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Editoriale

L'Italia dei terremoti: quello che c'è e quello che è ancora da imparare

di Marco Cammelli

"The Italy of earthquakes": what is and what is yet to be learned
Drawing on the Bruno Zanardi and Enzo Siviero's observations, the Director of this Journal outlines the limits (resistance of center to any attempt to reform, center-periphery relation) and the delays (training of operators) that earthquakes and calamities lay punctually bare on the institutional system.

Se conoscere è indispensabile per decidere, a maggior ragione si deve conoscere per riformare. Con il corollario, altrettanto noto, che i saperi sono per lo più in mano a coloro che avendo pratica quotidiana e professionale con i problemi da affrontare sono spesso i primi a resistere al cambiamento del contesto in cui si sono sviluppati.

Insomma, consapevolmente o meno, chi sa tende a conservare e chi vuole innovare spesso non sa come arrivarci.

I terremoti e in generale le calamità, che ahimé tali sono e tali restano, hanno almeno un vantaggio: quello di mettere a nudo in modo istantaneo, come succede in tempo di guerra per gli edifici colpiti, uno spaccato che permette di individuare nel dettaglio i dati strutturali e il funzionamento quotidiano di un sistema.

Gli interventi di Bruno Zanardi e di Enzo Siviero, diversi per taglio e linguaggio, traggono spunto da queste realtà per considerazioni che meritano di essere meditate e discusse perché ne mettono in luce le cause profonde. Che sono tante, ma non infinite. E che sopratutto è bene esplicitare non per tardive querelles tra incanutiti polemisti, ma perché per chi vuole cambiare davvero non c'è principio di realtà disgiunto dal principio di responsabilità e dalle puntuali, ancorché equilibrate, analisi che vi si accompagnano.

La prima, in un ordine non di importanza, è quella dell'Università e del mondo accademico. Tutte e due, e Siviero in particolare, puntano il faro sull'importanza decisiva della formazione culturale (specie universitaria) di quelli che poi diventeranno sui vari fronti del restauro e del paesaggio i protagonisti tecnici - come dirigenti, professionisti, funzionari, operatori - del settore. È vero che le errate interpretazioni dell'ordinamento comunitario hanno reso ancor più difficili gli apporti degli Atenei alle politiche e agli interventi pubblici in materia di infrastrutture, ambiente, beni culturali, ed è innegabile che i forti tagli di risorse uniti all'applicazione di riforme (come quella Gelmini) ad alto tasso di razionalizzazione aziendale e tiepido interesse per le variabili culturali non hanno migliorato la situazione. Ma il resto, ed è un resto consistente, è frutto di divisioni settoriali, di gelosie accademiche, di inerzie o di vere e proprie (ahimé) carenze culturali riferibili al mondo universitario di cui quest'ultimo nel suo insieme non pare né consapevole né pronto ad avviare il discorso.

La seconda, ed è un punto su cui questa Rivista batte fin dal primo numero, è la rocciosa e ormai secolare impermeabilità del centro rispetto a tutte le ipotesi di cambiamento imposte con vigore dal mutare dei tempi o timidamente avanzate da singoli esperti o ambienti. Immobilità che si esprime mantenendo immutati tutti i propri elementi fondanti (strutture, normativa, personale, ruolo) con il ricorso alla più sperimentata delle tecniche di resistenza: lo stagionale e incessante varo di leggi di riforma, meglio se a vasto raggio, sufficiente a garantire l'immobilità del tutto.

Bersaglio pienamente raggiunto, si deve dire, grazie alle premesse culturali (ancora una volta!) che Zanardi mette nitidamente in luce e all'effetto paralizzante dell'Hannibal ad portas - la congenita voracità delle imprese, la strumentalità degli sponsor, l'insipienza e la corruttività degli amministratori pubblici, il localismo di regioni e comuni, la globalizzante avidità di grandi imprese planetarie - di volta in volta evocato. Senza mai, o quasi mai, chiedersi quanto questi rischi siano stati enormemente dilatati e in qualche caso addirittura generati da obbiettivi strategici mancati, da impegni solennemente assunti (e sostanziosamente finanziati: v. catalogazione dei beni cultuali) e disattesi, dalla mancanza di coordinamento tra gli stessi organi centrali e periferici del Mibac, dal tasso di discrezionalità, discontinuità e opacità che anche per questo ne è derivato sull'operatività quotidiana dell'amministrazione attiva, dal rifiuto di micro innovazioni possibili e in grado di migliorare le piccole cose in attesa della soluzione delle grandi.

In una parola: al netto dell'impegno di una parte del personale al limite del vero e proprio eroismo (un motivo in più per considerarlo il primo interessato alle riforme, quelle "vere"), quanto le disfunzioni grandi e piccole del sistema pubblico e sopratutto del Mibac, largamente precedenti ai tagli di spesa degli ultimi anni, abbiano finito per rendere difficoltosa agli occhi dei soggetti interessati al settore (privati e pubblici, domestici e stranieri, nazionali e sovranazionali) per mancanza di prevedibilità ogni iniziativa, imprudente ogni affidamento, dubbio ogni progetto.

Tutto questo senza togliere neppure un grammo dei disastri che, anche grazie a queste fragilità, dinamiche campanilistiche, imprenditori senza scrupoli, amministratori corrotti hanno combinato. Ma per chiarire, e ce n'è bisogno, che quanto detto ha giocato un ruolo determinante, che nasce da ragioni precise e con responsabilità innegabili, e che (anche) da qui si deve muovere per cambiare le cose.

La terza questione è meno consueta, e riguarda tout court il profilo istituzionale e i rapporti centro-periferia.

Della questione regionale, e della complessiva valutazione da darne, ho detto di recente e a questa sede, anche per l'importante dibattito che ne è emerso, mi limito a rinviare [1]. Ma il tema regionalizzazione/ambiente/beni culturali è, per i profili qui considerati, particolarmente illuminante perché l'avvento delle regioni e la rivendicazione del ruolo da giocare in questi ambiti, come Zanardi ricorda, uniti alle resistenze degli apparati centrali e all'irrisolta forma istituzionale di innesto delle autonomie territoriali hanno finito per generare, in termini sistemici e di lungo periodo, una perfetta somma negativa: da un lato le regioni e i sistemi locali troppo deboli e frammentati per attrezzarsi adeguatamente (con qualche rara eccezione, come ad esempio l'Istituto dei Beni Culturali in Emilia-Romagna) alle nuove funzioni; dall'altro il centro ministeriale, cui il decentramento temuto (e non realizzato) ha offerto un alibi d'oro per mantenere intatto l'assetto preesistente.

Con una postilla, che porta a precisare una possibile implicazione di quanto osservato da Zanardi sulla resistenza delle regioni rispetto a strade innovative proposte da agenzie delle partecipazioni statali (Tecneco del gruppo Eni) o da gruppi di esperti(Giovanni Urbani) negli anni '70.

Il tema dei tecnici e del loro ruolo, così determinante nei sistemi complessi del nostro tempo e nei processi di integrazione sovranazionale di cui il livello comunitario è primo ma non unico esempio, nel nostro paese non ha fatto un passo avanti ed anzi negli ultimi anni rischia di farne indietro. Per ragioni antiche, perché la rilevanza degli oggetti trattati mal si concilia agli occhi della politica con lo statuto di autonomia rivendicato da queste strutture e da questi saperi; e per ragioni attuali, perché la maggiore (ed autonoma) legittimazione popolare dei tecnici ha portato questi ultimi a rivestire crescenti e dirette responsabilità politiche (basti pensare ai ministri provenienti da Banca d'Italia o dall'Istat) fino a connotare un intero esecutivo (Governo Monti). Ove a ben vedere, in termini di rischiosità e di dinamiche di marginalizzazione di funzioni chiave come la rilevazione e elaborazione dati la seconda modalità, e cioè il coinvolgimento diretto nella politica, è certamente più insidiosa della prima, vale a dire la semplice resistenza alla loro autonomia.

In questi termini, però, il profilo appena richiamato si conferma come uno dei nodi centrali e irrisolti non solo della regioni o della sinistra, ma dell'intera crisi italiana. Sarebbe bene che anche all'interno del Mibac, dove si tende a confondere il perimetro del ministero con le colonne d'Ercole del sistema pubblico delle attività e dei beni culturali, di tutto questo vi sia più consapevolezza.

Magari tenendone conto nella prossima, e inevitabile, "riforma".

 

Note

[1] Cfr. AA.VV., Ripensando le regioni, in Le Regioni, 2012, 4, pag. 665 ss.

 

 



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