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Incontro di studio L'intervento pubblico per la promozione
delle attività culturali – Cinema e spettacolo dal vivo

(Roma, 9 ottobre 2007)

Le regole del gioco: azione pubblica e spettacolo dal vivo al bivio

di Michele Trimarchi

Sommario: 1. L'ennesima sindrome di Stoccolma?. - 2. Elementi di debolezza nel disegno dell'azione pubblica. - 3. I mercati dello spettacolo: una rilettura critica.

1. L'ennesima sindrome di Stoccolma?

Tra le numerose ambiguità irrisolte che caratterizzano il recente passato e il presente del nostro Paese un posto di tutto rispetto è occupato dallo spettacolo dal vivo, tanto sotto il profilo della struttura produttiva e distributiva, quanto sotto quello dei criteri e dei meccanismi dell'azione pubblica che ne disciplina il sostegno. Regolamentato in entrambi i profili da una congerie piuttosto farraginosa di leggi, decreti, circolari e prassi, il settore soffre negli ultimi anni di un vistoso e progressivo scollamento tra le opportunità innovative sul piano sostanziale da una parte, e la cristallizzazione organizzativa su quello formale dall'altra.

L'evoluzione della normativa e dei profili strutturali del settore è nota, e può essere necessario sintetizzarne appena i fondamenti: complessità e burocratizzazione delle procedure, preferenza per i profili dimensionali rispetto a quelli metodologici, assenza di monitoraggio e sanzione, disincentivi all'innovazione e alla razionalizzazione, indifferenza nei confronti della performance gestionale, forti barriere all'ingresso e all'uscita, ruolo opaco delle agenzie, norme che accentuano il divario tra forti e deboli, resistenza alle innovazioni legislative. Il quadro, già di per sé poco incoraggiante, è stato negli ultimi anni aggravato da uno stato di incertezza quanto alle attribuzioni tra i livelli di governo, nonostante il referendum del 1993 e le "leggi Bassanini" indicassero con chiarezza la via della regionalizzazione.

E' necessario osservare che questa situazione non è il frutto di una scelta inefficace operata sotto la pressione di contingenze sfavorevoli, ma il risultato del consolidarsi progressivo di una relazione statica e comoda tra il settore pubblico e i destinatari della sua azione di sostegno. Si tratta di una relazione di "cattura regolatoria", ossia di una sorta di sindrome di Stoccolma in base alla quale i produttori di spettacolo accettano meccanicamente e senza riserve le norme regolamentari loro imposte, in cambio della garanzia di stabilità del sostegno e di chiusura del mercato. Non è necessario che tale cattura sia esplicitamente negoziata, basta che il suo svolgersi e i suoi effetti siano evidenti a entrambe le parti in causa.

Il risultato di questa stasi è un settore produttivo che mostra una capacità molto limitata di rispondere adeguatamente ai bisogni e alle aspettative di un sistema economico la cui scala di valori è fondata sulla conoscenza e nel quale, pertanto, lo spettacolo può occupare una posizione focale anche alla luce dell'evoluzione tecnologica e della conseguente possibilità di intrecciare relazioni stabili e intense con mercati contigui. Non sono pochi i casi che mostrano un efficace tentativo di costruire un processo strategico, gestionale e produttivo che risponda alle opportunità emergenti dal nuovo paradigma economico (Deganutto e Trimarchi, 2008), ma si tratta tuttora di esperienze isolate e non sistematiche; pertanto, riconoscendo il merito a coloro che hanno in qualche misura spostato il proprio piano d'azione dalla continuità all'innovazione, si deve sottolineare che il sistema dello spettacolo nel suo complesso appare tuttora paralizzato.

In effetti, nonostante si possa dire che già quindici anni fa la questione di un cambiamento radicale era stata posta con forza dal referendum e dalle reazioni normative che ne congelavano i risultati, il settore dello spettacolo ha rifiutato finora qualsiasi possibilità di promuovere una discussione complessiva sulle regole del sostegno pubblico (e dunque sulle modalità della propria stessa sopravvivenza, in un contesto come quello italiano), limitando la propria azione di pressione sul settore pubblico a rivendicazioni relative alle mere dimensioni del finanziamento, senza porne in discussione principi, criteri e meccanismi.

Se alcuni segnali di attenzione nei confronti delle possibili evoluzioni vengono dalle amministrazioni regionali, la cruciale importanza del Fondo Unico dello Spettacolo ai fini dell'esistenza stessa del settore dello spettacolo ha fatto sì che non si intraprendesse un'analisi volta a elaborare nuove modalità di gestione del FUS, quanto meno verificando l'attuale rispondenza delle attività realizzate con la gerarchia delle organizzazioni che caratterizzava il settore alcuni decenni fa. Un ente lirico e un teatro di tradizione di vent'anni fa giustificano tuttora la propria appartenenza rispettiva alle due categorie? Il ruolo e la rilevanza della danza sono mutati negli ultimi anni? Che cos'è un festival negli anni in cui le piazze discutono di letteratura e di scienza, rispetto agli anni Ottanta? Se evoluzione c'è stata, un adeguamento delle relazioni tra settore pubblico e spettacolo dal vivo dovrebbe risultare consequenziale, superando l'attuale stretta banda di negoziato concentrata sul quantum della spesa pubblica, e non sul più importante quomodo.

2. Elementi di debolezza nel disegno dell'azione pubblica

Sono molteplici i punti critici nella struttura e nella disciplina dell'azione pubblica a sostegno dello spettacolo dal vivo. Senza voler necessariamente revocare tutto l'impianto in dubbio, si deve tuttavia rilevare che alcuni aspetti dell'attuale normativa in materia sembrano contribuire in misura determinante all'attuale limbo sia sotto il profilo delle regole sia sotto quello dei finanziamenti. Due di questi si devono considerare preliminari.

In primo luogo, il governo della spesa e delle altre azioni in materia di spettacolo dal vivo è tuttora attribuito a una molteplicità di istituzioni. Per quanto si sia superata la compresenza di numerosi ministeri (Trimarchi, 1999) che caratterizzava il versante istituzionale fino agli anni Novanta, e considerando che la parte fondamentale della spesa è gestita dal ministero per i Beni e le Attività culturali, si deve comunque ricordare che alcuni fondi non secondari, come i proventi del lotto infrasettimanale, le quote di gettito destinate allo Stato italiano con l'otto per mille dell'imposta sui redditi, nonché le somme filtrate attraverso la società Arcus, vengono gestiti al di fuori da, e indifferentemente rispetto alla spesa del Mbac, il che può creare effetti perversi in termini distributivi, alterando la gerarchia degli interventi che almeno sul piano astratto dovrebbe corrispondere a una scala omogenea di priorità.

Simmetricamente, per quanto si ritiene che questo non debba rappresentare l'argomento fondamentale della discussione, va detto che le riduzioni progressive dei fondi registrate negli ultimi anni hanno finito per penalizzare in misura sensibile tanto l'offerta quanto, di conseguenza, la domanda di spettacoli dal vivo, accentuando la sensazione e la situazione di precarietà e di fragilità del settore. Accrescere i fondi continuando ad assegnarli secondo criteri e meccanismi deboli e obsoleti non è certamente un modo efficace di affrontare la questione della sostenibilità del settore; ma decrescerne progressivamente la dimensione è certamente penalizzante per tutti, qualunque sia stata l'attività svolta e siano allo stato attuale i progetti e le prospettive. Vi è un livello di guardia dei fondi statali dal quale non si dovrebbe prescindere, a causa del rischio di irreversibilità che può segnare una serie di organizzazioni meno solide.

A questi due aspetti critici si deve aggiungere un dato per così dire di scenario, rappresentato dalle relazioni tra Stato, regioni ed enti locali. Relazioni di reciproca indifferenza nel passato, di concorrenza nell'attuale incerta temperie. Il paradossale risultato di queste imperfette relazioni è la coesistenza di tre o quattro fonti di finanziamento incidenti non soltanto sulla stessa organizzazione, ma disegnati in modo sostanzialmente uguale, con l'effetto di replicare - attraverso i diversi livelli di governo - le debolezze e le criticità del sistema; sul piano simbolico, tuttavia, nonostante ciascuna organizzazione sia normalmente finanziata da più livelli di governo, si continua a ritenere importante rimanere nella lista dei destinatari del Fondo Unico dello Spettacolo, anche in casi nei quali il contributo accordato sia davvero negligibile. L'appartenenza simbolica all'alveo delle organizzazioni di rilevanza statale è vista come un blasone irrinunciabile, anche quando la possibilità di negoziare con amministrazioni di prossimità potrebbe comportare un accrescimento dei benefici.

Inoltre, sul piano della filosofia dell'intervento, si deve sottolineare che - parallelamente a quanto avviene nella maggior parte dei Paesi avanzati - il principio di fondo sulla base del quale i fondi vengono assegnati è quello della qualità artistica dei programmi. Tale scelta, che non viene mai messa in discussione, comporta una serie di effetti perversi. Innanzitutto, pone il decisore pubblico in una situazione di svantaggio informativo, dal momento che il produttore dell'attività è anche il possessore delle informazioni sull'attività stessa; la relazione artistica, pilastro delle sedute delle diverse Commissioni ministeriali, non è altro che una sorta di autocertificazione encomiastica delle attività programmate sotto il profilo della qualità. Non si dimentichi che stiamo parlando di un concetto evanescente, controverso e soggettivo.

Basare una parte rilevante delle decisioni sulla qualità significa dunque dover accettare acriticamente le dichiarazioni rese dai candidati al finanziamento pubblico, con l'effetto di incentivarle al conformismo: dal momento che ciascuno enfatizza la propria qualità e dunque non mostra differenze intelligibili per la burocrazia pubblica, il modo più convincente per evitare rischi e "incomprensioni" è programmare lavori noti che non creino fratture e innovazioni radicali; non è un caso che il ventaglio delle opere liriche programmate in Italia sia notevolmente più ridotto rispetto alla varietà di titoli messi in scena in Germania o in Gran Bretagna, ma anche negli Stati Uniti dove il finanziamento dell'opera è prevalentemente privato. L'avversione al rischio delle organizzazioni, e la sostanziale invalutabilità dei profili qualitativi finiscono per indurre a programmazioni statiche e rassicuranti.

Possibili incentivi sono in ogni caso esclusi dal meccanismo generale del finanziamento statale, la cui dimensione è direttamente determinata dagli oneri previdenziali e pertanto dalla dimensione dell'occupazione(con conseguente disincentivo alla razionalizzazione delle risorse umane). Pertanto, il carattere effimero della qualità insieme alla stabilità massiccia degli oneri previdenziali finisce per generare una continuità di fondo che mal si concilia con la natura stessa delle attività di spettacolo, le cui dinamiche dovrebbero essere dominate dall'innovazione, dalla sperimentazione e dalla capacità di anticipazione rispetto alle aspettative di una società in scomposta evoluzione.

3. I mercati dello spettacolo: una rilettura critica

Per poter ipotizzare delle linee-guida alla luce delle quali avviare un sostanziale processo di ridisegno del sostegno pubblico allo spettacolo dal vivo, occorre tentare una rilettura critica dei mercati che intorno allo spettacolo stesso si delineano e si connotano. Due sono le chiavi di lettura necessarie, simmetriche e generate dalla stessa matrice, ma entrambe rilevanti per poter reinterpretare in modo pertinente le dinamiche dell'offerta e della domanda. In effetti, si deve osservare che negli ultimi anni l'evoluzione e le diffusione di nuove tecnologie ha indotto un duplice cambiamento, quanto meno in termini potenziali: da una parte, l'accesso alla tecnologia digitale consente l'apertura di una serie di opportunità per l'organizzazione dell'offerta di spettacolo dal vivo, coprendo una gamma molto estesa di profili, dalla gestione del palcoscenico alle riproduzioni audiovisive, dai canali di collegamento con il pubblico (informazione, promozione, bigliettazione) all'innovazione e sperimentazione linguistica.

Dall'altra parte, la progressiva alfabetizzazione informatica insieme all'evoluzione dei linguaggi e all'articolazione del gusto conduce individui e gruppi a percepire più complesse e sofisticate aspettative in materia di beni legati alla conoscenza e all'uso creativo del tempo libero, focalizzando potenzialmente sullo spettacolo dal vivo l'interesse di un pubblico certamente più ampio e diversificato dell'attuale pubblico. Opportunità e aspettative sono dunque i tratti dominanti dell'attuale situazione; le prime possono essere colte, e le seconde assecondate soltanto a patto di una condivisa responsabilità che coinvolga tutti i soggetti, pubblici e privati, centrali e locali, che contribuiscono all'esistenza e all'evoluzione del settore dello spettacolo dal vivo.

In questo senso, mutamenti radicali riguardano non soltanto i meccanismi produttivi e di scambio del settore in senso stretto, ma i suoi stessi legami con mercati contigui, rispetto ai quali intercorrono flussi di scambio sempre più intensi e ampi. Si pensi al mercato del lavoro creativo, tecnico e artistico caratterizzato sempre di più dal passaggio in entrambe le direzioni: attori, registi, scenografi, costumisti, ma anche tecnici a elevata specializzazione che transitano dalla televisione al teatro, dal cinema alla pubblicità, dalla lirica alla prosa. Si tratta ormai di mercati dalle frontiere aperte, in cui non soltanto la formazione continua e l'esperienza degli addetti ai lavori, ma anche e soprattutto il loro valore viene a formarsi per effetto congiunto di interazioni tra i mercati stessi.

I percorsi osmotici che legano i mercati riguardano tanto l'offerta quanto la domanda. Infatti, se sul versante della produzione le innovazioni tecnologiche e quelle linguistiche aprono spazi inediti per interazioni tra mercati e relative trasformazioni nella catena del valore, anche su quello della vendita e comunque della fruizione il precedente isolamento del mercato dello spettacolo dal vivo in senso stretto, dovuto alla sua natura iconica e rituale, è stato progressivamente sgretolato dalla consapevolezza che il valore complessivo dei prodotti culturali messi in scena si alimenta in misura determinante di una gamma piuttosto estesa di altri prodotti, che potremmo definire mediati, capaci di accrescerne la capacità dialogica e certamente di conferire al fruitore stesso un'abilità critica altrimenti inaccessibile.

La tendenza è quella di considerare il palcoscenico una condizione necessaria ma non più sufficiente a integrare tutte le potenzialità produttive, espressive e commerciali dello spettacolo, sia dal punto di vista dell'offerta, che ne vedrebbe limitato il valore di una serie di fattori produttivi, sia da quello della domanda, che finirebbe per acquisirne informazioni limitate e dunque si vedrebbe costretta a un lento passo nel processo di accumulazione della conoscenza che rappresenta lo snodo fondamentale nel processo di apprendimento/apprezzamento del consumatore culturale. Si tratta dunque di una concatenazione di mercati che vedono lo spettacolo come prodotto culturale muoversi attraverso una varietà di supporti e tecnologie, articolandosi in numerosi prodotti mediati che ne catturano profili specialistici o comunque aspetti specifici.

Naturalmente, una concatenazione di mercati va governata, e lo strumento del finanziamento a pioggia - per quanto comodo e rassicurante - non basta certo più. Dalla regolamentazione del lavoro alla fiscalità individuale e societaria, dalle forme organizzative alla disciplina dei diritti d'autore, dalla formazione degli addetti agli incentivi alla creatività, tutta la complessa macchina dello spettacolo va sottoposta a un riesame critico che ne identifichi gli assetti e le dinamiche, e ne faccia discendere un quadro normativo di sistema compatibile con il ruolo centrale che il settore assume nella società contemporanea. Si pensi soltanto, per citare due esempi opposti, ma egualmente rilevanti, al travaso di creatività e di linguaggi tipico delle relazioni tra spettacolo dal vivo e pubblicità da una parte, e alla crescente importanza dello spettacolo dal vivo come strumento per limitare o eliminare l'esclusione sociale.

E' chiaro che in un contesto così caratterizzato ritenere che leggi di settore possano mostrarsi sufficienti è un'illusione. Sono molteplici, e sempre più importanti, i profili che richiedono una visione complessiva del sistema dello spettacolo, e che per di più possono trovare una disciplina più completa anche tenendo conto dell'inserimento di tale sistema nel più ampio comparto culturale. Certo, il finanziamento dei progetti rimane di cruciale importanza; ma se ne deve garantire una finalizzazione di ampio respiro, cominciando a introdurre nei criteri di valutazione e nei meccanismi di erogazione elementi che superino la tradizionale autocertificazione di qualità. Non soltanto includendo i risultati periodici delle scelte strategiche (l'aumento del pubblico, le attività sperimentali, il rinnovo del repertorio, l'assorbimento della tecnologia, i rapporti con il territorio), ma anche l'impatto delle scelte gestionali di lungo periodo (la politica di pari opportunità, l'eco-compatibilità delle sedi, il rispetto del codice etico nelle relazioni esterne, l'inclusione sociale). E' un quadro chiaramente prospettico, ma forse proprio un periodo di stasi e di fragilità come quello attuale si può rivelare il più propizio per immaginare scenari inediti e per disegnare progetti radicali.

Riferimenti bibliografici

Deganutto, S. e Trimarchi, M. (2008), La prospettiva del consumatore culturale, tra originale e riproduzioni, di prossima pubblicazione, in Strategie e politiche per l'accesso alla cultura (a cura di M. Trimarchi), Roma, Eccom-Formez, 2008.

Trimarchi, M. (1999), Le politiche per l'arte e la cultura tra decentramento e privatizzazione, in La finanza pubblica italiana. Rapporto 1999 - La finanza pubblica tra riforme e pareggio del bilancio (a cura di L. Bernardi), Bologna, Il Mulino, pp. 343-364.



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