti del mito del piano onnicomprensivo e dettagliato, che stenta poi a tradursi in realtà concreta, e della scorciatoia del ritaglio settoriale di normative speciali ed emergenziali, che spesso finiscono per essere fini a se stesse e non ripetibili. Un motivo in più, dunque, per lavorare con procedure ordinarie da mettere alla prova e semmai da manutenere e migliorare sulla base dei riscontri offerti dall'esperienza maturata.
La vastità e complessità dell'approccio consiglierebbe semmai un primo "giro di prova" per sperimentare processo e relative sequenze in uno spazio geografico relativamente ridotto, ad esempio una regione di dimensioni contenute, facendone una sorta di "piano pilota" i cui risultati potranno poi essere utilmente trasferiti al progetto a regime e al resto del Paese.
Come si può notare, dunque, una esigenza di eccezionale portata affrontata con le virtù del tutto "normali" del progetto politico di respiro, della stabilità delle politiche pubbliche, della amministrazione ordinaria, della cooperazione pubblico/privato, della partecipazione.
Proprio questo è il punto. È indubbio infatti che niente di tutto ciò è pensabile senza la capacità politica di pensare in grande, perché è in gioco il primo elemento del patto sociale, la sicurezza dei cittadini, e perché la possibilità di soddisfarla deve essere credibile. Ma deve anche essere ben chiaro, oggi e nel nostro Paese, che la politica non può fermarsi al momento "macro" degli obbiettivi e della dimensione spazio-temporale e finanziaria del progetto nella convinzione, madre di tante amare sconfitte, che per il resto l'entendance suivrà. Da noi e nello stato attuale di difficoltà delle istituzioni è richiesto un forte impegno progettuale e politico anche sostegno e legittimazione del resto: sistema delle relazioni (pubblico/privato, centro/periferia,) governo del processo (a cominciare dalla comunicazione), continuità dell'azione e stabilità di criteri, controlli.
La sola eccezionalità accettabile deve dunque consistere nella più rigorosa (e perciò inconsueta) normalità: governo a regime del territorio, disciplina ordinaria, amministrazione quotidiana e affidabilità delle sue procedure e comportamenti, modalità di formazione e selezione del personale, educazione nelle scuole, verifica ex post di azioni e interventi.
Note
[1] Dati dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, INGV.
[2] A. Marson, Introduzione, in La struttura del paesaggio. Una sperimentazione multidisciplinare del piano della Toscana, (a cura di) A. Marson, Bari, 2016, pag. 5.