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I beni immateriali tra regole privatistiche e pubblicistiche - Atti Convegno Assisi (25-27 ottobre 2012)

I toponimi, tra tutele, volgarizzazione e diritti consolidati

di Cesare Galli

Sommario: 1. La disciplina del marchio geografico anteriore alla riforma del 1992 e il suo "trasferimento" nella norma sui marchi collettivi. - 2. L'evoluzione della distinzione tra marchi individuali e marchi collettivi. - 3. Il divieto d'inganno e i limiti ai diritti consolidati. - 4. Marchi geografici, capacità distintiva e volgarizzazione. - 5. Gli usi leciti del nome geografico corrispondente a un marchio altrui: diritti consolidati e peculiarità dei marchi collettivi geografici. - 6. Toponimi e denominazioni di origine protette: i possibili conflitti con i marchi geografici e il rilievo decisivo della percezione del pubblico. - 7. Nomi geografici, protezione contro l'agganciamento parassitario e opportunità di sfruttamento: le nuove prospettive aperte dalla riforma del 2010 del Codice della proprietà industriale.

Toponyms between Protection, Vulgarization and Vested Rights
The author analyzes the evolution of the legal discipline of geographical trademarks, with particular attention to the distinction between individual trademarks and collective trademarks after the 2010 amendments to the Italian Code of Industrial Property.

Keywords: Industrial Property; Intellectual Property; Geographical Trademark; Individual Trademark; Collective Trademark.

1. La disciplina del marchio geografico anteriore alla riforma del 1992 e il suo "trasferimento" nella norma sui marchi collettivi

La definizione di toponimo, rilevabile in un Dizionario o un'Enciclopedia è "nome proprio di un luogo geografico". Ed ai nomi geografici era in effetti dedicata una disciplina ad hoc, che ne consentiva su determinati presupposti la registrazione, nella legge marchi del 1942, all'art. 20, soppresso "a metà" dalla riforma del 1992, che ha dato attuazione in Italia alla prima Direttiva comunitaria sui marchi del 1988 (la Direttiva n. 89/104/C.E.E., oggi divenuta, nel testo consolidato, la Direttiva n. 2008/95/C.E.). Con questa riforma, infatti, il legislatore ha preso la disposizione che anteriormente riguardava tutti i marchi (appunto l'art. 20 legge marchi), e l'ha trasformato nella regola vigente per i soli marchi collettivi geografici (contenuta nell'art. 2 legge marchi), in deroga a quella generale nella quale i marchi individuali geografici vengono ricondotti alla disposizione riguardante la capacità distintiva (l'art. 18 legge marchi): e con poche modifiche questa è ancora la situazione normativa attuale, posto che l'art. 2 legge marchi sui marchi collettivi è stato trasfuso nell'art. 11 del Codice della proprietà industriale e l'art. 18 sulla capacità distintiva nell'art. 13 C.P.I.

La vecchia norma diceva, e dice ancora, per i marchi collettivi, che il marchio geografico può essere registrato, purché "non crei situazioni di ingiustificato privilegio" e "non ostacoli lo sviluppo di analoghe iniziative nella regione". Di questa disposizione si era inizialmente proposta un'interpretazione molto restrittiva, nel senso di ritenere che essa escludesse la registrazione come marchio di qualsiasi nome geografico, se non assunto in prospettiva palesemente fantastica [1]. Secondo l'orientamento prevalente, tuttavia, l'art. 20 legge marchi avrebbe consentito l'adozione come marchio di un nome geografico (non solo se assunto in funzione fantastica, ma) tutte le volte in cui - pur trovandosi in essa la sede dell'impresa o lo stabilimento di produzione - la località indicata non influisse, anche solo nelle aspettative del pubblico, sulle caratteristiche o sul pregio del prodotto; la brevettabilità sarebbe dunque rimasta esclusa solo per i nomi delle località legate a prodotti tipici [2]; con un'ultima evoluzione, poi, si era giunti a ritenere che in realtà la norma riguardasse unicamente il procedimento di registrazione presso l'U.I.B.M. e che comunque essa comportasse il divieto di registrazione come marchio nel solo caso in cui il marchio geografico riguardasse "prodotti tipici della località indicata nel marchio (che) erano divenuti già noti al pubblico ed un imprenditore con l'adozione del marchio geografico si appropriava abusivamente di questa notorietà da lui non creata o non creata abusivamente, impedendo agli altri imprenditori, che l'avevano con lui creata, di avvantaggiarsene" [3].

Quest'ultima interpretazione, in effetti, parrebbe coerente con la qualificazione espressa che il legislatore del 1992 ha dato della norma - come si diceva, oggi applicabile ai soli marchi collettivi - come una "deroga" alla disciplina generale della capacità distintiva, ed altresì alla circostanza che la stessa trovi oggi applicazione ai soli marchi collettivi e non a quelli individuali. Non va tuttavia dimenticato che la regola di diritto transitorio adottata in occasione della riforma del 1992 della legge marchi (e oggi a sua volta trasfusa nell'art. 233 C.P.I.) rende questa disposizione tuttora applicabile per valutare la validità dei marchi individuali geografici anteriori alla riforma: per questi ultimi il solo "correttivo" possibile, come vedremo più avanti, è quindi quello di applicare ad essi la regola relativa alla decadenza, per perdita sopravvenuta di capacità distintiva ed eventualmente per ingannevolezza sopravvenuta, per la quale invece non sono previste deroghe per i marchi registrati prima del 31 dicembre 1992, soddisfacendo così indirettamente le esigenze anti-monopolistiche e pro-concorrenziali di adeguamento della tutela dei segni distintivi a ciò che essi rappresentano in concreto nel "mondo della vita", che stanno alla base della moderna concezione dei segni distintivi come strumenti di comunicazione [4].

2. L'evoluzione della distinzione tra marchi individuali e marchi collettivi

Come si diceva, questa vecchia disciplina dei marchi individuali è oggi divenuta la disciplina dei marchi collettivi, per i quali è tuttora vigente e viene giustificata col rilievo che in relazione ad essi le richiamate esigenze anti-monopolistiche e pro-concorrenziali, che inevitabilmente devono operare in materia di marchi individuali, sussistono in forma attenuata, perché il marchio collettivo è oggetto di un'utilizzazione plurima ed esprime fondamentalmente una funzione di garanzia qualitativa e, solo secondariamente, una funzione d'indicazione di origine imprenditoriale (origine anche qui peculiarmente intesa, perché è riferita non al singolo imprenditore, ma al "gruppo" dei soggetti ai quali è consentito l'uso del marchio collettivo) [5].

Anche questa contrapposizione tra marchi individuali e marchi collettivi richiede tuttavia di venire oggi ripensata, alla luce del fatto che dopo la riforma del 1992 non è più vero, neppure in linea di diritto, che il marchio individuale abbia unicamente una funzione di indicazione di provenienza e il marchio collettivo abbia essenzialmente una funzione di garanzia qualitativa che per il marchio individuale invece non vi sarebbe. Oggi tutti i marchi - ed anzi tutti i segni distintivi, comprese le denominazioni d'origine, che vanno considerate anch'esse un segno distintivo sui generis - sono tutelati in quanto portatori di un messaggio, che segna i limiti della loro sfera di esclusiva e di cui correlativamente garantiscono la veridicità, e cioè appunto come strumenti di comunicazione; in questa prospettiva tanto i marchi individuali che quelli collettivi informano il pubblico dell'esistenza di un'esclusiva su di essi ed entrambi garantiscono certe qualità dei prodotti o dei servizi per i quali sono usati, pur atteggiandosi ovviamente in modo diverso, perché nel marchio collettivo l'uso plurimo da parte di soggetti autorizzati dal titolare è la regola, mentre nei marchi individuali è solo un'eventualità quella che il titolare non se ne serva direttamente, ma lo conceda in uso ad altri soggetti. Si tratta peraltro di un'eventualità tutt'altro che infrequente, in presenza della quale la distinzione tradizionale tra marchio individuale e collettivo sfuma sino a scomparire [6]: si pensi ad esempio ai marchi individuali costituiti da segni notori, registrati non per essere sfruttati dal titolare, ma solo per venire concessi in licenza di merchandising, molto spesso plurima; si pensi, ancora, a quelli che un Autore illustre aveva chiamato "marchi di raccomandazione", depositati da un soggetto che gode di una sua autorevolezza in un determinato settore (si pensi a una rivista di moda o a un critico gastronomico) e che quindi concede in licenza il suo segno a soggetti che realizzino prodotti o forniscano servizi conformi a certi standard qualitativi o stilistici, che costituiscono il DNA del marchio, esattamente come avviene nel marchio collettivo.

Ciò che oggi qualifica il marchio collettivo e lo distingue dal marchio individuale non è dunque l'esistenza di una garanzia di qualità, presente per entrambi, e nemmeno l'uso plurimo, che può avvenire anche per il secondo, quanto piuttosto il fatto che il marchio collettivo deve obbligatoriamente prevedere un disciplinare depositato, regole d'utilizzo e, soprattutto, controlli e sanzioni. Quindi, nel messaggio che il marchio collettivo comunica al pubblico c'è un elemento supplementare forte, ancora una volta rispondente ad una logica pubblicistica e di tutela del consumatore, ed è appunto l'elemento dei controlli: il rilievo di questo elemento è tale che la legge prevede la decadenza del marchio collettivo, anche se esso viene utilizzato solo per prodotti o servizi che sono tutti conformi alle regole del disciplinare, per il sol fatto che non vengano esercitati i controlli. E questa, a ben vedere, non è altro che un'applicazione della regola generale della decadenza per ingannevolezza sopravvenuta, di cui all'art. 14 C.P.I., in quanto conferma che nel messaggio collegato al marchio collettivo non c'è solo una promessa di qualità obiettiva, come nel marchio individuale, ma anche la promessa dell'effettuazione dei relativi controlli, cosicché, nel momento in cui il titolare non fa questi controlli, il marchio è già per questo solo ingannevole, a prescindere dal fatto che i prodotti siano o meno tutti conformi allo standard del disciplinare [7].

Se dunque per tutti i marchi, individuali e collettivi, esigenze pubbliche e private convivono necessariamente, nella prospettiva - che è quella seguita più in generale dal legislatore del 1992, con l'accentuazione delle norme che vietano l'inganno del pubblico - di fare dei segni distintivi uno strumento non solo di tutela degli investimenti del titolare, ma anche di trasparenza del mercato e di tutela dei consumatori [8], nel marchio collettivo questo regime a cavallo fra pubblico e privato privilegia maggiormente il primo versante: al titolare che intenda registrare un marchio per concederlo in uso plurimo a terzi non è più imposto di valersi del marchio collettivo, ma può scegliere liberamente se sottostare o meno a questi vincoli più intensi. Il marchio collettivo è dunque uno strumento importante per tutti i soggetti che fanno riferimento a uno standard tendenzialmente costante nel tempo di caratteristiche qualitative (quelle "codificate" nel disciplinare), intendono investire sui relativi controlli e vogliono enfatizzare nella loro comunicazione l'esistenza di essi; è invece uno strumento obsoleto, perché rischia di essere troppo rigido, per soggetti che preferiscono riferirsi ad uno standard qualitativo mutevole nel tempo e che hanno ragioni per fidarsi maggiormente dei loro licenziatari, e dunque pensano di poter risparmiare almeno in parte i costi di questi controlli, senza che per questo il loro marchio corra particolari rischi di essere usato in modo improprio e quindi di decadere.

3. Il divieto d'inganno e i limiti ai diritti consolidati

Tutto questo ci riporta ancora alla grande novità della riforma del 1992, quando si spezza il nesso obbligatorio fra marchio e azienda e alla regola rigida del vecchio art. 15 della legge marchi del 1942 si sostituisce un meccanismo più elastico, lo statuto di non decettività, per usare la bella espressione di Paola Frassi [9], o il consumer trademark, se si preferisce l'espressione anglosassone [10], che identifica il nuovo punto di bilanciamento di interessi fra pubblico e privato, fra consumatori e titolari, nella conformità dei prodotti e servizi al messaggio trasmesso dal marchio, consentendo anche la cessione o la licenza di esso senza gli elementi aziendali essenziali per il messaggio che vi viene ricollegato dai consumatori, ma solo a condizione che si comunichi in modo appropriato questo distacco, rendendone edotti i consumatori [11].

Questa regola vale naturalmente anche per i marchi che comunicano al consumatore un legame con il territorio, come di regola accade per i marchi che contengono riferimenti geografici non di fantasia: questo legame può infatti certamente venire spezzato dal titolare del marchio, ma solo a condizione di trasformare, nella percezione del pubblico, il significato dell'elemento geografico che era percepito come espressione di un radicamento al territorio, cancellando la percezione di questo legame. E ciò rappresenta un primo limite anche delle posizioni consolidate formatesi nel vigore della legge marchi anteriore alla riforma del 1992, perché la perdurante capacità del segno di comunicare un messaggio di radicamento geografico impedisce, a pena di decadenza per ingannevolezza sopravvenuta, di farne uso per prodotti o servizi incompatibili con tale messaggio.

Il secondo limite è costituito dalla perdurante capacità distintiva del segno, che muore quando non è più in grado di assolvere concretamente le sue funzioni giuridicamente tutelate, quelle nella cui identificazione, a ben vedere, il legislatore non fa opera di creazione, ma di riconoscimento, dovendo la protezione del marchio essere commisurata a ciò che esso in concreto rappresenta nel mondo della vita.

Dunque, anche un marchio individuale validamente sorto prima del 1992 può oggi non essere più proteggibile se cessa di essere distintivo, ossia di comunicare un messaggio che comprende l'informazione dell'esistenza di un'esclusiva facente capo ad un soggetto determinato, e diviene invece simbolo di una tipicità legata la territorio e quindi condivisa. E dunque sta al titolare vigilare affinché non si verifichi né l'una, né l'altra di queste due eventualità.

4. Marchi geografici, capacità distintiva e volgarizzazione

Come si diceva, la regola oggi vigente per i marchi individuali contenenti elementi geografici si ricava dalla disposizione generale in materia di capacità distintiva, ossia l'art. 13 C.P.I., che vieta la registrazione dei segni privi di carattere distintivo, tra cui sono appunto annoverati tra l'altro "quelli costituiti esclusivamente dalle denominazioni generiche di prodotti o servizi o da indicazioni descrittive che ad essi si riferiscono", tra cui in particolare quelli "che in commercio possono servire a designare (...) la provenienza geografica" del prodotto o del servizio per cui sono registrati".

Un'interpretazione estrema porterebbe ad escludere tout court dalla registrazione come marchi individuali i segni costituiti esclusivamente da nomi geografici; contro questa lettura della norma vi è tuttavia il rilievo che i segni generici o descrittivi di cui il legislatore mira ad evitare la monopolizzazione non sono ovviamente tutti quelli che possono astrattamente definire o descrivere un qualsiasi prodotto o un servizio o loro caratteristiche, ma sono soltanto quelli che vengano ad assolvere questa funzione in relazione agli specifici prodotti o servizi per i quali è richiesto il marchio: il che sembra lasciare aperta la possibilità di proteggere come marchi anche i nomi geografici di regioni o di località che, sempre nella percezione dei consumatori, non influenzino le caratteristiche dei prodotti o servizi contrassegnati, e che quindi, anche quando indicano l'effettiva provenienza di questi prodotti o servizi, si presentino agli occhi del pubblico come nomi di fantasia [12]. In altri termini, il monopolio su di un nome geografico, che la sua registrazione come marchio comporterebbe, è logicamente incompatibile con la circostanza che il nome geografico in questione sia percepito come denominazione di origine, ossia comunichi al pubblico un messaggio relativo alla qualità o alla reputazione dei prodotti contraddistinti, in quanto provenienti (non da una determinata impresa, ma) da un determinato territorio: in questo caso, le esigenze pro-concorrenziali che in generale la Corte di Giustizia europea ha più volte riconosciuto essere sottese ai divieti di registrazione come marchio previsti dall'art 3 della Direttiva n. 89/104/C.E.E., ora Direttiva n. 2008/95/C.E. (e dalle corrispondenti disposizioni del Codice della proprietà industriale) impongono che il segno in questione resti a disposizione di tutti i soggetti operanti nel territorio in questione.

La Corte di Giustizia si è anzi pronunciata anche su questo tema specifico, affermando che il divieto si applica non soltanto alle denominazioni geografiche che attualmente influenzino il giudizio del pubblico sulla qualità dei prodotti contraddistinti, ma anche a quelle che siano solo potenzialmente in grado di designare la provenienza geografica della categoria di prodotti per cui il marchio venga richiesto [13]; la Corte non sembra tuttavia essersi spinta sino al punto da escludere dalla registrazione come marchio i nomi geografici che assumano per il pubblico interessato un valore evocativo che prescinde dall'origine geografica in senso stretto, cosicché la regola sembra comunque essere quella per cui anche i toponimi ufficiali possono costituire valido oggetto di esclusiva come marchi, ove gli stessi non esprimano alcuna tipicità produttiva del territorio percepita come tale dai consumatori [14]; la potenzialità cui la Corte ha fatto riferimento in questa decisione sembra cioè logicamente dover essere riferita ad un rapporto con il territorio che presenti un valore comunicazionale autonomo rispetto a quello che gli attribuisce il titolare del marchio grazie alla sua comunicazione, e cioè corrisponde ad un valore obiettivo legato al territorio in rapporto ai prodotti per cui il marchio è registrato od usato, valore obiettivo che come tale non può, evidentemente, che restare di pubblico dominio.

Le regole che abbiamo considerato valgono inoltre sempre solo per i segni che siano costituiti "esclusivamente" dal nome geografico, cosicché lo stesso può comunque essere presente in un valido marchio, anche quando venga percepito come indicazione descrittiva della provenienza e, anche nel caso in cui sia percepito come indicazione descrittiva della provenienza, purché si accompagni ad altri elementi essi sì distintivi, che in tal caso saranno i soli a ricevere tutela: fermo restando che, viceversa, se unisco due elementi generici come quello che indica la provenienza geografica e il nome comune del prodotto, di regola non posso ottenere un valido marchio, proprio perché la risultante è comunque un segno che sarà percepito esclusivamente come descrittivo, a meno che non sia proprio la combinazione a dar luogo ad un quid distintivo, situazione questa che peraltro, per i nomi geografici che esprimano realmente una tipicità, pare difficile a realizzarsi, a meno che il nome geografico non venga storpiato o modificato.

5. Gli usi leciti del nome geografico corrispondente a un marchio altrui: diritti consolidati e peculiarità dei marchi collettivi geografici

Anche in questo caso opera comunque la regola di cui all'art. 21 C.P.I., ora espressamente richiamata anche per i marchi collettivi, per cui degli elementi descrittivi presenti nel marchio non posso comunque impedire a terzi di fare uso in funzione descrittiva, o comunque nel suo significato descrittivo anche nel contesto di un altro segno distintivo.

Su questo tema la Corte di Giustizia europea è anzi intervenuta proprio in un giudizio relativo al conflitto tra marchi geografici di due acque minerali, "Gerry" per un'acqua minerale proveniente dalla fonte di offenbachiana memoria di Gerolstein in Germania e "Kerry" per un'acqua proveniente dall'omonima fonte irlandese [15], affermando che l'applicazione dell'art. 6.1.b della Direttiva n. 89/104/C.E.E. (corrispondente all'art. 21 C.P.I.) non è esclusa per il solo fatto che un'indicazione geografica sia usata anche in funzione di marchio, e che la conformità dell'uso agli usi onesti del commercio va valutata dal giudice nazionale sulla base di tutte le circostanze rilevanti del caso di specie, cosicché anche in questo caso ciò che conta è la percezione del pubblico. Proprio per adeguarsi alle indicazioni di questa pronuncia in occasione del varo del Codice si è eliminata dall'art. 21 C.P.I. la parte della disposizione corrispondente della legge marchi (l'art. 1-bis) che subordinava la liceità degli usi del marchio altrui in essa contemplati al fatto che l'uso del terzo fosse "conforme ai principi della correttezza professionale" (come previsto dall'art. 6.1 della Direttiva, che si serve, con significato equivalente, dell'espressione "usi consueti di lealtà in campo industriale e commerciale", divenuta poi "consuetudini di lealtà in campo industriale o commerciale" nella norma corrispondente prevista in materia di marchio comunitario, ossia nell'art. 12 Regolamento C.E. n. 207/2009), ma anche che tale uso fosse stato effettuato "non in funzione di marchio, ma solo in funzione descrittiva".

Il limite vero, quello oltre il quale non è possibile spingersi, è dunque, anche in presenza di un nome geografico validamente incorporato in un marchio altrui, quello della conformità dell'uso a correttezza: al riguardo sempre la Corte di Giustizia europea ha affermato che il requisito della conformità dell'uso agli "usi consueti di lealtà in campo industriale e commerciale" previsto dalla Direttiva e dal Regolamento sul marchio comunitario, esattamente come il limite dei motivi legittimi in materia di esaurimento, si traduce in "un obbligo di lealtà nei confronti dei legittimi interessi del titolare del marchio" e che quindi la limitazione non opera innanzitutto quando l'uso del terzo "avviene in modo tale da poter dare l'impressione che esista un legame commerciale fra il terzo e il titolare del marchio", ma poi anche quando l'uso venga a "compromettere il valore del marchio, traendo indebitamente vantaggio dal suo carattere distintivo o dalla sua notorietà", ovvero quando "causi discredito o denigrazione di tale marchio", ovvero ancora nel caso in cui "il terzo presenti il suo prodotto come imitazione o contraffazione di beni recanti il marchio di cui non è il titolare" [16], anche qui in piena coerenza con l'impostazione generale della giurisprudenza comunitaria, che va costantemente nel senso di valorizzare tutti gli elementi in grado di influire sulla concreta percezione dei segni da parte del pubblico. La Corte europea ha cioè in sostanza escluso che possa dirsi conforme alla correttezza professionale un uso del segno che dia luogo ad un "rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione" con il marchio anteriore, ovvero ad una delle due ipotesi di agganciamento di cui all'art. 5.2 della Direttiva e all'art. 20, comma 1°, lett. c) C.P.I. [17], tutelando così il valore di mercato di qualsiasi marchio contro ogni approfittamento parassitario e ogni forma di agganciamento.

E, come si accennava, questa regola in occasione della riforma del 2010 del Codice della proprietà industriale è stata resa applicabile anche ai toponimi usati come marchio collettivo, con l'abolizione, anche in questo caso, della limitazione dell'uso del terzo alla sola ipotesi in cui il toponimo venisse usato strettamente in funzione di indicazione di provenienza geografica: oggi perciò anche in questo caso opera la regola generale, che consente l'inserimento del toponimo corrispondente al marchio (anche collettivo) altrui anche nel contesto di un marchio, sempre purché non ci sia un agganciamento parassitario o addirittura un'ipotesi di confondibilità.

Ci si deve piuttosto domandare se esista ancora la possibilità che anche un'indicazione di provenienza possa formare oggetto di un marchio collettivo; questa possibilità, almeno in ipotesi di posizioni consolidate, sembra essere stata riconosciuta anche dalla richiamata sentenza della Corte di Giustizia C.E. nel caso "Gerry"-"Kerry", che ha accolto le conclusioni presentate dall'Avvocato Generale, secondo cui l'esclusione dalla registrazione come marchio dei segni o delle indicazioni che in commercio possono servire a designare la provenienza geografica del prodotto di cui all'art. 3.1.c della Direttiva sarebbe "temperato da due deroghe", ossia che "il divieto di registrazione viene meno qualora il marchio abbia acquisito carattere distintivo per effetto del suo uso ovvero quando esista un'associazione che abbia registrato l'indicazione relativa alla provenienza geografica quale marchio collettivo" [18], il che sembrerebbe appunto confermare che un'indicazione di provenienza possa in pari tempo formare l'oggetto di un marchio collettivo [19]. E del resto anche nella nostra legislazione interna nata a cascata rispetto ai Regolamenti comunitari sulle denominazioni di origine si ammette espressamente la possibilità che vi siano "marchi collettivi che identificano i prodotti D.O.P., I.G.P. ... detenuti, in quanto dagli stessi registrati, dai consorzi di tutela per l'esercizio delle attività loro affidate" [20], verosimilmente allo scopo di rafforzare la tutela di cui godono queste denominazioni, ovvero gli altri segni distintivi di D.O.P. e I.G.P. [21]; a favore di questa possibile coesistenza si potrebbero invocare anche le considerazioni sistematiche richiamate sopra a proposito del ravvicinamento tra la disciplina delle denominazioni di origine e dei marchi [22], ravvicinamento intervenuto sia sul piano della tutela (che, come abbiamo visto, anche per le denominazioni di origine sta progressivamente avanzando verso una sempre più intensa protezione della reputazione di cui la denominazione goda presso il pubblico), sia su quello - strettamente correlato al primo sul piano del bilanciamento di interessi [23] - del rilievo primario attribuito alla non ingannevolezza del segno (che è da sempre fondamentale per le denominazioni di origine e che è ora divenuto anche la chiave di volta del nuovo diritto comunitario dei marchi), creando una sorta di diritto comune dei segni commerciali: che non significa ovviamente uniformità di disciplina per segni di tipo diverso, ma certamente esistenza di un denominatore comune tra essi.

E' chiaro che si tratterà qui di marchi collettivi particolari, nel senso che il titolare di essi dovrà concederne l'uso a tutti i produttori della zona tipica, secondo una logica analoga all'obbligo di contrarre del monopolista, proprio perché l'elemento pubblicistico, inevitabilmente, si riverbera sul regime di disponibilità di un bene che pur rimanendo privato è tutelato nel limite della sua funzione economica e sempre in chiave pro-concorrenziale; anche questa regola, pur particolare, sembra perciò collocarsi nella prospettiva indicata sopra, di considerare le denominazioni d'origine, i segni distintivi, e le disposizioni sull'etichettatura e sulla pubblicità in coordinamento fra loro, nell'ambito di un sistema generale del diritto della comunicazione d'impresa [24].

6. Toponimi e denominazioni di origine protette: i possibili conflitti con i marchi geografici e il rilievo decisivo della percezione del pubblico

Nel settore agro-alimentare occorre naturalmente fare i conti anche con la specifica disciplina di Denominazioni di Origine Protette (D.O.P.) e Indicazioni Geografiche Protette (I.G.P.) contenuta nel Regolamento C.E. n. 510/2006 [25], essenzialmente distinte tra loro a seconda che al luogo di cui portano il nome si ricolleghi un milieu géographique sul piano della qualità effettiva del prodotto contraddistinto (per le D.O.P.) e non solo della qualità percepita, ossia della reputazione (per le I.G.P.).

Anche in questo caso i diritti consolidati assumono un rilievo significativo, dal momento che il Regolamento ammette la coesistenza di un marchio coincidente con una D.O.P. o una I.G.P., purché lo stesso sia anteriore al 1996, quando è entrato a regime il sistema, che fosse stato registrato in buona fede e che non sia decaduto; e poiché, come abbiamo visto, la decadenza del marchio può verificarsi anche per perdita di capacità distintiva e per inganno del pubblico, ecco di nuovo l'antidoto contro il rischio che il titolare di un marchio preesistente ormai percepito come una denominazione geografica possa impedirne la registrazione come denominazione geografica e monopolizzarne il significato ormai divenuto generico.

Proprio perché si tratta qui di applicare in realtà la regola generale immanente al sistema dei segni distintivi, non pare possibile riconoscere, come pure si è sostenuto, che la Commissione Europea abbia qui un potere discrezionale di bilanciare gli interessi [26], giacché in realtà anche in questo caso si deve fare riferimento alla percezione del pubblico, ossia al significato che un segno presenta in un determinato momento storico.

A questa stessa regola generale sembrerebbero ispirate anche le norme del Regolamento che considerano l'ipotesi speculare della registrazione (e dell'uso) di un marchio che contiene un nome geografico che è diventato denominazione d'origine, e cioè gli artt. 13 e 14 del Regolamento (ossia le norme sull'ambito di protezione e la portata invalidante di D.O.P. e I.G.P.), che, secondo logica, dovrebbero consentire tale registrazione ogni volta che l'inserimento del nome geografico del marchio non dà luogo a un inganno del pubblico o a un approfittamento della reputazione della denominazione geografica: ed in tal senso si erano in effetti espresse sia la giurisprudenza della Corte di Giustizia europea [27], sia la dottrina [28]. Sennonché la norma corrispondente del Regolamento sulle denominazioni vitivinicole è stata recentemente interpretata dal Tribunale di primo grado europeo nel senso che il divieto di registrazione del toponimo come marchio sia invece automatico e assoluto, ossia valga per qualunque tipo di prodotto e per qualunque forma di inserimento del nome geografico nel segno [29]. E' peraltro evidente, ed è infatti già stata enfatizzata [30], la contraddittorietà intrinseca di questo ragionamento, che non può venire giustificato neppure sulla base delle peculiari esigenze pubblicistiche del settore agricolo, posto che in difetto di un richiamo alla D.O.P. o all'I.G.P. non sussistono neppure le esigenze di tutela che il legislatore ha inteso soddisfare con questi istituti e che riguardano da un lato il rischio d'inganno e dall'altro l'agganciamento di tipo parassitario al messaggio evocato dal segno.

7. Nomi geografici, protezione contro l'agganciamento parassitario e opportunità di sfruttamento: le nuove prospettive aperte dalla riforma del 2010 del Codice della proprietà industriale

Questo è un passaggio al quale occorre dedicare la dovuta attenzione, perché ha un indubbio rilievo anche di carattere sistematico. L'ambito di protezione di D.O.P. e I.G.P. viene infatti in questo modo a delinearsi con confini sostanzialmente corrispondenti a quelli della tutela della rinomanza dei marchi, che rappresenta oggi il criterio di base per la protezione dei segni distintivi, di cui la (vecchia) regola che faceva riferimento alla confondibilità rappresenta oggi non un'alternativa, ma una species.

In tutti i casi il parassitismo segna così la misura ed il limite della protezione, ma in pari tempo il progressivo avvicinamento tra la disciplina delle denominazioni di origine e quella dei marchi, si manifesta non solo sul versante della tutela, ma anche su quello - strettamente correlato al primo sul piano del bilanciamento di interessi - del rilievo primario che, come già abbiamo ricordato, viene attribuito alla non ingannevolezza del segno (che è da sempre fondamentale per le denominazioni di origine e che è ora divenuto anche la chiave di volta del nuovo diritto dei marchi), creando una sorta di diritto comune dei segni commerciali.

Questo ravvicinamento tra la disciplina delle denominazioni di origine e dei marchi sembra anche indicare una possibile strada per l'armonizzazione della disciplina a livello internazionale, creando le condizioni per il superamento dell'attuale divaricazione tra la posizione degli Stati europei e quella dei Paesi extraeuropei, in special modo americani ed asiatici. E' anzi degno di nota che su questa protezione cresca il consenso anche a livello internazionale: il Congresso mondiale di AIPPI (Associazione Internazionale per la Protezione della Proprietà Intellettuale, che riunisce professionisti ed esperti di tutto il mondo in questa materia) tenutosi a Gőteborg nell'ottobre 2006, ha infatti approvato una Risoluzione [31] che prospetta appunto il divieto dell'inganno del pubblico e quello dello sfruttamento abusivo della reputazione commerciale come linea-guida per risolvere, anche a livello internazionale, i frequenti conflitti tra marchi e denominazioni di origine. Ed è estremamente significativo che questa proposta abbia raccolto i voti favorevoli anche dei delegati nord-americani, indicando quindi un possibile percorso di armonizzazione, ed anche una strada praticabile per dirimere questi conflitti già sulla base della disciplina vigente.

In occasione della riforma del 2010 del Codice della proprietà industriale la regola appena ricordata è stata anzi estesa dal legislatore italiano a tutte le denominazioni d'origine, anche a quelle estranee al settore agroalimentare, ed anche a quelle del settore agroalimentare tutelate nel nostro Paese in base a norme diverse da quelle comunitarie, ma ancora applicabili perché compatibili col diritto U.E. [32]. L'art. 30 C.P.I. riprende infatti ora pressoché alla lettera il dettato dell'art. 13.1, lett. a) del Regolamento C.E. n. 510/2006, che impone agli Stati membri di proteggere queste denominazioni anche contro ogni uso non autorizzato di esse che "consenta di sfruttare indebitamente la reputazione della denominazione protetta", e cioè appunto contro lo sfruttamento parassitario.

Nel loro complesso le modifiche inserite nel Codice in questo campo dalla riforma del 2010 appaiono infatti dirette a rendere più compiuta e coerente la protezione dei marchi, degli altri segni distintivi e delle denominazioni di origine contro i comportamenti diretti a sfruttare indebitamente i valori di avviamento commerciale incorporati in questi segni, ma in pari tempo anche a consentire ai titolari di essi di sfruttare legittimamente in proprio (direttamente o indirettamente, in particolare attraverso la concessione di licenze) questi stessi valori.

In questa stessa prospettiva assume rilievo anche la nuova formulazione dell'art. 19 C.P.I., che attua la delega in base alla quale è stata espressamente accordata ai Comuni (e agli altri enti pubblici territoriali, Regione compresa) "la possibilità di ottenere il riconoscimento di un marchio e utilizzarlo per fini commerciali per identificare con elementi grafici distintivi il patrimonio culturale, storico, architettonico, ambientale del relativo territorio", fermo restando che in tal caso "lo sfruttamento del marchio a fini commerciali può essere esercitato direttamente dal comune anche attraverso lo svolgimento di attività di merchandising, vincolando in ogni caso la destinazione dei proventi ad esso connessi al finanziamento delle attività istituzionali o alla copertura dei disavanzi pregressi dell'ente". Queste disposizioni consentono sia ai Consorzi di tutela delle denominazioni d'origine, sia agli enti pubblici territoriali di utilizzare al meglio i nomi geografici e gli altri simboli legati al territorio come strumento per valorizzare tutte le esternalità positive legate alla fama del territorio medesimo (e sappiamo bene che in Italia non vi è area geografica che non abbia peculiarità geografiche, storiche o ambientali di valore!), non solo vietando ogni forma di free-riding e di sfruttamento parassitario di essa, ma anche - in positivo - consentendo loro di monetizzare questa fama, in particolare concedendo questi segni in uso a imprese operanti sul territorio, naturalmente imponendo ad esse limiti precisi per evitare che i segni stessi divengano fonte di inganno, e quindi facendo anche da volano per lo sviluppo di iniziative localizzate nella propria area territoriale [33].

Questa possibilità è significativa - e foriera di innescare circoli virtuosi, sia per le casse degli enti, sia per le attività economiche locali - là dove al territorio sono legate tipicità produttive (anzitutto, ma non solo, agro-alimentari: si pensi all'artigianato tipico), perché in tal caso si possono immaginare registrazioni di marchi, individuali o collettivi, diretti a sfruttare la fama dei prodotti tipici al fine di promuovere più in generale le attività del territorio, sempre servendosi quindi dello strumento del marchio come volano per la crescita, ma al tempo stesso come fonte di reddito, mediante la percezione dei canoni di licenza ed eventualmente attività di merchandising territoriale, naturalmente da studiare caso per caso.

Anche in questo caso il limite a queste possibilità consiste nei diritti consolidati di terzi, anche solo all'uso in funzione non distintiva di questi segni: anche se non si può escludere che una mutata percezione del pubblico possa comportare la decadenza di questi diritti o consentirne diverse forme di sfruttamento in funzione distintiva. La chiave di volta, ancora una volta, sarà rappresentata dalla percezione del pubblico, che è l'elemento decisivo sia per stabilire se un segno è tutelabile - ciò che presuppone che esso consista in una realtà che i consumatori percepiscano appunto come "segno", ovvero come portatrice di un significato, e che questo significato sia specifico, e quindi indichi (anche) l'esistenza di un'esclusiva sull'uso di esso in un determinato settore in capo ad un soggetto che assume la responsabilità per le caratteristiche dei prodotti o dei servizi da esso contrassegnati -, sia per delimitarne l'ambito di tutela, in piena coerenza con le indicazioni che vengono dal diritto comunitario.

Tutto questo delinea quindi un nuovo equilibrio tra esclusive, concorrenza e contratti nel quale la protezione può essere riconosciuta solo a ciò che davvero questa protezione richiede, nella consapevolezza del fatto che le norme sono chiamate a disciplinare realtà concrete e che la giustificazione di esse è strettamente connessa con l'esperienza umana di queste realtà, secondo una prospettiva, che potremmo definire giusnaturalistica, di adeguamento del diritto alle relazioni interpersonali della vita reale [34].

 

Note

[1] Così Corte cass., 9 dicembre 1960, n. 3215, in Giust. civ., 1960, I, pag. 2063 s. e Corte cass., 29 ottobre 1966, n. 2709, in Riv. dir. ind., 1967, II, pag. 154 s., entrambe relative al marchio "Borgosesia"; App. Catanzaro, 15 dicembre 1989, in Giur. ann. dir. ind., 1989, pag. 648 s.; Trib. Torino, 11 maggio 1987, ivi, 1988, pag. 245 s.; App. Torino, 26 ottobre 1972, ivi, 1972, pag. 1630 s.; App. Milano, 14 settembre 1962, in Riv. propr. int. ind., 1962, pag. 269 s.

[2] In questo senso si vedano ad esempio Corte cass., 20 ottobre 1982, n. 5462, in Giur. ann. dir. ind., 1982, pag. 63 s.; Trib. Milano, 3 aprile 1973, ivi, 1973, pag. 558 s.; App. Genova, 26 luglio 1971, ivi, 1972, pag 136 ss.; App. Milano, 29 dicembre 1967, in Riv. dir. ind., 1968, II, pag. 26 ss. ecc.

[3] Così Trib. Voghera, 15 febbraio 2000, in Giur. ann. dir. ind., 2000, pag. 802 ss., che su questa base aveva ammesso la registrabilità come marchio (individuale) del nome "La Versa" per vini prodotti in Valle Versa. In dottrina sempre nel senso che l'art. 20 legge marchi riguardasse il solo procedimento amministrativo di concessione si vedano M. Ammendola, Originalità del marchio, denominazioni di luogo e secondary meaning, in Riv. dir. ind., 1981, II, pag. 259, secondo il quale "in assenza di un intervento ostativo da parte dell'ufficio, il contrassegno deve considerarsi valido a tutti gli effetti"; e A. Pesce, Marchio contenente una espressione geografica, in Riv. dir. ind., 1967, II, pag. 161. In argomento si veda da ultimo J. Liguori, Il marchio collettivo, in Codice commentato della proprietà industriale e intellettuale, (a cura di) C. Galli - A.M. Gambino, Torino, 2011, pag. 132 s., pag. 138.

[4] Per la più compiuta illustrazione di questa concezione richiamo il mio Comunicazione d'impresa e segni distintivi: le linee evolutive, in Il dir. ind., 2011, pag. 119 ss.

[5] In tal senso si veda A. Vanzetti - M. Di Cataldo, Manuale di diritto industriale7, Milano, 2012, pag. 297 ss.

[6] Anche sotto il profilo soggettivo la differenza tra marchi individuali e collettivi è molto attenuata. Nel sistema comunitario la titolarità dei marchi appartenenti a questa tipologia è inoltre riservata agli enti pubblici ed alle "associazioni di fabbricanti, produttori, prestatori di servizi o commercianti" (art. 64 Regolamento C.E. n. 207/2009), mentre i marchi collettivi nazionali possono essere concessi in capo a tutti i "soggetti che svolgono la funzione di garantire l'origine, la natura o la qualità di determinati prodotti o servizi" (art. 11, comma 1° C.P.I.). Opera del pari sia per i marchi individuali che per quelli collettivi la regola di cui all'art. 170 C.P.I. relativa al settore agricolo e agroalimentare, che chiama in causa direttamente il Ministero delle Politiche Agricole e Comunitarie, stabilendo che "Per i marchi relativi a prodotti agricoli ed a quelli agroalimentari di prima trasformazione, che utilizzano denominazioni geografiche, l'Ufficio trasmette l'esemplare del marchio ed ogni altra documentazione al Ministero delle politiche agricole e forestali, che esprime il parere di competenza entro dieci giorni dal ricevimento della relativa richiesta".

[7] Per questa sottolineatura si veda ancora J. Liguori, Il marchio collettivo, cit., pag. 136 che ricorda come il fatto che l'esistenza di questi controlli sia un elemento essenziale del messaggio trasmesso dal marchio, in quanto "alla funzione di garanzia cui i marchi collettivi presiedono è necessariamente inerente appunto la possibilità di controlli da parte del titolare" era già stato messo in luce, appunto in questi termini, da A. Vanzetti - C. Galli, La nuova legge marchi², Milano, 2001, pag. 58.

[8] Nel senso che questa sia stata in particolare una delle linee portanti della riforma del 2010 del Codice della proprietà industriale mi ero espresso già in La tutela della comunicazione d'impresa e la generalizzazione della protezione contro il parassitismo, in Codice della proprietà industriale: la riforma del 2010, (a cura di) C. Galli, Milano, 2010, pag. 20.

[9] Per la più compiuta esposizione di questa concezione si vedano P. Frassi, Lo statuto di non decettività del marchio tra diritto interno, diritto comunitario ed alla luce della disciplina sulle pratiche commerciali ingannevoli, in Riv. dir. ind., 2009, I, pag. 29 ss.; C. Galli, Lo "statuto di non decettività" del marchio: attualità e prospettive di un concetto giuridico, in Studi in memoria di Paola Frassi, Milano, 2010, pag. 371 ss.; e M. Riva, Commento all'art. 14 C.P.I., in Codice commentato della proprietà industriale e intellettuale, cit., p. 193 e ss.

[10] Cfr. in particolare Kamperman Sanders-Maniatis, A Consumer Trade Mark: Protection Based on Origin and Quality, in EIPR, 1993, pag. 406 ss.

[11] Per questa evoluzione della funzione del marchio rimando a C. Galli, Protezione del marchio e interessi del mercato, in Studi Vanzetti, Milano, 2005, pag. 661 ss. e Id., I marchi nella prospettiva del diritto comunitario: dal diritto dei segni distintivi al diritto della comunicazione d'impresa, in AIDA, 2007, pag. 240 ss.

[12] Comm. Brevetti 7 ottobre 1994, in Il dir. ind., 1995, pagg. 151-152. Questa interpretazione è stata accolta dalla Commissione dei ricorsi, che in una delle prime pronunce che abbiano fatto applicazione della norma novellata ha ritenuto che essa "conferma implicitamente l'orientamento giurisprudenziale precedente favorevole alla possibilità di adottare come marchio un nome geografico assunto in funzione fantastica, e cioè senza alcun riferimento all'origine del prodotto" (Comm. ricorsi, 7 ottobre 1994, ne Il dir. ind., 1995, pagg. 151-152, con nota di G.A. Grippiotti). Registrabili dovrebbero ritenersi inoltre il nome geografico che indichi "una zona interamente di proprietà del produttore", il che può avvenire ad esempio per nomi di fondi agricoli di limitate dimensioni (così M. Libertini, Indicazioni geografiche e segni distintivi, in Riv. dir. comm., 1997, I, pag. 1033 s., a pag. 1054), e quello che corrisponde ad un toponimo ormai desueto di una località: così P. Stella Richter, I segni registrabili, in Commento tematico della legge marchi, (a cura di) G. Marasà, P. Masi, G. Olivieri, P. Spada, M.S. Spolidoro e P. Stella Richter, Torino, 1998, pag. 197; in giurisprudenza nello stesso senso si veda App. Roma, 7 febbraio 1994, in Giur. ann. dir. ind., 1994, pag. 628 ss., secondo cui "Ad un marchio di vino costituito dall'antico nome di una località non può essere applicata la disciplina propria del marchio geografico quando dalle mappe catastali risulta che il nome di questa località è stato cambiato in epoca anteriore alla registrazione del segno"; si vedano anche Trib. Roma, 14 ottobre 1997, in Giust. civ., 1998, I, pag. 3271, che ha ritenuto che "Costa Smeralda" non è un toponimo liberalmente utilizzabile e suscettibile di sfruttamento da chiunque ma un nome di fantasia creato da un consorzio di proprietari ed operatori turistici, registrato come marchio per tutte le classi merceologiche, che ha finito per denominare una famosa zona geografica. Il marchio Mario Valentino Costa Smeralda, successivamente registrato, costituisce usurpazione del marchio Costa Smeralda"; e Trib. Vercelli, 16 luglio 1979, ivi, 1979, pag. 656 ss., che sempre in base alla stessa ratio ha espressamente ammesso la registrabilità di un toponimo che non figuri più nell'annuario dei comuni e delle frazioni. Sempre nel senso che i limiti alla registrazione ed alla tutela come marchi dei toponimi riguardino, anzitutto per ragioni di certezza del diritto, solo i toponimi ufficiali e non genericamente i nomi designanti un luogo, sembra anche L.C. Ubertazzi, Commentario breve alle leggi su Proprietà Intellettuale e Concorrenza4, Padova, 2007, pag. 231, che sottolinea come "Nel campo dei marchi geografici presenta il massimo rilievo la topografia ufficiale, se non altro ai fini della certezza delle indicazioni e della risoluzione dei conflitti".

[13] Così ad esempio Corte giust., 4 maggio 1999, c. 108/97 e 109/97.

[14] Sul punto si vedano per tutti un testo istituzionale come A. Vanzetti - V. Di Cataldo, Manuale di diritto industriale7, cit., pag. 182, che ha appunto rilevato come la ratio della norma imponga di interpretare il divieto come riferito alla registrazione dei soli nomi geografici che indicano la provenienza di prodotti tipici del territorio cui il toponimo si riferisce, mentre lascia aperta la possibilità di registrare ogni altro nome geografico, anche quando indica il luogo di effettiva sede del produttore o del prestatore di servizio, in quanto "il nome di quel luogo non ha alcuna funzione descrittiva delle qualità del prodotto"; e nello stesso senso in giurisprudenza Corte cass., 11 ottobre 1994, n. 8292, in Giust. civ. Mass., 1994; Corte cass., 20 ottobre 1982, n. 5462, in Giur. ann. dir. ind., 1982, pag. 63 s.; Trib. Milano, 3 aprile 1973, ivi, 1973, pag. 558 s.; App. Genova, 26 luglio 1971, ivi, 1972, pag. 136 ss.; App. Milano, 29 dicembre 1967, in Riv. dir. ind., 1968, II, pag. 26 ss.; Comm. Ricorsi UIBM, 7 ottobre 1994, in Il dir. ind., 1995, pagg. 151-152; ed ancor più di recente Trib. Catania, 12 maggio 2006, in Giur. ann. dir. ind., 2007, n. 5089, che ha appunto affermato che "Il nome di una contrada siciliana e di un omonimo castello (nella specie Donnafugata) può essere validamente registrato per vini, non avendo alcuna aderenza concettuale con il prodotto che contraddistingue" (e si badi che si trattava qui di un nome certamente famoso, non foss'altro per il ruolo che vi assume nel celeberrimo romanzo Il Gattopardo!), sulla scorta dell'insegnamento della Corte di legittimità nel senso di valutare la tutelabilità di un segno geografico in relazione ai prodotti o servizi che esso deve contraddistinguere in concreto.

[15] Corte Giust. C.E., 7 gennaio 2004, nel procedimento C-100/02.

[16] Così Corte Giust. C.E., 17 marzo 2005, nel procedimento C-228/03, punti 41-45 della decisione; la stessa sentenza ha altresì ritenuto, al punto 46, che a tal fine occorra "prendere in considerazione la presentazione complessiva del prodotto messo in commercio dal terzo, segnatamente in che modo il marchio di cui il terzo non è il titolare è evidenziato in tale presentazione, in che modo tale marchio e il marchio o il segno del terzo sono stati differenziati nonché lo sforzo fatto da tale terzo per garantire che i consumatori distinguano i suoi prodotti da quelli del cui marchio egli non è titolare". In dottrina rinvio a C. Galli, Le limitazioni del diritto di marchio, in Codice commentato della proprietà industriale e intellettuale, cit., pag. 340 ss.

[17] Come anche qui si era sostenuto da parte della nostra dottrina in particolare C. Galli, Attuazione della Direttiva n. 89/104/CEE del Consiglio del 21 dicembre 1988, recante ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d'impresa. Commentario, in Nuove leggi civ. comm., 1995, pag. 1133 ss., spec. pag. 1151; e nello stesso senso A. Vanzetti - C. Galli, La nuova legge marchi², cit., pag. 48. Nella nostra giurisprudenza nazionale si veda sempre nello stesso senso Corte cass., 22 novembre 1996, n. 10351, in Giur. ann. dir. ind., 1996, pag. 114 ss., che ha affermato che "Ai sensi dell'art. 1-bis legge marchi l'uso del proprio nome personale e del proprio indirizzo in una attività commerciale è lecito nei confronti di un precedente marchio registrato se ... non realizza alcun tipo di sfruttamento parassitario dell'altrui segno commerciale".

[18] Conclusioni presentate dall'Avvocato Generale Stix-Hackl il 10 luglio 2003 nel procedimento C-100/02.

[19] Non invece di un marchio individuale, quanto meno successivo: la giurisprudenza comunitaria ha infatti chiarito che "L'Uami è tenuto ad applicare il regolamento 40/94 (oggi Regolamento 208/2009: n.d.r.) in modo da non pregiudicare la tutela concessa alle DOP" e che "di conseguenza l'Uami deve respingere la domanda di registrazione di ogni marchio che si trovi in una delle situazioni descritte all'art. 13, regolamento n. 2081/92 (oggi Regolamento n. 510/2006, su cui si veda ampiamente infra nel testo: n.d.r.) e se il marchio è già stato registrato deve dichiararne la nullità" (Trib. C.E., 12 settembre 2007, nel procedimento T-291/03, punti 55 e 56); e che "i marchi registrati successivamente alla domanda di registrazione non possono essere considerati idonei a identificare i membri di un'associazione, nei limiti in cui i marchi in parola non sono stati registrati e utilizzati per un lungo periodo prima dell'adozione del regolamento che registra la denominazione" (Trib. C.E., 13 dicembre 2005, nel procedimento T-381/02, punto 79), lasciando così intendere che il divieto di registrazione previsto dalla norma in commento non può essere superato nemmeno ove il richiedente la registrazione di marchio sia in realtà un soggetto legittimato ad utilizzare la D.O.P./I.G.P.

[20] Art. 53, comma 16 della legge 24 aprile 1998, n. 128 (legge comunitaria per gli anni 1995-1997), come sostituito dall'art. 14 della legge 21 dicembre 1999, n. 526.

[21] Espressamente in questo senso si veda S. Magelli, I marchi geografici, in AA.VV., Il futuro dei marchi di fronte alle sfide della globalizzazione, Parma, 2004, pag. 36. In giurisprudenza ha ritenuto tutelabile il marchio collettivo "Prosciutto di Parma", corrispondente all'omonima D.O.P. e appartenente al Consorzio di Tutela del Prosciutto di Parma, Trib. Parma, ord. 22 gennaio 2001, pubblicata in C. Galli, I domain names nella giurisprudenza, Milano, 2002. Il tema rimane peraltro dibattuto, con opinioni contrastanti: per una rassegna delle diverse posizioni si veda A. Contini, Le possibili interferenze tra diritti su DOP e IGP e diritti di marchio, in Codice commentato della proprietà industriale e Intellettuale, cit., pagg. 2302-2305.

[22] In argomento si veda M. Libertini, Indicazioni geografiche e segni distintivi, cit., pagg. 1040-1041, secondo il quale "la funzione del marchio collettivo geografico è analoga a quella delle d.o.p."; e più ampiamente C. Galli, Globalizzazione dell'economia e tutela delle denominazioni di origine dei prodotti agro-alimentari, in Riv. dir. ind., 2004, I, 60 e ss.

[23] Per questi rilievi rimando ancora al mio Protezione del marchio e interessi del mercato, cit.

[24] Espressamente in tal senso cfr. Galli, Globalizzazione dell'economia e tutela delle denominazioni di origine dei prodotti agro-alimentari, cit., pagg. 79-80.

[25] Tale Regolamento, che ha preso i posto del Regolamento C.E.E. n. 2081/92, non si applica né ai prodotti del settore vitivinicolo (ai quali si applicano invece il Regolamento C.E. n. 479/2008, il Regolamento C.E. n. 607/2009 e Regolamento C.E. n. 491/2009), né alle bevande spiritose (specificamente disciplinate dal Regolamento C.E. n. 110/2008). Per un esame della normativa nazionale e comunitaria relativa al settore vitivinicolo si veda ancora il mio Globalizzazione dell'economia e tutela delle denominazioni di origine dei prodotti agro-alimentari, cit., pag. 68 ss.

[26] In tal senso G.E. Sironi, Conflitti tra marchi e indicazioni comunitarie di qualità (DOP, IGP, STG), in Le indicazioni di qualità degli alimenti, (a cura di) B. Ubertazzi, E. Espada, Milano, 2009, pag. 215. In senso critico, sulla base del rilievo che "la norma indica un criterio preciso per la valutazione che la Commissione deve compiere, e cioè quello di stabilire se la denominazione è 'tale da indurre in errore il consumatore quanto alla vera identità del prodotto', il che può certamente presentare margini di incertezza, ma non consente alla Commissione di effettuare un bilanciamento tra gli interessi contrapposti che vengono in considerazione nel caso di specie" si veda A. Contini, Il divieto di registrazione per le denominazioni generiche e per i nomi di varietà vegetali e di razze animali e i conflitti con gli omonimi e con i marchi, in Codice commentato della proprietà industriale e Intellettuale, cit., pag. 2250 ss.

[27] Si veda in particolare Corte Giust. C.E., 4 marzo 1999, nel procedimento C-87/97, che al punto 41 ha precisato che "l'ipotesi di diniego di registrazione, di nullità del marchio o di decadenza dei diritti del titolare che ostano alla prosecuzione dell'uso del marchio medesimo ai sensi dell'art. 14 del regolamento presuppongono l'accertamento di un inganno effettivo o di un rischio sufficientemente grave di inganno del consumatore".

[28] In tal senso si veda già il mio più volte richiamato Globalizzazione dell'economia e tutela delle denominazioni di origine dei prodotti agro-alimentari, cit., pagg. 77-78 ed altresì D. Sarti, La tutela delle indicazioni geografiche nel sistema comunitario, in Le indicazioni di qualità degli alimenti, cit., pag. 343 e A. Contini, Le possibili interferenze tra diritti su DOP e IGP e diritti di marchio, cit., pag. 2299 ss.

[29] Trib. C.E., 11 maggio 2010, nel procedimento T-237/08, secondo cui "la registrazione del marchio richiesto va rifiutata per il solo motivo che detto marchio contiene o consiste in un'indicazione geografica che identifica vini che invece non hanno tale origine" e che "ne discende che la circostanza che il nome che beneficia di una denominazione di origine controllata sia sconosciuto al grande pubblico o agli ambienti interessati, o che presenti un carattere polisemico tale da affievolire l'indicazione geografica del medesimo, è priva di rilevanza per l'applicazione dell'impedimento assoluto alla registrazione di cui all'art. 7, n. 1, lett. j), del regolamento n. 40/94".

[30] Si veda ancora A. Contini, Le possibili interferenze tra diritti su DOP e IGP e diritti di marchio, cit., pagg. 2300-2301.

[31] Vedi https://www.aippi.org/download/commitees/191/RS191English.pdf.

[32] Ciò vale in particolare per le denominazioni protette in base a Convenzioni internazionali stipulate con Paesi estranei all'Unione Europea in epoca anteriore al Trattato: tale è in particolare, per i rapporti tra Italia e Svizzera, la Convenzione di Stresa del 1951 sulla protezione delle denominazioni dei formaggi, che recentemente è stata ritenuta applicabile a tutela della D.O.P. elvetica "Emmentaler" da Trib. Milano, 17 marzo 2012, in www.darts-ip.com (in argomento si veda C. Galli, Swiss Emmentaler protected in Italy as denomination of origin even without EU registration, in www.worldtrademarkreview.com).

[33] Su queste possibilità si veda già A. Contini, Le opportunità di sfruttamento della nuova protezione delle denominazioni di origine e il suolo dei Consorzi, in Codice della proprietà industriale: la riforma 2010, cit., pag. 43 ss.

[34] Per questa impostazione richiamo il mio saggio La proprietà industriale tra diritto internazionale e diritti naturali, in AA.VV., L'incidenza del diritto internazionale sul diritto civile (Atti del V Convegno Nazionale SISDIC), Napoli, 2011, pag. 117 ss.

 

 

 



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