numerocorrentehome../indice../risorse%20web

Beni culturali: conservazione e valorizzazione [*]

Il restauro come trasmissione di valori materiali e immateriali

di Marisa Bonfatti Paini

Ho ascoltato con grande interesse i contributi alla discussione di questa mattina rendendomi conto di quanta attenzione le fondazioni dedichino ai beni culturali e anche quanto mettano a disposizione in termini economici ma non solo in termini economici: sarebbe infatti assai riduttivo se fosse quello l'unico aspetto, comunque non disprezzabile, visto che la capacità di spesa degli enti pubblici si riduce sempre più.

Mi piace pensare alle fondazioni come nuovi mecenati: quelli dei secoli scorsi agivano essenzialmente per passione, senza trascurare l'aspetto dell'autocelebrazione, dell'affermazione del loro ruolo e potere. L'antico mecenate decideva in piena autonomia orientato dal suo gusto, dall'idea del bello che si era costruito attraverso studi raffinati: mi viene in mente - io sono mantovana - la figura di Ludovico II Gonzaga la cui educazione era stata affidata dal padre Gianfrancesco a Vittorino da Feltre, educatore anche del duca di Montefeltro, signore di Urbino; Isabella d'Este, Francesco II Gonzaga e il loro figlio Federico II, mecenati di artisti come L.B. Alberti, Mantegna, Giulio Romano e amanti dell'"antico".

Oggi è cambiato l'atteggiamento verso l'antico, è più consapevole e ragionato e più rispettoso del susseguirsi degli eventi storici attraverso i quali un bene è passato. E' frutto di cultura recente l'attenzione alla contestualizzazione di un bene, il vederlo relazionato ad altri fattori ed elementi, senza i quali spesso il suo recupero non sarebbe possibile o comunque incompleto. Agire quindi oggi per una fondazione, che non è il singolo privato "amante dell'arte", credo non sia senza problemi.

Per l'esperienza che ho potuto fare negli anni (e per questo sono grata a tutte le persone che a suo tempo mi elessero presidente del Comitato di settore dei beni architettonici e ambientali del ministero per i Beni culturali, attività che ho svolto per otto anni) da esterno ma insieme ad altri professori universitari, a ottimi soprintendenti e al direttore generale Roberto Cecchi, cerco di esprimere un punto di vista derivato anche dalla pratica attività professionale rivolta essenzialmente al restauro architettonico. Esso è veramente tale se è operazione complessa e integrata: conservazione materiale, conservazione e trasmissione di valori storici, artistici, di memoria: trasmissione quindi di valori materiali e immateriali. Tutto ciò è essenziale ma non sufficiente senza una funzione, spesso una nuova funzione; senza relazioni col contesto, una architettura diventa presto oggetto del degrado. Esso può verificarsi in seguito a opposte situazioni: l'abbandono, l'uso troppo intensivo; l'uso improprio o appunto la decontestualizzazione. Non è sufficiente infatti eseguire un consolidamento strutturale: certo è utile, qualche volta improcrastinabile, pena la perdita di un bene, ma se non si ha in mente uno scenario in cui il consolidamento si collochi; in relazione a quale destinazione d'uso, a quale ruolo un bene può svolgere nel contesto territoriale, sociale; quale rete di rapporti può intessere nell'ambito delle politiche urbanistiche degli enti locali, come si relazioni col tessuto economico, non si può veramente parlare di restauro Credo, sulla base della mia esperienza che questi possano essere dei validi criteri guida nella scelta delle opere per le quali le fondazioni si impegnano.

Mi rendo conto che è più facile enunciare che fare: immagino che le richieste siano molte e tanto pressanti e che sia difficile sottrarsi, a fronte comunque di lavori che, seppur parziali, sono necessari. L'importante è, secondo me, che gli interventi, seppur parziali appunto, non siano e rimangano fini a se stessi.

A proposito dei criteri per l'individuazione dei progetti, vorrei aprire una parentesi che giudico estremamente importante e stimolante ma forse ancora non affrontata dalle fondazioni ma anche dalle soprintendenze, almeno a livello pratico: credo quasi sempre si occupino di tematiche connesse a singoli edifici, seppur di grandi dimensioni. Intendo invece riferirmi ai cosiddetti beni complessi come i centri storici e i paesaggi: il loro restauro (è corretto chiamarlo così) implica stretta connessione fra conservazione e funzione, fra nuove e vecchie destinazioni d'uso, fra nuove e vecchie infrastrutture: cui si aggiunge la molteplicità dei soggetti implicati e dei rapporti economici, determinanti per gli assetti generali.

Sono convinta che questo sia il salto di qualità da compiere: le fondazioni si potrebbero impegnare su questi temi di grande rilevanza in "sinergia", "squadra" (non mi piacciono questi termini) con gli enti di tutela e che governano il territorio, i privati, favorendo l'incentivazione di politiche di tutela, fondamentali per la riqualificazione non solo di singoli oggetti ma di ambiti più vasti e pregiati del nostro paese e che lo caratterizzano (o meglio, forse lo caratterizzavano) rispetto ad altri paesi. Mi viene in mente il "gran tour" che artisti, poeti, nel '700/'800 compivano quasi come un sacro obbligo (e piacere) in Italia per ammirare e studiare i monumenti ma anche le città e i paesaggi. Oggi, in relazione alle mutate condizioni generali, questo non sarebbe più per pochi colti ma per una ben più diffusa utenza, favorendo così la crescita culturale, il turismo (quello delle città d'arte ancora si salva rispetto a quello delle località balneari o montane che oggi hanno ben altri e numerosi concorrenti in Europa a prezzi più competitivi). I beni complessi mi appassionano particolarmente perché credo siano quelli rispetto ai quali ci dovremo misurare in futuro e dove siamo più impreparati per cultura e strumenti, ma sono invece fondamentali per la tutela dell'identità culturale italiana.

Vorrei esprimere un auspicio: nell'individuazione dei progetti da finanziare accanto all'intrinseca singola rilevanza che conferisce anche lustro immediato al mecenate, andrebbe riservata attenzione a quelli che stabiliscono relazioni col contesto o a quelli che sono relativi ai contesti le cui regole di governo purtroppo, specialmente dal dopoguerra, sono state indifferenti, sorde o ostili nei confronti della cultura storica. C'è comunque nella teoria, più che nella pratica a grande scala, una attenzione verso un approccio consapevole, attento e critico verso tali aspetti, filtrato negli anni attraverso, prima, il gusto della citazione dei materiali del passato, poi delle tipologie edilizie e ancora della geometria generatrice della matrice storica.

Una volta individuati i criteri di scelta dei programmi da finanziare l'altro passo è l'esame della loro validità tecnica. Si potrebbe dire sbrigativamente che le soprintendenze potrebbero assolvere a tale incombenza, trattandosi di progetti che sempre sono loro sottoposti ma in realtà la struttura dell'ente pubblico che già soffre di carenze intrinseche non può assumersi in concreto e completamente tale onere. La valutazione non può essere solo di tipo tecnico-ingegneristico: nel successivo punto ne farò cenno, ma essenzialmente di tipo storico-critico.

Gli oggetti ci giungono filtrati nel tempo che li ha in parte dissolti ed in parte arricchiti; li ha infatti visti nascere, trasformarsi e decadere; il tempo presente è quello del loro riconoscimento e dell'intervento.

E' in questa dialettica che si colloca il restauro che ha lo scopo di salvare, con i mezzi e la sensibilità di oggi gli antichi manufatti, consentendo la loro sopravvivenza nell'ambiente per il quale furono creati e nel quale devono trovare tuttora un loro significato, come le parole in un discorso. Ogni restauro di un singolo monumento risulterà insufficiente se non è affrontato il restauro del luogo che oggi è inevitabilmente trasformato. Il progetto di restauro non può quindi essere decontestualizzato; essere solo alla ricerca del "sempre più antico" o viceversa del rinnovo dell'immagine per rispondere a esigenze funzionali (o di cosiddetta valorizzazione) che rendono gli oggetti del restauro irriconoscibili e comunque privati della loro identità. Il progetto di restauro deve essere valutato per la "compatibilità" che riesce a proporre senza far diventare l'oggetto su cui intervenire "altro da se stesso" ma, pur nel lecito mutamento, "altro in se stesso o di se stesso" (Mi piace usare definizioni di Gianni Carbonara, collega professore di restauro alla Sapienza di Roma). E' sicuramente quindi operazione complessa l'identificazione e la selezione del progetto che non deve assolutamente prevedere l'acritica "imbalsamazione" dell'esistente ma la capacità di scegliere i cambiamenti attraverso "un mutamento selettivo" in presenza oggi di nuove destinazioni d'uso e di un'impiantistica sempre più sofisticata, troppo spesso inutilmente invasiva. Il moderno mecenate non può oggi esimersi da tali valutazioni: in caso contrario rischia di ridursi a mero erogatore di finanziamento, consistente, a dire il vero (100 milioni di euro a fronte di bilanci statali nel settore sempre più ridotti), ritagliandosi un ruolo, come ho già detto, utile ma non certo a livello dei principi ispiratori del ruolo e delle attività delle fondazioni bancarie che sono più alti ed ambiziosi.

Per quanto riguarda le metodologie di analisi e valutazione meramente tecniche, credo si potrebbero assumere i criteri che si stanno perfezionando anche nella pratica a proposito di validazione dei progetti di opere pubbliche, così come previsto dal decreto legislativo 163/2006 che ha sostituito la legge Merloni. Anche se qualche volta le fondazioni finanziano opere di enti non strettamente soggetti a tale normativa, credo però che possano essere assunti come orientamento validi quelli previsti per le opere pubbliche. La validazione può essere eseguita da professionisti o società anche private, più che altro al fine anche dell'esame della congruità economica e delle condizioni contrattuali.

Per quanto riguarda la questione concreta dell'affidamento o dell'esecuzione dei lavori, credo che, per opere non classificate come pubbliche, si possa far riferimento ad alcuni criteri della legislazione delle opere pubbliche ma non a tutti. Il principio della concorrenza non può essere dimenticato ma sottolineo la necessità di verifica della qualificazione delle imprese, della loro reale consistenza operativa, dei risultati di lavori precedenti conclusi senza contenzioso. Sottolineo questo ultimo aspetto perché, sulla base dell'esperienza di questi ultimi anni, molte imprese hanno più avvocati che tecnici e a fronte di progetti, che per loro natura non possono essere precisi al millimetro, interessando manufatti dove le "sorprese" sono all'ordine del giorno anche in progetti accurati, attenti, predisposti dopo saggi e indagini propedeutiche, non perdono occasione per cercare gli spazi per avanzare richieste economiche aggiuntive, eludendo le pattuizioni contrattuali anche sotto il profilo dei tempi d'esecuzione.

Credo quindi sarebbe opportuna una preventiva scelta delle imprese idonee e sperimentate, senza con ciò creare degli elenchi chiusi, che diano origine di fatto a situazioni di oligopolio che metterebbero a rischio la concorrenza. D'altro canto però, non è pensabile di utilizzare solo, come spesso accade, o dare preminenza al criterio del prezzo più basso. Tale elemento deve essere preso in considerazione ma in modo "bilanciato": se è l'unico, è ovvio che non garantirà la qualità degli interventi. Ho fatto esperienze di lavori in luoghi particolari (Camera, Presidenza della Repubblica, Presidenza del Consiglio) ove è fondamentale anche per altri motivi (riservatezza, sicurezza, segretezza) avere a disposizione imprese di particolare affidabilità, senza mettere in discussione la concorrenza. Non facciamoci prendere dalla possibile patologia: saremmo conseguentemente costretti a sostenere la teorica massima apertura al cosiddetto mercato: sono convinta invece che possano essere adottati criteri più attenti alla concreta qualità, salvaguardando la correttezza e la trasparenza. Del resto è giusto che escano dal mercato imprese che non garantiscono la serietà e l'affidabilità.

Fino a questa mattina non sapevo esattamente fino a che punto le fondazioni potessero avere direttamente ruoli attivi nelle fasi, sia di valutazione tecnica di progetti, sia di gestione delle fasi attuative, dalla gara al collaudo. E' chiaro che ciò dipende dalla struttura interna o esterna che la fondazione si vuole dare: è certo che un nucleo tecnico serve ed è fondamentale, che possa dialogare con soprintendenza ed altri enti che in qualche modo concorrono alle operazioni: un nucleo specificatamente preparato. Non bastano tecnici generici: così come non basta semplicemente un chirurgo per operare indifferentemente al cuore o agli occhi. Possono essere attivati rapporti con i dipartimenti di "Restauro e Conservazione" delle Università? Con professionisti di esperienza? Sicuramente si, e mi pare che le Fondazioni siano in grado di farlo.

Alla fine di queste mie riflessioni voglio ritornare su un punto cui ho fatto cenno in precedenza: gli interventi su grande scala o sui contesti costruiti (centri storici) o cosiddetti "naturali" (naturali non sono in quanto frutto di storiche modificazioni del territorio) che richiedono sforzi congiunti e notevoli disponibilità economiche. Potrebbero le fondazioni, almeno le più forti e con più estesa presenza sul territorio lavorare insieme o in modo coordinato per tale scopo? Me lo auguro perché sarebbe davvero un contributo forte in termini culturali e operativi verso quello che a mio avviso è un obiettivo di grande spessore. Del resto dalle testimonianze di stamattina è emerso che molte fondazioni, oltre ad intervenire come finanziatori di interventi su singoli oggetti, orientano ormai la loro azione verso temi più complessi (è il caso della Cassa di Livorno con i cimiteri monumentali; di quella di Modena con lo Spedale e parte del centro storico; della Cariplo con il programma di mettere i beni in rete e di agire nell'ambito di distretti culturali insieme con altri operatori pubblici o privati). Interessanti poi sono stati gli interventi di chi ha sottolineato il ruolo delle fondazioni nel salvaguardare e incoraggiare le professionalità degli operatori del restauro come la Cassa di Firenze e che, essendo una piccola Fondazione, come quella della Cassa di Fossano, promuove e stimola il recupero dei beni storici coinvolgendo l'imprenditoria della zona o chi, come la Fondazione di M.P.S., interviene nello scenario con progetti di propria iniziativa. Mi sembra davvero che il mondo delle Fondazioni bancarie voglia e possa sempre più svolgere un ruolo chiave nella salvaguardia del patrimonio culturale, assumendo a tutto tondo quello di moderno mecenate.

[*] Testo della relazione discussa nel seminario Acri su Beni culturali: conservazione e valorizzazione, svoltosi a Roma il 24 gennaio 2007



copyright 2007 by Società editrice il Mulino


inizio pagina