Editoriale
Problemi, soluzioni, riforme
Sommario: 1. Prima della terapia, la diagnosi. - 2. Problemi vecchi e nuovi. - 3. Riforme Franceschini e dintorni.
Problems, Solutions, Reforms
The identification of the problems, old and new, is the first step to find some solutions and mostly to evaluate the recent reorganization of the cultural heritage administration and in general the most recent public administrative reforms. This is the way indicated by the Director of the Journal to reflect (also) about the Franceschini Reform.
Keywords: Reforms; Public Administration; Mibact.
1. Prima della terapia, la diagnosi
Può apparire scontato che per valutare le soluzioni bisogna partire dai problemi, ma così non è. La maggior parte delle molte prese di posizione, singole o collettive, civiche o professionali, di intellettuali o di operatori che si sono avute in questo periodo sulla riforma Franceschini, hanno dedicato a questo aspetto, evidentemente centrale, poca o nessuna attenzione. È un peccato perché se lo si facesse, l'area del dissenso frontale probabilmente diminuirebbe mentre si potrebbe più utilmente discutere se vi siano altri nodi critici, se per quelli individuati vi siano alternative ai provvedimenti adottati, se e quanto questi ultimi convincano in termini di congruità e adeguatezza.
Dunque, innanzitutto mappatura del terreno: primo, perché assicura un parametro di valutazione affidabile, costituito da quanto e come gli interventi messi in campo facilitano la soluzione delle principali questioni da affrontare, e poi perché i problemi che abbiamo di fronte sono tali che c'è davvero bisogno di tutte le forze disponibili. Insomma, se ci si deve dividere, che almeno lo si faccia su questioni che contano, il che però significa metterle in fila e cioè capire cosa viene prima e cosa dopo.
Se non lo si fa, si rischia di girare a vuoto, per quello che si trascura e per quello che si enfatizza.
Quello che si trascura è tanto, perché non solo omette di considerare tutte le evidenti disfunzioni dell'assetto attuale, che tali restano anche quando (come in non pochi casi avviene) funzionari e dirigenti vi suppliscono (in tutti i sensi) personalmente, ma perché sfugge al quesito di fondo non più rinviabile, e cioè la salvaguardia del patrimonio culturale in un mondo che con la realtà del 1939 non ha più nulla a che fare in termini socio-economici, istituzionali, politici e culturali.
Quanto a ciò che si enfatizza, c'è ad esempio una diffusa tendenza a ritenere che (quasi) tutti i problemi - quando non generati dalla "politica" - nascano dalla drastica (e innegabile) riduzione delle risorse operata negli ultimi due decenni, con il corollario che più autonomia rispetto alla "politica" e recupero dei mezzi sottratti risolvano (quasi) tutte le difficoltà.
Se vogliamo esprimere un giudizio di fatto, e non una mera petizione di principio sull'invasività della politica, trattandosi di uno dei ministeri più impermeabili rispetto all'esterno dell'intero sistema amministrativo statale, forse bisognerebbe essere più prudenti. Trattasi infatti di un ministero che proprio in virtù delle proprie (innegabili) peculiarità ha goduto (ma, in realtà, ha finito per soffrire) di una modellazione del tutto anomala rispetto all'ordinario sistema amministrativo centrale: dalle deroghe di cui è stato oggetto rispetto alle tipologie generali del d.p.r. 300/1999, alla oscillazione tra dipartimenti e segretariato generale, per finire con l'atipica collocazione funzionale dei dirigenti generali e il pesante ruolo interdittivo dei sindacati del personale di custodia (quasi il 50% dell'organico complessivo).
Se è così, verrebbe quasi da rovesciare l'assunto e chiedersi se la spiegazione dei ripetuti interventi legislativi sul ministero (per ogni altro aspetto, incomprensibili per la frequenza e lo scarso risultato) non stia proprio nel reiterato tentativo di innestare dall'esterno, e in via legislativa, quanto non si riesce ad operare governando dall'interno per la presenza di un sistema rigido e largamente autogestito.
Quanto alla diminuzione delle risorse il problema è serio e innegabile, ma non è la "causa prima" delle difficoltà perché tutti sanno che fattori come l'inadeguatezza organizzativa o la carente formazione e allocazione del personale, per non fare che due esempi, "bruciano" risorse in quantità ben maggiore dei tagli operati dalla spending review o dal blocco del turn over. Se ci si limita a contare quanto nei bilanci di oggi manca rispetto ai bilanci di ieri, dunque, ci si arresta molto al di sotto di una rilevazione accettabile di come stanno le cose perché mancano almeno due voci significative, gli sprechi (qualche dato la Corte dei conti l'ha offerto in questi anni) e le possibili nuove risorse che potrebbero essere rese disponibili da altre politiche pubbliche, da altri soggetti, da altri strumenti.
In breve: mancano temi importanti e quando ci sono non sempre disponiamo di un quadro attendibile. Moviamo dunque delle contraddizioni più acute, altrimenti manca un necessario elemento di valutazione (quale terapia senza diagnosi?) e si rischia di scambiare tra loro cause ed effetti: ad esempio, riferendo all'innovazione e al presente quanto è frutto (ahimè più che maturo) del passato e della sua obsolescenza.
Sappiamo bene come la scelta spadoliniana del modello ministeriale non sia stata particolarmente felice perché si trattava (e si tratta) di un modulo organizzatorio molto preciso su tutti i punti chiave (politica-amministrazione, centro-periferia; indirizzo-gestione; statuto del personale; gerarchia e relazioni organizzative; procedure e procedimenti amministrativi; bilancio-contabilità; tipologie di controlli) e purtroppo irrimediabilmente sfasato per il caso di specie. Tanto è vero che le numerose deroghe al tessuto legislativo ordinario apportate nel tempo nascono proprio da questo.
Ma anche su questo punto, uno dei pochi su cui si registra la quasi unanimità di opinioni, è bene fare attenzione perché "ministero" è una realtà a doppia natura: una, relativa alla dimensione amministrativa e alla forma organizzativa degli apparati (Ministero, appunto) e l'altra, riferita al piano costituzionale e del rapporto tra amministrazione e politica, del quale la doppia veste del Ministro insieme vertice del ministero e componente dell'Esecutivo e del Consiglio dei ministri è peculiare espressione.
La distinzione è particolarmente importante perché se è pacifico che la forma organizzativa degli apparati, per moltissime ragioni vecchie e nuove, è da considerare largamente inidonea rispetto a quanto è oggi richiesto nel nostro settore al livello nazionale, c'è da essere più cauti quando si passa al secondo aspetto perché ancor oggi è proprio (e, di fatto, solo) la figura del ministro, specie con portafoglio, quella in grado di assicurare particolare evidenza istituzionale ad uno specifico interesse pubblico stabilizzandone il rilievo tra i molteplici esistenti. Dunque, è vero che la soluzione agenzia aveva e avrebbe ancora oggi molti vantaggi sul piano operativo ma lascerebbe scoperto un profilo, il "peso" istituzionale tramite il proprio titolare in Consiglio dei Ministri, tutt'altro che secondario come il rilievo esplicitamente riconosciuto al ministro Franceschini, indipendentemente dal giudizio di merito delle relative politiche, conferma.
Sono comunque le nuove difficoltà che vanno messe in luce e che completano il quadro assai problematico oggi da considerare. A parte quelle che la Rivista affronterà nei prossimi numeri e che giungono per così dire dall'"esterno", dal fatto stesso cioè di essere parte della pubblica amministrazione e di quella statale in particolare, tra le quali spiccano le innovazioni introdotte dalla legge 124/2015 in tema di autotutela, conferenza di servizi e rapporti tra amministrazione periferica e Ufficio Territoriale dello Stato, tre sono le "torsioni" cui con particolare evidenza sono sottoposti il Mibact e il sistema statale e cui va dunque data, chiunque sia al governo, una credibile risposta.
La prima è costituita dall'evidente inconciliabilità tra l'enorme estensione della tutela degli ultimi anni sia come perimetro (dai singoli beni agli spazi pubblici urbani e al paesaggio) che come intensità (dalla verifica della mera "compatibilità" delle destinazioni d'uso ammissibili a contenuti e prescrizioni conformative) e l'inalterato mantenimento degli strumenti regolativi (accentuati anzi nella declinazione vincolistica) e dell'assetto organizzativo, peraltro funzionalmente e territorialmente disarticolato e dunque scarsamente funzionale e ancor meno riconoscibile.
La seconda contraddizione è legata alla crescente e inevitabile interdipendenza tra cura del patrimonio culturale (nella sua accezione più estesa) e altrettanto vistoso aumento di altri interessi pubblici (oltre che privati) in vario modo intercettati dalle politiche e dagli interventi di settore. La risposta, anche (anzi, soprattutto) per chi è davvero convinto della inderogabilità dello "sviluppo della cultura" e delle esigenze di "tutela del paesaggio e del patrimonio artistico", avrebbe dovuto prendere la strada verso l'adozione di modalità in grado di assorbire e precisare prima (in termini di conoscenza e studio dei beni e del loro contesto, di programmazione degli interventi, di azioni periodiche di verifica e di manutenzione) e dopo (come verifica dei risultati, razionalizzazione delle procedure) la complessità degli elementi da considerare, in modo che il momento specifico del formale provvedere (specie sul singolo bene) finisse per rappresentare solo la ricaduta puntuale sia pure rilevante di un complesso di acquisizioni e valutazioni, alcune delle quali necessariamente condivise, cominciate prima e destinate a proseguire poi. Il che significa, inutile nasconderlo, ripensare al senso attuale della cura del patrimonio culturale oltre che ai relativi strumenti.
Se non si fa questo, e cioè se non si sposta il peso in favore di una razionalità sistemica, che nel caso di specie significa programmazione, catalogazione, progettazione integrata, manutenzione programmata, si indebolisce anche la razionalità specifica del singolo intervento, con il risultato di aprire la strada a due soluzioni estreme: o la negazione della pluralità degli interessi, invocando l'aprioristica e definitiva loro gerarchizzazione sancita urbi et orbi dalla Costituzione e dal suo art. 9 (peraltro deformato nella sequenza: repubblica=pubblico=stato=ministero); o, all'opposto, l'indebolimento degli apparati e della amministrazione di settore, operata con fasi procedurali cedevoli, by-pass di istruttorie, pareri o decisioni basate sull'assunto, non dichiarato ma riconoscibile, che ciò che non si riesce a cambiare si salta a piè pari.
Nessuno può negare che queste opzioni siano oggi sul campo: pochi si rendono conto di quanto l'una sorregga l'altra.
Oltre tutto, la forbice apertasi tra nuovo sovraccarico di compiti e l'immutato mantenimento del precedente assetto funzionale e organizzativo ha finito sovente (le eccezioni, non mancano, ma restano tali e ben conosciute) per rendere difficoltoso anche l'esercizio delle funzioni ordinarie, con conseguenze spesso subite più che volute: l'arretramento degli organi periferici sulla parte più "dura", ma più limitata, delle proprie funzioni, quella di natura autoritativa; la (necessaria) terzietà declinata prima in termini di separazione, peraltro problematica considerata la dilatazione delle occasioni di interdipendenza con altri interessi pubblici e privati, e poi di vero e proprio isolamento. L'irrisolto fronte dei rapporti con i sistemi locali ne è piena testimonianza.
La terza e più pesante "torsione" è frutto delle prime due, ma con implicazioni più estese e rilievo ancora maggiore perché attiene ad un profilo cruciale: la legittimazione, in termini di riconoscibilità e consenso, del ruolo e delle funzioni esercitate in materia dal sistema pubblico.
Un problema che all'origine non si poneva, grazie al dato sostanziale di saperi specialistici propri di apparati operanti in un contesto rurale e arretrato, e al valore aggiunto del profilo legale e amministrativo, garantito dall'autorità dell'amministrazione pubblica e dall'unità di comando dello stato centralizzato. Non uno di questi elementi è rimasto invariato, finendo così per incidere non già sull'importanza di specialismi e garanzie pubbliche ma sul loro modo di essere riconosciuti e sostenuti dal consenso: cioè, appunto, sulla relativa legittimazione.
3. Riforme Franceschini e dintorni
È dunque da questo scenario che si deve muovere per venire alla riforma e darne una valutazione, il che tra l'altro permette subito di dimensionarne meglio la portata, considerando che i temi di fondo appena ricordati richiederebbero un profondo ripensamento oggi non in agenda della legislazione sostanziale vigente, la cui anima e i cui istituti restano interamente immutati rispetto alla legge del 1939, mentre resta in parte irrisolto (anche per la concomitante ed evidente crisi delle regioni) l'altrettanto decisivo tema dei rapporti centro periferia, e dunque con i sistemi locali e tra direzioni generali e organi decentrati.
Detto questo, è innegabile la varietà e portata degli interventi: oltre alle due serie di decreti (2014-15 e 2015-16) di riordino delle articolazioni periferiche del Mibact, risulta chiaro infatti che le innovazioni superano il perimetro del Mibact e rientrano in una strategia più complessa riguardando l'intero governo.
È quanto avviene in ordine al ruolo dei privati e alle forme di collaborazione con gli altri soggetti della pubblica amministrazione. In particolare:
- il versante dei procedimenti amministrativi e la nuova formulazione degli artt. 11 (accordi amministrativi) e 14 (conferenza di servizi) dettata dalla legge 124/2015 e dalla regolamentazione introdotta dai decreti legislativi attuativi delle delega (c.d. decreti Madia) di prossima emanazione;
- il profilo delle agevolazioni fiscali, ove alle detrazioni ordinarie (19% Tuir) riconosciute per spese di manutenzione o liberalità nell'ambito dei beni culturali, si è aggiunto il disposto del d.l. 83/2014 convertito in legge 106/2014 (Art bonus) che ha introdotto in via permanente un credito d'imposta del 65% per manutenzione, conservazione e restauro di beni culturali di proprietà pubblica o assimilata);
- il terreno, ognuno sa quanto decisivo, della nuova disciplina degli appalti, ove si deve ad un provvedimento di poche settimane fa (codice appalti, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, artt. 145-151) una serie di misure di rilevante portata, in alcuni casi anche fortemente innovative, riguardanti la stretta sulle qualifiche di progettisti e esecutori per i lavori su beni culturali mobili, superfici decorate di beni architettonici e materiali storicizzati di beni immobili di interesse storico artistico o archeologico e l'affidamento separato dal resto dei relativi lavori, i livelli di progettazione e l'obbligo del piano di monitoraggio e di manutenzione, le sponsorizzazioni (sia in denaro che c.d. "tecniche") e una clausola molto aperta (al limite della indeterminatezza) di forme speciali di partenariato tra Ministero e privati per iniziative congiunte.
Ma veniamo al cerchio più stretto, quello delle riforma organizzative e della struttura ministeriale. Già in molte occasioni la Rivista ha analizzato i diversi interventi e in più è oggi disponibile l'accurata e completa analisi svolta da Lorenzo Casini (Ereditare il futuro. Dilemmi sul patrimonio culturale, Bologna, 2016), cui non resta che rinviare per ogni necessario approfondimento sulle riforme.
Qui ci limitiamo a osservare che le tre dorsali del provvedimento nascono proprio dalle aree critiche che prima si sono indicate:
- inserendo elementi di collegialità e coordinamento interno, tramite il segretariato e la commissione regionale, per rafforzare e quando necessario integrare l'operato del singolo dirigente;
- facendo della valorizzazione una vocazione strategica (anche se non esclusiva) del rinnovato sistema dei musei (singoli o connessi in poli regionali), con il doppio effetto di dare (possibili) gambe alla funzione di valorizzazione, cui molto si è dedicato in termini definitori (funzioni o riparti di competenza, realtà diverse o facce diverse della stessa realtà, forma o sostanza?) e meno si è fatto in concreto, e di aprire i musei all'esterno, spesso rimasti ai margini di queste attenzioni;
- optando per la soprintendenza unica e dunque scommettendo sulla possibilità di disporre per tale via di una struttura più completa in termini di esperienze e più solida sul piano organizzativo cui affidare l'obbiettivo, grazie alla integrazione interna di profili e saperi, di affrontare il versante più impegnativo, quello della tutela nella sua completezza e della relazione tra beni culturali e paesaggio.
Obbiettivi certo ambiziosi, ma che rappresentano risposte plausibili ai problemi da cui veniamo e i cui risultati potranno essere conseguiti solo gradualmente, in un arco di tempo di medio periodo.
Naturalmente, è difficile sostenere che si tratta del migliore dei mondi possibili, perché continuano a mancare indirizzi generali di settore spesso previsti dalla legge e non adottati dal centro, il che certo agevolerebbe il coordinamento tra le diverse articolazioni del ministero. Perché su aspetti importanti come l'assetto centrale e le relazioni centro/periferia resta, come si è detto, l'incognita di una opzione ancora fortemente accentrata (malgrado le autonomie museali) che di fatto concentra al vertice del ministero il ruolo cruciale del coordinamento orizzontale tra settori e tra strutture, anche per l'incompiutezza sotto questo profilo dei segretariati regionali, investendo la segreteria generale del Mibact e le stesse direzioni generali con funzioni orizzontali (educazione, ecc.) di un sovraccarico di dinamiche settoriali che tendono per loro natura a divaricare e comunque in sé difficile da sopportare oltre che da gestire. Né va taciuto il forte condizionamento operato sull'intero processo di riforma dalle peculiari modalità (spending review) con cui si è innescato, perché la necessità di operare tagli di spesa anche quantitativamente definiti ha inciso significativamente, qui come in tutto il resto dell'amministrazione statale, sul sistema della fonti e sulla teorica e virtuosa sequenza funzioni-organizzazione-personale costringendo a invertirla e a ridefinire le prime e la stessa organizzazione muovendo dalla riallocazione di quest'ultimo.
Ognuna di queste soluzioni può dunque essere discussa, in sé e nella sua realizzazione, e a tutto questo si dovrà continuare a prestare attenzione per molto tempo, verificando in concreto l'andamento dei processi. Ma va riconosciuta una analisi corretta e lo sforzo di affrontare, e se possibile risolvere, alcuni dei problemi cruciali che si sono ricordati.
Il contrario, e la mancanza di letture critiche e se necessario anche autocritiche, genera cedimenti nostalgici al passato e la percezione di un accerchiamento nel presente: non è esattamente la via migliore per affrontare i problemi richiamati all'inizio. Anzi, la cosa più curiosa è che oggi la stessa sensazione di accerchiamento è vissuta da tutti i (diversi) attori che in vario modo hanno voce in capitolo: Europa e autorità nazionali, amministratori e dirigenti, personale e sindacati, le imprese e terzo settore, opinione pubblica e politici.
Tutti sono assediati. Mancano (o tutti, il che è uguale, sono) gli aggressori. C'è qualcosa che non torna: forse sarebbe bene partire da qui.