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L'attività di valorizzazione (art. 111)

di Carla Barbati



In questa disposizione, con la quale si apre il Capo II, Titolo II del Codice, dedicato a porre i principi fondamentali in materia di valorizzazione, si descrivono gli interventi nei quali queste attività si estrinsecano e se ne offrono ulteriori qualificazioni atte a definirne lo statuto giuridico, a seconda del soggetto che le ponga in essere.

Si tratta, perciò, di una norma con la quale, oltre a riaffermare principi già enunciati in altre parti del Codice, si introducono, come vuole la sua stessa collocazione, elementi di disciplina che trovano svolgimento nelle disposizioni successive del medesimo Capo.

Per quanto riguarda, in particolare, il primo comma esso si pone in una sorta di ideale corrispondenza con l'art. 152 del d.lg. 112/1998 in cui veniva ulteriormente specificato il significato della valorizzazione attraverso un'elencazione, dichiaratamente esemplificativa, delle azioni tramite le quali la si esercitava, sebbene non vi siano correlazioni nel contenuto delle due norme.

Il primo comma della disposizione in esame riflette, semmai, la definizione che l'art. 148 del d.lg. 112/1998, alla lett. d), dava dell'attività di gestione, con la sola differenza che gli interventi, oggi consistenti "nella costituzione ed organizzazione stabile di risorse, strutture o reti, ovvero nella messa a disposizione di competenze tecniche o risorse finanziarie e strumentali" non sono più immaginati come funzionali anche alla tutela, ma alle sole finalità che qualificano la valorizzazione, ai sensi dell'art. 6, ossia alla promozione ed al sostegno della conoscenza, utilizzazione, fruizione e della conservazione del patrimonio culturale.

Questo potrebbe anche indurre a ritenere che la gestione, rimasta priva di una sua espressa menzione tanto nel Codice, quanto nel testo costituzionale, sia stata così attratta, quasi "diluita" nel concetto di valorizzazione.

Una scelta che potrebbe spiegarsi per le difficoltà che proprio l'imputazione della gestione ha originato, all'indomani dell'entrata in vigore del nuovo Titolo V della Costituzione.

Il silenzio serbato, in proposito, dalla Costituzione ha, infatti, indotto a chiedersi quale fosse il soggetto competente a disciplinare con propri atti legislativi e regolamentari gli interventi ad essa riconducibili, conducendo all'emergere di orientamenti interpretativi differenti che hanno impegnato anche le sedi istituzionali e la giurisprudenza costituzionale [1].

Superata la tesi, indagata in sede teorica, in base alla quale la gestione, "innominata", nonostante l'espresso riconoscimento che aveva ricevuto per opera della legislazione ordinaria precedente (dall'art. 17, comma 131 della legge 15 maggio 1997, n. 127 agli artt. 148 e 150 del d.lg. 112/1998), dovesse farsi rientrare nel novero delle materie di competenza esclusiva-residuale delle regioni, il confronto si è incentrato sulla possibilità di riconoscerla come funzionale tanto alla tutela che alla valorizzazione, disponibile perciò agli interventi normativi sia dello stato che delle regioni, oppure sulla sua appartenenza all'ambito funzionale della sola valorizzazione, con conseguente inammissibilità di un intervento regolamentare del centro statale, quali che fossero i beni culturali interessati.

Ad una prima esclusione della possibilità di riconoscerla come espressione "anche" della tutela, quantomeno per il caso in cui la gestione si esprimesse nel ricorso a società di capitali aventi ad oggetto la valorizzazione dei beni culturali, ai sensi dell'art. 10 del d.lg. 368/1998, e di cui si fece sostenitore il Consiglio di Stato [2], hanno fatto seguito, come si ricordava anche nel commento all'art. 6, orientamenti diversi accolti anche in sede normativa e volti a differenziare la "sorte" della gestione in relazione al bene di cui si trattava, poi recepiti dalla giurisprudenza costituzionale, da ultimo, con la sentenza 19 dicembre-20 gennaio 2004, n. 26.

Pertanto, se non sembra esistano ancora ragioni così forti per by-passare la questione della gestione, è certo che essa cessa di essere considerata come attività provvista di una propria identità, per cedere molti di quelli che ne erano i contenuti, individuati dal d.lg. 112/1998, nei suoi artt. 148 e 150, alla valorizzazione ed alla fruizione.

Se si considerano, infatti, le disposizioni successive di questo Capo in cui si disciplinano le forme e gli istituti tramite i quali si esprimono le attività di valorizzazione, risulta di immediata evidenza come in essi confluiscano gran parte degli interventi che il d.lg. 112/1998, specie nel suo art. 150, riconduceva alla gestione: dai servizi aggiuntivi, alle concessioni in uso dei beni, alle forme di gestione degli stessi.

Il primo comma dell'articolo in esame si chiude con il richiamo al principio già enunciato nell'ultimo comma dell'art. 6 e con il quale si intende riconoscere il ruolo che, in materia di valorizzazione, può essere espletato dai privati i quali, in questo ambito, trovano il terreno per intervenire nel settore dei beni culturali come soggetti attivi, chiamati a collaborare con una parte pubblica che necessita di risorse esterne (umane, tecniche, economiche) per espletare un'efficace azione di valorizzazione dei beni culturali, tanto che questo inciso finale, il quale trova un sia pur timido precedente nell'art. 105 T.U., può anche leggersi come introduzione alle "forme di gestione" previste e disciplinate nel successivo art. 115.

Nel secondo comma si stabilisce che la valorizzazione è ad iniziativa pubblica e privata, così precisandosi che essa non deve intendersi come compito riservato alle parti pubbliche, per poi fornire, successivamente, elementi che sembrano servire a definire lo statuto giuridico di queste attività, a seconda di quali siano i soggetti che le pongono in essere.

Nel terzo comma della norma, infatti, con riferimento all'attività di valorizzazione del patrimonio culturale ad iniziativa pubblica, che le prime bozze del Codice qualificavano espressamente come servizio pubblico, viene omessa questa connotazione, ma si stabilisce che essa debba conformarsi ai principi di libertà di partecipazione, pluralità dei soggetti, continuità di esercizio, parità di trattamento, economicità e trasparenza della gestione.

Si tratta dei principi, di derivazione comunitaria, che presiedono all'erogazione dei servizi pubblici e che trovano una sostanziale corrispondenza in quelli enunciati, fra l'altro, nella direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri 27 gennaio 1994, con cui si è definito lo schema generale a cui avrebbero dovuto attenersi i singoli gestori nelle proprie carte dei servizi.

Peraltro, la loro estensione alle attività di valorizzazione dei beni culturali, poste in essere da soggetti pubblici, appare soprattutto espressione della preoccupazione di ricondurle al genus dei servizi pubblici, di cui questi principi rappresentano la disciplina giuridica essenziale, superando così le perplessità che avevano circondato questa loro qualificazione. Appare, invece, debole la loro attitudine a porsi come espressione della volontà di introdurre una sorta di carta dei servizi culturali, le cui peculiarità e specificità non troverebbero ancora adeguata considerazione nei principi enunciati nei termini generali in cui lo fa questa disposizione.

Per quanto concerne l'attività di valorizzazione ad iniziativa privata, ritorna il medesimo riconoscimento del ruolo che il privato può espletare in materia, in questo caso non solo nell'ambito di collaborazioni con il pubblico, ma come soggetto che procede sulla base di proprie iniziative e nei confronti di beni di proprietà privata; dunque come soggetto che anziché offrire collaborazione al privato, può, a propria volta, in base a quanto si evince dal successivo art. 113, avvalersi del sostegno e della collaborazione della parte pubblica.

In questo senso, il terzo comma della norma in esame sceglie di qualificarla come attività socialmente utile e di cui è riconosciuta la finalità sociale. Così facendo, si può ritenere ponga le premesse necessarie a consentire ai soggetti che operino per la valorizzazione dei beni culturali di avvalersi delle normative di favore previste per le attività che presentino questi requisiti e di cui l'esempio tipico è rappresentato dalle Onlus, organizzazioni non lucrative di utilità sociale, che perseguono scopi di solidarietà sociale, per conseguire i quali necessitano e godono di aiuti economici, tanto sotto forma di contributi e di sovvenzioni che di agevolazioni fiscali, ai sensi del decreto legislativo 4 dicembre 1997, n. 460. Provvedimento che, infatti, include espressamente fra di esse anche le organizzazioni che operino per la tutela, promozione e valorizzazione delle cose di interesse artistico e storico, oltre che per la promozione della cultura e dell'arte (art. 10, lett. g) ed h)), riconoscendo come siffatti interventi si considerino comunque inerenti a finalità di solidarietà sociale [3].

 



Note

[1] C. Barbati, Tutela e valorizzazione dei beni culturali dopo la riforma del Titolo V: la separazione delle funzioni, in Giorn. dir. amm., n. 2, 145 ss.

[2] Consiglio di Stato, sez. Consultiva per gli atti normativi, parere n. 1794, Adunanza gen. del 26 agosto 2002.

[3] Sul punto, cfr. M.C. Fregni Il regime fiscale, in Il diritto dei beni culturali, a cura di C. Barbati-M. Cammelli-G. Sciullo, Bologna, 2003, 215 ss.

 



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