numerocorrentehome../indice../risorse%20web

La riforma del ministero tra "giuridificazione" e "managerializzazione"

di Sara Bonini Baraldi

Sommario: 1. Riforma normativa ed implementazione organizzativa: alcune riflessioni dalla ricerca sul campo. - 2. Una valutazione della riforma in termini manageriali. - 3. Le possibili ragioni dell'inefficacia della riforma. - 4. Una possibile via per la riforma: spunti di riflessione per il futuro. - Riferimenti bibliografici, normativa e documenti.

1. Riforma normativa ed implementazione organizzativa: alcune riflessioni dalla ricerca sul campo [1]

Dai primi anni novanta fino ad oggi i beni culturali sono stati protagonisti di un'importante riforma che ha comportato la modifica di diversi aspetti della struttura e del funzionamento del settore.

Come è ben noto a giuristi e studiosi del settore, la riforma ha avuto dal punto di vista normativo un percorso alquanto frammentato, distinguendosi per le continue innovazioni, modifiche e ripensamenti: dalla famosa disciplina per l'alienazione dei beni, che è stata oggetto di successivi "aggiustamenti" ex post, all'organizzazione interna del ministero, che continua ad oscillare tra una struttura a Dipartimenti ad una basata sulle Direzioni generali e relativo Segretario generale (cfr. Sciullo 2006), alla fondamentale questione della distribuzione di competenze tra Stato, regioni ed enti locali, fino a questioni apparentemente futili come quelle relative al nome del ministero stesso (che passa da "ministero per i Beni le Attività culturali" - decreto legislativo 20 ottobre 1998, n. 368 - a "ministero dei beni e delle attività Culturali" - decreto legge 18 maggio 2006, n. 181 - per poi tornare ad essere "ministero per i Beni e le Attività culturali" - legge 17 luglio 2006, n. 233) o delle Direzioni regionali (inizialmente denominate "soprintendenze regionali"), ma alquanto indicative della generale fragilità e instabilità del sistema.

L'instabilità del processo di riforma dal punto di vista normativo ha effetti non secondari sul funzionamento del settore. Come sottolinea Cammelli (2006) il rischio principale è quello di un blocco del sistema che di fatto si fraziona "in due livelli tra loro non comunicanti: una superficie, esposta ad un incessante susseguirsi di modifiche per lo più formali, e il profondo corpo degli apparati, sostanzialmente immoto ed estraneo ad ogni processo di innovazione". Non va infatti dimenticato che una cosa è il disegno normativo, altra è l'azione organizzativa, che traduce e plasma la norma in comportamenti reali e che è soggetta a tempi, modalità e percorsi propri: è chiaro che tanto più instabile e frammentario è il quadro normativo, tanto maggiore sarà lo scollamento tra quest'ultimo ed il reale contesto di funzionamento del settore.

Succede dunque che le pratiche di funzionamento con cui si confrontano attualmente le amministrazioni non corrispondano affatto all'attuale disegno normativo, riflettendo in sostanza un quadro ibrido risultante dalla commistione (a seconda dei diversi tempi e modalità di "implementazione organizzativa" della norma) di numerose diverse impostazioni (soggette certo ad esigenze reali ma, come ben sottolinea Cammelli, anche a mutamenti di governo o di priorità all'interno della stessa coalizione): quella ante 1998, quella del 1998, quella del 2004, e quella recentissima del 2006.

In un ambiente instabile e incerto come quello evidenziato "l'unica logica d'intervento possibile per l'esperto di management, anche a livello di analisi, resta quella delle trasformazioni reali. In questo senso risulterebbe poco interessante una discussione incentrata su quegli aspetti della riforma non ancora resi operativi, mentre assume un significato più rilevante un'analisi in termini storico-processuali dell'implementazione di quegli aspetti della riforma che negli ultimi anni hanno trovato attuazione nella pratica organizzativa" (Bonini Baraldi 2007b). Questo tipo di analisi ha infatti il merito da un lato di ricondurre l'attenzione di giuristi e studiosi sui reali problemi del sistema, che rischiano di rimanere sostanzialmente irrisolti (come sottolinea Cammelli 2006 siamo infatti di fronte a "modifiche istituzionali e organizzative rilevanti ma poco decisive su apparati in serie difficoltà di funzionamento"), dall'altro di far emergere le principali criticità organizzative e gestionali delle innovazioni così come delineate dalle leggi di riforma, "criticità non identificabili ad una mera lettura della normativa e da un approccio prettamente giuridico ma assolutamente rilevanti per la valutazione dell'efficacia della riforma stessa dal punto di vista operativo e manageriale" (Bonini Baraldi 2007b). Lo scollamento tra disegno normativo e "risultato organizzativo" non dipende infatti solamente dall'instabilità del percorso normativo, quanto anche dalle caratteristiche del processo di gestione del cambiamento di per sé, il cui risultato non necessariamente (quasi mai) combacia totalmente con le apparenti intenzioni normative, che alla luce dei fatti risultano spesso manifestare motivazione e logiche recondite o notevoli incoerenze applicative. Come sottolineavano Zan e Paciello (1998, p. 30) in relazione ai limiti della riforma della soprintendenza di Pompei infatti, "uno degli errori in cui si potrebbe incorrere è quello di considerare tutto quanto sopra descritto come effetto perverso di una situazione passata che è comunque automaticamente superata dall'innovazione della nuova forma della soprintendenza autonoma. Viceversa, il passaggio tra situazione passata e situazione futura è esso stesso un processo, sulla cui dinamica occorre soffermarsi".

In base a tale logica, e nonostante il settore abbia visto a livello normativo interventi più recenti, l'attenzione dell'autore si è volutamente concentrata sull'analisi di due rilevanti innovazioni che sono state recentemente oggetto di implementazione all'interno dell'apparato ministeriale: il conferimento di autonomia ai Poli museali, e l'introduzione del controllo di gestione all'interno del ministero per i Beni e le Attività culturali. I due fenomeni sono stati oggetto di un'approfondita analisi sul campo i cui contenuti di dettaglio saranno oggetto di prossima pubblicazione (cfr. Bonini Baraldi 2007a).

In estrema sintesi si può affermare che nel caso oggetto di studio (il Polo museale veneziano) il primo anno di sperimentazione di autonomia si sia configurato come un processo decisamente difficile e contraddittorio, dal quale è emersa un'autonomia solamente parziale caratterizzata sia dai limiti intrinseci degli strumenti introdotti (mancata autonomia sul personale, incertezza sulle risorse finanziarie, introduzione di un sistema di tesoreria inadeguato) sia dalle enormi difficoltà evidenziate nella gestione del cambiamento (interventi normativi contraddittori, enfasi posta sugli aspetti di adempimento formale, etc.). Anche il processo di implementazione del controllo di gestione sembra aver incontrato numerosi limiti e difficoltà: oltre alla generale carenza di risorse umane (nessuna assunzione o formazione specifica è prevista per la nuova funzione) e strumentali (la mancanza di un software) la questione principale è quella della rilevanza e della significatività dell'informazione in relazione all'attività in oggetto che, a causa di numerosi fattori relativi sia alle caratteristiche del sistema (la presenza di indicatori ambigui, la tendenza all'overaccounting), che alla gestione del processo (tra cui in particolare la necessaria rilevazione ex post), viene in ultima istanza a mancare. In entrambi i casi emerge in particolare l'incapacità (dell'apparato ministeriale e della società di consulenza laddove è coinvolta) di strutturare il cambiamento secondo modalità adeguate alla portata del processo - con l'assoluta mancanza di investimento sia in termini economici che in termini organizzativo/procedurali - ed il limite forte di un cambiamento totalmente imposto (di tipo "top-down") e non partecipativo nei confronti di dirigenti e funzionari delle amministrazioni periferiche. Il tutto sembra avere avuto l'effetto non solo di non risolvere le problematiche pregresse ma di complicare ulteriormente la situazione esistente, aumentando il grado di incertezza e di indeterminatezza in cui le soprintendenze si trovano ad operare.

I due fenomeni analizzati, il conferimento e l'implementazione di autonomia alle soprintendenze speciali e l'introduzione del controllo di gestione nel ministero, rivestono particolare rilevanza non solo per la loro recente applicazione operativa, ma anche in quanto costituiscono i due aspetti fondamentali del concetto di accountability, concetto che si pone al centro del potente fenomeno di "managerializzazione" che ha recentemente coinvolto la pubblica amministrazione a livello internazionale. Se è vero che di riforma manageriale si è parlato e tuttora si parla occorre dunque chiedersi cosa rimanga di "manageriale" nel contesto della riforma del ministero per i beni e le attività culturali e quanto la terminologia utilizzata dalla riforma sia piuttosto utilizzata in termini di mera retorica.

Il presente contributo si concentra sulle principali riflessioni e conclusioni emerse dall'analisi empirica in relazione all'efficacia dalla riforma normativa dal punto di vista manageriale. Il tema prende forma nel dibattito fra "managerializzazione" e "giuridificazione" da cui emerge di fatto l'incapacità della riforma "by law" di governare un processo complesso secondo logiche e dinamiche coerenti, e la necessità di intraprendere, anche nel nostro Paese, la via della "stabilità e autonomia" delle scelte organizzative (Cammelli 2006), in un'ottica partecipava che coinvolga adeguatamente le diverse professionalità in gioco.

2. Una valutazione della riforma in termini manageriali

Il settore dei beni culturali in Italia si configura come l'ambito in cui più recentemente lo Stato, pur mantenendo un ruolo di gestione diretta, è stato soggetto/oggetto di quel processo di trasformazione e razionalizzazione, orientata ai principi del management, che da alcuni decenni ha caratterizzato l'intera sfera di attività della pubblica amministrazione a livello internazionale. Nel corso degli anni Ottanta si è infatti assistito in moltissimi Paesi industrializzati ad una radicale svolta nel modo di concepire la gestione dei sistemi amministrativi pubblici che ha dato origine a grandi riforme della burocrazia orientate al modello manageriale privato (Meneguzzo 1997).

La managerializzazione dell'amministrazione pubblica ha assunto dimensioni talmente rilevanti da non essere più considerata solamente un "trend", quanto piuttosto un vero e proprio mezzo di legittimazione dell'esistenza e della sopravvivenza delle amministrazioni stesse (Gherardi e Jacobsson 2000; Anselmi 1995). Oggigiorno è dunque divenuto "difficile se non impossibile per una amministrazione pubblica che vuole essere considerata moderna non includere il discorso manageriale" all'interno della propria agenda di riforma (Gherardi e Jacobsson 2000, pp. 359-360). All'espansione del fenomeno è corrisposta la nascita di un nuovo filone di ricerca, denominato New Public Management (Npm), che identifica e riunisce "una serie di principi amministrativi che hanno caratterizzato l'agenda di riforma della burocrazia di molti Paesi Oecd dalla fine degli anni '70" (Hood 1991, p. 3) e che è divenuto in pochi anni, sia in ambito professionale che in ambito accademico, il modello concettuale dominante per ciò che riguarda la riforma del settore pubblico al punto da essere acclamato come il nuovo paradigma di riferimento per il cambiamento organizzativo delle amministrazioni pubbliche [2].

Il modello del Npm, nato dal "matrimonio tra due diversi filoni di idee" (Hood 1991, p. 5) [3], l'economia neo-istituzionale e lo scientific management, sembra rimpiazzare principalmente la Progressive public administration (Ppa), cioè quello stile di pubblica amministrazione che era emerso durante la "progressive era" a partire dalla fine del diciannovesimo secolo e che si basava su due principali assunti: "mantenere il settore pubblico chiaramente distinto da quello privato in termini di continuità, etica, metodi di business, design organizzativo, persone e struttura delle carriere (...) e creare delle difese contro la discrezionalità politica e manageriale attraverso l'elaborazione di regole procedurali per prevenire favoritismi e mantenere la distanza tra politici e i consolidati custodi di particolari "monopoli" di servizi pubblici", cioè i burocrati (Hood 1995b, pp. 93-94). Il Npm modifica i due assunti della Ppa concentrandosi su alcune componenti che vanno nella direzione di un'accountability che ponga la propria enfasi sui risultati piuttosto che sul monitoraggio del processo e sulla rimozione delle differenze tra settore privato e settore pubblico (Hood 1995b).

Al centro del modello di Npm sta dunque l'introduzione di una nuova cultura manageriale orientata al concetto di accountability. Con il termine "accountability" si definisce "l'esigenza di render conto da parte di coloro che hanno ruoli di responsabilità nei confronti della società, o delle parti interessate, del loro operato ed delle loro azioni" (Pezzani 2001, p. 453) [4]. In base alla nuova "filosofia" l'accountability, il "render conto del lavoro svolto", non dipende più - come saccedeva precedentemente - dalle modalità di utilizzo degli input, ma dal grado di raggiungimento dei risultati.

Fino agli anni Ottanta infatti la responsabilizzazione della dirigenza pubblica era focalizzata unicamente sugli input, cioè sulla correttezza amministrativa e contabile dell'uso delle risorse. Ciò avveniva attraverso un sistema contabile finanziario sostanzialmente preventivo ed un controllo sull'attività di tipo "burocratico". Teorizzando la definizione di modelli di amministrazione ottimali, il controllo burocratico sosteneva l'equivalenza tra modalità di svolgimento dell'attività e risultati e aveva come funzione principale quella di ricondurre l'attività amministrativa a schemi predefiniti. Il problema principale di questo tipo di approccio era però quello di creare squilibri tra "azioni formalmente corrette anche se caratterizzate da bassi livelli di efficacia, efficienza ed economicità della gestione, ed azioni rispondenti a criteri di efficacia efficienza ed economicità ma "discutibili" (non oggettivi) sul piano formale" (Borgonovi, 1996, p. 438).

Negli anni più recenti, anche in risposta alla crescente complessità in cui le istituzioni pubbliche si sono trovate ad agire [5], si è passati da un controllo sui processi e sulle procedure ad un controllo sui risultati. Alla base del fenomeno sta la "piena accettazione del concetto di amministrazione come sistema di operazioni il cui funzionamento va valutato non in sé ma in relazione alla capacità di destinare ricchezza al soddisfacimento dei bisogni" e la convinzione che "per obiettivi diversi occorrono strumenti diversi e quindi non può esistere un modello operativo predefinito valido per il conseguimento degli obiettivi, ma la concreta definizione della loro forma deve essere suggerita dalle specifiche condizioni oggettive e soggettive in cui l'attività si svolge". In questo senso "non potendosi riferire ad un dato modello di comportamento cui riconoscere una validità duratura nel tempo, il manager viene responsabilizzato sui risultati ottenuti e sulla loro rispondenza alle attese" (Borgonovi 1996, pp. 433-444).

La responsabilizzazione sui risultati si basa sull'esistenza di due presupposti: la presenza di un sufficiente livello di autonomia dei dirigenti nella determinazione degli obiettivi, delle risorse, e delle modalità ottimali di svolgimento dell'attività, e la possibilità di valutare le performance (i risultati) sulla base di un adeguato sistema di misurazione quale il controllo di gestione.

Partiamo da quest'ultimo aspetto. L'obiettivo di un sistema di controllo di gestione è quello di "supportare la dirigenza nelle decisioni e negli indirizzi di gestione (e l'insieme del personale nella loro realizzazione operativa) tramite la verifica dell'efficacia, dell'efficienza, e dell'economicità dell'azione amministrativa" (Borgonovi 1996, p. 458). Esso "diventa supporto per le decisioni, ossia attiva un processo di retroazione guidato da una migliore conoscenza" operando principalmente attraverso "un sistema di misurazioni (quantitative e/o qualitative) di risultati complessivi e parziali della gestione, che consentono di effettuare analisi (essenzialmente tramite confronti) sull'andamento della gestione utili ad esprimere valutazioni (ossia giudizi sugli andamenti stessi) finalizzate a prendere decisioni riguardanti la gestione" (Borgonovi 1996, p. 457). Centrale nel controllo di gestione è dunque la definizione di una serie di indicatori ("variabili quantitative o qualitative che registrano un certo fenomeno, ritenuto appunto "indicativo" di un fattore di prestazione", Molteni 1997, p. 103), utili all'analisi dei risultati dell'attività tramite il confronto con una serie di parametri. Senza una chiara definizione degli obiettivi e dei parametri su cui misurarli diviene infatti impossibile la responsabilizzazione sui risultati. In questo senso l'introduzione nell'amministrazione pubblica di tecniche per il controllo dei costi, la misurazione delle performance, tradizionalmente utilizzate nel settore privato, quali in particolare i sistemi di rendicontazione di tipo economico-patrimoniale ed il controllo di gestione, hanno costituito fin dal principio il nucleo principale delle riforme di Npm (Guthrie et al. 1998; Pezzani 2003).

Oltre al controllo di gestione ed alla misurazione delle performance, il concetto di accountability sui risultati è strettamente connesso a quello di autonomia: non vi può infatti essere accountability, cioè responsabilizzazione sui risultati, se non vi sono sufficienti spazi di autonomia nel processo di determinazione degli obiettivi e delle risorse a questi necessarie (che si realizza tra l'altro anche con il processo di definizione e contrattazione di budget autonomi all'interno dello stesso controllo di gestione), né non vi può essere autonomia senza accountability, senza cioè una contropartita al grado di libertà decisionale in termini di responsabilità dirigenziale. Come sottolinea Pezzani infatti "le esigenze di accountability si pongono in modo quasi fisiologico rispetto alle condizioni di sviluppo dei sistemi economico-sociali. (...) Un processo di sviluppo come quello descritto, in cui è forte la propensione alla liberalizzazione dei mercati e all'affermazione delle autonomie, deve potere essere accompagnato e giustificato nelle sue scelte di fronte alla società da un alto livello di trasparenza e quindi di accountability" (Pezzani 2001, pp. 454-455).

Alla base della questione dell'accountability, e dell'autonomia a questa connessa, risiede dunque la consapevolezza di un necessario nesso logico-organizzativo tra obiettivi, risorse, e controllo dei risultati da un lato, ed identificazione delle responsabilità dall'altro (Zan 2003).

Il tema rimanda in modo forte alle considerazioni effettuate in relazione alla riforma del ministero per i Beni e le Attività culturali, in cui il collegamento tra i diversi aspetti della catena logica alla base del concetto di accountability sembra in ultima istanza venire a mancare.

Da un lato infatti, a fronte di nuovi obiettivi gestionali (l'autofinanziamento per le soprintendenze autonome, il controllo dell'attività ecc.), sia le soprintendenze autonome che quelle di settore sopravvivono nell'impossibilità di decidere sulla determinazione delle risorse (e sugli obiettivi a cui devono essere connesse), fattore fondamentale nella logica di responsabilizzazione manageriale: se per le soprintendenze di settore il controllo delle risorse è gestito totalmente a livello ministeriale, la stessa autonomia dei Poli museali non garantisce possibilità di azione né dal punto di vista finanziario (sicuramente nell'anno di transizione ed in parte anche nella struttura del modello a regime) né rispetto alle risorse umane (cfr. Bonini Baraldi, 2007a). E' cioè confermato il rischio evidenziato da Zan il quale sottolinea che "se l'essenza del controllo di gestione è quella di impostare una catena logica e organizzativa tra obiettivi, risorse e risultati, elemento preoccupante degli abusi (non tanto in quantità, ma di cattivi usi) della retorica manageriale è quello di una totale focalizzazione sulla responsabilizzazione del singolo su obiettivi e risultati, senza una adeguata discussione sulle risorse necessarie" (Zan 2003).

Dall'altro lato le caratteristiche del sistema e le dinamiche di gestione del processo di introduzione del controllo di gestione portano ad una misurazione dei risultati quasi totalmente insignificante rispetto all'attività delle soprintendenze: eccesso di richiesta di informazioni, tempi organizzativi incoerenti e scarsa considerazione della specificità dell'attività in oggetto, portano infatti ad una produzione informativa, sui costi e sui risultati, non significativa in relazione all'attività in oggetto e scarsamente utile in termini gestionali se non addirittura deleteria in termini di complicazione dell'esistente.

Mancando la possibilità di influire sulle risorse da un lato e di misurare i risultati dall'altro salta in ultima analisi quel legame tra obiettivi, risorse e risultati alla base del concetto di accountability di cui autonomia (sulle risorse, finanziarie, umane e strumentali) ed esigenze informative (sugli aspetti economici e gestionali) sono parti costitutive fondamentali. Il che assume particolare rilevanza in relazione alla questione delle responsabilità [6].

La responsabilizzazione dei dirigenti sui risultati dovrebbe in effetti essere parte di una strategia che vede nell'autonomia e nel controllo di gestione gli strumenti conferiti alla dirigenza per la gestione dell'organizzazione. Il problema in questo senso è duplice: se da un lato, in relazione al fenomeno dell'autonomia, aumentano notevolmente le responsabilità amministrative e finanziarie (senza però una relativa contropartita in termini di autonomia e di risorse) dall'altro è anche vero che la gestione di tutto il processo (di implementazione dell'autonomia e di introduzione del controllo di gestione, pur essendo teoricamente entrambi strumenti per la responsabilizzazione sui risultati) è ancora gestito dall'apparato centrale con una forte enfasi nei confronti di regole e procedure. Ad aggravare l'ambiguità del discorso manageriale nel processo di cambiamento analizzato concorre allora una maggiore pressione sulla dirigenza in termini economici affiancata da un ulteriore irrigidimento delle responsabilità di tipo formale e "passivo". Aumentano dunque le responsabilità ma senza un relativo shift dal punto di vista organizzativo-culturale, con il mantenimento in ultima istanza di una modalità di azione e di controllo di tipo burocratico.

E' chiaro a questo punto che l'impatto della riforma in termini manageriali appare seriamente indebolito: enfasi su responsabilità formali, mancanza di autonomia sulle risorse e impossibilità di valutare i risultati della gestione concorrono di fatto a svuotare di significato il discorso manageriale. Gli strumenti introdotti subiscono un processo di "volgarizzazione" che li priva in definitiva del loro significato intrinseco: autonomia finanziaria, autonomia amministrativa, contabilità economica, controllo di gestione, informatizzazione divengono mere formule linguistiche ad impatto retorico senza alcuna efficacia operativa in termini gestionali (sulla retorica del linguaggio manageriale cfr. McCloskey 1986; Czarniawska 1995; Zan 2003)

La perdita di rilevanza del discorso manageriale in base a quanto esposto non ha valore solo a livello di implicazioni teoriche negli studi management: essa si riflette in modo forte sull'attività delle amministrazioni e sulla capacità della riforma di influire sull'esistente in modo sostantivo. E' il caso evidente del controllo di gestione che non è accolto (non può essere accolto, viste le condizioni) come uno strumento gestionale a disposizione della direzione delle soprintendenze, ma come un ulteriore compito ingrato imposto per chissà quale ragione dal ministero, di cui nessuno all'interno delle soprintendenza vuole prendersi la responsabilità. Qualsiasi cambiamento è in ultima istanza percepito e gestito come un ulteriore dovere, una complicazione dell'esistente voluta altrove e verso cui le amministrazioni si limitano ad un mero rispetto formale delle direttive imposte: ciò che è importante, in ogni caso, è che i documenti richiesti siano compilati, e che siano compilati per tempo. Atteggiamento che vale sia da parte dell'amministrazione centrale del ministero sia da parte delle soprintendenze. Non importa se da ciò deriva, piuttosto che una migliore gestione dell'attività, una peggiore gestione di maggiori compiti.

3. Le possibili ragioni dell'inefficacia della riforma

Occorre dunque chiedersi quali siano le cause della perdita di significato dal punto di vista manageriale della riforma in analisi, e a quali fattori siano riconducibili. Dall'analisi della letteratura critica del Npm sono emerse due specifiche dimensioni che sembravano poter influire in modo determinante sull'efficacia delle riforme: le specificità del settore in analisi (concetto strettamente connesso alla specificità del settore pubblico) e le specificità del contesto nazionale (cfr. anche Bonini Baraldi 2007a). Lo studio empirico sul ministero per i Beni e le Attività culturali ha accreditato in definitiva la significatività di entrambe le dimensioni.

Specificità del settore e knowledge management

La questione della rilevanza delle specificità del settore assume particolare significato in relazione alla misurazione delle performances, parte fondamentale del controllo di gestione come sistema orientato alla correlazione tra risorse e risultati. Quello della misurazione delle performances è in effetti un tema particolarmente delicato in cui il processo di managerializzazione rischia più che altrove di non cogliere ciò che è rilevante nel settore pubblico in generale e nei beni culturali in particolare, e di appiattire la rendicontazione e l'analisi delle performances a valori tipicamente quantitativi e non significativi della qualità e del valore delle attività svolte.

Nelle amministrazioni pubbliche infatti "non essendo prioritario il raggiungimento del profitto, il dato di sintesi del bilancio non costituisce elemento esaustivo per la valutazione degli amministratori" [7] (Pezzani 2003, p. 12). La conseguenza fondamentale riguarda la necessità di identificare grandezze espressive della performance dell'azienda alternative al profitto anche attraverso misurazioni extracontabili o non monetarie (Molteni 1997; Chirieleison 1998). Nel contesto pubblico dunque il processo di valutazione delle performances si rivela particolarmente delicato proprio perché assume significato in relazione alla capacità del sistema di rapportarsi alle specificità dei singoli settori e di cogliere efficacemente il valore dell'attività.

Prima ancora che nelle singole specificità del settore e nelle problematiche che queste coinvolgono, le ragioni dell'inefficacia della riforma in analisi sembrano risiedere nel non aver preso sufficientemente in considerazione tali specificità durante la gestione del processo di cambiamento. Come afferma Santesso (1989, p. 11), "Gli strumenti tecnico-contabili per il controllo di gestione elaborano le informazioni con cui i manager valutano e controllano le decisioni. (...) Quanto maggiore è il processo di astrazione e di semplificazione che caratterizza l'approccio alla progettazione dei sistemi di contabilità direzionale, tanto più la conservazione del rigore interno viene premiata a svantaggio della rilevanza pratica dei suggerimenti formulati". E' cioè "necessario che i controller siano dotati di una approfondita comprensione delle dinamiche gestionali dell'impresa, sia nella dimensione strategica sia in quella operativa" (Santesso 1989, p. 19).

La questione, per ciò che concerne il caso in analisi, riguarda il mancato coinvolgimento dei professionals: una modalità non partecipativa della definizione dei criteri di valutazione rischia infatti di non essere in grado di considerare le peculiarità e le caratteristiche specifiche dell'attività in questione. E non è questo certo un problema di "democrazia" tra discipline quanto piuttosto di perdita di conoscenze diffuse. E' chiaro infatti che, se nell'amministrazione centrale o periferica del ministero non sono presenti le competenze necessarie all'ideazione di un vero e proprio sistema di controllo di gestione, esse sono anche l'unico luogo in cui è possibile reperire le conoscenze professionali per la comprensione e la valutazione dell'attività in oggetto e per l'identificazione delle risorse necessarie, fasi assolutamente necessarie per la predisposizione di un sistema di controllo di gestione adeguato alle esigenze conoscitive e decisionali dell'organizzazione. Vi è cioè una certa incapacità di knowledge management da parte degli ideatori del sistema, con il sotto-utilizzo e la scarsa considerazione di valori condivisi, e di una conoscenza professionale importante, pur presenti nelle organizzazioni.

Ciò che stupisce è che gli esperti di management (i consulenti) non abbiano considerato quegli aspetti dei sistemi di controllo, pur affrontati da alcuni autori della teoria organizzativa, che enfatizzano la necessaria diversità delle forme di controllo a seconda dei contesti in analisi: il concetto di "clan" sviluppato da Ouchi (1981) ad esempio, chiarisce forme di controllo informali molto importanti all'interno delle organizzazioni in generale e delle amministrazioni pubbliche in particolare [8]. Piuttosto che considerare l'importanza del controllo basato sulla professione, e dei valori tra questi condivisi, il sistema ideato dalla società di consulenza sembra invece aver esasperato una forma di controllo di tipo burocratico più rigida e meno adatta al contesto instabile e scarsamente misurabile, rendendo le procedure più laboriose e artificiali.

Pur non mettendo in discussione la necessità di una maggiore esplicitazione degli obiettivi e dei risultati all'interno delle soprintendenze, si ritiene che il non aver preso in debita considerazione nell'ideazione del sistema di controllo di gestione la presenza di valori forti e condivisi tra i professionisti del settore significhi aver ignorato la forma di valutazione intrinseca più significativa esistente all'interno dell'organizzazione, esasperando quella, già decisamente predominante e decisamente meno significativa, basata sull'esistenza di un altro tipo di professione nel sistema organizzativo più ampio, e cioè quella giuridica. Pervasività che produce inoltre una progressiva alienazione degli individui che si sentono altamente controllati, ed un progressivo allontanamento del senso di appartenenza sociale e di condivisione degli obiettivi. Il risultato è lo svuotamento di significato del processo di valutazione delle performances ed un irrigidimento del controllo verso forme di tipo burocratico basate sul rispetto delle regole e dell'autorità.

Giuridificazione e managerializzazione

Il secondo fattore rilevante emerso dalla letteratura è quello riguardante le specificità del contesto nazionale. Come già evidenziato da diversi autori [9] "il ruolo del contesto nazionale è fondamentale nel determinare l'impatto della riforma. In particolare in Italia è la predominanza del discorso giuridico che detiene un ruolo fondamentale nel determinarne le condizioni di (in)efficacia". Il tema è quello della "giuridificazione" (dal tedesco Verrechtlichung, sta a significare "l'ampiezza ed il continuo proliferare di norme formali e leggi di regolazione. Esso è collegato all'idea di limite sociale della regolazione e sostiene l'inefficacia di un eccesso della legislazione come mezzo di controllo" Hood 1995a, p. 178) ed "assume particolare rilievo in quei Paesi di civil law in cui il significato del processo di managerializzazione, scontrandosi con il preesistente framework concettuale basato su di una tradizione giuridica di diritto romano, viene seriamente indebolito. In questi contesti istituzionali infatti, nonostante il generale successo del linguaggio manageriale e di termini come "riduzione dei costi", "efficacia", "efficienza", managerial accounting ecc., "la capacità del discorso manageriale di intervenire concretamente nel processo di riforma è seriamente indebolito" perché "i suoi precetti non costituiscono direttamente la riforma, ma devono essere tradotti in un altro linguaggio, quello giuridico, che detiene tuttora maggiore legittimità e capacità operativa" (Panozzo 2000, p. 362). (...) La questione è determinante in quanto, "molto distante dall'essere neutrale, il linguaggio giuridico ha il potere di dare forma a concetti cruciali" (Panozzo 2000, p. 366)" (Bonini Baraldi 2007b).

Sono molteplici i canali attraverso cui la necessaria via legislativa della riforma indebolisce la portata innovativa del processo di managerializzazione del settore pubblico nel nostro Paese.

Borgonovi (1999) e Bianchi (2002b) sottolineano ad esempio l'esistenza di una certa "incoerenza ed ambiguità delle riforme derivanti dai compromessi che le stesse hanno dovuto subire sia nella fase di formulazione delle normative che nella loro applicazione". Gli stessi fenomeni analizzati in relazione alla trasformazione del ministero per i Beni culturali manifestano in effetti un problema di volontà politica dietro la riforma, che trova nel processo normativo uno strumento efficace per limitare la portata innovativa della managerializzazione: molto spesso l'intervento innovativo di una norma è accompagnato da un secondo intervento (anche all'interno della norma stessa) che volutamente ne limita l'efficacia, riducendone notevolmente l'impatto (è questo il caso ad esempio della norma che prevede che il 30% delle entrate proprie possa essere restituito al ministero al ministero, o della mancata autonomia sul personale). "Sembra cioè esserci in ultima istanza una volontà esplicita dietro all'intero disegno della riforma che trova nella via giuridica uno strumento efficace per limitare la portata del processo di managerializzazione" (Bonini Baraldi 2007b). L'effetto è quello di un indebolimento del discorso manageriale, con la conseguenza, forse non pienamente colta nelle sue conseguenze peggiori dall'apparato politico-legislativo, di una costante perdita della logica interna del sistema.

Ma la via legislativa della riforma tradisce anche una certa "incapacità intrinseca (cioè non prevista o non voluta) della norma giuridica di affrontare questioni complesse" in modo olistico (Bonini Baraldi 2007b). Già Borgonovi (1999) sottolineava gli effetti della complessità tecnica delle riforme, in cui leggi, decreti legge e regolamenti applicativi concorrono ad aumentare il livello di caos ed indeterminatezza. Diverse evidenze in questo senso sono emerse dalla nostra analisi. Il problema principale riguarda "l'ambito d'intervento necessariamente limitato di ciascuna norma, la cui portata viene indebolita da altre norme o da altre questioni esterne all'ambito della norma stessa la cui complessità è tale da non venire in ultima istanza mai affrontata definitivamente, o comunque non in modo significativo" (Bonini Baraldi 2007b). E' il caso dell'impossibilità di avviare l'autonomia a causa del blocco sulle assunzioni per la nomina del diretto amministrativo, dell'ostacolo posto alla gestione ordinaria delle soprintendenze autonome a causa del vincolo posto sulle somme in giacenza unitamente all'obbligo di utilizzo prioritario delle somme fruttifere, e dell'illegittimità dell'introito delle entrate proprie a causa dell'incoerenza normativa tra regolamento di attuazione dell'autonomia e codice dei beni culturali. Poiché spesso tali nodi emergono solamente nel momento dell'implementazione della norma stessa ciò che ne deriva è una "successiva modificazione della norme con un'ulteriore complicazione dell'esistente" (Bonini Baraldi 2007b), il che alimenta in ultima istanza la perdita di logica interna del sistema e l'eventuale "scollamento" tra quadro normativo e pratica di funzionamento.

Come afferma Panozzo (2000), l'elaborazione di norme giuridiche scollegate e frammentate, con la decostruzione del linguaggio manageriale nelle sue componenti di base, si rivela strumentale all'indebolimento del discorso manageriale: la portata innovativa alla base della logica di riforma viene di fatto "normalizzata e accettata" dal processo di frammentazione normativa, che in ultima istanza la reinterpretata all'interno del framework giuridico-legale tradizionalmente in vigore.

La questione si riflette a nostro avviso non solo sul disegno normativo ma anche nella fase applicativa delle riforme da parte degli enti coinvolti. Le stesse modalità di gestione del processo di trasformazione da parte del ministero e delle soprintendenze si basano cioè su logiche meramente normativo-burocratiche senza lo sviluppo di una nuova cultura gestionale. Il problema è evidente nell'intero processo di introduzione del controllo di gestione in cui l'applicazione del sistema diviene una mera formalità senza alcun significato dal punto di vista gestionale, ed assume particolare rilevanza in relazione all'ambito delle responsabilità dirigenziali che, lungi dal rispecchiare una logica manageriale orientata agli obiettivi e risultati, restano fortemente ancorate al rispetto formale di norme e procedure. Come emerso anche in altri ambiti e settori (ad esempio nel caso delle fondazioni liriche) il rischio è nel migliore dei casi una scarsa utilità del discorso manageriale, e nel peggiore dei casi l'utilizzo strumentale di una retorica di tipo manageriale al fine di legittimare qualsiasi tipologia di intervento (cfr. Zan 2003).

4. Una possibile via per la riforma: spunti di riflessione per il futuro

Le problematiche sottolineate dall'analisi della riforma del ministero per i Beni e le Attività culturali trovano dunque una significativa spiegazione nelle due dimensioni evidenziate: caratteristiche peculiari del contesto nazionale e scarsa considerazione delle specificità del settore contribuiscono ad alimentare la perdita di significato manageriale della riforma, il cui impatto si concretizza da un lato in mera retorica linguistica e dall'altro in una complicazione dell'esistente.

Se il ruolo della tradizione giuridica caratterizzante il contesto italiano nel determinare l'impatto della riforma è altamente confermato, viene spontaneo chiedersi se, date le caratteristiche del contesto, una diversa modalità di gestione del processo avrebbe potuto dare risultati più efficaci. In effetti la tradizione giuridica e statalista italiana, pur con le singole specificità, appare accomunare diversi Paesi del continente europeo.

Emblematico in questo appare il caso francese, analizzato attraverso lo studio di alcuni importanti musei (tra cui il Louvre e il Musée d'Orsay) recentemente dotati di autonomia attraverso la trasformazione in établissement public. Come si affermava "nonostante il sistema e la cultura francese evidenzino caratteristiche simili a quelle italiane, la trasformazione del settore dei beni culturali in Francia pare infatti aver risentito positivamente di una diversa modalità di gestione del processo" (Bonini Baraldi 2005).

La principale diversità in questo senso è stata identificata "nella maggiore partecipazione delle amministrazioni coinvolte nel cambiamento nella redazione delle norme necessarie alla loro trasformazione ed in generale nel processo di riforma nel suo complesso, assumendo un ruolo attivo nell'ideazione e nella strutturazione della forma istituzionale più adeguata" alla loro gestione [10]. Tale partecipazione sembra inoltre aver avuto non solo un impatto positivo sulla scelta di una migliore forma gestionale quanto anche "nell'attenzione posta, nel conferimento dell'autonomia agli établissement public, all'investimento in maggiori risorse, viste come strumento necessario al cambiamento" (Bonini Baraldi 2005) [11].

Come si osservava "in un contesto caratterizzato dalla predominanza di una logica giuridica, in cui le logiche sottostanti il discorso manageriale vengono neutralizzate ed ibridate secondo quel processo di traduzione normativa e reinterpretazione di significato in base al framework concettuale dominante, è possibile cioè che la partecipazione attiva degli attori coinvolti nel disegno della riforma possa in un qualche modo fungere da contropartita alla destrutturazione del percorso normativo garantendo quella centralità del nesso tra obiettivi, risorse e responsabilità sui risultati alla base della logica manageriale. Sembra infatti una caratteristica tutta italiana quella della non partecipazione degli enti coinvolti dai diversi processi di trasformazione nel processo di riforma, caratteristica già emersa in alcuni studi come fondamentale nel determinare il livello di accettazione della riforma stessa ed in ultima analisi la sua potenziale efficacia. In effetti lo stesso processo di traduzione normativa potrebbe anche in Italia avvalersi di competenze altre rispetto a quelle, assolutamente necessarie, giuridiche: da quelle, imprescindibili, dei professionisti del settore posti alla direzione degli enti coinvolti a quelle, altrettanto irrinunciabili in un processo di 'managerializzazione', degli esperti di management" (Bonini Baraldi 2005).

E vi è in questa incondizionata predominanza disciplinare del giurista nel processo normativo anche una certa responsabilità degli stessi studi manageriali. Se già Borgonovi (1999) identificava nella limitata partecipazione degli aziendalisti la principale causa dell'appropriazione indebita delle metodologie manageriali da parte di attori non sufficientemente avveduti, ci sembra di poter condividere l'opinione di Bianchi che attribuisce tale responsabilità agli stessi esperti di management: "pur essendo assunto come sistema di vincoli al processo decisionale della p.a., il dettato delle norme viene spesso considerato dagli aziendalisti un qualche cosa che, essendo opera di giuristi, non deve essere necessariamente letto in chiave "aziendale" (...). Con questo si rinuncia ad una lettura critica del dettato normativo e conseguentemente si aprono ampi spazi all'equivoco o ad interpretazioni generalmente tese al conservatorismo e quindi contrarie al processo di cambiamento insito nello stesso concetto di New public management. Come è stato autorevolmente affermato (cfr. Maggi 1989), l'analisi organizzativa ed in particolare quella dei problemi di struttura e processo che esso comporta, può e deve esercitare tale critica mettendo anzi in evidenza incongruenze e limiti nonché proposte alternative" (Bianchi 2002a, pp. 8-9)

Proprio nell'impermeabilità e nell'incapacità di dialogo fra le diverse scienze, dovuta ai relativi "arroccamenti" disciplinari, si può dunque identificare un'ulteriore importante fattore che influisce sull'inefficacia della riforma nel nostro Paese, che ricalca sia l'assoluta predominanza del linguaggio giuridico, sia una cronica carenza di studi manageriali in grado di dialogare con i diversi attori coinvolti, con l'innesto di soluzioni ideate altrove secondo modelli e processi inadeguati al contesto.

L'indifferenza degli aziendalisti al contenuto normativo facilita infatti l'introduzione nella pubblica amministrazione di un nuovo linguaggio manageriale senza un relativo shift nel tipo di cultura organizzativa: nel processo di implementazione e nello stesso disegno della riforma i nuovi strumenti sembrano essere scorporati dalla logica su cui sono fondati e gestiti in base ad una cultura ancora totalmente pubblicistica, senza il supporto di conoscenze e competenze manageriali. E' così che nel caso analizzato al controllo di gestione e all'autonomia viene affiancata una responsabilizzazione formale ancora tesa al rispetto di norme e procedure, piuttosto che ai risultati della gestione, che l'intero processo di cambiamento viene gestito senza il minimo investimento in risorse e nuove dotazioni, o che la formazione del personale viene svolta a fini meramente formali piuttosto che sostanziali. Il risultato è principalmente una managerializzazione di immagine, senza un reale cambiamento nella cultura organizzativa delle amministrazioni.

Ecco dunque che, poiché la riappropriazione di significato del discorso manageriale nei beni culturali sembra dover necessariamente passare attraverso la comprensione di altri codici linguistici apparentemente estranei, la costante ricerca di un dialogo a tre, che coinvolga oltre agli esperti di management, anche i giuristi ed i diversi professionisti del settore, risponde all'esigenza di legittimare in senso sostantivo il discorso manageriale nel settore dei beni culturali e deve porsi come obiettivo primario per gli esperti delle diverse discipline.

Riferimenti bibliografici, normativa e documenti

Anselmi L. (1995), Il processo di razionalizzazione della pubblica amministrazione. Giappichelli, Torino.

Aucoin P. (1990), "Administrative Reforms In Public Management. Paradigms, Principles, Paradoxes And Pendulums", Governance, vol. 3, n. 2, pp. 115-137.

Barzelay M. (2001), The new public management. Imporving research and policy dialogue, University Of California Press, Berkley, CA.

Bianchi M. (2002a), "La riforma del controllo nella P.A. fra normazione e sperimentazione", in Bianchi M. (ed.), Problematiche organizzative ed esperienze applicative di managerializzazione della pubblica amministrazione, Cedam, Padova.

Bianchi M. (2002b), "Le problematiche applicative della riforma della P.A. Italiana come espressione delle dinamiche di resistenza al cambiamento", in Bianchi M. (ed.), Problematiche organizzative ed esperienze applicative di managerializzazione della pubblica amministrazione, Cedam, Padova.

Bonini Baraldi S. (2005), "La trasformazione del settore dei beni culturali: elementi di riflessione dall'esperienza francese", Economia della Cultura, n. 4, pp. 523-535.

Bonini Baraldi S. (2007a), Management, beni culturali e pubblica amministrazione, Franco Angeli, Milano (in corso di pubblicazione)

Bonini Baraldi S. (2007b), "Autonomia, giuridificazione e retorica del management nella riforma del ministero per i Beni e le Attività Culturali. L'esperienza della soprintendenza Speciale per il Polo Museale Veneziano", Studi Organizzativi, n. 2 (in corso di pubblicazione).

Borgonovi E. (1996), Principi e sistemi aziendali per le amministrazioni pubbliche. Egea, Milano.

Borgonovi E. (1999), "Che fine hanno fatto le riforme", Azienda Pubblica, vol. 3.

Borgonovi E. (2001), "Alcune regole del cambiamento", Azienda Pubblica, vol. 6, pp. 637-643.

Boston J., Martin J., Pallot J. e Walsh P. (1996), Public Management: the New Zeland model, Oxford University Press, Auckland.

Cammelli M. (2006), "Ossimori istituzionali, l'instabile immobilità della organizzazione ministeriale", Aedon, n. 3.

Cerase F.P. e De Vivo P. (2000), "Shifts in autonomy, responsibility, and control from centre to periphery in public administration: the case of the ministry of finance in Italy", Scandinavian Journal Of Management, vol. 16, pp. 411-429.

Chirieleison C. (1998), "Le problematiche legate alla misurazione delle performance nelle gestioni museali", in Accademia Italiana di Economia Aziendale. La gestione e la valorizzazione dei beni artistici e culturali nella prospettiva aziendale, Clueb, Bologna, pp. 451-502.

Czarniawska B. (ed.) (1995), "Rethoric and modern organizations", Special issue of Studies in culture organizations and society, vol. 1, n. 2, september.

Decreto Legislativo 20 ottobre 1998, n. 368 "Istituzione del ministero per i beni e le attività culturali".

Decreto Legge 18 maggio 2006, n. 181 "Disposizioni urgenti in materia di riordino delle attribuzioni della Presidenza del Consiglio dei ministri e dei ministeri. Delega al governo per il coordinamento delle disposizioni in materia di funzioni e organizzazione della Presidenza del Consiglio dei ministri e dei ministeri"

Della Rocca G. (2000), "The public administration paradox: an organization with a low degree of institutionalisation", Scandinavian Journal Of Management, vol. 16, pp. 375-389.

Gherardi S. e Jacobsson B. (2000), "Managerialese As The Latin Of Our Times: Reforming Italian Public Sector Organizations", Scandinavian Journal Of Management, n. 16, pp. 349-355.

Gruening G. (2001), "Origin And Theoretical Basis Of NPM", International Public Management Journal, vol. 4, pp. 1-25.

Guthrie J., Humphery C. e Olson O. (eds) (1998), "Global warning: Debating International Developments in New Public Financial Management.", Capelen Akademisk Forlag As, Oslo.

Hood C. (1991), "A Public Management For All Seasons?", Public Administration, n. 69, pp. 3-19.

Hood C. (1995a), "Emerging Issues In Public Administration", Public Administration, vol. 73, Spring, pp. 165-183.

Hood C. (1995b), "The New Public Management in The 80's: Variations On A Theme", Accounting Organizations And Society, vol. 20, n. 2/3, pp. 93-110.

Jones L.L. e Thompson F. (1997), "L'implementazione strategica del New Public Management", Azienda Pubblica, n. 6, pp. 567-586.

Ladu G. (1997), "La riforma della Pubblica Amministrazione tra questioni di metodo e fattori culturali", Azienda Pubblica, vol. 5, pp. 447-459.

Legge 17 luglio 2006, n. 233 "Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 18 maggio 2006, n. 181, recante disposizioni urgenti in materia di riordino delle attribuzioni della Presidenza del Consiglio dei ministri e dei ministeri. Delega al governo per il coordinamento delle disposizioni in materia di funzioni e organizzazione della Presidenza del Consiglio dei ministri e dei ministeri".

McCloskey D.N. (1986), The rethoric of economics, Wheatsheaf books, Brighton, (trad. it. La retorica dell'economia. Scienza e letteratura nel discorso economico, Einaudi, Torino)

Meneguzzo M. (1997), "Ripensare la modernizzazione amministrativa e il New Public Management. L'esperienza italiana: innovazione dal basso e sviluppo della governance locale", Azienda Pubblica, n. 6, pp. 587-606.

Molteni M. (1997), Le misure di performance nelle aziende non profit di servizi alla persona. Implicazioni per la direzione aziendale e gli enti erogatori, Padova, Cedam.

Mussari R. (1996), L'azienda del comune tra autonomia e responsabilità, Cedam, Padova.

Ouchi W.G. (1981), "La progettazione dei meccanismi di controllo organizzativo", Sviluppo e Organizzazione, Marzo-Aprile, n. 64, pp. 10-24.

Osborne D. e Gaebler T. (1992), Reiventing Government: How the Entrepreneurial Spirit is transforming the Public Sector, Addison-Wesley, MA.

Panozzo F. (2000), "Management by Decree. Paradoxes in The Reform of The Italian Public Sector", Scandinavian Journal Of Management, vol. 16, pp. 357-373.

Patton J.M. (1992), "Accountability and Govenrmental Financial Reporting", in Financial Accountability Management, vol. 8, n. 3, pp. 165-180.

Pezzani F. (2001), "Il ruolo dell'accountability nella società civile", Azienda Pubblica, vol. 4, pp. 453-458.

Pezzani F. (2003), "L'accountability nelle amministrazioni pubbliche", in Guarini et al., L'Accountability delle pubbliche amministrazioni, Egea, Milano, pp. 9-32.

Pollit C. e Bouckaert G. (2002), La riforma del management pubblico, (ed. it. a cura di Ongaro E.) Università Bocconi Editore.

Santesso E. (1989), "Introduzione all'edizione italiana", in Johnson H.T. e Kaplan R.S, Ascesa e declino della contabilità direzionale, Isedi, Torino.

Sciullo G. (2006), "Il lego istituzionale. Il caso del Mibac", Aedon, n. 3.

Staats E.B. (1990), "Government Accounting: Promise and Performance", in Premchand A. (ed.), Government Financial Management. Issues and Country Studies, International Monetary Fund, Whashington.

Steccolini I. (2003), "L'accountability delle pubbliche amministrazioni. Definizione, profili di classificazione, evoluzione", in Guarini et al., L'Accountability delle pubbliche amministrazioni, Egea, Milano.

Stewart J.D. (1984), "The role of information in Public Accountability", In Hopwood A. e Tomkins C., Issues in Public sector accounting, Phillip Allan Publishers Limited, pp. 13-34.

Stewart J.D. e Walsh K. (1992), "Change in the management of public services", Public administration, vol. 70, winter, pp. 499-518.

Zaccone A. (1995), "Il gigante dai piedi d'argilla ovvero considerazioni sulle difficoltà di sviluppo manageriale da parte degli enti pubblici in Italia", Azienda Pubblica, pp-393-450.

Zan L., Paciello L. (1998), "Rilanciare Pompei: anno zero. Le attese verso approcci manageriali e forme moderne di accountability", Rivista di studi pompeiani, Estratto IX.

Zan L. (1998), "Autonomia, processi di managerializzazione e rappresentazione delle prestazioni dei musei: l'Archeologico di Bologna", Aedon, n. 2.

Zan L. (2003), Economia dei musei e retorica del management, Electa per le belle arti, Milano.

 

Note

[1] Desidero ringraziare sentitamente il prof. Luca Zan per il costante apporto di idee riflessioni e osservazioni che hanno contribuito in modo rilevante alla realizzazione di questo lavoro.

[2] I contributi fondamentali in questo senso sono quelli di Aucoin (1990), Hood (1991) e Osborne e Gaebler (1992). Numerosi altri autori sia a livello nazionale che internazionale hanno successivamente sviluppato la teoria del Npm tra cui a titolo non esaustivo si ricordano: Stewart e Walsh (1992), Jones e Thompson (1997), Pollitt e Bouckaert (2002), Boston et al. (1996), Barzelay (2001), Meneguzzo (1997).

[3] Per un'analisi sulle origini teoriche del Npm si veda anche Gruening (2001).

[4] Come sottolineano Steccolini (2003) e Pezzani (2003), il termine accountability è stato oggetto di evoluzione e di diverse interpretazioni assumendo significati molteplici. Per un ulteriore approfondimento del tema si rimanda all'esaustiva analisi di Steccolini (2003) ed alla letteratura esistente (cfr. in particolare Stewart 1984; Staats 1990; Patton 1992; Mussari 1996; Zan 1998).

[5] Le ragioni che hanno determinato il passaggio da un controllo di tipo burocratico a quello manageriale sono molteplici, e riguardano diversi aspetti della vita socio-economica del Paese. Borgonovi (1996) ne evidenzia alcuni:

[6] Nelle parole di Pezzani (2003, p. 11) "L'esigenza di accountability per gli operatori pubblici ed anche per i privati è un fattore determinante per garantire il mantenimento di un'ampia democrazia; gli stessi principi di solidarietà e sussidiarietà che spesso vengono invocati, giustamente, come valori da difendere devono potersi fondare su un reale processo di misurazione, apprezzamento e condivisione per evitare che qualcuno, in mancanza di regole e di forme di misurazione corrette, possa porre in essere comportamenti opportunistici non giustificati a scapito degli interessi di altri; è quindi necessario fare in modo che siano più evidenti le aree di responsabilità in modo tale che accanto ai richiami di valori vi siano anche oggettive e trasparenti condizioni di misurazioni di tali responsabilità favorendo l'orientamento verso forme di liberismo solidale e promuovendone anche il valore complessivo".

[7] Nelle aziende di erogazione (organizzazioni non profit e amministrazioni pubbliche), il fine non è infatti quello di "aumentare e massimizzare il valore economico dei beni posseduti, ma quello di accrescere e massimizzare il livello della risposta (in termini quantitativi e qualitativi) a bisogni giudicati meritevoli di 'disinteressata' attenzione in ragione dei valori etici morali, religiosi che guidano i comportamenti umani" (Borgonovi in Molteni 1997, p. 5). Per questo motivo i beni/servizi sono ceduti gratuitamente o ad un prezzo politico che non sempre corrisponde al valore effettivamente creato ed i ricavi non possono essere considerati indicativi di efficacia. La valutazione dell'economicità della azienda che opera sul mercato può invece essere effettuata con relativa semplicità tramite la misurazione del profitto (ricavi - costi) e di alcuni indici a questo connessi (in particolare il Roi): essendo i beni ed i fattori produttivi scambiati sul mercato tramite il meccanismo del prezzo, il profitto rispecchia infatti sia la soddisfazione dell'utenza (tramite il valore dei ricavi), sia il conseguimento di efficienza (tramite il valore dei costi).

[8] Ouchi (1981) distingue tra tre diverse forme di controllo all'interno delle organizzazioni: quella di mercato, in cui "i prezzi forniscono un meccanismo per risolvere il problema dell'incongruenza degli obiettivi" (p. 113) ma che necessita di alti livelli di informazione e basse esigenze sociali; la burocrazia, che "consiste in una stretta sorveglianza del personale e nell'indirizzo dei subordinati da parte dei superiori" (p. 113) in un contesto ad esigenze informative medie ed esplicite (le norme) ed esigenze sociali basate sull'accordo dell'autorità legittima dei superiori, ed i meccanismi di clan, che si basano su una struttura sociale informale fondata su valori e credenze condivisi ed esigenze informative esplicite basse (tradizioni). In base a questa suddivisione, la scelta di un meccanismo di controllo piuttosto che un altro in un'organizzazione deve essere fatta in funzione dell'abilità di misurare i rendimenti e della conoscenza del processo di trasformazione: il clan è più adeguato quando, in condizioni di ambiguità, di associazione flessibile o di incertezza, il rendimento delle funzioni è di per sé ambiguo e non misurabile.

[9] Cfr. Panozzo (2000), Hood (1995b), Ladu (1997), Meneguzzo (1997), Borgonovi (2001), Bianchi (2002a, 2002b) Zaccone (1995), Cerase e De Vivo (2000), Della Rocca (2000) e, a livello internazionale cfr. Pollitt e Bouckaert (2002), Hood (1995b).

[10] In Francia, l'autonomia degli établissement public non è stata pensata unicamente dal "legislatore", ma è stata strutturata in base ad un processo altamente condiviso con i principali attori del sistema. Il direttore amministrativo del Museo d'Orsay dichiara infatti che "Il museo d'Orsay ha lavorato due anni per diventare établissement public. La decisione di trasformare il museo in établissement public risale al 2001. Da allora il management del museo ha lavorato ininterrottamente per la redazione delle leggi e la trasformazione istituzionale. E' il museo stesso che ha studiato la realizzazione, redatto, e successivamente proposto le leggi al ministero che le ha poi approvate" (intervista direttore amministrativo Museo D'Orsay, 2 luglio 2004).

[11] Nell'esperienza del Musée d'Orsay, ad esempio, la trasformazione in établissement public ha implicato notevoli cambiamenti organizzativi, tra cui in particolare l'assunzione di circa 30 nuove persone, la creazione di una "agenzia contabile" composta da sette neo-dipendenti con competenze specifiche (alcune delle quali precedentemente lavoravano nello stesso settore presso la Rmn) e l'acquisto di un nuovo software contabile. In base alla testimonianza del direttore amministrativo "al museo d'Orsay il cambiamento è costato circa 600 mila euro: è cambiata la logica budgetaria e contabile per la quale il museo ha dovuto acquistare un nuovo sistema contabile informatico, e solo per la remunerazione del nuovo personale si spende circa 300 mila euro in più" (intervista direttore amministrativo Museo D'Orsay, 2 luglio 2004).



copyright 2007 by Società editrice il Mulino


inizio pagina